L’inquadramento dell’occupazione dei Territori palestinesi nel diritto internazionale, analisi delle norme previste dal diritto dei conflitti armati  

 

Lo status di occupazione militare e i Territori palestinesi nel diritto internazionale

Da Gerusalemme a Gaza, in questi giorni, la violenza in Israele e Palestina ha visto una delle più drammatiche escalation degli ultimi anni. Tra sabato 8 maggio e lunedì 10 maggio 2021 si è assistito a diversi scontri tra cittadini palestinesi, in rivolta a seguito degli ennesimi soprusi da parte delle autorità israeliana[1], e polizia israeliana. Quest’ultima ha represso violentemente tali rimostranze e, in reazione, i militanti palestinesi di Hamas hanno lanciato centinaia di razzi – la maggior parte dei quali è stata intercettata dai sistemi di difesa israeliani – verso Gerusalemme, Tel Aviv e il sud di Israele. Gaza, il territorio palestinese gestito da Hamas, è stato colpito ancor più duramente dagli attacchi aerei israeliani. Sebbene non vi sia alcun scopo realistico a portata di mano, decine di persone, la maggior parte delle quali palestinesi, sono state uccise[2]. Ma, nella prospettiva del diritto internazionale, perché si parla di occupazione dei Territori palestinesi?

Prima di addentrarci nel vivo della questione, è necessario premettere alcuni cenni sullo status giuridico della Striscia di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme est, rivendicati dai palestinesi come parte dello Stato di Palestina[3]. In particolare, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania – secondo la comunità internazionale – sono designate dal 1967[4] come Territori militarmente occupati da Israele. Lo Stato di Israele, infatti, unitamente all’Egitto, mantiene sulla Striscia il blocco terrestre, aereo e marittimo, esercitando, inoltre, il controllo sul genere delle merci in entrata a Gaza, il cui volume equivale ad un quarto del flusso precedente al blocco. La marina israeliana, poi, mantiene un blocco marittimo a tre miglia nautiche dalla costa e l’Egitto, prima dei turbolenti mesi di gennaio-marzo 2011[5], stava procedendo alla costruzione una barriera d’acciaio sotterranea per evitare la violazione del blocco mediante i tunnel[6].

Le occupazioni militari di territori stranieri sono convenzionalmente ed internazionalmente chiariti dalla Convenzione de L’Aia del 1907, ove per occupazione militare si intende la presenza di forze armate straniere all’interno del territorio di uno Stato in misura preponderante rispetto a quella delle forze armate dello Stato occupato. Di conseguenza, l’occupazione non determina, di per sé, l’acquisto della sovranità da parte dell’occupante sul territorio occupato ma origina il controllo effettivo dell’esercito invasore, il quale impone la propria autorità in maniera stabile. A ben vedere, nell’economia dei regolamenti de L’Aia, l’occupazione è concepita come una situazione transitoria, destinata a concludersi già nel corso del conflitto, con il ritiro delle truppe occupanti ed il ripristino della piena sovranità dello Stato occupato, o, al più tardi, al termine delle ostilità, con la definizione del destino del territorio occupato nel trattato di pace.

 

I diritti della popolazione locale occupata

L’ordinamento internazionale si preoccupa di tutelare gli abitanti del territorio occupato, tentando di renderli indenni, quanto più possibile, dalle conseguenze del conflitto. Le scarne disposizioni previste dal Regolamento de L’Aja del 1907 – che si limitava a proteggere la vita, le convinzioni religiose, l’onore, i diritti di famiglia e la proprietà della popolazione locale, nonché a sancire il principio della responsabilità personale – sono state nel tempo ampiamente integrate dalle regole della IV Convenzione di Ginevra e del I Protocollo del 1977, che riconoscono agli abitanti del territorio occupato la qualifica di «persone protette».

A ben vedere, dunque, l’evoluzione che la tutela internazionale della persona umana ha subito negli ultimi sessant’anni, grazie all’elaborazione di strumenti convenzionali tesi a garantire diritti sempre più ampi agli individui, estende ulteriormente gli obblighi che gravano sull’autorità occupante. Quest’ultima è chiamata a riconoscere agli abitanti del territorio occupato, oltre ai diritti che le norme umanitarie attribuiscono loro in quanto vittime del conflitto armato, anche la ben più ampia categoria di garanzie che l’ordinamento internazionale riconosce a tutti gli esseri umani.

 

L’obbligo di ristabilire e mantenere l’ordine e la vita pubblica nel territorio occupato

In primo luogo va rilevato come uno Stato non possa esercitare contemporaneamente il controllo su un territorio che occupa e, nel contempo, attaccarlo militarmente sostenendo che rappresenti una minaccia esogena alla sicurezza nazionale. Così facendo Israele non solo sta affermando diritti coerenti con la dominazione coloniale ma che, più semplicemente, non sono conformi al diritto internazionale.

Come ben noto, d’altra parte, l’applicabilità del diritto internazionale dipende dal consenso e dalla conformità volontaria degli Stati stessi e, in assenza della volontà politica di far sì che il comportamento dello Stato sia conforme alla legge, le violazioni divengono la norma piuttosto che l’eccezione. In ogni caso, è rilevante studiare cosa prevede il diritto internazionale riguardo al diritto di un occupante di usare la forza nei confronti dei territori occupati dallo stesso, al fine di evitare che la reinterpretazione di tale diritto renda la legge uno strumento mediante cui proteggere l’autorità coloniale a spese dei diritti dei civili non combattenti.

Il diritto d’occupazione, in particolare, fa parte del diritto dei conflitti armati. Tale disciplina contempla l’occupazione militare come il risultato della guerra e prevede, in capo alla potenza occupante, numerosi doveri finché la pace sia ristabilita e l’occupazione volga al termine. Per adempiere a tali doveri, la potenza occupante ha il diritto di ricorrere all’utilizzo della forza al fine di applicare la legge, preservare l’ordine, punire il crimine e proteggere le vite e la proprietà all’interno del territorio occupato. In tale prospettiva, l’utilizzo della forza – in particolare quella letale – è consentito nei limiti in cui ciò sia necessario per ristabilire l’ordine e solo come ultima istanza, circoscritta, soprattutto, dalla preoccupazione per la popolazione civile non combattente.

Diversamente, il diritto all’autodifesa invocata da Stati contro altri Stati consente il ricorso alla forza militare con un margine più ampio: entrambi gli Stati sono legittimi a tale ricorso secondo il diritto dei conflitti armati[7]. Questo corpo di leggi si basa su un crudo equilibrio tra preoccupazioni umanitarie da un lato e vantaggio e necessità militari dall’altro.

 

Gli attacchi Israeliani sono legittimo esercizio del diritto di autodifesa?

I recenti attacchi di Israele contro la popolazione palestinese di Gerusalemme e di Gaza, un territorio di 360 chilometri quadrati, possono essere giustificati come il giusto uso della forza armata contro un paese straniero?

Non di rado, infatti, i funzionari israeliani stessi hanno tentato di inquadrare, nel corso degli anni, i loro assalti contro un territorio da loro stessi occupato come legittimo esercizio del diritto di autodifesa. Ma tale prospettiva è conforme con il diritto internazionale?

Nel diritto internazionale, l’autodifesa è la giustificazione legale cui uno Stato ricorre per legittimare l’uso della forza armata e dichiarare guerra. In questo senso, si parla di jus ad bellum, ovvero quando vi siano legittime ragioni per intraprendere una guerra. Il diritto di combattere per autodifesa si distingue dal c.d. jus in bello, ovvero l’insieme dei principi e delle leggi che regolano i mezzi e i metodi della guerra stessa. Lo jus ad bellum è volto a limitare l’uso della forza armata in conformità con l’art. 2 par. 4 della Carta delle Nazioni Unite, alla quale si può ricorrere solo ove lo Stato si trovi a subire un attacco armato, ovvero una una minaccia imminente di un attacco, ex art. 51 della medesima Carta.

Una volta iniziato un conflitto armato – indipendentemente dalla ragione o dalla legittimità di tale conflitto – scatta il quadro giuridico dello jus in bello. Pertanto, quando un’occupazione è già in atto, il diritto di ricorrere alla forza militarizzata in risposta ad un attacco armato, diversamente ed in contrapposizione con il ricorso alla forza di polizia volta a ripristinare l’ordine, non è un rimedio disponibile per lo stato occupante. L’inizio di un’occupazione militare segna il trionfo di un belligerante su un altro. Nel caso di Israele, la sua occupazione della Cisgiordania, della Striscia di Gaza, delle alture del Golan e del Sinai nel 1967 ha segnato una vittoria militare contro i belligeranti arabi.

Le norme sui conflitti armati internazionali proibiscono a una potenza occupante di utilizzare la forza armata contro un proprio territorio occupato. Ciò, in virtù dell’esistenza dell’occupazione militare stessa, in quanto un attacco armato, anche ove conforme alla Carta delle Nazioni Unite, è già avvenuto e si è concluso. Quindi, il diritto all’autodifesa nel diritto internazionale non è disponibile per Israele per quanto riguarda i suoi rapporti con minacce reali o percepite provenienti dalla popolazione dei Territori palestinesi occupati e della Striscia di Gaza. Per raggiungere i suoi obiettivi di sicurezza, Israele non può ricorrere ad altro che ai poteri di polizia, ovvero all’uso eccezionale della forza militarizzata, conferitigli dal diritto internazionale umanitario. Questo non significa che Israele non possa difendersi, ma che queste misure difensive non possono prendere la forma della guerra né essere giustificate come autodifesa nel diritto internazionale.

In definitiva, una potenza occupante non può giustificare il ricorso alla forza militare come legittimo esercizio dell’autodifesa in un territorio di cui è responsabile proprio in quanto occupante.

In questa cornice generale, appare evidente come Israele non abbia mai regolato il proprio comportamento, in Cisgiordania e Gaza, in conformità con la legge di occupazione, stante il rifiuto di riconoscere a questi territori lo status di territori occupati. Ne è derivato, dunque, che dall’inizio della sua occupazione nel 1967 Israele ha negato l’applicabilità del diritto internazionale umanitario ai territori palestinesi occupati, nonostante vi abbia imposto il dominio militare, impedendo inoltre l’applicabilità della Quarta Convenzione di Ginevra relativa alla tutela delle persone civili in tempo di guerra, pietra angolare del diritto di occupazione[8].

 

Conclusione sull’occupazione dei Territori palestinesi nel diritto internazionale

Il regime giuridico applicabile alle occupazioni militari, frutto della progressiva elaborazione di puntuali regole di diritto bellico e del loro coordinamento con le pertinenti norme internazionali per la tutela dei diritti umani, mira, dunque, a salvaguardare lo statuto giuridico pregresso del territorio occupato e a tutelare la popolazione locale.

Sebbene il controllo esercitato da Israele sui Territori palestinesi presenti, per certi versi, caratteristiche peculiari, non vi è ragione di escludere la piena applicabilità del regime giuridico dell’occupazione. Da ciò discende come numerose delle misure adottate da Israele in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza siano difficilmente conciliabili con le pertinenti norme di diritto internazionale.

In definitiva, la drammaticità della vita nei Territori palestinesi occupati si comprende proprio facendo ricorso alle parole della Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale (ESCEA) che, nel marzo 2017[9], ha descritto le condizioni attuali della popolazione palestinese, dopo decenni di occupazione e repressione, come equivalenti all’Apartheid. Il termine Apartheid, sebbene originariamente associato al caso specifico del Sudafrica, costituisce una fattispecie di crimine contro l’umanità ai sensi del diritto internazionale consuetudinario e dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, e come tale ha portata universale.

Informazioni

[1] Sheikh Jarrah è un quartiere collocato a Gerusalemme est a maggioranza palestinese. Qui è nata una disputa legale le cui ripercussioni possono essere enormi: alcuni coloni israeliani rivendicano infatti delle abitazioni appartenenti, da almeno 70 anni, a varie famiglie palestinesi. Famiglie che adesso rischiano di subire uno sfratto. Tra sabato 8 maggio e lunedì 10 maggio 2021 ci sono stati diversi scontri tra cittadini palestinesi e polizia israeliana. In particolare, circa 8000 palestinesi si erano riuniti nella Spianata delle Moschee per protestare contro la c.d. “marcia delle bandiere”, ovvero una manifestazione che i coloni israeliani di estrema destra avevano intenzione di realizzare nei territori arabi di Gerusalemme per rivendicarne l’occupazione. Ne sono seguiti scontri con la polizia che hanno causato il ferimento di almeno 300 palestinesi, come riportato dalla Mezzaluna rossa palestinese. Cfr. https://www.ilpost.it/2021/05/08/sheikh-jarrah-gerusalemme/; https://pagineesteri.it/2021/05/10/medioriente/medioriente-video-gerusalemme-confisca-di-case-palestinesi/.

[2] https://www.economist.com/leaders/2021/05/13/only-negotiations-can-bring-lasting-peace-to-israel-and-palestine.

[3] Per approfondire l’evoluzione del principio di autodeterminazione dei popoli v. http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/15/principio-di-autodeterminazione-dei-popoli-profili-attuali/.

[4] A seguito della guerra dei sei giorni, combattuta tra Israele e una coalizione di paesi arabi fra il 5 e il 10 giugno 1967, da cui Israele è uscita nettamente vincitrice, le conseguenze sulla popolazione e gli stati arabi sono state notevoli. Israele, infatti, con la vittoria non solo ha garantito la propria sopravvivenza, ma ha invaso territori che fino a quel momento non aveva nemmeno rivendicato, come il Sinai, le alture del Golan, la Striscia di Gaza e diverse città arabe della Cisgiordania. Cfr. M. CAMPANINI, Storia del Medio Oriente contemporaneo, VI ed., Il Mulino, 2020.

[5] Si tratta della c.d. rivoluzione egiziana del 2011, anche nota con il nome di rivoluzione del Nilo, rappresenta un vasto movimento di protesta che ha visto il succedersi di episodi di disobbedienza civile, atti di contestazione e insurrezioni, verificatisi in Egitto a partire dal 25 gennaio del 2011. Il moto di protesta popolare egiziano era imperniato sul desiderio di rinnovamento politico e sociale contro il trentennale regime del Presidente Hosni Mubarak. Cfr. https://politicalscience.yale.edu/sites/default/files/files/Ellison_Danielle.pdf .

[6] Il blocco è stato criticato dall’allora Segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon, dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite e da numerose organizzazioni dei diritti umani. Esso è contrario alla risoluzione 1860 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite approvata l’8 gennaio 2009.

[7] Il diritto dei conflitti armati si trova principalmente nei Regolamenti de L’Aia del 1907, nelle Quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e i loro Protocolli Aggiuntivi I e II del 1977.

[8] Il governo israeliano contesta la piena applicazione del regime di occupazione dei Territori, negando di conseguenza l’applicazione della IV Convenzione di Ginevra (ratificata da Israele), in quanto i Territori palestinesi occupati non sono soggetti alla sovranità di alcuno Stato parte della Convenzione. L’argomento – che si basa sulla lettera dell’art. 2, par. 2, comune, ai sensi del quale le Convenzioni di Ginevra si applicano “dans tous les cas d’occupation de tout ou partie du territoire d’une Haute Partie contractante, même si cette occupation ne rencontre aucune résistance militaire” – appare squisitamente formalistico, tanto più se si considera che l’assenza di uno “Stato occupato” è invocata come ragione valida per escludere l’applicazione proprio delle norme di Ginevra, che, a differenza dei regolamenti de L’Aia, sono pensate essenzialmente per tutelare gli interessi della popolazione locale e non dello Stato occupato. La questione è stata recentemente affrontata dalla Corte internazionale di giustizia nel parere sul muro eretto da Israele nei Territori palestinesi occupati. La Corte ha rigettato l’interpretazione propugnata dal governo israeliano, sottolineando come l’occupazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania sia stata posta in essere nel corso di un conflitto armato, la guerra dei sei giorni, che coinvolse Stati parti della Convenzione. La rilevanza delle regole contenute nella parte III, sezione III, della IV Convenzione di Ginevra discende, dunque, secondo la Corte, non dal secondo ma dal primo paragrafo dell’art. 2, ai sensi del quale la Convenzione si applica “en cas de guerre déclarée ou de tout autre conflit armé surgissant entre deux ou plusieurs des Hautes Parties contractantes”. Cfr. Corte internazionale di giustizia, Conséquences juridiques de l’édification d’un mur dans le territoire palestinien occupé, parere del 9 luglio 2004, pubblicato sul sito della Corte, www.icj-cij.org, par. 89.

[9] Il rapporto era stato compilato da Virginia Tilley, professoressa dell’Università dell’Illinois, e da Richard Falk, inviato speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi, nonché professore emerito della Princeton University. tuttavia, pochi giorni dopo, il rapporto chiamato “Israeli Practices towards the Palestinian People and the Question of Apartheid” è stato ritirato dal sito delle Nazioni Unite per decisione del segretario generale dell’ONU, António Guterres. V. https://bdsitalia.org/index.php/la-campagna-bds/risorse-bds/2449-rapporto-escwa