La Consulta pone fine alla preclusione assoluta: possibile l’accesso ai permessi premio per i condannati “ostativi” in relazione all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario

 

Breve excursus dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario

L’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario[1] può considerarsi, insieme all’art 41 bis dell’ordinamento penitenziario, l’emblema del contrasto alla criminalità organizzata sul versante penitenziario[2]. La norma, più volte modificata e livellata, si struttura, attualmente, in tre “fasce di reati” in relazione alle quali sono previste differenti condizioni per l’accesso ai benefici penitenziari.

  • Per i reati c.d. di prima fascia o assolutamente ostativi[3], l’accesso ai benefici – con l’unica esclusione della liberazione anticipata – è concesso esclusivamente previa collaborazione utile con l’autorità giudiziaria. Per i medesimi titoli di reato, l’accesso ai benefici, congiuntamente al ricorrere di determinate condizioni[4], è stato esteso dalla l. 279/2002 anche ai casi di collaborazione impossibile, inesigibile ed irrilevante.
  • Per i reati di seconda fascia o relativamente ostativi[5], reati sì gravi, ma non diretta espressione della criminalità organizzata, l’accesso ai benefici è consentito purché, non vi siano elementi tali da far presumere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata.
  • Infine, per i reati di c.d. “terza fascia”[6] l’accesso ai benefici è possibile solo dopo almeno un anno di osservazione intramuraria.

 

Per quanto concerne i reati assolutamente ostativi, l’introduzione di tale norma aveva – ed ha – il preciso scopo di aggravare le condizioni detentive dei soggetti collegati a determinate realtà criminose comprimendo oltremodo l’ideale rieducativo e ciò in quanto si ritiene che la commissione di tali reati abbia insito in sé un indice di pericolosità sociale tale da far presumere la permanenza di legami con il contesto criminoso di appartenenza.

L’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario è norma fortemente discussa e dall’esistenza travagliata. Sin dalla sua emanazione ci sono state limature costituzionali puntuali e costanti nel tempo, volte a smussare gli angoli più acuti di un istituto che in troppi punti stride con il dettato costituzionale. Tali interventi, nonostante abbiano progressivamente circoscritto la portata applicativa di tale regime di rigore, ne hanno, di fatto, sempre salvato la legittimità.

 

L’ordinanza di remissione sulla legittimità della preclusione nell’accesso al permesso premio

La Corte di Cassazione ha, da ultimo, chiamato la Corte Costituzionale a pronunciarsi su tale dibattuto istituto con l’ordinanza n° 57913/2018.

La questione sottoposta ai giudici della Consulta riguarda, stavolta, la possibilità di accedere all’istituto dei permessi premio per i condannati all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art 416 bis[7],ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, pur in mancanza di collaborazione utile ed essendo stata accertata l’inesistenza dei presupposti per la collaborazione impossibile e/o inesigibile.

Ad avviso della Corte, tre sono le argomentazioni a favore dell’ordinanza di remissione. Innanzitutto, si sofferma sui requisiti necessari per l’accertamento dell’assenza di pericolosità sociale, questione precedentemente affrontata dai giudici della Consulta con le sentenze 57/2013 e 48/2015 entrambe in materia cautelare. In quella sede erano giunti ad affermare l’incompatibilità costituzionale delle presunzioni assolute di pericolosità sociale quando applicate alle condotte illecite di imputati per reati di criminalità organizzata senza diversificare i requisiti per l’accertamento in ragione delle diverse posizioni rivestite dai soggetti all’interno dell’associazione.

L’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, ad avviso dei giudici remittenti, delinea un situazione del tutto analoga a quella censurata nelle sentenze menzionate infatti, prevedendo una preclusione assoluta nell’accesso ai permessi premio che opera, in assenza di collaborazione con la giustizia, indifferentemente nei confronti di tutti i condannati per reati ostativi senza distinguere in ragione del ruolo da tali soggetti rivestito in seno all’associazione, dà vita di fatto ad una presunzione assoluta pericolosità come tale incompatibile con i principi costituzionali.

Ad avviso della Corte inoltre, se da un lato non si può dubitare del ruolo centrale che la collaborazione ha come prova del distacco da parte del condannato dal sodalizio criminoso di appartenenza, dall’altro ritenere che, durante la fase di esecuzione della pena, solamente la collaborazione utile ex articolo 58 ter dell’ordinamento penitenziario, fornisca prova della rottura di tale vincolo criminoso e consenta dunque il superamento della preclusione assoluta all’accesso ai benefici penitenziari è affermazione eccessiva ed opinabile.

A ciò si affianca un’innovativa lettura dell’assenza di collaborazione vista non come volontà di rimanere ancorati al contesto criminoso di appartenenza ma come volontà di proteggere sé stessi, i propri familiari o come difficoltà morale di dover accusare un proprio congiunto.

Fondamentale però, nella scelta di rimettere la questione alla Consulta, è la particolare natura del permesso premio che possiede una connotazione di contingenza che non ne consente l’assimilazione integrale alle misure alternative alla detenzione, perché non modifica le condizioni restrittive del condannato. Ne consegue allora che, se rispetto a queste ultime le ragioni di politica criminale sottese alla preclusione assoluta di cui all’articolo 4 bis, comma 1 dell’ordinamento penitenziario possono apparire rispondenti alle esigenze di contrasto alla criminalità organizzata, lo stesso non si può dire per la preclusione connessa all’accesso al permesso premio.

 

La risposta della Corte Costituzionale con la sentenza 253/2019

A tale ordinanza di remissione, la Corte Costituzionale risponde con l’innovativa e dirompente scelta di spezzare l’automatismo che legava la mancata concessione dei permessi alla non collaborazione con la giustizia, ammettendone dunque la concessione nell’ipotesi in cui siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’ associazione criminosa sia, più in generale, il pericolo di ripristino di tali collegamenti. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo.

La Corte, dopo un breve excursus storico-politico dei vari interventi modificatori che si sono susseguiti, anche richiamando le proprie argomentazioni nelle pregresse pronunce[8], giunge ad affermare che:

non è la presunzione in sé a risultare costituzionalmente illegittima; non è infatti irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di appartenenza, purché si preveda che tale presunzione sia relativa e non già assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria”.

 

La presunzione che governa l’accesso al beneficio del permesso premio, dunque, deve appalesarsi come relativa e non assoluta.

Segue poi una “riqualificazione” della libertà di collaborazione non potendosi, infatti, non considerare che l’attuale formulazione dell’articolo 4 bis, comma 1 dell’ordinamento penitenziario – anche in nome di prevalenti esigenze di carattere investigativo e di politica criminale – opera una “deformante trasfigurazione della libertà di non collaborare che l’ordinamento penitenziario non può disconoscere ad alcun detenuto”. Questa infatti, garantita nel processo nella forma di vero e proprio diritto, espressione del principio nemo tenetur se detegere, finisce per essere declassata in fase d’esecuzione in un gravoso onere di collaborazione.

A ciò si aggiunga che la presunzione assoluta impedisce di valutare il percorso rieducativo intrapreso dal condannato, frustrandone ab origine la volontà risocializzante; pericolo, questo, che non si pone, invece, configurando la presunzione come relativa e consentendo alla Magistratura di Sorveglianza di effettuare un’analisi caso per caso volta a individuare, in concreto, la meritevolezza e la sussistenza dei requisiti per l’accesso al beneficio.

Infine tale intervento parzialmente ablatorio realizzato sui reati di criminalità organizzata di matrice mafiosa, onde evitare di incorrere in una violazione dell’articolo 3 della Costituzione, nonché compromettere la coerenza intrinseca della stessa disciplina, deve intendersi applicabile ai condannati a pena perpetua o temporanea per uno qualsiasi dei reati indicati nel comma 1 dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario in vista dell’accesso al permesso premio, così che il dictum costituzionale investe tale disposizione nella sua interezza, intervenendo direttamente sulla c.d. prima fascia del “doppio binario penitenziario”[9].

 

I requisiti per l’accesso al permesso premio dopo la sentenza 253/2019

Fatta breccia nel muro fino ad ora invalicabile della preclusione assoluta nell’accesso ai permessi premio e restituito alla Magistratura il potere di effettuare un vaglio caso per caso sulla sussistenza – ovvero assenza – del requisito della pericolosità sociale pur in assenza dell’elemento collaborativo, la Corte, richiamando l’evoluzione dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, va ad indicare i criteri sulla base dei quali la valutazione deve essere effettuata, i quali si aggiungono a quelli già normativamente previsti dall’articolo 30 ter dell’ordinamento penitenziario.

In particolare, trattandosi del reato di affiliazione ad una associazione mafiosa (e dei reati a questa collegati), caratterizzato dalle specifiche connotazioni criminologiche, la valutazione in concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata deve rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo.

Ne consegue che, la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora, pur non più assoluta, sia superabile non certo in virtù della sola regolare condotta intramuraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, ma soprattutto in forza dell’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi primo tra tutti un “vaglio sul contesto sociale e familiare esterno in cui il detenuto sarebbe autorizzato a rientrare, sia pure temporaneamente ed episodicamente”; a tale requisito si aggiungono le “relazioni della pertinente autorità penitenziaria e, altresì, le dettagliate informazioni acquisite per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, la comunicazione del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o del Procuratore distrettuale, d’iniziativa o su segnalazione del competente comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, dell’attualità (ovvero assenza) di collegamenti con la criminalità organizzata”.

Il regime probatorio rafforzato, qui richiesto, deve altresì estendersi all’acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino.

Per quanto concerne l’onere probatorio grava sul condannato l’onere di specifica allegazione di fatti e circostanze rilevanti; tale onere di allegazione diviene, ad avviso della stessa Corte, un onere di “fornire veri e propri elementi di prova a sostegno” della propria richiesta nell’ipotesi in cui le informazioni fornite dalla DDA e dal PNA depongano in senso negativo.

Con tale storica sentenza la Corte ha concretamente iniziato a scalfire il rigore del trattamento previsto per certe categorie di detenuti, basato su preclusioni assolute che non devono più essere tollerate in un sistema penitenziario basato sull’individualizzazione del trattamento e sulla rieducazione a cui la pena deve tendere ed ha altresì “ restituito fiducia” alla Magistratura di Sorveglianza nell’attività di accertamento della pericolosità; adesso, non resta che attendere l’applicazione che alla statuizione della Corte verrà data.

Informazioni

Cattelan L. “La Consulta salva l’ergastolo ostativo ma abroga la presunzione assoluta di pericolosità per i condannati a uno dei reati ex art. 4-bis, comma 1, ord. Penit” in ILpenalista.it, gennaio 2020

Ubiali M.C. “Ergastolo ostativo e preclusione all’accesso ai permessi premio: la cassazione solleva questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 27 cost.” in Diritto Penale Contemporaneo, 28 gennaio 2019.

https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2019&numero=253

Pace L. “Libertà personale e pericolosità sociale: il regime degli articoli 4 bis e 41 bis dell’ordinamento penitenziario” in AA.VV. I diritti dei detenuti nel sistema costituzionali, Napoli,2017

[1] L. 354/1975 introdotto con il d. l. 152/1991, convertito in legge nel medesimo anno

[2] Così L. Pace “libertà personale e pericolosità sociale: il regime degli articoli 4 bis e 41 bis dell’ordinamento penitenziario” in AA.VV. I diritti dei detenuti nel sistema costituzionali, Napoli,2017

[3] Il riferimento è ai reati indicati nell’attuale primo comma dell’articolo

[4] Il comma I bis infatti prevede l’accesso ai benefici penitenziari di cui al primo comma nei casi in cui, acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, un’utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile, per la limitata partecipazione del condannato al fatto criminoso accertata nella sentenza di condanna, ovvero impossibile, per l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con la sentenza irrevocabile; nonché ai casi in cui la collaborazione offerta dal condannato si riveli «oggettivamente irrilevante», sempre che, in questa evenienza, sia stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6), 114 o 116 cod. pen.

[5] Il riferimento è ai reati elencati nel comma 1 ter dell’articolo

[6] L’attuale comma 1 quater ricomprende fattispecie di reato relative alla categoria dei c.d. “sex offenders”

[7] Su questa norma vedi un altro articolo di DirittoConsenso: http://www.dirittoconsenso.it/2018/06/07/l-articolo-416bis-del-codice-penale-italiano/

[8] La Corte richiama alcuni passaggi della sentenza 306 del 1993, pietra miliare della giurisprudenza in materia di 4 bis, ed in particolare l’idea che la condotta collaborativa non sia necessariamente sinonimo di emenda, così come la mancata collaborazione non possa erigersi a indice legale di prova assoluta del mancato ravvedimento, ben potendo essere il frutto di valutazioni utilitaristiche. Ed inoltre l’assunto secondo cui precludere l’accesso ai benefici penitenziari ai condannati per determinati gravi reati, i quali non collaborino con la giustizia, comporti una rilevante compressione della finalità rieducativa della pena operata sulla base di una tipizzazione per titoli di reato che non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario.

[9] L. Cattelan, “la Consulta salva l’ergastolo ostativo ma abroga la presunzione assoluta di pericolosità per i condannati a uno dei reati ex art. 4-bis, comma 1, ord. Penit” in ILpenalista.it, gennaio 2020.