Il presente articolo verterà sulla questione del fine vita e, in particolare, sulla centralità del consenso informato in quest’ambito

 

Introduzione: il consenso a morire

Il diritto alla vita è un diritto riconosciuto a ciascun individuo, come un diritto inviolabile dell’uomo. È sancito dall’art. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che, grazie al Trattato di Lisbona, ha acquisito lo stesso valore dei trattati, quindi valore vincolante. Inoltre, è previsto dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, anche detta CEDU.

Sebbene il diritto alla vita sia un diritto inviolabile e, dunque, irrinunciabile dall’uomo, esistono Stati che prevedono la possibilità di rinunciarvi, in Europa, come Olanda o Svizzera che ammettono l’eutanasia.

L’eutanasia (dal greco buona morte) infatti consiste nel provocare intenzionalmente e nell’interesse dell’individuo la sua morte.

Si differenziano varie forme di eutanasia, come quella attiva che prevede una condotta attiva, appunto, del medico nel porre fine alla vita di un paziente, il quale per le gravi sofferenze patite e la poca speranza di vita richiede di morire. Questa tipologia è accettata e legalizzata in ordinamenti come quello olandese, belga e lussemburghese.

 

L’eutanasia in Italia

Non è così per l‘Italia. Qui viene punita ex art. 579 Codice Penale come omicidio del consenziente. Anche se è prevista una pena ridotta per la presenza di un consenso valido, comunque l’ordinamento italiano ha preferito stabilire che una condotta simile sia punita per tutelare i soggetti più vulnerabili, come i minori, gli anziani o i soggetti invalidi.

Lo Stato italiano ha cercato di evitare che sia facile manifestare la propria volontà a morire. Difatti, il consenso di un minore o di un malato psichico a essere uccisi non è un consenso valido, tant’è che la condotta, in queste ipotesi, integrerebbe la fattispecie di omicidio di cui all’art. 575 Codice Penale.

Non è da meno l’art. 580 Codice penale che prevede la fattispecie di aiuto al suicidio di cui si è occupato più nello specifico Gennaro De Lucia nel suo articolo intitolato “La Corte Costituzionale si pronuncia sul diritto a morire[1], dove appunto analizza il caso Cappato e le conseguenze derivanti dalla pronuncia della Corte Costituzionale del settembre 2019 in merito alla legittimità dell’articolo 580 c.p.

Invece, l’eutanasia passiva consiste nell’omissione o interruzione di un trattamento medico necessario alla sopravvivenza di un individuo. Anche in questo caso, sempre con la presenza del consenso del paziente. È una fattispecie che viene riconosciuta specialmente nei Paesi del Nord Europa[2].

Poi, si parla di eutanasia indiretta quando si fa riferimento alle cure palliative, cioè a quelle cure che vengono somministrate al paziente in fin di vita, per alleviare le sue sofferenze.

Infine, in relazione al concetto di eutanasia vi è anche il cd. accanimento terapeutico. Questo è un comportamento del medico integrato dalla somministrazione di cure inutili ed eccessive, che non portano alcun beneficio al paziente. Si tratta di un comportamento che è contrario a qualsiasi codice etico e di deontologia medica, in particolare alla Convenzione di Oviedo.

 

La centralità del consenso

Come si è visto esistono varie forme di terminazione della vita, ma è fondamentale evidenziare che un ruolo centrale è rivestito dal consenso del paziente che deve nascere, svilupparsi e consolidarsi nello stesso senza influenze esterne.

L’ articolo 3 comma 2 Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE stabilisce che:

«Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati:

a) il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge […]»

 

Per consenso informato si intende che il paziente deve essere informato del suo stato di salute, delle modalità di esecuzione, i benefici e i rischi ragionevolmente prevedibili e le possibili alternative terapeutiche al trattamento.

Anche nel nostro ordinamento si è affermata la necessità di un consenso informato, grazie a una reinterpretazione dell’art. 32 Costituzione in cui è previsto che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

Dunque, serve il consenso per iniziare un trattamento sanitario e in un’interpretazione più estesa serve il consenso anche per mantenere il trattamento sanitario. Il risultato di questa reinterpretazione è l’affermarsi di una nuova accezione di diritto alla vita, come diritto a non curarsi. Perciò, nel caso in cui le cure siano salvifiche, il rifiuto di queste potrebbe essere considerato come l’integrazione del diritto a morire.

La giurisprudenza per lungo tempo è stata contrastante su questo tema, poi nel 2017 è stata introdotta la Legge 219[3] “Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento”.

 

Legge 219/2017: la nuova relazione medico-paziente

Fino al secolo scorso la relazione tra medico e paziente era basata su una concezione paternalistica, in questo senso il medico agiva oppure ometteva di agire per il bene del paziente senza la necessità del suo assenso. Ciò accadeva perché si riteneva che il medico avesse la competenza tecnica necessaria per decidere in favore e per conto del beneficiario. Per questo si era in presenza di un rapporto caratterizzato da una forte asimmetria informativa, poiché il paziente veniva considerato incapace di prendere una decisione sia dal punto di vista tecnico, in quanto appunto privo delle conoscenze scientifiche, sia dal punto di vista morale.

Oggi, invece, si può ritenere che la relazione medico-paziente si sia evoluta, grazie anche alla legge 219/2017. Difatti, all’art. 1 comma 2 si afferma che: “[…] è promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato […]”.

Dunque, la nuova visione del rapporto tra i due soggetti è di tipo personalistico, dove l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale del medico e la sua responsabilità sono su un piano di parità.

Alla base di quanto affermato vi è la combinazione degli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione che sanciscono l’autodeterminazione del paziente nell’ambito del trattamento sanitario.

A rafforzare la nuova visione di tale rapporto vi è anche l’art. 5 della L. 219/2017 intitolato “Pianificazione condivisa delle cure” in cui si prevede che, all’interno dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente, nei casi di patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, può essere realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale poi il medico deve attenersi.

Inoltre, la norma in esame cita espressamente all’art. 1 comma 7:

Nelle situazioni di emergenza o di urgenza il medico e i componenti dell’equipe sanitaria assicurano le cure necessarie, nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla.”

 

Nel nostro ordinamento, il Codice penale all’art. 54 esclude la punibilità in presenza di uno stato di necessità, prevedendo che taluno possa intervenire per la tutela dell’integrità fisica e della vita di un’altra persona, anche ponendo in essere un fatto che potrebbe costituire reato. Tuttavia, come è possibile notare in questo caso prevale sempre il consenso del paziente, per cui se il medico si astiene dall’intervenire quando il paziente rifiuta un trattamento salvifico, egli non è punibile.

Pertanto, si può ritenere che il consenso informato costituisca il presupposto di liceità del trattamento, proprio perché il medico può erogare cure, interromperle, effettuare operazioni solo e soltanto se, dopo aver fornito al paziente tutte le informazioni utili, questo dà il proprio assenso.

 

Divieto di ostinazione irragionevole e cure palliative

La legge 219/2017 afferma anche il divieto di ostinazione irragionevole, infatti si prevede che quando la prognosi è infausta, ossia quando la malattia è inguaribile e la morte è imminente, il medico ha il dovere di astenersi dal somministrare trattamenti che siano inutili e che potrebbero comportare maggiori sofferenze al paziente in fin di vita.

Tuttavia, il medico non deve abbandonare il paziente, ma lo deve assistere e favorirgli una morte che sia dignitosa e meno possibile dolorosa. Infatti, può procedere alla terapia del dolore, somministrando al soggetto sofferente le cd. cure palliative.

In relazione a quest’ultime con la Legge 15 marzo 2010, n. 38 Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore[4], è stato garantito per la prima volta in Italia, l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore a favore del malato con malattia inguaribile o affetta da patologia cronica dolorosa, nell’obiettivo di assicurare il rispetto della dignità e dell’autonomia della persona umana.

Per altro, l’art. 3 del Codice di Deontologia medica[5] “Doveri del medico” stabilisce che: “Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana […]”.

Perciò, per concludere si può dire che è vero che il medico non deve erogare un trattamento eccessivo rispetto al necessario, ma è anche vero che nel momento in cui si astiene dal cd. accanimento terapeutico, oppure nel momento in cui il paziente rifiuta le cure salvifiche, egli non deve finire per comportarsi nel modo opposto. Non deve cioè trascurare e abbandonare il paziente. Deve, invece, accompagnarlo fino all’ultimo istante di vita, cercando di attenuare il più possibile le sue sofferenze.

 

DAT: Disposizione Anticipate di Trattamento

Cosa succede se una persona non può esprimere il proprio consenso a un trattamento perché impossibilitata?

La legge 219/2017, all’articolo 4, ha previsto l’introduzione delle DAT, Disposizioni Anticipate di Trattamento, anche conosciute come “testamento biologico”. Con queste è possibile che un soggetto capace di intendere e di volere e maggiorenne possa indicare in un atto scritto il proprio consenso o dissenso a un trattamento a cui potrebbe venire sottoposto in futuro, in previsione del fatto che potrebbe trovarsi in una situazione di incapacità a esprimere la propria volontà.

Tale documento deve essere redatto nella forma dell’atto pubblico oppure di scrittura privata autenticata, in modo tale che sia possibile garantirne l’autenticità. Se il soggetto è impossibilitato, allora sono ammesse anche dichiarazioni tramite videoregistrazioni.

Comunque, è sempre possibile revocare le DAT con la stessa forma che si è usata per la loro formazione.

 

Conclusioni

Alla luce di quanto appena esposto si può arrivare alla conclusione per cui la vita rimane un diritto inviolabile, nel senso che altri non possono recarvi danno o, appunto, violarla. Tuttavia, si può ritenere che, in casi particolari, come quelli di soggetti che sono malati e non hanno alcuna speranza di vita oppure di guarire, questi possano decidere di terminare la propria vita. Dunque, la presenza di un consenso informato a un trattamento medico (o il rifiuto allo stesso) sono i presupposti in basi ai quali il medico può agire oppure deve astenersi dal farlo e questo sempre rimanendo esente da qualsivoglia responsabilità.