Il tema della coltivazione di sostanze stupefacenti è particolarmente divisivo per la difficile individuazione in concreto delle condotte al di sopra della soglia di offensività
La fattispecie della coltivazione di sostanze stupefacenti
Ad intervalli di tempo torna ad affacciarsi sul dibattito pubblico il tema della coltivazione di sostanza stupefacenti e delle sue eventuali conseguenze penali. Il Testo Unico sulle Sostanze Stupefacenti (D.P.R. n. 309 del 1990) agli artt. 26 e 73 penalizza infatti la condotta di chi coltiva sostanze stupefacenti[1]. In vero, il legislatore ha scelto di condannare, oltre alle condotte di produzione, fabbricazione, estrazione, raffinazione, vendita, cessione, distribuzione, commercio, trasporto e consegna, anche ogni attività riconducibile ad una coltivazione non autorizzata di piante idonee a produrre le sostanze psicotrope di cui alla tabella allegata al testo normativo ed aggiornata periodicamente dal Ministero della Salute.
Secondo tale disciplina a livello astratto verrebbero punite tutte le condotte che riguardano l’intero ciclo biologico della pianta, comprese quelle prodromiche alla semina, quali la preparazione del terreno e la messa a dimora dei semi, e quelle volte a stimolare il processo produttivo come l’innaffiatura, la cura e la concimazione delle piante fino al momento della raccolta, il quale si ricongiunge poi alla successiva fase della produzione.
La Corte Costituzionale e la coltivazione di sostanze stupefacenti
Se però la disposizione legislativa sembrerebbe chiara e di agevole portata applicativa, come spesso accade, il confronto con le molteplici situazioni concrete pone numerosi interrogativi sulla loro riconducibilità alla fattispecie penale della coltivazione di sostanze stupefacenti. La giurisprudenza e la dottrina si sono pertanto interrogate più volte nel tempo su quando una condotta superi la soglia della punibilità.
Il tema quindi della coltivazione di sostanze stupefacenti pone la controversa questione dell’ammissibilità di situazioni che, pur astrattamente rispondenti al fatto tipico descritto dalla norma incriminatrice, siano in concreto prive di capacità lesiva del bene giuridico che l’ordinamento vuole tutelare. Numerosi sono infatti i casi nei quali i giudici di merito e di legittimità, arrivando talvolta a porre il quesito alla stessa Corte Costituzionale, si sono chiesti se dovessero essere punite delle condotte di coltivazione di sostanze stupefacenti aventi una percentuale modestissima di principio attivo non in grado di generare un effetto drogante o comunque ad uso meramente domestico.
Il Giudice delle leggi si è dunque trovato ad affrontare la questione già nel 1994, con la pronuncia n. 443, dichiarando inammissibile una questione di legittimità costituzionale relativa agli artt. 28, 72, 73 e 75 D.P.R. 309/1990, che era stata sollevata per la prospettata violazione dei principi di parità di trattamento e di ragionevolezza, nella parte in cui le disposizioni richiamate non escludevano la illiceità penale delle condotte di coltivazione o fabbricazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all’uso personale. Ma particolarmente significativa è stata la pronuncia n. 360 del 1995 con la quale la Corte Costituzionale ha chiarito in modo definitivo la portata applicativa dell’art. 73 T.U. Stupefacenti e la sua relazione con il principio di offensività.
Il principio di offensività secondo la Corte Costituzionale
Il caso riguardava infatti un individuo che coltivava 10 piantine di canapa indiana contenenti però un principio tossicologico nella misura dello 0,64%, quindi particolarmente modesto. Il Giudice delle leggi ha operato una disamina del principio offensività, di sovente richiamato nelle fattispecie appartenenti a tale categoria. Chiarita infatti la sua rilevanza costituzionale, la Corte ha ribadito come occorra distinguere tra il principio di offensività in astratto ed il principio di offensività in concreto. Mentre in verità la valutazione della prima accezione spetta al legislatore e alla stessa Corte Costituzionale, quella della seconda deve essere operata direttamente dal giudice di merito a cui è sottoposto il caso specifico.
Il principio di offensività in astratto nel reato di coltivazione di sostanze stupefacenti si basa dunque su un’analisi della potenziale capacità delle condotte descritte di mettere in pericolo il bene della salute pubblica. Solo qualora le ipotesi indicate nelle fattispecie legislative siano del tutto inidonee a questo si potrebbe parlare di incostituzionalità dell’art. 73 T.U. Proprio per tale motivo, il Giudice delle leggi conclude per l’infondatezza della questione ritenendo che “ove l’offensività sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta perché l’indispensabile connotazione di offensività di quest’ultima implica di riflesso che anche in concreto l’offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo”.
Non è quindi compito della Corte Costituzionale dichiarare l’incostituzionalità del reato di coltivazione di sostanze stupefacenti perché la fattispecie non è offensiva in astratto, ma è al contrario possibile per il giudice di merito trovare un modo di interpretare la disposizione in modo costituzionalmente orientato così da escludere dall’area del penalmente rilevante condotte astrattamente riconducibili alla norma ma in concreto inidonee ad offendere il bene giuridico protetto.
L’inoffensività della coltivazione di sostanze stupefacenti per uso personale
Nel corso del tempo la Corte Costituzionale è stata poi chiamata più volte a pronunciarsi sul punto, senza però apportare significative revisioni al proprio orientamento. È opportuno tuttavia segnalare una pronuncia più recente, la n. 109 del 2016, con cui ha dichiarato infondata una questione di legittimità in relazione all’art. 75 T.U. Stupefacenti per violazione dei principi di uguaglianza, ragionevolezza e offensività nella parte in cui questa non prevedeva che si degradasse a illecito amministrativo la condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti per mero uso personale. Tra le altre argomentazioni, la Corte si è concentrata sulla considerazione secondo la quale, alla luce anche dell’evoluzione giurisprudenziale, i beni tutelati dalla fattispecie siano plurimi: la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico, ma anche il normale sviluppo delle giovani generazioni. Da ciò ne consegue che la coltivazione di sostanze stupefacenti laddove finalizzata all’uso personale, poiché non prodromica all’immissione della droga sul mercato, risulterebbe inoffensiva in quanto radicalmente inidonea a ledere i beni giuridici sopra indicati.
Anche in tal caso però si tratta di un’opera esegetica che deve fare il giudice di merito alla luce dei principi costituzionali.
La Corte di Cassazione sulla coltivazione di sostanze stupefacenti: un primo orientamento
Allo stesso modo anche la giurisprudenza di legittimità si è trovata ad affrontare la questione della punibilità in concreto delle condotte di coltivazione di sostanze stupefacenti. Nel corso del tempo si sono sviluppati diversi orientamenti. Un primo orientamento più risalente in vero configurava il reato di coltivazione di sostanze stupefacenti come una fattispecie di pericolo astratto, secondo la quale dunque, il legislatore ha inteso punire qualsiasi condotta potenzialmente idonea a compromettere il bene giuridico in questione di rilevanza collettiva, e quindi considerato superiore, prescindendo da ogni accertamento concreto del giudice. Ciò comportava che, anche in presenza di un estremamente modica quantità di sostanza stupefacente sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo vi sarebbe stata punibilità ex art. 73 T.U. Stupefacenti. Tale principio di diritto è stato dunque espresso nella pronuncia n. 31472 del 2004, mentre con la decisione n. 150 del 2005 ha chiarito che l’integrazione dell’ipotesi di reato si ha anche quando l’uso della coltivazione è esclusivamente a fini personali, poiché la finalità domestica delle sostanze può escludere la punibilità solamente qualora sia accostate alle diverse condotte di detenzione, importazione ed acquisto.
La Corte di Cassazione sulla coltivazione di sostanze stupefacenti: un secondo orientamento
Un diverso orientamento, sintetizzato nella sentenza n. 35796 del 2007, ha invece ritenuto che la fattispecie sia stata costruita come un reato di pericolo concreto e dunque potrebbe non essere penalmente rilevante la presenza di un dato quantitativo estremamente ridotto e come tale non idoneo a mettere effettivamente a repentaglio il bene giuridico salvaguardato.
Tuttavia, anche questa seconda veduta, ad oggi quella di gran lunga prevalente, può essere suddivisa in due indirizzi principali.
- Da un lato vi è infatti chi sostiene che l’accertamento fatto in concreto dal giudice debba riguardare, non il principio attivo ricavabile, ma “la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente” (Cass. n. 22459/2013); tale interpretazione, sebbene forse più aderente al dato letterale finisce tuttavia per depotenziare la portata ermeneutica del principio di offensività. Alla luce di questo filone, dunque, vi rientrerebbero anche casi in cui il ciclo di maturazione non si sia ancora completato ma risulti verosimile che al termine dello stesso si produrranno quantità di prodotto avente effetto drogante, considerando che la scelta del legislatore di separare la condotta della coltivazione delle sostanze stupefacenti da ogni altra attività comporta un arretramento della tutela fin dalle prime fasi della piantagione.
- Il secondo filone, invece, più recente, ritiene che la punibilità non possa basarsi solamente sulla corrispondenza del tipo di coltivazione ad una di quelle indicate dalla normativa, ma che sia necessario accertare l’offensività in concreto, arrivando ad escluderla ogni qualvolta la sostanza ricavata o ricavabile non costituisca un pericolo diretto ed attuale per la salute pubblica. Si è così esclusa l’offensività in casi nei quali in cui, pur non essendo del tutto insignificante il quantitativo di piantagioni coltivate, il principio attivo ricavabile era trascurabile e non comportante alcun pericolo per i beni salvaguardati (Cass. 36037/2017).
Le SS. UU. Caruso sulla coltivazione delle sostanze stupefacenti
Negli ultimi anni ha rappresentato un importante punto di approdo la sentenza delle SS. UU. Caruso (Cass. n. 12348/2019).
Riprendendo delle argomentazioni già svolte dai giudici di legittimità nella decisione n. 2860/2008 (c.d. Di Salvia), la Corte ha voluto distinguere in maniera decisa il piano della tipicità da quello dell’offensività. Sul piano della tipicità si precisa la necessità di accertare la conformità del tipo di pianta ad una di quelle vietata, ed inoltre si esclude che la coltivazione di sostanze stupefacenti ad uso meramente personale possa essere equiparata alla differente condotta di detenzione. Piuttosto, secondo i giudici di legittimità, residuerebbe uno spazio di autonomia che porterebbe all’esclusione della rilevanza penale della coltivazione domestica che la distinguono tanto dalla depenalizzata attività di detenzione, quanto dalla più raffinata coltivazione tecnico – agraria. Tali indici individuati di carattere oggettivo sono:
- la prevedibilità della potenziale produttività;
- l’entità della coltivazione;
- le modalità di svolgimento (in forma domestica o industriale);
- la rudimentalità o meno delle tecniche utilizzate;
- il numero delle piante coltivate;
- la oggettiva destinazione del prodotto.
Inoltre, le SS. UU. Caruso, sotto il distinto profilo dell’offensività, hanno ribadito come sia compito del giudice, attraverso un accertamento ex post, valutare la concreta possibile lesione della salute pubblica.
Per cui, sebbene ai fini dell’integrazione del requisito della tipicità sia sufficiente la conformità della tipologia della coltivazione e la sua capacità di giungere a maturazione, vengono escluse da tale delimitazione tipica tutte quelle “attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.
Conclusione
Ciò che emerge è dunque un quadro legislativo pieno di incertezze interpretative e applicative a cui la giurisprudenza non può da sola dare una risposta definitiva. Si auspica dunque una più unitaria operazione esegetica da parte dei giudici di merito e maggiore chiarezza definitoria da parte dello stesso legislatore.
Informazioni
Fernanda Serraino, Il problema della rilevanza penale della coltivazione di piante da stupefacenti tra offensività e ragionevolezza, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.2, 1 giugno 2021, pag. 525
La coltivazione in forma domestica di sostanze stupefacenti per uso personale, in La coltivazione in forma domestica di sostanze stupefacenti per uso personale (diritto.it)
Coltivazione di stupefacenti e principio di offensività: giurisprudenza di legittimità e declinazioni concrete, in Coltivazione di stupefacenti e principio di offensività: giurisprudenza di legittimità e declinazioni concrete (questionegiustizia.it)
[1] In particolare, sull’art. 73 T.U. Stupefacenti si veda Art. 73 DPR 309/90: le condotte punite, in Art. 73 DPR 309/90: le condotte punite – DirittoConsenso.it, 5 maggio 2020.

Benedetta Brandimarti
Ciao, sono Benedetta. Mi sono laureata presso l'Università Bocconi di Milano discutendo una tesi in diritto processuale penale e attualmente frequento la Scuola di specializzazione per professioni forensi. La mia principale area di interesse è quella del diritto penale con un'attenzione particolare alla responsabilità amministrativa da reato ex d. Lgs. 231/2001.