Ogni incremento patrimoniale da parte dei contribuenti è soggetto a imposizione fiscale. Anche i proventi da attività illecita sono soggetti a questo obbligo
I proventi da attività illecita hanno rilevanza fiscale?
Solitamente siamo portati a pensare che un arricchimento patrimoniale che deriva da un’attività illecita, sia essa tale da un punto di vista civile, penale o amministrativo, non assuma la qualifica di reddito e pertanto non sia soggetta a dichiarazioni a fini fiscali. Per molti anni in Italia ha dominato questo orientamento, escludendo i proventi da attività illecita da qualsiasi rilevanza fiscale. Una svolta significativa la si ebbe nel 2006, quando il legislatore sancì espressamente come anche questa tipologia di proventi concorra alla definizione del reddito complessivo di un soggetto.
Per fare un esempio, in ambito civile la vendita di prestazioni sessuali costituisce un illecito contrattuale (in quanto vietata poiché contraria al buon costume). Sebbene un eventuale contratto che regoli tale prestazione sia nullo, i proventi scaturenti da esso costituiscono ugualmente reddito imponibile, con tutti i doveri che da ciò conseguono. Questo significa che la loro mancata dichiarazione a fini fiscali potrà ben attivare l’Amministrazione finanziaria, che previ controlli e verifiche potrà addirittura procedere alla riscossione coattiva delle somme dovute e alla eventuale comminazione di sanzioni amministrative o penali.
A sostegno di questa svolta legislativa sta l’assunto per il quale l’illiceità di una data attività sul piano giuridico non esclude la tassabilità del reddito da essa derivante, essendo il reddito un dato economico e non giuridico. Per questa ragione, qualsiasi ricchezza realizzi un soggetto, sia essa scaturente da attività lecite o legata a proventi da attività illecita, è soggetta a dichiarazioni a fini fiscali e al pagamento del relativo tributo[1].
Per comprendere meglio questi concetti è però necessario procedere prima ad un inquadramento normativo delle imposte sui redditi, per poi delineare dove si collochino effettivamente i proventi da attività illecita nel nostro sistema tributario.
Inquadramento delle imposte sui redditi: cosa sono?
Nel nostro ordinamento la legge non fornisce una puntuale definizione di reddito fiscale, cosicché è necessario desumerlo in via interpretativa: esso consiste in un incremento patrimoniale, misurabile in un determinato periodo di tempo, derivante da una fonte produttiva[2].
I due tributi che l’ordinamento prevede in relazione al reddito sono l’Irpef e l’Ires[3]. Entrambi questi tributi sono disciplinati dal d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (c.d. TUIR), il quale sancisce che il loro presupposto è dato proprio dal ”possesso di redditi in denaro o in natura, rientranti nelle categorie indicate dall’ art. 6.”[4].
L’articolo 6 del TUIR, infatti, nel disciplinare il rapporto tra il reddito e la sua fonte produttiva, riconosce ben sei categorie reddituali, ciascuna delle quali rappresentante una specifica fonte da cui il reddito può generarsi. Esse sono:
- Redditi fondiari
- Redditi di capitale
- Redditi da lavoro dipendente
- Redditi da lavoro autonomo
- Redditi di impresa
- Redditi diversi
Il reddito fiscale è quindi inteso come reddito complessivo di un soggetto, ossia come somma algebrica di ogni categoria reddituale e delle perdite derivanti dall’esercizio di imprese o di lavoro autonomo[5].
Sul contribuente grava un importante obbligo a cadenza periodica, ovvero quello di presentare la dichiarazione dei redditi. Essa, infatti, contiene tutte le informazioni e i dati necessari per la quantificazione del debito tributario. A questo proposito, un tema che ha interessato il legislatore in relazione al reddito e alle relative imposte è quello dei proventi da attività illecita.
I proventi da attività illecita come redditi diversi
Con la legge n. 537/1993 il legislatore cristallizza l’assunto per cui anche i proventi da attività illecita, intesa sia in senso civile, che penale, che amministrativo, siano da ricomprendere nelle categorie di reddito di cui all’art. 6 TUIR, ove non siano già sottoposti a sequestro o confisca penale.
I relativi redditi sono perciò determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria. Spesso, però, si verificava la circostanza per cui proprio la rilevanza penale della condotta posta in essere faceva sì che risultasse problematico inquadrare una data attività, per esempio, nella categoria del lavoro autonomo o di impresa. Si pensi a proventi generati dallo sfruttamento della prostituzione, attività che costituisce reato: essi rappresentano certamente una forma di arricchimento per lo sfruttatore, ma sono inidonei ad essere ricondotti nella categoria dei redditi di impresa.
Successivamente, perciò, con un altro intervento legislativo, il legislatore è tornato sul punto affermando che qualora tali proventi non siano classificabili nelle suddette categorie, essi rientrino eventualmente nei redditi diversi, mantenendo perciò rilevanza a fini fiscali (d.l. 223/2006).
I redditi diversi infatti sono una delle sei categorie previste dal TUIR all’art. 6, e presentano una serie di particolarità: essa è una categoria fortemente disomogenea e a carattere residuale rispetto alle altre, in quanto vi sono ricomprese, ai sensi dell’art. 67 TUIR, una serie di fattispecie non accomunabili tra loro sul piano strutturale. Il suo carattere residuale però non deve essere confuso con il concetto “di chiusura”, in quanto le fattispecie rientranti in essa sono comunque tassativamente indicate dalla legge.
L’elenco di tali fattispecie, previsto dall’art. 67, non comprenderebbe anche i proventi da attività illecita, i quali però sono ricondotti nei redditi diversi dal d.l. 223/2006. Sul punto, è intervenuta anche una recente sentenza della Cassazione, la quale afferma proprio che “in tema di imposte sui redditi, i proventi illeciti, anche ove derivanti da frodi fiscali, devono essere ricondotti alla categoria dei redditi diversi, sebbene non ricompresi nell’elencazione di cui all’ art. 67 del d.P.R. n. 917 del 1986, secondo quanto espressamente previsto dall’ art. 36, comma 34-bis, del d.l. n. 223 del 2006, conv. in l. n. 248 del 2006.” (Cassazione civile, sez. trib., 19/10/2018, n. 26440).
Cosa succede se i proventi sono sottoposti a sequestro o confisca penale?
La legge prevede, accanto all’obbligo di dichiarazione dei proventi da attività illecita, una deroga nel caso in cui questi siano stati sottoposti a sequestro o confisca penale.
Per confisca penale si intende la misura di sicurezza consistente nell’espropriazione a favore dello Stato dei beni che servirono a commettere il reato e dei proventi o prodotti che ne sono scaturiti. Questa misura di sicurezza a carattere patrimoniale, quindi, serve a prevenire la commissione di nuovi reati attraverso la sottrazione di tali beni, che se restassero nella disponibilità del reo potrebbero fungere da incentivo a delinquere ancora. Il sequestro, invece, a differenza della confisca ha carattere solamente temporaneo, stante la sua natura cautelare.
Questi provvedimenti ablatori, quindi, ove intervenuti nello stesso periodo di imposta nel quale si realizza il possesso fiscale del reddito, sono esclusi dalla tassazione in quanto viene meno la titolarità giuridica dello stesso, non più imputabile perciò al soggetto.
Anche la Cassazione non ha mancato di esprimersi sul punto[6], enunciando che:
“fermo restando che potrà ritenersi integrato il reato di dichiarazione infedele di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita, la seconda parte del citato articolo individua una condizione negativa di imponibilità nell’ipotesi di spossessamento dei proventi illeciti che avvenga per effetto di sequestro o confisca. L’operatività di tale meccanismo, (…) è tuttavia subordinata alla circostanza che il provvedimento ablatorio sia intervenuto nello stesso periodo di imposta cui il provento si riferisce. Il sequestro e la confisca dei proventi, in altri termini, sono opponibili al fisco purchè intervengano nel medesimo periodo in cui si è verificato il presupposto imponibile, dal momento che solo in questa ipotesi detti provvedimenti ablatori determinano, dal punto di vista fiscale e in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.[7], una riduzione del reddito. Per converso, nessuna rilevanza assume l’apposizione di tali vincoli qualora sia disposta (…), contestualmente alla sentenza di condanna di primo grado.”[8].
La rilevanza dei proventi da attività illecita ai fini IVA
Il legislatore, con la l. 537/1993, ha enunciato la rilevanza fiscale dei proventi da attività illecita per quanto riguarda le imposte sul reddito. La prassi applicativa però tende ad estendere la rilevanza di questi ultimi anche ad un altro tributo, l’IVA[9].
La Cassazione ha sostenuto infatti che “l’affermazione di principio secondo la quale i proventi provenienti da attività illecita non sarebbero assoggettabili a tale imposta è manifestamente errata. Essa contrasta con il preciso disposto dell’art. 14, comma 4, della l. 24 dicembre 1993, n. 537, secondo il quale “i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo”, devono intendersi ricompresi nelle categorie di reddito di cui all’art. 6 del T.U.I.R. Anche se la norma è riferita alla disciplina delle imposte sul reddito, è inequivocabilmente una norma di principio, in forza della quale non si può eccepire la esenzione tributaria per i proventi derivanti da attività illecite”[10].
Non vi sarebbe ragione, infatti, di escludere l’applicazione anche dell’Iva ai proventi da attività illecita, in quanto molte imprese che operano in un determinato settore attraverso modalità illecite ne trarrebbero vantaggio, costituendo una ipotesi di concorrenza sleale. Il sopracitato articolo 14 della l. 537/1993 rappresenta quindi una enunciazione di principio la cui applicabilità è estesa anche alle imposte indirette, non più solo a quelle dirette[11].
Informazioni
MANUALE DI DIRITTO TRIBUTARIO, A. Carinci- T. Tassani, Terza edizione, 2020, Giappichelli Editore.
L’OBBLIGO DI DICHIARAZIONE FISCALE DEI PROVENTI DA REATO. RESPONSABILITÀ PENALE VS. DIRITTO AL SILENZIO – The duty of tax declaration of proceeds of crime. Criminal liability vs right to silence, S. Faiella
[1] FiscoOggi, Rivista online dell’Agenzia delle Entrate, Tassazione più che legittima per i proventi illeciti, G. Palumbo, FiscoOggi.it – Tassazione più che legittima per i proventi illeciti
[2] La periodicità della misurazione del reddito fiscale è data dalla previsione per cui il tributo è dovuto per periodi di imposta. Il periodo di imposta è un arco temporale convenzionalmente definito: per l’Irpef, ad esempio, il periodo di imposta di riferimento è l’anno solare.
[3] Per Irpef si intende imposta sul reddito delle persone fisiche, mentre per Ires si intende imposta sul reddito delle società
[4] Art. 72 TUIR
[5] Il TUIR esclude poi dalla base imponibile i redditi esenti dall’imposta e quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva; riconosce poi la natura non reddituale di alcuni emolumenti. Anche a fini Ires la base imponibile lorda coincide con il reddito complessivo, eccetto per le società e gli enti commerciali che possono produrre esclusivamente redditi di impresa. A. Carinci- T. Tassani, Manuale di diritto tributario, Terza edizione, 2020, Giappichelli Editore.
[6] Il Tribunale di Genova aveva condannato un imputato a dieci mesi di reclusione per aver omesso di indicare, nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2011, elementi attivi di reddito pari a Euro 1.301.704,00 provenienti dai delitti di cui all’art. 646 c.p., con un’imposta IRPEF evasa di Euro 559.732,00, disponendo la confisca per equivalente fino alla concorrenza dell’ammontare dell’imposta evasa. La Corte d’Appello successivamente aveva riformato parzialmente tale sentenza, rideterminando in Euro 649.787,67 gli elementi attivi di reddito e in Euro 279.408,70 l’imposta IRPEF evasa, riducendo a tale somma la confisca disposta con la precedente sentenza e a nove mesi di reclusione la pena inflitta all’imputato. La Corte di Cassazione aveva poi dichiarato il ricorso inammissibile, in quanto le censure sollevate sono risultate in parte generiche e in parte manifestamente infondate.
[7] Per approfondimenti sulla capacità contributiva si veda l’articolo La capacità contributiva, Andrea Palmiero, 30 marzo 2021, su DirittoConsenso.it La capacità contributiva – DirittoConsenso
[8] Cassazione penale sez. III, 14/02/2020, (ud. 14/02/2020, dep. 19/06/2020), n.18575
[9] Per Iva si intende Imposta sul valore aggiunto, regolata dal D.P.R. 633/1972
[10] Sez. VI civ., 24 ottobre 2019, ord. n. 27357
[11] L’OBBLIGO DI DICHIARAZIONE FISCALE DEI PROVENTI DA REATO. RESPONSABILITÀ PENALE VS. DIRITTO AL SILENZIO – The duty of tax declaration of proceeds of crime. Criminal liability vs right to silence, S. Faiella, Cassazione Penale fasc.2, 1 FEBBRAIO 2021, pag. 718

Lisa Montalti
Ciao, sono Lisa. Sono nata nel 1998 e vivo a Imola. Laureata con lode in Giurisprudenza all’Alma Mater Studiorum di Bologna, ho svolto il primo semestre di pratica forense anticipata presso uno Studio Legale, occupandomi prevalentemente di Diritto Civile. Attualmente sono praticante avvocato presso uno Studio Legale specializzato in Diritto Commerciale, in particolare mi occupo di Diritto Fallimentare e procedure concorsuali. Ho da sempre una passione per la scrittura e la lettura.