Storia del diritto di voto, analisi dell’articolo 48 della Costituzione e modalità di votazione per i detenuti

 

Un po’ di storia

1861. È da qui che inizia il viaggio del diritto di voto. Dal 27 gennaio al 3 febbraio di quell’anno, ricordato anche dagli studenti meno diligenti per l’Unità d’Italia, si votò per la prima legislatura del Regno d’Italia.

La nascita di tale diritto fu accompagnata da condizioni, vincoli e barriere. In origine, la facoltà di votare era riconosciuta solo agli uomini alfabeti di età superiore a venticinque anni, che pagavano un certo ammontare di tasse ogni anno.

Nel 1882 qualcosa cambiò: il Parlamento estese il diritto di voto anche alla media borghesia e il limite di età fu abbassato a ventuno anni.

Qualche tempo dopo, la legge 666/1912, approvata dal quarto governo Giolitti, sostituì la legge Zanardelli del 1882 e introdusse il suffragio universale maschile. Furono introdotte delle differenze tra maggiori e minori di trent’anni. I primi potevano votare senza dover dimostrare il rispetto di alcuna condizione. I ragazzi maggiorenni (cioè che avevano compiuto i ventuno anni), ma di età inferiore a trenta, invece, potevano esercitare il diritto solo se dimostravano di:

  • aver conseguito la licenza elementare inferiore;
  • aver prestato il servizio militare;
  • aver pagato un’imposta diretta annuale di almeno 19,80 lire.

 

209 contrari, 48 favorevoli, 6 astenuti: con questi numeri la Camera respinse con votazione per appello nominale la concessione del voto alle donne.

Durante il governo Orlando venne approvata la legge n. 1985/1918 che estese il suffragio a tutti i cittadini maschi di età superiore a ventuno anni e a tutti coloro che avessero prestato il servizio militare durante la Prima guerra mondiale, purché avessero compiuto il diciottesimo anno di età. Inoltre, con la legge 1401/1919 venne introdotto il sistema proporzionale, fortemente voluto dalle forze politiche d’ispirazione socialista e cattolica.

 

E le donne?

Donne tutte sorgete! Il vostro primo dovere in questo momento è di chiedere il voto politico” scriveva la pedagogista Maria Montessori nel 1906.

Il 10 marzo di quarant’anni dopo, a seguito della pressione da parte di Togliatti e di De Gasperi, le donne italiane vennero chiamate alle urne per la prima volta, in occasione delle prime elezioni amministrative in 436 comuni del centro-nord. Furono così investite di una responsabilità sino ad allora estranea e iniziarono a costruirsi un futuro nuovo, emancipato. Restavano escluse solo le minori di ventuno anni e le prostitute.

A partire dall’anno successivo, ebbero la possibilità di essere elette, oltre che di eleggere.

Poi arrivò il 2 giugno 1946, la data in cui tutti i cittadini italiani furono chiamati a scegliere quale forma dare allo Stato nascente sulle macerie della guerra e del fascismo e ad eleggere l’Assemblea Costituente. Il voto del 2 giugno è ricordato come “il voto senza rossetto”.

Al seggio meglio andare senza rossetto alle labbra. Siccome la scheda deve essere incollata e non deve avere alcun segno di riconoscimento, le donne nell’umettare con le labbra il lembo da incollare potrebbero, senza volerlo, lasciarvi un po’ di rossetto e in questo caso rendere nullo il loro voto. Dunque, il rossetto lo si porti con sé per ravvivare le labbra fuori dal seggio” fu la raccomandazione apparsa sul Corriere della Sera.

E così, senza alcuna tinta sulle labbra e con l’abito delle grandi occasioni, milioni di donne in tutta la penisola, nelle grandi città industriali del nord come in quelle del sud, nei piccoli centri agricoli e nelle comunità montane, si recarono ai seggi desiderose di lasciare il loro segno, quella crocetta sulla scheda che stringevano come fosse un biglietto d’amore, e di colloquiare con gli uomini con un tono diverso, finalmente alla pari.

 

Dalla Nuova Zelanda all’Arabia Saudita

Oggi vi propongo una legge che dovrebbe permettere alle donne di votare e di essere elette in questo Parlamento”. Furono queste le parole pronunciate dalla ventiquattrenne Meri Mangakahia il 18 maggio 1893 davanti al Parlamento degli indigeni maori in Nuova Zelanda. E fu grazie a queste parole che, poche settimane dopo, questo divenne il primo Paese al mondo a introdurre il suffragio femminile.

Alla Nuova Zelanda seguirono, l’Australia, la Finlandia, la Norvegia, fino al più grande e potente Stato arabo dell’Asia occidentale, l’Arabia Saudita, che ha concesso il diritto di voto alle donne solo nel 2015.

Ma la strada da percorrere per giungere ad una vera uguaglianza in tutto il mondo è ancora molto lunga.

Allah mette al bando l’alcool ma non la schiavitù: evidentemente ha le sue priorità” è la frase che è stata pubblicata nel dicembre 2020 dall’account Twitter “Free from religion”.  La schiavitù a cui allude è quella delle donne. In Arabia Saudita il voto per il gentil sesso non è un diritto, è una corsa ad ostacoli, è una strada impervia. Per votare è necessario essere accompagnate al seggio da un uomo, per cui basta l’indisponibilità dei maschi della famiglia per rendere impossibile esercitare il diritto. Anche per il rilascio del documento necessario per votare serve il benestare dei familiari di sesso maschile. Ed è a causa di queste regole insensate che nel 2015 solo meno del 10% dell’intero corpo elettorale femminile si registrò agli uffici per votare.

 

L’articolo 48 della nostra Costituzione

L’articolo 48 della Costituzione italiana sancisce il suffragio universale, un principio fondamentale dell’ordinamento italiano, ovvero il diritto a partecipare alle elezioni conferito a tutti i cittadini maggiorenni, uomini e donne, che ha segnato il passaggio dallo Stato liberale alla moderna democrazia costituzionale.

I due requisiti positivi per l’esercizio del diritto di voto, quindi, sono:

  • la cittadinanza italiana[1]: sono perciò esclusi gli apolidi e gli stranieri, ma è consentito ai cittadini dell’UE residenti in Italia di votare per le elezioni amministrative e per quelle del Parlamento europeo, purché presentino l’espressa richiesta in comune al fine di essere iscritti nell’apposita lista elettorale aggiuntiva;
  • la maggiore età: grazie alla legge costituzionale 1/2021 l’elettorato attivo per il Senato della Repubblica è stato uniformato a quello già previsto per la Camera dei deputati (art. 56 Cost.), eliminando così l’unica differenza che intercorreva tra i due rami parlamentari.

 

Il diritto di voto è un “dovere civico”, come sottolineato dal comma 2, cioè un dovere di chi vuol essere un buon cittadino e partecipare alle sorti del Paese, ma comunque, libero nell’esercizio. Pertanto, la scelta di non recarsi alle urne non è sanzionata. L’astensionismo è ammesso e ogni cittadino ha la facoltà di decidere se votare o no, se lasciare la scheda in bianco oppure esprimere la sua preferenza.

La disposizione esclude il voto per procura, cioè la possibilità che un individuo deleghi a un altro il suo esercizio, e il voto plurimo, ovvero l’eventualità che il voto di un soggetto abbia un valore numerico superiore a quello di un altro in virtù dei suoi requisiti soggettivi.

Il comma 2 dell’articolo 48 Cost., afferma che il voto è:

  • personale: deve, quindi, essere espresso in prima persona. I non vedenti possono farsi assistere da un accompagnatore preferibilmente scelto tra i propri familiari; gli italiani residenti all’estero, invece, possono esercitare il diritto di voto per corrispondenza;
  • eguale: tutti i voti espressi hanno uguale peso e valore, anche quello degli ex delinquenti o di chi persegue i propri interessi;
  • libero: nessuno può costringere o corrompere una persona a votare per un determinato candidato;
  • segreto: il voto è davvero libero quando nessuno può venirne a conoscenza. Non è consentito portare il cellulare con sé nell’urna elettorale, nella quale non possono entrare altre persone oltre l’elettore. Le schede elettorali sulle quali è presente un segno di riconoscimento verranno annullate.

 

Limitazioni al diritto di voto

Ogni cittadino italiano maggiorenne è titolare del diritto di voto, purché non si trovi in una delle situazioni di incapacità elettorale previste dalla legge.

L’ultimo comma dell’art. 48 Cost. dispone che tale diritto possa essere limitato:

  • per incapacità civile: la legge 180/1878, però, ha eliminato dal nostro ordinamento ogni residua causa di limitazione del diritto di voto in tal senso; in precedenza erano esclusi dall’elettorato attivo i soggetti interdetti e gli inabilitati per infermità di mente. Il riconoscimento dei diritti politici anche alle persone con disabilità psichiche ha rappresentato un momento di maturazione e di progresso democratico e civile;
  • per effetto di sentenza penale irrevocabile: quando il giudice penale condanna un imputato con sentenza definitiva, cioè non più appellabile o ricorribile per Cassazione, egli potrebbe perdere il diritto di voto. Il codice penale regola la disciplina in maniera più analitica. Tutto dipende dalla gravità del reato commesso;
  • nei casi di indegnità morale indicati nella legge: si tratta di coloro che sono sottoposti a misure di prevenzione o di sicurezza detentive oppure condannati a una pena che importi l’interdizione dai pubblici uffici perpetua o temporanea, per tutto il tempo della sua durata.

 

I detenuti possono votare?

La risposta a tale quesito, come accade molto spesso quando si pone una domanda inerente al diritto, è “dipende”.

Alcune leggi elettorali, come quella inglese, escludono indiscriminatamente tutti i detenuti dall’esercizio del diritto di voto, senza distinzioni basate sulla durata dell’esecuzione della pena, sulla gravità del reato o sul tipo di pena da scontare. Nel nostro Paese, però, non è così. Tutto dipende dalla gravità del reato commesso e dall’entità della pena comminata.

Solo i condannati all’ergastolo o ad una pena superiore a cinque anni perdono definitivamente il diritto di voto.

Per i condannati ad una pena non inferiore a tre anni, invece, il diritto di voto è solo sospeso per cinque anni a partire dal momento del passaggio in giudicato della sentenza.

Inoltre, l’interdizione dai pubblici uffici, da cui deriva la privazione dell’elettorato attivo e passivo può essere comminata, indipendentemente dal quantum della pena, per specifici delitti individuati da disposizioni di parte speciale, tra i quali i crimini contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione dello Stato.

Tutti coloro che si trovano in stato di custodia cautelare o la cui sentenza non è ancora definitiva, invece, non perdono il diritto di votare.

La macchina amministrativa, però, è decisamente lenta e così l’Associazione Antigone, che salvaguardia i diritti dei detenuti, denuncia che solo un detenuto su dieci riesce effettivamente a votare.

Tutti coloro che desiderano esercitare tale diritto devono esprimere la loro volontà al comune nelle cui liste elettorali sono iscritti, non oltre il terzo giorno antecedente alla data della votazione, avvalendosi del supporto dell’Ufficio matricola del carcere. La dichiarazione deve indicare il numero della sezione alla quale l’elettore è assegnato, deve recare in calce l’attestazione del direttore dell’istituto comprovante la detenzione dell’elettore, e sarà onere del direttore inoltrarla al comune di destinazione. Una volta ricevuta la richiesta, il sindaco provvede a includere i nomi dei richiedenti in appositi elenchi che saranno consegnati, all’atto della costituzione del seggio, al presidente di ciascuna sezione, il quale prende nota sulla lista elettorale sezionale. Dopodiché, il sindaco deve procede al rilascio dell’attestazione di avvenuta inclusione negli elenchi.  Sarà onere del sindaco inviare al carcerato la sua tessera elettorale.

Gli artt. 8 e 9 della l. 23 aprile 1976, n. 136, prevedono la costituzione di un seggio elettorale speciale nel luogo di detenzione.

Informazioni

G. Zagrebelsky, V. Marcenò, Lineamenti di diritto costituzionale, Le Monnier Università, Milano, 2019 (terza edizione)

Pisaneschi, Diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2018

[1] Qui qualche curiosità in materia: La doppia cittadinanza – DirittoConsenso