L’arbitrato internazionale e i procedimenti diplomatici di risoluzione delle controversie quali corollari del divieto dell’uso della forza

 

La risoluzione delle controversie tra gli Stati e l’arbitrato internazionale

Nell’ambito della prima comunità classica, la prassi internazionale consentiva agli Stati di risolvere liberamente le controversie tra loro, anche mediante l’uso della forza. Solo dal XIX secolo la comunità internazionale arrivò ad individuare l’arbitrato come lo strumento preferenziale per giungere alla risoluzione pacifica delle controversie. Ciò vale a maggior ragione da quando l’art. 2 par. 4 Carta ONU pone un imperativo divieto dell’uso della forza, quale obbligo erga omnes[1]. Considerare l’arbitrato come espressione della funzione giurisdizionale internazionale implica che gli Stati, parte della controversia, abbiano preventivamente accettato la sua competenza: in definitiva, nessun Tribunale internazionale può adottare decisioni che abbiano effetti sugli Stati, se il suo intervento non sia stato precedentemente concordato dalle parti.

La nozione di controversia tra due o più soggetti internazionali è stata elaborata per la prima volta dalla Corte Permanente di Giustizia Internazionale nel 1924 che la definisce quale “disaccordo su di un punto di diritto o di fatto, un conflitto di tesi giuridiche o di interessi tra due soggetti”[2]. Da ciò ne deriva che non debba trattarsi necessariamente di una controversia giuridica, ma essa può assumere anche natura politica.

La comunità internazionale è giunta alla istituzionalizzazione della giurisdizione passando per forme embrionali di arbitrato internazionale.

La forma più rudimentale di accettazione dell’arbitrato risale al 1800 (c.d. arbitrato isolato), quando gli Stati parte della controversia designavano come arbitro un capo di Stato terzo o un gruppo di capi di Stati terzi, previo accordo, il quale, non solo individuava l’arbitro, ma disciplinava anche le regole procedurali e l’impegno delle parti a rispettare la decisione arbitrale di cui, tra l’altro, non si conosceva la motivazione.

Tuttavia i primi due veri istituti caratterizzanti l’arbitrato internazionale – seppur incompleti ab origine – sono stati la clausola compromissoria e il trattato generale di arbitrato, la cui prassi ha avuto origine tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 in America Latina. Iniziò, infatti ad essere invalsa la consuetudine di inserire nelle Convenzioni internazionali una clausola (compromissoria, appunto) che obbligasse gli Stati parte a ricorrere all’arbitrato nel caso di controversie future concernenti l’applicazione e l’interpretazione delle norme convenzionali. A ciò si aggiunge il trattato generale di arbitrato che, inizialmente, istituiva per gli Stati un obbligo generico di ricorrere all’arbitrato in ogni caso di controversia futura, salvo quelle riguardanti l’onore e il rispetto, l’indipendenza, il dominio riservato e questioni di natura politica. Si disciplinava così solo un generale obbligo de contrahendo per gli Stati.

All’inizio del XX secolo la clausola compromissoria e il trattato generale di arbitrato subiscono un’evoluzione che porta gli Stati, non solo a rispettare l’obbligo di contrarre, ma anche quello di sottoporre la controversia al giudizio di un organo internazionale che operi secondo proprie regole procedurali. Vengono istituite così Corti permanenti, quali la Corte Permanente di Arbitrato (1899) e la Corte Permanente di Giustizia Internazionale (1920), fino ad arrivare alla Corte Internazionale di Giustizia (1945) e ad altri Tribunali Internazionali più recenti.

 

La Corte Internazionale di Giustizia

Con l’istituzionalizzazione della giurisdizione internazionale, uno Stato può citare in giudizio unilateralmente un suo omologo, fermo restando una preesistente accettazione della competenza di quella Corte da ambo le parti. Si ribadisce, dunque, che la istituzione di una qualsiasi Corte internazionale è subordinata alla stipula di trattati bilaterali, multilaterali o istitutivi di organizzazioni internazionali che vincolano gli Stati parte a sottoporsi alla giurisdizione del Tribunale internazionale, oggetto della norma convenzionale, ai fini della risoluzione delle controversie.

La Corte Internazionale di Giustizia[3], istituita con la Carta delle Nazioni Unite del 1945[4], con sede a L’Aja presso il Palazzo della Pace, è senza dubbio il massimo organo giurisdizionale mondiale. Ai sensi dell’art. 92 Carta ONU, essa opera sia sulla base della stessa Carta sia sulla base del suo Statuto. È proprio la ratifica di queste due fonti da parte degli Stati che si configura come manifestazione della volontà di sottoporsi alla giurisdizione della CIG. Essa può essere adita solo dagli Stati e generalmente decide sulla controversia applicando il diritto internazionale; può decidere, tuttavia, ai sensi dell’art. 38 par. 2 Statuto CIG, anche ex aequo et bono quando le parti vi consentono: in questo caso la CIG, trattandosi di una funzione ausiliaria, non applica il diritto internazionale ma decide secondo equità. Le sentenze adottate vengono qualificate quali fonti internazionali di III grado, in quanto – ex art. 94 Carta ONU e 60 Statuto CIG – sono vincolanti tra le parti data la loro definitività e inappellabilità.

Oltre alla funzione contenziosa, la CIG svolge anche una funzione consultiva su sollecitazione dell’Assemblea Generale o di altri organi ONU previo parere della prima: in tal caso non adotterà una sentenza bensì un parere di solito non vincolante per gli Stati. Alla luce di poco più di 70 anni di attività, la CIG ha trattato circa 180 casi, con una pendenza attuale di 15. L’ultimo ricorso, avente ad oggetto la presunta violazione degli obblighi previsti dalla Convenzione sulla prevenzione e la repressione del genocidio, è stato presentato l’11 novembre 2019 dalla Repubblica di Gambia contro la Repubblica dell’Unione di Myanmar[5]. La giurisprudenza della CIG ha contribuito a cristallizzare numerosi principi che vengono considerati fondamentali ed imperativi nell’ambito del diritto internazionale: a titolo esemplificativo, si consideri il principio di autodeterminazione dei popoli che è stato oggetto di una sentenza del 1995[6] e di numerosi pareri[7]– l’ultimo nel 2019 riguardante le Isole Chagos -, grazie ai quali è possibile delineare i caratteri essenziali di questa norma di ius cogens[8].

 

Gli altri Tribunali internazionali

Ai fini della trattazione, tuttavia, non può non farsi cenno anche agli altri Tribunali internazionali istituiti nell’ambito di organizzazioni internazionali: il Tribunale del Commercio, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea[9], la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[10], il Tribunale del Mare[11].

Il Tribunale del Commercio opera nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio sulla base degli accordi di Marrakech del 1994 volti principalmente ad assicurare la parità fiscale di trattamento tra i prodotti nazionali e quelli importati. A differenza della CIG, il Tribunale del Commercio è strutturato in modo tale da garantire un appello al panel di primo grado.

Con effetti diretti e più frequenti nell’ordinamento italiano la CGUE e la CtEDU si iscrivono tra le due Corti internazionali a livello europeo, esercitando competenze molto differenti tra loro – si badi bene – in ragione di trattati istitutivi diversi. La CGUE, infatti, opera nell’ambito dell’Unione Europea e dei trattati che istituiscono tale organizzazione (da ultimo, dunque, il Trattato di Lisbona), al fine di interpretare ed applicare il diritto dell’Unione; la CtEDU, invece, opera nell’ambito del Consiglio d’Europa al fine di interpretare ed applicare la Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali del 1950[12]. La prima con sede a Lussemburgo e la seconda a Strasburgo, entrambe possono essere adite sia dagli Stati sia – alle condizioni previste rispettivamente dal Trattato di Lisbona e dalla CEDU – dagli individui. È quest’ultima forma di legittimazione processuale attiva che, oltre alla vocazione regionale e non universale, distingue la CGUE e la CtEDU dalla CIG.

Nel 1996 è stato poi istituito ad Amburgo l’ITLOS. Esso ha competenza nella risoluzione delle controversie tra gli Stati che nascono dall’applicazione ed interpretazione della Convenzione di Montego-Bay sul diritto internazionale del mare (c.d. Convenzione UNCLOS). A tale tribunale attualmente sono stati deferiti solo 29 casi[13], dal momento che la prassi internazionale mostra come spesso – anche per questioni riguardanti il diritto del mare – gli Stati adiscano la CIG.

La presente trattazione, ovviamente, non esaurisce l’individuazione dei Tribunali Internazionali che hanno competenza nella risoluzione delle controversie tra gli Stati: si pensi alla Corte Interamericana dei Diritti Umani in ambito OSA.

 

Mezzi diplomatici per la risoluzione delle controversie tra gli Stati

L’art. 33 co.1 Carta ONU, nell’ottica di giungere ad una soluzione pacifica delle controversie tra gli Stati, individua dei mezzi diplomatici che facilitano l’accordo tra le parti.

Il mezzo più utilizzato è il negoziato che si caratterizza per la sola partecipazione degli Stati coinvolti nella controversia. Esso, infatti, si distingue dagli altri procedimenti diplomatici previsti, nei quali vengono coinvolti – in misura più o meno rilevante – gli Stati terzi: buoni uffici, mediazione e conciliazione. Nell’ambito dei primi, lo Stato terzo si limita a favorire la messa in contatto delle parti controvertenti. Nel caso di conciliazione, invece, il terzo partecipa attivamente al negoziato potendo presentare anche proprie soluzioni per porre fine alla controversia. Il mezzo diplomatico, nel quale la partecipazione dello Stato terzo è massima, è sicuramente la conciliazione: in questo caso la procedura si avvicina molto a quella arbitrale, in quanto lo Stato terzo riceve dalle parti in conflitto l’incarico di proporre una soluzione della controversia.

Tra le procedure diplomatiche si devono considerare anche le commissioni d’inchiesta: esse sono formate da esperti indipendenti e imparziali, designati dalle parti, che devono accertare il fatto relativo alla controversia.

Resta inteso, come è facilmente intuibile, che la più evidente differenza tra le procedure giurisdizionali e quelle diplomatiche è proprio la mancanza di vincolatività delle eventuali soluzioni prospettate per gli Stati parte della controversia. Entrambe, però, si caratterizzano per essere dei deterrenti all’uso della forza quale strumento di risoluzione delle controversie internazionali, in misura ancor più rilevante dato il generale divieto previsto dal diritto internazionale.

Informazioni

Carta ONU

CEDU

CONFORTI, 2014, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica

Convenzione UNCLOS

DEL VECCHIO, 2003, Giurisdizione internazionale e globalizzazione, Giuffrè Editore

FOCARELLI, 2019, Diritto internazionale, Wolters Kluwer CEDAM

SINAGRA-BARGIACCHI, 2019, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Giuffré Francis Lefebvre

Sito CIG: www.icj-cij.org

Sito ITLOS: www.itlos.org

Statuto CIG

Trattato di Lisbona

[1] Per esigenza di completezza va considerata l’unica deroga che la Carta ONU individua all’uso della forza: si tratta della legittima difesa, quale attacco diretto e già sferrato, da potersi esercitare nei limiti della proporzionalità ed in attesa di intervento del Consiglio di Sicurezza (cfr. art. 51 Carta ONU). Per maggiori approfondimenti sul tema dell’uso della forza si rimanda a A. FEDERICO, Un nuovo ordine internazionale? I rapporti USA-Afghanistan, consultabile al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/12/un-nuovo-ordine-internazionale-i-rapporti-usa-afghanistan/

[2] Cfr. PCIJ, 1924, The Mavrommatis Palestine Concessions (Greece vs UK): <<Disagreement on a point of law or fact, a conflict of legal views or of interests between two persons>>.

[3] Da qui in poi, CIG.

[4] Trattato istitutivo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite firmato a San Francisco il 26 giugno 1945 ed entrato in vigore il 24 ottobre dello stesso anno.

[5] Tali informazioni sono facilmente consultabili sul sito www.icj-cij.org

[6] Sent. sul Timor Est.

[7] Parere sulla Namibia, sul Sahara Occidentale, sulle Isole Chagos.

[8] Per approfondimenti in materia, si veda A.FEDERICO, Il principio di autodeterminazione dei popoli: profili attuali, consultabile al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/15/principio-di-autodeterminazione-dei-popoli-profili-attuali/

[9] Da qui in poi, CGUE.

[10] Da qui in poi, CtEDU.

[11] Da qui in poi, ITLOS.

[12] Da qui in poi, CEDU.

[13] Tali informazioni sono facilmente consultabili sul sito www.itlos.org