Il reato di diffusione di materiale pedopornografico: quadro normativo di riferimento, analisi della disciplina e dell’evoluzione giurisprudenziale

 

La pornografia minorile: lo scenario normativo

Negli ultimi decenni sono moltiplicate le figure di reato volte allo sfruttamento sessuale, alla mercificazione e alla commercializzazione di materiale pornografico le cui vittime predesignate sono i minori di anni diciotto. Tali crimini hanno richiesto un sempre più pregnante intervento da parte del legislatore al fine di prevenire, tutelare e garantire gli infradiciottenni contro lo sfruttamento sessuale. Vi è un mercato clandestino che, tra l’altro, è capace di generare un notevole volume d’affari[1], servendosi di uno dei grandi vantaggi dati dalla rete internet: la possibilità di scambiare informazioni in modo veloce, riservato e per molti versi anonimo.

Come è noto, il reato di pornografia minorile è previsto dall’art. 600 ter c.p., introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 3 della legge n. 269 del 1998 e inserito nel Titolo XII, Capo III, tra i delitti contro la persona, nella specie quelli contro la personalità individuale.

Tale disposizione punisce:

  • al primo comma lo sfruttamento sessuale del minorenne in chiave pornografica, nonché l’induzione dello stesso a prendervi parte, il suo reclutamento e il profitto che ne deriva per l’agente;
  • al secondo comma il commercio del materiale pornografico, ove raggiunga un quantitativo tale di materiale venduto da potersi descrivere come un vero e proprio commercio;
  • al terzo comma, invece, si disciplina la diffusione di materiale pedopornografico e la diffusione di notizie atte all’adescamento di minori, mentre il comma quarto punisce “offre o cede ad altri, anche a titolo gratuito” il materiale pornografico “di cui al primo comma[2].

 

La diffusione di materiale pedopornografico, il comma 3 dell’art. 600 ter c.p.

Tanto premesso, è interessante notare come le condotte di diffusione di materiale pedopornografico trovino terreno particolarmente fertile proprio nella trasmissione attraverso la rete internet e, in particolare, per mezzo dei programmi di file sharing[3]. In questa prospettiva, al fine di colpire tali condotte, il legislatore ha introdotto – in via sussidiaria rispetto alle ipotesi di cui ai due commi precedenti – la fattispecie di cui al comma 3 dell’art. 600 ter c.p. Quest’ultima punisce chiunque “con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza il materiale pornografico di cui al primo comma, ovvero distribuisce o divulga notizie o informazioni finalizzate all’adescamento o allo sfruttamento sessuale di minori degli anni diciotto[4].

Va ribadito che la fattispecie criminosa, collocata tra i delitti contro la personalità – infatti per sfruttamento sessuale del minore si intende una nuova figura di riduzione in schiavitù funzionale allo sfruttamento, anche economico, del soggetto infradiciottenne[5] – è stata introdotta dalla legge n. 269 del 1998. Tuttavia, bisogna attendere la legge n. 172 del 2012 perché il legislatore dia una definizione di pornografia minorile che attualmente, ex comma 7 dell’art 600 ter c.p., è intesa come “ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto per scopi sessuali”.

In tale prospettiva, appare evidente il bene giuridico tutelato dalla norma, ovvero l’interesse al sano e corretto sviluppo della persona del minore, alla sua crescita sia fisica che psichica, nonché spirituale, morale e sociale. In altri termini, la norma è volta a tutelare la personalità del minorenne, nella consapevolezza che si tratta di una personalità in fieri, ovvero in via di sviluppo e formazione, tale per cui richiede un’attenzione particolare da parte del legislatore. Va da sé, a maggior ragione, che il reato in esame sia da considerarsi plurioffensivo, ovvero posto a tutela anche della dignità umana del minorenne medesimo[6].

La condotta incriminata dal comma 3 dell’art. 600 ter c.p. consiste nel mettere a disposizione il materiale pedopornografico a un numero indeterminato o comunque rilevante di persone, laddove il gruppo sia di per sé determinato, in modo tale che l’oggetto materiale del reato risulti sottratto alla sfera di disponibilità del reo. Quest’ultimo, infatti, per effetto della divulgazione del materiale si trova nella condizione di non poter esercitare alcun tipo di controllo sull’ulteriore diffusione del materiale pedopornografico[7].

 

L’ambito di applicazione e i programmi di file sharing

A ben vedere, il nuovo mondo digitale, le evoluzioni tecnologiche e informatiche susseguite nel corso dei decenni influenzano in modo decisivo e agevolano la realizzazione e l’incrementarsi di condotte sempre più sofisticate ed efferate tale per cui la rete assurge oggi a strumento privilegiato per la loro commissione. Pertanto, i fenomeni criminosi in questione non si possono comprendere senza riflettere sul ruolo che il mezzo informatico ha avuto e ha nella loro rapida evoluzione ed allarmante diffusività.

Più precisamente, nel caso di diffusione di materiale pedopornografico tramite la rete internet, l’ambito di applicazione del comma 3 dell’art. 600 ter c.p. potrà individuarsi accertando, nel caso concreto, la tipologia di comunicazione prescelta: laddove permetta un accesso al materiale a un numero indeterminato di destinatari, c.d. “aperta”, si avrà un’autentica divulgazione. Come ben noto, ciò avviene proprio mediante il ricorso a programmi di file sharing, oppure mediante il caricamento del materiale su un sito web.

 

La prova del dolo nella condotta di diffusione di materiale pedopornografico

Quanto, poi, alla configurabilità dell’elemento soggettivo richiesto dall’art. 600 ter c.p., la norma è stata oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali che, di fatto, ne hanno determinato un vero e proprio revirement giurisprudenziale.

Se da un lato è chiaro come il mero utilizzo di software e programmi di file sharing sia idoneo a configurare l’elemento oggettivo della fattispecie criminosa, in quanto tali programmi permettono concretamente la diffusione incontrollata del materiale pedopornografico, d’altro canto bisogna chiedersi se sia sufficiente il mero utilizzo consapevole di tali strumenti perché si giudichi sussistente il reato.

Ciò, in quanto, il delitto in questione deve essere ricostruito, nei singoli casi concreti, giungendo a soluzioni che tengano conto delle effettive caratteristiche e delle concrete modalità di utilizzo dei programmi di file sharing da parte della massa degli utenti. In altri termini, bisogna evitare di coinvolgere soggetti che possano essere in piena buona fede, ovvero che possano non avere avuto nessuna consapevolezza di diffondere materiale illecito, limitandosi unicamente ad usufruire degli anzidetti programmi di condivisione.

In tale prospettiva, dunque, la Corte di cassazione ha più volte sottolineato come la sussistenza del reato di cui all’art. 600 ter, comma 3 c.p. debba essere esclusa nel caso di semplice utilizzazione di programmi di file sharing che comportino nella rete internet l’acquisizione e la condivisione con altri utenti dei files contenenti materiale pedopornografico, solo quando difettino ulteriori elementi indicativi della volontà dell’agente di divulgare tale materiale, anche sotto il profilo del dolo eventuale, desumibili dall’esperienza dell’imputato, dalla durata del possesso del materiale, dalla sua entità numerica e dalla condotta connotata da accorgimenti volti a rendere difficoltosa l’individuazione dell’attività[8]. Nello stesso senso, poi, la Corte ha sottolineato che il mero uso di un programma di file sharing per procurarsi dei file illeciti non è in grado, da solo, di integrare la fattispecie di divulgazione, esclusivamente in virtù del fatto che il materiale, mentre viene scaricato, è contestualmente e automaticamente messo a disposizione per l’upload ad altri utenti. Diversamente, infatti, si fonderebbe un’ipotesi di responsabilità oggettiva[9].

In senso opposto, invece, la Corte di cassazione ha ritenuto configurabile il dolo generico del reato di divulgazione e diffusione di materiale pedopornografico – e non semplicemente della condotta di procacciamento e detenzione – nel fatto che l’agente navighi in internet senza limitarsi alla ricerca e raccolta di immagini e filmati di pornografia minorile tramite programmi di file sharing o di condivisione automatica, ma operi anche una selezione del materiale scaricato, inserendo i prodotti multimediali in apposite cartelle di condivisione distinte per oggetto[10].

In conclusione, per ritenersi integrata la fattispecie di cui all’art. 600 ter, comma 3 c.p. non è sufficiente la realizzazione della condotta materiale, ma è richiesta anche la precisa adesione psicologica alla stessa.

Ciò, è imposto necessariamente da un’interpretazione costituzionalmente orientata del sistema penale, ove l’art. 27, comma 1 Cost., nel momento in cui richiede l’ascrizione della responsabilità per fatto proprio e colpevole, esclude che nei confronti di eventi non riconducibili alla sfera rappresentativa e volitiva dell’agente possa essergli mosso un rimprovero. Pertanto, in relazione all’ipotesi in esame, deve essere provata la specifica volontà di diffondere il materiale incriminato[11].

 

L’art. 600 ter c.p. in breve

In definitiva, il reato di pornografia minorile è:

  • un delitto contro la persona, più di preciso contro la personalità individuale;
  • è un reato plurioffensivo;
  • la condotta incriminata dal comma 3 dell’art. 600 terp. consiste nel mettere a disposizione il materiale pedopornografico a un numero indeterminato o comunque rilevante di persone;
  • la giurisprudenza, al fine di integrare la fattispecie di divulgazione, richiede la precisa adesione psicologica dell’agente alla condotta materiale.

Informazioni

A legal perspective on trust, control and privacy in the context of sexting among children in Europe, Journal of Children and Media, 2019.

F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte Speciale, vol. I, Giuffrè, 2008.

F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte speciale I, Cedam, 2011.

https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/3671-la-prova-del-dolo-nella-condotta-di-divulgazione-o-diffusione-di-materiale-pedopornografico-mediant.

https://dpc-rivista-trimestrale.criminaljusticenetwork.eu/pdf/DPC_Riv_Trim_2_2019_rosani.pdf.

https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2015/07/Diffusione-di-materiale-pedopornografico_2013meazza-1.pdf.

https://www.quotidianogiuridico.it/documents/2020/01/07/l-evoluzione-giurisprudenziale-del-reato-di-pornografia-minorile.

https://www.sistemapenale.it/it/scheda/cassazione-5522-2020-selfie-pornografici-600-ter#_ftn3.

L. PICOTTI, Commentario delle norme contro la violenza sessuale e contro la pedofilia, a cura di Cadoppi, sub art. 600-ter comma 3 c.p., CEDAM, 2002.

L. STILO, L’influenza delle nuove tecnologie informatiche sull’originale archetipo “criminalità organizzata”, in Diritto della Gestione Digitale delle Informazioni, “Il Nuovo Diritto”, n. 4, 2003.

S. RICCI, File sharing e attività illecite, in AA.VV., Diritto dell’internet e delle nuove tecnologie informatiche, a cura di Cassano e Cimino, Cedam, 2009.

[1] https://www.commissariatodips.it/notizie/articolo/tiriamo-le-somme-di-unintensa-attivita-lavorativa-ci-consente-di-verificare-i-risultati-ottenuti/index.html.

[2] La disciplina recepisce quattro importanti atti di diritto internazionale ed europeo: il protocollo opzionale alla Convenzione ONU concernente la vendita, la prostituzione e la pornografia rappresentante bambini, adottato nel 2000; la decisione quadro 2004/68/GAI del Consiglio dell’Unione europea volta alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e contro la pornografia infantile; la Convenzione del 2007 del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale c.d. Convenzione di Lanzarote; la direttiva 2011/93/UE relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile.

[3] Per file sharing si intende la condivisione (dall’inglese, “share”) di file all’interno di una rete di computer collegati tra loro, che comporta appunto una messa in condivisione di risorse attraverso una rete client-server oppure peer-to-peer tramite software client per lo scambio di file. In sostanza, il file sharing è quel sistema che permette a più utenti (o “nodi”) di un’architettura logica di rete informatica di condividere tra loro e all’interno di tale medesima piattaforma diversi file. Sul punto, v. S. RICCI, File sharing e attività illecite, in AA.VV., Diritto dell’internet e delle nuove tecnologie informatiche, a cura di Cassano e Cimino, Cedam, 2009, p. 60.

[4] Sul punto, v. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte Speciale, vol. I, Giuffrè, 2008, p. 176.

[5] Per approfondire sul turismo sessuale a danno di minori v. http://www.dirittoconsenso.it/2019/03/01/contrastare-il-turismo-sessuale-a-danno-di-minori/.

[6] Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte speciale I, Cedam, 2011, p. 440 ss.

[7] L. PICOTTI, Commentario delle norme contro la violenza sessuale e contro la pedofilia, a cura di Cadoppi, sub art. 600-ter comma 3 c.p., CEDAM, 2002, p. 185 ss.

[8] Cass. pen., Sez. III, sentenza 26 marzo 2018, n. 14001.

[9] Cass. pen., Sez. II, sentenza 2 dicembre 2013, n. 47820.

[10] Cass. pen., Sez. III, sentenza 12 settembre 2018, n. 40437.

[11] Per ravvisare l’elemento soggettivo del reato è necessaria la prova di una volontà consapevole del soggetto diretta a divulgare o diffondere il file, come potrebbe aversi, ad esempio, quando il soggetto, dopo averlo completamente scaricato, abbia volontariamente inserito o lasciato il file in una cartella contenente i file destinati alla condivisione (salvo eventuale ignoranza del contenuto illecito del file che a lui appaia con un titolo falso). Quando manchi questa prova di una specifica volontà di divulgazione, potrà presumersi solo una volontà corrispondente al comportamento che il soggetto in concreto abbia tenuto, ossia normalmente una volontà di scaricare, ossia di procurarsi il file (art. 600-quater c.p.) e non anche una volontà di diffonderlo. Inoltre, non sono “sufficienti presunzioni del tutto generiche o frasi di stile, come quelle che il soggetto conosceva il funzionamento del programma, giacché tale conoscenza non implica necessariamente anche una volontà di diffondere. Occorre invece valutare il comportamento tenuto in concreto dal soggetto (eventualmente attraverso l’esame dell’apposito file su cui vengono registrate tutte le azioni svolte o la rivelazione della percentuale del file detenuto al momento dell’accertamento della polizia), come ad esempio la circostanza che il soggetto sia solito trasferire in altra cartella o in altro supporto i file completati o invece sia solito inserirli nella cartella dei file posti in condivisione“. Cfr. Cass. pen., Sez. III, sent. 31 agosto 2012, n. 33574.