Sebbene vi sia uno stretto rapporto fra imprese multinazionali e danni ambientali, impedimenti di natura giuridica prevengono lo sviluppo di un quadro regolatorio vincolante nel diritto internazionale direttamente applicabile a tali società

 

Imprese multinazionali e danni ambientali: una prospettiva storica

La questione della responsabilità delle imprese multinazionali per danni ambientali trae le sue radici nell’epoca del colonialismo europeo, durante il quale le società commerciali inglesi e danesi occuparono una posizione di primo piano nei territori d’oltremare: di fatto, fornire assistenza alla madrepatria nell’amministrazione delle colonie permise a tali compagnie di avere accesso alle immense ricchezze naturali dei nuovi insediamenti europei e, di conseguenza, di sfruttarne le risorse ambientali e il capitale umano in condizioni estremamente vantaggiose[1].

Durante il periodo dell’industrializzazione, ad un aumento dell’attività economica è corrisposta una più stretta corrrelazione fra multinazionali e danni ambientali le risorse naturali si rivelarono infatti la principale fonte necessaria ai processi industriali, risultando tuttavia in un maggiore inquinamento atmosferico e in un consumo di materie prime senza precedenti[2].

Allo stesso modo, le multinazionali si sono imposte come solidi attori internazionali nel mondo dell’economia e della finanza, sia in quanto motori della globalizzazione, sia come risultato diretto di tale fenomeno: in particolare, la fine della Seconda Guerra Mondiale e la conseguente ondata di decolonizzazione hanno segnato un punto di svolta negli equilibri internazionali, tanto da portare un numero crescente di Stati appena indipendenti ed accomunati da una condizione comune di arretratezza economica e sociale – il cosiddetto “Terzo Mondo” – a rivendicare un Nuovo Ordine Economico Internazionale[3] all’interno dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e, allo stesso tempo, la propria sovranità permanente sulle risorse naturali localizzate sul proprio territorio, che continuavano ad essere sfruttate dalle società estere con sede nei paesi cosiddetti “sviluppati” nonostante il compimento del processo di decolonizzazione a livello formale[4].

 

Il modello economico neoliberista e le imprese multinazionali

Allo stesso tempo, tuttavia, le imprese multinazionali si sono affermate come motori fondamentali della trasformazione sociale di tali paesi, con un impatto senza precedenti a livello politico, economico ed ambientale: tali compagnie divennero di fatto i principali vettori per i trasferimenti di tecnologie ed altresì un canale fondamentale per gli investimenti diretti esteri, tanto da portare i paesi ospiti ad una “corsa verso il basso” volta a sedurre le società straniere offrendo le migliori condizioni in termini di manodopera a basso costo, esenzione totale o parziale dalla tassazione e, in maniera più rilevante, una regolazione ambientale meno stringente[5]. Tale tendenza fu altrettanto favorita dall’adozione di un approccio economico neoliberista, attraverso il quale gli Stati accolsero con entusiasmo l’ideologia del mercato libero con il supporto delle principali istituzioni finanziarie come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio[6].

La delocalizzazione dei processi produttivi si è tradotta inoltre in una maggiore inclinazione delle multinazionali a provocare una serie di esternalità negative particolarmente dannose per lo stato di salute degli ecosistemi naturali, tra cui:

  • l’inquinamento marino ed atmosferico,
  • lo sfruttamento di risorse non rinnovabili,
  • il movimento transfrontaliero di materiali pericolosi,
  • l’inquinamento da petrolio e, da ultimo,
  • la deforestazione[7].

 

Attualmente, si stima che più della metà delle emissioni di anidride carbonica siano provocate da attività dannose di imprese multinazionali, le quali sono a loro volta responsabili della maggior parte dei rifiuti tossici generati dal settore dell’industria chimica e manifatturiera.[8]

Ciononostante, il rapporto fra le multinazionali e danni ambientali ha assunto una natura progressivamente dualista: se da un lato tali società hanno consolidato una crescente tendenza alla degradazione ambientale conseguente ad attività dannose e alla scarsa considerazione per imperativi ambientali, dall’altro lato le risorse economico-finanziarie in loro possesso permetterebbero loro di sostenere i costi per l’innovazione e il miglioramento delle condizioni ambientali delle aree in cui vengono delocalizzati i processi produttivi[9].

 

Responsabilità ambientale e struttura delle multinazionali: questioni giuridiche

Nonostante la comunità internazionale sia impegnata nella definizione di un quadro giuridico vincolante da più di quarant’anni, numerosi impedimenti legati alla struttura delle società multinazionali e alla loro controversa natura giuridica nel diritto internazionale hanno precluso lo sviluppo di una regolazione omogenea e direttamente applicabile all’impresa che ha perpetrato la condotta ambientale illecita.

In primo luogo, le multinazionali sono create come entità giuridiche sulla base del diritto interno di un determinato Stato; ciononostante, la struttura economica e giuridica di tali imprese si caratterizza per la pratica della delocalizzazione, attraverso cui le società trasferiscono i propri processi di produzione presso Stati terzi – la maggior parte dei quali paesi “in via di sviluppo”, in cui il costo della manodopera è inferiore, così come meno stringenti sono le legislazioni ambientali e gli standard di sicurezza. In particolare, la struttura multinazionale non include una singola impresa, bensì una società composta da più sussidiarie e filiali integrate sia secondo una struttura gerarchica -attraverso la costituzione di società controllate – sia mediante l’acquisizione di azioni o altre forme di titolarità di società con sede estera (i cosiddetti “Stati ospiti”)  rispetto al paese in cui ha sede la società madre (o Stato di origine)[10]. Allo stesso modo, l’integrazione di imprese indipendenti nelle catene di fornitura e distribuzione può derivare dalla stipulazione di contratti di agenzia, cooperazione, licenza o franchising, i quali mirano a massimizzare il profitto ed i guadagni degli azionisti.

Alla luce di ciò, l’impresa è multinazionale in quanto esiste un singolo piano economico, attuato tuttavia da un gruppo di più di centinaia di filiali e sussidiarie di nazionalità straniera, costituite secondo il diritto interno di paesi in cui la legislazione appare vantaggiosa per la società madre in termini economici, sociali ed ambientali[11]. L’unità economica risulta perciò in contrasto con la pluralità giuridica, e, di conseguenza, un’unica legge regolamentare che disciplini l’attività delle multinazionali così come un’unica corte competente rimangono assenti[12].

Di fatto, l’abilità degli Stati di legiferare e giudicare casi che coinvolgono attività illegali compiute da imprese multinazionali è vincolata e non va di pari passo con il carattere progressivamente transfrontaliero delle loro operazioni. Ciò costituisce peraltro una sfida cruciale in termini di giurisdizione dei tribunali tanto dello Stato d’origine quanto dello Stato ospite, che si trovano a dover giudicare casi concernenti illeciti ambientali perpetrati da multinazionali e verificatosi sul territorio di un paese estero.

Le multinazionali tendono inoltre a celare la propria struttura interna alla luce dei vantaggi apportati dal cosiddetto “velo societario”, ovvero la distinzione giuridica fra la società madre e le proprie sussidiarie e filiali. Ogni entità è infatti giuridicamente autonoma, e, di conseguenza, alla società capogruppo è consentito rimanere estranea alle relazioni di responsabilità che potrebbero generarsi a seguito di attività illecite commesse dalle sussidiarie[13]. La questione della personalità giuridica separata si spiega quindi con la possibilità che essa costituisca un minimizzatore di rischi per la società madre, la quale non sarà dunque ritenuta responsabile per eventuali violazioni compiute dalle proprie controllate, sebbene mantenga il controllo quasi completo su tali attività.

 

Verso lo sviluppo di un quadro regolatorio per la protezione dell’ambiente?

La stretta correlazione fra multinazionali e danni ambientali e la propensione a perpetrare attività dannose e pericolose per l’ambiente ha reso chiara la necessità di sviluppare un quadro normativo volto a limitare gli impatti negativi sugli ecosistemi e superare le strategie di crescita economica secondo principi di business as usual. A tal proposito, la possibilità concreta di una tale regolamentazione è stata dibattuta dalla comunità internazionale per più di quarant’anni, e, più recentemente, anche nell’ambito del diritto internazionale dell’ambiente[14]: nonostante ciò, un quadro vincolante nel diritto internazionale per l’attribuzione della responsabilità civile alle multinazionali in seguito a gravi danni ambientali risulta ancora assente, e pertanto non vengono imposti obblighi di natura ambientale direttamente in capo a tali società. Esistono infatti mere iniziative multi-partecipative e di natura volontaria il cui obiettivo appare quello di rilanciare un’attitudine maggiormente partecipativa ed una crescente trasparenza da parte delle imprese: esse includono, tra gli altri, codici di condotta non vincolanti e strumenti giuridici di soft law.

 

La responsabilità delle multinazionali nei vertici internazionali sull’ambiente

Il dibattito attorno alla formulazione di un trattato vincolante direttamente applicabile alle imprese multinazionali risale agli anni Settanta del secolo scorso: in particolare, nel 1974 una Commissione sulle Imprese Transnazionali fu creata in applicazione delle risoluzioni 1913(LVII) e 1908(LVII) del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, al fine di analizzare l’impatto di tali società sullo sviluppo economico globale e, da ultimo, vagliare la possibilità di redigere un codice di condotta[15].

Tuttavia, le divergenze tra paesi sviluppati ed in via di sviluppo condussero in primo luogo allo stallo ed in seguito al collasso delle negoziazioni nel 1992. Di fatto, il G77 – organizzazione intergovernativa delle Nazioni Unite che include la maggior parte dei paesi in via di sviluppo – sostenuto dal gruppo dei paesi socialisti, promosse un approccio incentrato sul potere dello Stato ospite di controllare le multinazionali con sede in paesi stranieri, in modo tale da evitare ogni potenziale abuso del loro potere economico e, al contempo, qualsiasi tipo di pressione politica sul governo locale.

Al contrario, i paesi occidentali – i principali esportatori di capitali – favorirono la protezione esclusiva degli investimenti esteri, guardando pertanto alla bozza di codice di condotta con scetticismo e temendo una possibile restrizione ai movimenti di capitali.[16] Alla luce della polarizzazione e dell’incompatibilità di tali posizioni, il codice non venne mai adottato.

Negli anni successivi, la necessità di un ruolo maggiormente proattivo delle imprese multinazionali nel campo della protezione ambientale venne discusso in seno alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano del 1972,[17] durante la quale l’inclusione di considerazioni ambientali all’interno dei processi decisionali delle imprese emerse come priorità.

Similmente, il dibattito sul ruolo della comunità degli affari nella tutela degli ecosistemi naturali si rinnovò vent’anni dopo, in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992: per la prima volta diplomatici, scienziati e rappresentanti del settore industriale sedettero ai tavoli negoziali fianco a fianco, discutendo in modo particolare a proposito della posizione delle imprese multinazionali rispetto al principio emergente dello sviluppo sostenibile. In ogni caso, l’“Earth Summit” fu considerato un’occasione mancata, dal momento che la dichiarazione finale di Rio non menzionò esplicitamente la precisa contribuzione delle multinazionali alla protezione delle risorse naturali.

Il progetto di un trattato vincolante per la responsabilità delle multinazionali in seguito a gravi danni ambientali si rivelò fallimentare anche in seguito alle negoziazioni portate avanti durante il Vertice Internazionale sullo Sviluppo Sostenibile di Johannesburg (2002), mentre l’emergere delle nuove teorie economiche legate alla green economy mitigarono considerevolmente l’attenzione per lo sviluppo di un quadro normativo vincolante per le multinazionali nel corso della Conferenza sullo Sviluppo Sostenibile tenutosi a Rio de Janeiro nel 2012.

 

Questioni aperte

Alla luce di ciò, sebbene il coinvolgimento sistemico delle società multinazionali in condotte ambientali illecite richieda la presenza di un regime regolatorio appropriato e vincolante, la persistenza di numerosi ostacoli di natura giuridica ed un’effettiva mancanza di volontà politica da parte degli Stati continuano ad impedire lo sviluppo di un quadro normativo efficace ed effettivo per l’attribuzione della responsabilità alle imprese multinazionali nel diritto internazionale.

Informazioni

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[1] S. R. RATNER, Corporations and Human Rights: a Theory of Legal Responsibility, The Yale Law Journal, Vol. 111, No. 3, 2001, pp. 452-453.

[2] M. EWING-CHOW, D. SOH, The Evolution of Enwironmental Law and the Role of Multinational Corporations, Indiana Journal of Legal Studies, Vol. 16, No.1, 2009, p.200.

[3] UNITED NATIONS GENERAL ASSEMBLY, Declaration on the Establishment of a New International Economic Order, A/RES/3201(S-VI), 9 Maggio 1974. Disponibile al link: https://digitallibrary.un.org/record/218450 (ultimo accesso 08.01.22).

[4] D. IGLESIAS MARQUEZ, The scope of codes of conduct for corporate environmental responsibility, Revista Catalana de Dret Ambiental, Vol.6, No 2, 2015, p.3.

[5] M. MONSHIPOURI, C.E. WELCH, E.T. KENNEDY, Multinational Corporations and the Ethics of Global Responsibility: Problems and Possibilities, Human Rights Quarterly, No. 25, 2003, pp. 972.

[6] F. MARRELLA, Protection internationale des droits de l’homme et activités des sociétés transnationales, Recueil des cours de l’Académie de Droit International de la Haye, vol.385, Leiden-Boston, Massachussets (USA), Brill/Nijhoff, 2017, pp. 49-53.

[7] M. FITZMAURICE, D.M. ONG, P. MERKOURIS, Research Handbook on International Environmental law, Celtenham, UK, Edward Elgar Publishing, 2010, p. 304.

[8] M. KOENIG-ARCHIBUGI, Transnational Corporations and Public Accountability, Government and Opposition, Vol.39, No.2, 2004, p. 244.

[9] A tal proposito, “Transnational corporations can play a critical role in a sustainable managed world or serve as major impediment to this transition”, ovvero “le imprese transnazionali possono avere un ruolo fondamentale nella gestione sostenibile del mondo, oppure fungere da principale impedimento verso tale transizione”. H. GLECKMAN, Transnational corporations’ Strategic Responses to Sustainable Development. In H.O. Bergenses, G. Parmann and O.B. Thommessen, Green Globe Yearbook of International Cooperation on Environment and Development, Oxford, Oxford University Press, 1995, pp.93-106.

[10] A. BONFANTI, Imprese multinazionali, diritti umani e ambiente. Profili di diritto internazionale pubblico e privato, Milano, Giuffré Editore, 2012, p. 2.

[11] F. MARRELLA, op. cit., p. 53.

[12] G. PERONI, C. MIGANI, La responsabilità sociale dell’impresa multinazionale nell’attuale contesto internazionale, IANUS n.2, 2010, pp. 6-7.

[13] A. DE JONGE, Transnational Corporations and International law. Accountability in the Global Business Environment, Cheltenham, UK, Northampton, MA, USA, Edward Elgar Publishing, 2011, p. 83.

[14] E. MORGERA, Benefit-sharing as a bridge between the Environmental and Human Rights Accountability of Multinational Corporations, Edinburgh School of Law Research Paper No. 2014/13, 2014, p. 4.

[15] UNITED NATIONS COMMISSION ON TRANSNATIONAL CORPORATIONS, Proposed Text of the Draft Code of Conduct on Transnational Corporations, UN Doc. E/1990/94, 12 giugno 1990.

[16] UNITED NATIONS COMMISSION ON TRANSNATIONAL CORPORATIONS, Information Paper on Negotiations to Complete the Code of Conduct on Transnational Corporations, UN. Doc. E/C.10/1983/S/2, 4 January 1983. Disponibile al link: https://digitallibrary.un.org/record/43903 (ultimo accesso 12.01.22).

[17] A. FEDERICO, Un’introduzione al diritto internazionale dell’ambiente, DirittoConsenso, 11 gennaio 2022. Disponibile al link: http://www.dirittoconsenso.it/2022/01/11/unintroduzione-al-diritto-internazionale-dellambiente/ (ultimo accesso 13.01.22).