L’evoluzione storica e giuridica delle relazioni russo-europee

 

Dalla caduta dell’URSS alla prima Presidenza Putin: le basi per un dialogo

Alla fine del 1991, la caduta dell’Unione Sovietica lasciava un profondo vuoto di potere. La neonata Federazione Russa si trovava a fronteggiare problemi di natura interna ed esterna. Sorvolando sulla complessa situazione nazionale, giova porre l’attenzione sulla proiezione estera della Russia negli anni della Presidenza Eltsin. In particolare, l’azione politica russa aveva cercato di governare l’indipendenza delle ex Repubbliche sovietiche – ottenuta, in alcuni casi, in modo molto turbolento – tramite la creazione della CSI (Comunità degli Stati indipendenti). L’organizzazione in questione rispondeva principalmente alla necessità di gestire le conseguenze del collasso dell’URSS ma fu, in realtà, un’occasione mancata per la Russia di recuperare un vero e proprio ruolo egemone nelle relazioni con i nuovo Stati dello spazio post-sovietico[1]. In questo contesto complicato, in un divenire costante, la CE avvertì la necessità di costruire un dialogo con la Russia, che mediasse fra due fattori antitetici. Da una parte, la volontà di rispettare le dinamiche interne al nuovo Stato, cogliendo le opportunità derivanti dall’apertura del mercato russo. Dall’altra, però, pesava la situazione connessa al conflitto ceceno e alla condizione dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani. Se la Russia aveva cessato di essere la grande potenza della Guerra fredda, restava comunque un soggetto politico di primaria rilevanza, sia per la disponibilità di ingenti risorse energetiche sia per il suo potenziale militare, all’epoca in via di obsolescenza, ma pur sempre minaccioso. L’influenza, pur mitigata, che era ancora in grado di esercitare tramite la CSI la rendeva inoltre interlocutore privilegiato per le questioni attinenti alla gestione dello spazio post-sovietico. Due erano così per la Commissione europea le tematiche con cui approcciare la Russia all’epoca del primo conflitto ceceno: sicurezza e commercio. Alla luce di queste premesse, la CE e la Federazione Russa stipularono, nel 1994, un Accordo di partenariato e cooperazione (Partnership and Cooperation Agreement – Pca), entrato in vigore nel dicembre 1997. Il merito del trattato in questione è quello di essere il primo atto a stabilire un quadro generale di riferimento per lo sviluppo delle relazioni russo-europee.

Non bisogna dimenticare che nel 1995 la Finlandia divenne membro della Comunità europea: per la prima volta, la Russia si trovò a confinare con lo spazio europeo. Questa condizione poneva con estrema urgenza la necessità di porre le basi per lo sviluppo di relazioni normali, se non amichevoli. Non a caso, la durata del Pca venne ottimisticamente fissata in dieci anni, con clausola di rinnovo automatico. Se tuttavia il quadro poteva apparire prodromico allo sviluppo di buoni rapporti di partenariato, è da sottolineare come, fin dai primi anni della sua vigenza, le parti si trovarono spesso a parlare “due lingue diverse”. A ben vedere, uno degli obiettivi dell’accordo, era quello di <<consolidare la democrazia, lo Stato di diritto e l’integrazione della Russia nello spazio comune (europeo), sia sociale sia economico>>[2]. Se l’adesione di Mosca era dipesa (anche) dai possibili vantaggi che avrebbe potuto ricavare dalla cooperazione con la CE in termini economici, assai più problematico risultava il versante legato al rispetto degli standard europei in tema di democrazia e diritti umani. La politica estera europea, infatti, è basata sulla promozione di principi fondamentali che rappresentano un sostrato valoriale comune per gli Stati membri. Mosca, tuttavia, è tradizionalmente poco propensa ad accettare ingerenze di questo tipo, che interferiscano con le sue politiche interne[3].

Peraltro, il quadro delle relazioni russo-europee appena costruito subì due duri colpi nel 1999. Il primo di essi avvenne in marzo, e non riguardò direttamente la CE, bensì l’intervento NATO in Kosovo. In secondo luogo, il vertice di Madrid del luglio 1997 segnò la decisione di invitare Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca a far parte della NATO a partire dal 1999. Per quanto le ambizioni russe potessero risultare ridimensionate rispetto all’epoca sovietica, in ragione delle diminuite capacità economico – militari, è importante ricordare che difficilmente Mosca avrebbe accettato supinamente una simile ingerenza, in quelle stesse aree dove, fino ad un decennio prima, aveva esercitato la sua influenza. Con specifico riferimento al contesto militare, il repentino passaggio in pochi anni dal Patto di Varsavia alla NATO di alcuni Paesi dell’Europa orientale – chiaro segni di emancipazione e rottura con il passato – non poteva che tradursi in uno shock per la Russia.

 

Gli anni 2000 e il progressivo distanziamento

Nel 1999, Vladimir Putin divenne Presidente della Federazione Russa, con l’ambizione di restituire al Paese il suo protagonismo sullo scenario internazionale. In tale contesto, nonostante le tensioni pregresse, le relazioni russo-europee vennero messe alla prova, ma non troncate. L’amministrazione Putin cercò, infatti, di dare nuovo slancio al dialogo con la CE sulla base del quadro istituzionale delineato dal Pca. Ma anche qui, la diversità di vedute riemerse con prepotenza. In occasione del vertice di San Pietroburgo del 2003 vennero creati quattro spazi di cooperazione comune (economico; sicurezza, giustizia e libertà; sicurezza esterna; educazione e ricerca). Il problema di fondo continuava, però, ad essere lo stesso emerso solo alcuni anni prima, sia pure osservato sotto due punti di vista diversi. Per la CE, Mosca non si impegnava (e non lo avrebbe fatto nel futuro) ad adeguare progressivamente il suo ordinamento giuridico ad alcuni degli standard europei in tema di diritti fondamentali, e, soprattutto, avrebbe procrastinato (se non evitato del tutto) l’adozione di uno strumento giuridico più dettagliato, volto a regolare al millimetro tutti i settori di collaborazione. Per la Russia, d’altro canto, una cooperazione prevalentemente economica non avrebbe avuto motivo di essere “disturbata” da fastidiose ingerenze europee in tema di rule of law e tutela dei diritti fondamentali, preferendo la permanenza di un accordo-quadro generico da arricchire, di volta in volta, con specifici atti esecutivi, dedicati a singoli profili di cooperazione[4]. Quest’ultima scelta era in effetti quella più conveniente per il Cremlino: così facendo, avrebbe evitato di legare settori vantaggiosi (come, ad esempio, quello dell’energia) alle sorti di ambiti in cui Mosca preferiva (e preferisce) “fare da sé”, come, appunto, il tema dei diritti umani[5].

Va poi considerato che nel 2004 la CE ampliò i suoi confini. In quell’anno aderirono alla UE le Repubbliche baltiche, la Polonia, l’Ungheria, la Repubblica Ceca e quella Slovacca. Tutti questi Paesi erano stati sotto controllo diretto od indiretto dell’URSS fino a non molto tempo prima e il loro nuovo posizionamento nello spazio europeo non poté che essere visto negativamente da Mosca. Il Pca, tra l’altro, arrivò a scadenza nel 2007 (ma rimaneva in vigore in relazione alla clausola di rinnovo tacito). Quell’anno entravano, peraltro, a far parte dell’Unione anche Romania e Bulgaria, nonostante i relativi processi di piena democratizzazione risultassero ancora in fieri.

A questo si aggiunga la decisiva frattura legata alla crisi georgiana del 2008. Il riconoscimento accordato dalla Federazione Russa alle Repubbliche secessioniste di Abcasia e Ossezia del Sud e l’intervento militare a fianco degli osseti nell’agosto del 2008 contro la Georgia segnò un punto di non ritorno per le relazioni russo-europee. In quel periodo la presidenza georgiana, guidata da Mikhail Saakashvili, guardava apertamente a Bruxelles, stante la sua volontà di avvicinare progressivamente la Georgia alla UE.

In effetti, il tema degli equilibri di potere nelle zone tradizionalmente soggette all’influenza russa è uno dei principali nodi che impedivano (e impediscono tuttora) un consolidamento delle relazioni russo-europee. Va detto, però, che sul punto, l’atteggiamento dell’UE non è stato particolarmente lungimirante. Se infatti la leadership europea aveva pensato un canale di dialogo esclusivo con la Russia (tramite il Pca), pareva al tempo stesso non avere compreso che quest’ultima intendeva continuare a ricoprire un ruolo più che significativo nelle dinamiche interne di molte ex Repubbliche sovietiche. Nel 2009, in occasione del vertice di Praga, la proposta polacca, svedese e delle Repubbliche baltiche, di creare uno spazio di collaborazione fra UE e Armenia, Georgia, Ucraina e Bielorussia (noto come Partenariato orientale[6]) segnò un passo falso nelle già precarie relazioni russo-europee. In particolare, la posizione polacca interpretava tale organizzazione come prodromica all’avvio di un percorso di progressiva integrazione all’interno dell’UE delle ex Repubbliche sovietiche coinvolte[7]. Il che avrebbe significato per il Cremlino una chiara estromissione. E comunque la si interpretasse, non poteva sfuggire a nessuno, appunto, che la creazione di un doppio canale di dialogo avesse lo scopo di tagliare fuori Mosca da aree che essa avvertiva (e ancora oggi, in buona misura, avverte) come zone di propria influenza[8].

 

La guerra nel Donbass e le sanzioni economiche

Tuttavia, l’incidente più significativo occorse in occasione degli eventi in Crimea del febbraio-marzo del 2014. Dopo il referendum tenutosi il 16 marzo 2014, la Duma di Stato approvò ufficialmente il passaggio della Repubblica autonoma di Crimea alla Federazione Russa[9]. Conviene osservare che dopo il congelamento delle discussioni sul rinnovo del Pca nel 2007, l’UE ha ufficialmente deciso come reazione di sospendere qualsiasi dialogo in merito all’accordo, congelando di fatto la primaria base giuridica su cui si basavano le relazioni russo-europee.

L’Ucraina si trova in una posizione spinosa. Da una parte, storicamente legata alla Russia per eredità storica e vincoli politico – economici. Dall’altra, una parte del Paese guarda all’UE come strumento di progresso e di affrancamento dall’influenza russa. Non a caso gli eventi di Piazza Maydan, a Kiev, nel dicembre 2013 occorsero proprio in occasione di una serie di scelte politiche poste sul tavolo dell’allora Presidente Janukovič, qui (doverosamente) semplificabili con l’aut aut “o la Russia, o l’Europa”. Sarebbe eccessivamente complesso ricostruire il quadro delle relazioni bilaterali fra l’Ucraina e la Russia e quelle europee – ucraine. Basti qui considerare che la composizione etnica del Paese, con ampie zone ad est a maggioranza russofona, contribuisce a creare una vera e propria spaccatura etno-linguistica, oltre che politica.

Va detto però che la posizione della UE, unitamente a quella della comunità internazionale, ritiene l’annessione della Crimea “illegale”, disconoscendo la legittimità dell’incorporamento entro i confini russi e continuando a considerare l’area ancora facente parte dello Stato ucraino secondo il diritto internazionale[10]. Come conseguenza degli eventi crimeani, venne varato da parte del Consiglio dell’UE e dal Parlamento europeo il primo pacchetto di sanzioni economiche contro la Federazione Russa e contro la Repubblica autonoma di Crimea, periodicamente rinnovato[11]. In risposta alla crisi ucraina, sono state altresì intraprese altre misure diplomatiche, come la sospensione dei prestiti BEI e BERS alla Russia e la sua estromissione dal G8 (oggi G7, appunto).

 

I fattori attualmente ostativi al ripristino di uno spazio giuridico di cooperazione

Due possono quindi essere considerati i fattori che ostacolano la costruzione di un solido dialogo UE – Russia. La differenza di vedute in tema di diritti fondamentali e rule of law è sicuramente un grande fattore ostativo, ma non è l’unico. Ciò che ostruisce lo sviluppo di relazioni amichevoli sono i “nodi irrisolti” ascrivibili ai rapporti bilaterali fra molti Stati membri dell’UE di “recente” ingresso e la Russia.

A ben vedere, infatti, negli scorsi decenni il dialogo era proseguito semplicemente aggirando il primo ostacolo e concentrandosi sui vantaggi di natura economica della cooperazione. Chiaramente, a fonte di talune vicende recenti (come, ad esempio, il caso Navalny) la posizione dell’UE non avrebbe potuto che essere di forte condanna. Le sanzioni con cui il legislatore europeo ha colpito alcune persone fisiche e relativi patrimoni, coinvolte nel processo e nella detenzione del blogger sono un potente segnale di riaffermazione della posizione europea in materia di diritti fondamentali[12]. A ciò si aggiunga che la guerra di sanzioni in corso ormai dal 2014 mina dal profondo la percorribilità di un sentiero di collaborazione sereno, quantomeno nell’immediato. Va detto inoltre, che la situazione in Crimea (e, a fortiori, della Crimea) non può che permanere come fattore ostativo. L’UE infatti continua a ritenerla suolo ucraino, mentre per la Russia, ormai da sette anni, quello crimeano è territorio soggetto alla sovranità di Mosca. Ancora, la posizione dell’Ucraina, in bilico fra Europa e Russia, non può che essere un (altro) pomo della discordia, anche alla luce delle recenti tensioni militari (marzo-aprile 2021).

Da ultimo, ciò che preclude lo sviluppo di positive relazioni russo-europee riguarda, nello specifico, i cattivi rapporti bilaterali fra la Russia e alcuni Paesi membri della UE. Peculiare risulta in primis la posizione (controversa) della Germania. Pur essendo il Paese UE maggiormente impegnato nella promozione delle sanzioni economiche contro Mosca e Sebastopoli, il governo di Berlino trarrebbe molti benefici dalla (prossima) conclusione del gasdotto Nord Stream 2, che collegherebbe Vyborg con la Germania, quale canale di approvvigionamento del gas russo, nonostante le pressioni internazionali per arrestare il completamento dell’opera.

In secondo luogo, la presenza di Stati ostili a Mosca in seno alla UE preclude la costruzione di un dialogo veramente positivo, fintanto che permarranno tensioni nelle rispettive relazioni bilaterali. A titolo esemplificativo, basti qui solo ricordare che alla scadenza del Pca nel 2007 la Polonia si oppose al suo rinnovo[13]. Inoltre, va considerata anche la posizione delle Repubbliche baltiche. In varia misura, la composizione etnica risente del passato sovietico, e ciò si comprende alla luce della percentuale di russi[14] che vivono entro i confini di tali Stati sul totale della popolazione residente al 2020 (24,8% in Estonia, 25,2% in Lettonia, 6% in Lituania). Dal momento che tali minoranze affrontano un trattamento palesemente discriminatorio posto in essere dalle amministrazioni dei Paesi di residenza, tale atteggiamento non può non costituire un ostacolo alla costruzione di solide relazioni Russia – UE, specie alla luce del fatto che non sempre le istituzioni europee hanno avuto cura di richiamare le Repubbliche baltiche al rispetto dei diritti fondamentali delle minoranze russe residenti entro i loro confini[15].

In chiusura, una postilla. Se la situazione dei rapporti russo-europei appariva oramai deteriorata per gli effetti del lungo protrarsi del conflitto nel Donbass e della mancata attuazione completa degli Accordi di Minsk del 2015, la situazione politica conseguente alle elezioni presidenziali in Bielorussia del novembre 2020 e la gestione delle conseguenti proteste ha aggiunto ulteriore distanza fra Mosca e Bruxelles. Ciò è dovuto da una parte al legame a doppio filo intercorrente fra Minsk e la Russia[16] e dall’altra alla risposta europea ai risultati elettorali in base ai quali il Presidente Lukashenko è stato riconfermato alla guida del Paese. Secondo l’UE, il procedimento elettorale è stato caratterizzato da brogli e questo ha portato all’adozione di ulteriori sanzioni, specialmente a carico di alti funzionari della Milizia (polizia) e della Commissione elettorale centrale di Minsk[17]. Insomma, ogni sanzione pare generare una risposta eguale e contraria e costituire, al tempo stesso, un colpo d’ascia contro un tronco ormai privato (per ora) di solide radici.

Informazioni

MARCHAND, P., La Russia in 100 mappe, LEG edizioni, Gorizia, 2016.

Servizio Studi del Senato della Repubblica italiana, XVI Legislatura, (a cura di) ALCARO R. – BRIANI V., Le Relazioni della Russia con la NATO e l’Unione Europea, n. 103, novembre 2008.

AA. VV., Servizio Affari Internazionali del Senato della Repubblica Italiana, L’Assemblea Parlamentare della NATO, n. 6, febbraio 2006.

[1] Basti qui ricordare che l’auspicio di una integrazione diretta, che abbracciasse tanto profili politici quanto economici, era e rimase a lungo una prospettiva solamente russa, condivisa da pochi Stati, come Armenia e Tagikistan. Molti membri intesero l’organizzazione in termini di cooperazione meramente economica, gelosi della indipendenza da poco conseguita. Va poi aggiunto che in molte occasioni i governi degli Stati aderenti non si ritennero vincolati da accordi o trattati adottati in senso alla CSI e che vi sono stati casi in cui i Parlamenti nazionali evitarono di ratificare trattati. Sul punto, cfr. P. MARCHAND, La Russia in 100 mappe, LEG edizioni, Gorizia, 2016, p. 126-127.

[2] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex%3A21997A1128%2801%29

[3] Servizio Studi del Senato della Repubblica italiana, XVI Legislatura, Le Relazioni della Russia con la NATO e l’Unione Europea, (a cura di) R. ALCARO – V. BRIANI, n. 103, novembre 2008, cit., p. 11.

[4] Le Relazioni, cit., p. 11.

[5] Ibidem.

[6] Sull’azione esterna dell’Unione Europea si rimanda ad un altro articolo pubblicato su DirittoConsenso: http://www.dirittoconsenso.it/2020/06/23/politiche-di-vicinato-unione-europea/ .

[7] In pratica, una sorta di pre-adesione alla Ue. Ivi, cit., p. 10. Cfr., anche,  P. MARCHAND, La Russia, cit., p. 115.

[8] Ibidem.

[9] Con il Trattato di adesione della Crimea alla Russia (Договор между Российской Федерацией и Республикой Крым о принятии в состав Российской Федерации Республики Крым) firmato nel Cremlino di Mosca il 18 marzo 2014 e ratificato dalla Duma di Stato il 20 marzo con un solo voto a sfavore.

[10] https://www.corriere.it/esteri/14_marzo_06/ucraina-diplomazia-lavoro-consiglio-ue-vertice-onu-8d432028-a511-11e3-8a4e-10b18d687a95.shtml

[11] Per una cronistoria delle sanzioni economiche, dalla loro adozione ad oggi, v. https://www.consilium.europa.eu/it/policies/sanctions/ukraine-crisis/history-ukraine-crisis/

[12] Regolamento di esecuzione (UE) 2021/371 del Consiglio del 2 marzo 2021 che attua il regolamento (EU) 2020/1998 relativo a misure restrittive contro gravi violazioni e abusi dei diritti umani; Decisione (PESC) 2021/372 del Consiglio del 2 marzo 2021 che modifica la decisione (PESC) 2020/1999 relativa a misure restrittive contro gravi violazioni e abusi dei diritti umani.

[13] Insieme alle Repubbliche baltiche e alla Svezia.

[14] Il dato tiene conto tanto dei titolari di cittadinanza russa quanto degli apolidi russofoni.

[15] Per un inquadramento dell’argomento, si rimanda a C. GIRONI, Essere russi nei Baltici: l’odissea di una minoranza “aliena”, in www.osservatoriorussia.it, 1 dicembre 2020.

[16] Un esempio di ciò è l’unione fra i due Stati (Союзное государство), siglata nel 1996 che dovrebbe essere prodromica ad una integrazione sempre più significativa tra le due realtà statali.

[17] Regolamento di esecuzione (UE) 2020/2129 del Consiglio del 17 dicembre 2020 che attua l’articolo 8 bis, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 765/2006 relativo a misure restrittive nei confronti della Bielorussia; Decisione di esecuzione (PESC) 2020/2130 del Consiglio del 17 dicembre 2020 che attua la decisione 2012/642/PESC relativa a misure restrittive nei confronti della Bielorussia.