Italia-Libia

Italia-Libia: il caso dei pescherecci mazaresi

La Convenzione di Montego-Bay e la diversa opinio iuris libica: come il rapporto Italia-Libia si è evoluto

 

Il trattato Italia-Libia del 2008

Il trattato Italia-Libia firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 è frutto di anni di negoziati tra i due governi al fine di instaurare una relazione di partenariato e cooperazione.

I rapporti tra i due Stati, infatti, giunsero ad un punto di rottura quando, dopo un bombardamento statunitense sulle città di Tripoli e Bengasi, la Libia lanciò un missile che cadde nelle acque adiacenti a Lampedusa. Da qui, diverse accuse di terrorismo internazionale portarono la Libia all’isolamento internazionale e, di conseguenza, ad essere destinataria di numerose sanzioni da parte del Consiglio di Sicurezza ONU, degli Stati Uniti e dell’Unione europea a partire dal 1992. Tali sanzioni vennero revocate tra il 2003 e il 2004, a seguito di una lettera che il Governo libico fece pervenire al Consiglio di Sicurezza in cui si impegnava a non partecipare ad alcun atto di terrorismo né alla costruzione di armi di distruzione di massa. Proprio nel Preambolo del trattato Italia-Libia viene riconosciuto il ruolo svolto dalla diplomazia italiana nel superamento dell’embargo.

In realtà il trattato è il culmine di altri accordi bilaterali Italia-Libia e di una serie di documenti politici in materia di turismo, protezione degli investimenti, cooperazione culturale, relazioni consolari[1].

Il Preambolo del trattato di Bengasi enfatizza i ruoli che Italia e Libia possono svolgere rispettivamente nell’ambito dell’Unione europea e dell’Unione Africana. Inoltre vi è “un’ammissione di colpa” da parte dell’Italia per il periodo di occupazione coloniale sul territorio libico[2].

Nel testo il trattato Italia-Libia fa spesso riferimento alla Carta delle Nazioni Unite, soprattutto in materia di uguaglianza sovrana, divieto assolto dell’uso della forza, non ingerenza negli affari interni, rispetto dei diritti umani.

Proprio tale ultimo riferimento alla tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, contenuto nell’art. 6, potrebbe rappresentare – come è accaduto nel caso della prigionia dei pescatori mazaresi – un punto di frizione nei rapporti Italia-Libia. La norma pattizia, infatti, ribadisce l’impegno ad agire in tal senso conformemente alle rispettive legislazioni, agli obiettivi e ai principi della Carta ONU e della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Il riferimento alle “rispettive legislazioni” prospetta un limite considerevole alla portata dell’obbligo, soprattutto da parte libica, vista l’instabilità di governo che interessa questo Stato e le continue violazioni di diritti umani perpetrate sul suo territorio.

La parte II e la parte III del trattato contengono disposizioni e strumenti per l’instaurazione di un solido partenariato italo-libico nel settore economico, commerciale, industriale ed energetico in uno spirito di leale collaborazione. Appare altrettanto rilevante l’art. 19 con il quale le due Parti si impegnano a collaborare nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico
di stupefacenti e all’immigrazione clandestina.

In definitiva l’obiettivo del trattato è quello di creare un regime giuridico ad hoc nei rapporti bilaterali Italia-Libia, i cui principi della parte I siano applicabili a qualunque situazione.

 

Il caso mazarese e il golfo di Sirte

Nel settembre scorso 18 persone, partite con i loro due pescherecci da Mazara del Vallo, sono state sottoposte a fermo da parte delle autorità di polizia libica, facenti capo al generale Haftar, con l’accusa di aver violato le acque territoriali della Libia[3]. Il caso mazarese involve tre questioni nei rapporti Italia-Libia:

  1. la linea di chiusura del Golfo della Sirte,
  2. la consuetudinaria presenza in acque libiche dei cittadini italiani che dovrebbe consentire loro un surplus di pescato,
  3. il riconoscimento diplomatico da parte dello Stato italiano del Governo di Haftar.

 

In ordine alla prima questione, sin dagli anni ’80, la Libia rivendica il Golfo della Sirte come baia storica: l’allora regime Gheddafi, con un atto inviato alle Nazioni Unite[4], lo riconosce sotto la completa sovranità nazionale avendo riguardo di tutti gli aspetti legislativi, amministrativi, giurisdizionali, compresi ovviamente quelli inerenti alla navigazione marittima e allo sfruttamento delle risorse sottomarine. Questo statement libico, dunque, produce effetti anche rispetto ai confini delle zone economiche esclusive di Malta, Grecia e Italia. Esso è stato oggetto di contestazioni da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea mancando, però, obiezioni individuali sollevate dall’Italia.

L’accusa nei confronti dei pescatori di Mazara del Vallo trova il fondamento, da parte libica, in una Convenzione stipulata tra Libia e Turchia nel 2019 che prevede l’estensione della Zona Economica Esclusiva da 12 a 24 miglia. Ma a tale rivendicazione si può eccepire l’art. 34 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 (che codifica una norma di diritto internazionale generale di uguale contenuto), ai sensi del quale un accordo internazionale non produce né diritti né obblighi nei confronti degli Stati terzi, se non previo consenso di questi ultimi. Inoltre, l’Italia – insieme a Malta – avrebbe potuto partecipare a pieno titolo ai negoziati in qualità di Stato costiero controinteressato: in ragione dell’art. 62, par. 3 della Convenzione di Montego-Bay, il governo italiano avrebbe potuto ottenere l’accesso ai surplus di pesca, in quanto i propri cittadini esercitano abitualmente la pesca nella zona. Appare, però, a tal fine, più facilmente raggiungibile un accordo tra le associazioni private dei due Stati piuttosto che un accordo Italia-Libia, date le ferme posizioni assunte negli anni dal Governo della seconda in materia di ZEE.

La vicenda dei pescatori di Mazara del Vallo si è conclusa con esito positivo dopo 108 giorni di prigionia, a seguito di un negoziato – quale mezzo di risoluzione diplomatica delle controversie ex art. 33, par. 1 Carta ONU[5] – intavolato tra il Governo italiano e quello di Accordo Nazionale libico. Il culmine è stato raggiunto il 17 dicembre scorso, quando il Presidente del Consiglio e il Ministro degli Affari Esteri italiani si sono recati personalmente a Bengasi per concordare i termini della liberazione con il generale Haftar. È noto ai più il complesso contesto governativo in cui si trova la Libia dopo la guerra civile del 2011, che vede una continua pretesa di sovranità da parte di Al-Serraj, da un lato, e di Haftar, dall’altro. A prescindere dal contenuto del colloquio del 17 dicembre 2020, è parsa la volontà italiana di dare inizio a relazioni diplomatiche anche con il secondo, riconoscendo così la sovranità di Haftar sulla Cirenaica, regione orientale della Libia. Seppur non costitutivo della soggettività internazionale, il riconoscimento diplomatico ha delle conseguenze sul profilo politico non indifferenti, come quella di stimolare il contegno positivo nello stesso senso nei confronti del resto della Comunità internazionale.

 

La Convenzione di Montego-Bay e la diversa opinio iuris libica

L’oggetto di quest’ultima controversia Italia-Libia è, alla luce di quanto ricostruito nella prima parte del paragrafo precedente, la delimitazione della Zona Economica Esclusiva[6].

Essa, ai sensi dell’art. 57 della Conv. di Montego-Bay, si estende fino a 200 miglia marine dalle linee di base da cui viene misurata la larghezza del mare territoriale. Tale limite è individuato nella linea di bassa marea; tuttavia questo principio, ex art. 7 Conv. di Montego-Bay, può essere derogato ricorrendo al c.d. “sistema delle linee rette”, le quali vengono tracciate congiungendo i punti sporgenti della costa ovvero, nel caso vi siano isole o scogli, congiungendo le estremità di questi. Un’ulteriore deroga è prevista nel caso di baia storica, a prescindere dalla misurazione. Gli artt. 56 e ss della Conv. di Montego-Bay attribuiscono allo Stato costiero il controllo, nella ZEE, di tutte le risorse economiche, biologiche e minerali del suolo, del sottosuolo e delle acque sovrastanti, estendendo l’esclusività di tali poteri anche alla pesca, salvo le eccezioni previste dall’art 62 a cui si è accennato nel paragrafo precedente.

Risulta che i due pescherecci mazaresi, in realtà, si trovassero a circa 35 miglia da Bengasi all’interno della ZEE libica, dove – in base all’opinio iuris libica – la pesca risulta sempre vietata, salvo nell’ipotesi in cui vi sia un accordo di concessione.

L’analisi di questa controversia Italia-Libia trova maggiori complicazioni nel fatto che quello di Haftar sia un governo insurrezionale e nella mancata ratifica della Convenzione di Montego-Bay da parte della Libia.

In ordine alla prima questione, la prassi internazionale si orienta nel senso di riconoscere la soggettività ai governi insurrezionali. Da qui scaturisce l’attribuzione al Governo di Haftar di tutti i diritti e gli obblighi derivanti dalla personalità giuridica internazionale. Ai fini che qui interessano, si rintraccia, prima facie, il diritto del Governo insurrezionale di esercitare la sovranità anche sulle acque adiacenti al territorio della Cirenaica. Tale diritto deve, però, trovare un suo bilanciamento con il rispetto – da parte dello stesso Governo – degli obblighi internazionali consuetudinari e convenzionali. Si è detto che la Libia non ha ratificato la Convenzione di Montego-Bay sul diritto del mare e quindi in linea di principio non sarebbe ad essa vincolata. Tuttavia, tale Convenzione si presenta nel suo complesso come un accordo di codificazione di norme di diritto internazionale del mare consuetudinario, salvo che in quelle parti dove disciplina un suo sviluppo progressivo. Alla luce di ciò, lo Stato libico ha l’obbligo di rispettare tutte quelle norme internazionali consuetudinarie che la Convenzione si limita a codificare ed è, invece, libero di disattendere il resto delle norme meramente e puramente pattizie.

 

Il regime giuridico applicabile

Ai fini della controversia Italia-Libia, la norma che interessa è l’art. 226 della Conv. di Montego-Bay che disciplina l’obbligo dello Stato costiero di rilasciare con effetto immediato le navi straniere che abbiano commesso violazioni dei diritti di pesca, dietro adeguata garanzia: si può affermare con certezza che questa sia una di quelle norme che vincolano solo gli Stati che hanno ratificato la Convenzione.

Dubbi sorgono, invece, circa l’art. 73 della Conv. di Montego-Bay nella parte in cui proibisce la reclusione degli equipaggi delle navi catturate nel caso in cui vengano fornite talune garanzie: se essa fosse da considerare come norma consuetudinaria, si configurerebbe l’opposto diritto di intervento a protezione delle navi catturate quando lo Stato costiero applica all’equipaggio, a seguito del fermo, sanzioni vietate dal diritto internazionale o, peggio, faccia un uso indiscriminato della forza.

Non è dato conoscere il contenuto del negoziato Italia-Libia relativo al caso dei pescherecci mazaresi ma è prospettabile che l’Italia – per giungere alla risoluzione della controversia – abbia fatto leva su questa norma che è espressione di un nucleo irrinunciabile di diritti umani di natura consuetudinaria che anche un Governo insurrezionale, come quello di Haftar, è tenuto a rispettare.

Informazioni

CONFORTI, 1983, La Zona Economica Esclusiva, Milano, Giuffrè Editore.

CONFORTI, 2014, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica.

CONVENZIONE DI MONTEGO-BAY

CONVENZIONE DI VIENNA SUL DIRITTO DI TRATTATI DEL 1969

DEL VECCHIO, 1984, Zona Economica Esclusiva e Stati Costieri, Firenze, Le Monnier.

RONZITTI, 2009, Il trattato Italia-Libia di amicizia, partenariato e cooperazione, Istituto Affari Internazionali.

STATEMENT LIBICO https://www.un.org/Depts/los/LEGISLATIONANDTREATIES/PDFFILES/LBY_1973_Information.pdf

[1] Si pensi all’Accordo sul turismo e alla Convenzione consolare del 1998, all’Accordo sulla promozione e protezione degli investimenti del 2000, all’Accordo di cooperazione culturale del 2003, al Processo Verbale tra i rispettivi MAE del 1998.

[2] Occupazione coloniale per la quale l’Italia non è mai stata considerata responsabile sul piano internazionale, perché all’epoca il colonialismo non era ancora un fatto contrario al diritto internazionale (lo diventerà con lo sviluppo della prassi a seguito dell’adozione della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione dell’Assemblea Generale n. 1514/1960).

[3] A questa accusa, dopo una quindicina di giorni dalla prima, si era aggiunta quella pretestuosa di traffico di stupefacenti ma poi decaduta.

[4] https://www.un.org/Depts/los/LEGISLATIONANDTREATIES/PDFFILES/LBY_1973_Information.pdf

[5] Per maggiori approfondimenti in materia, si rimanda a A. FEDERICO, La risoluzione delle controversie tra Stati, in www.dirittoconsenso.it, consultabile al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2020/12/04/risoluzione-delle-controversie-tra-stati/

[6] Per maggiori approfondimenti in materia, si rimanda a A. FEDERICO, Il diritto internazionale marittimo: la zona economica esclusiva in www.dirittoconsenso.it, consultabile al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2020/09/03/diritto-internazionale-marittimo-zona-economica-esclusiva/


Digital forensics

Digital forensics: cybercrime e cybersecurity

La digital forensics quale scienza di investigazione dei cybercrime e strumento di garanzia della cybersicurity

 

La Digital Forensics quale metodo di investigazione dei cybercrime

La digital forensics (investigazione digitale forense) consiste nell’uso di metodi scientificamente provati per l’attività di:

  • raccolta e conservazione;
  • convalida e identificazione;
  • analisi e interpretazione;
  • documentazione;
  • presentazione

 

di dati digitali, derivanti da dispositivi informatici utilizzati per commettere un reato, ed in particolare cybercrime e transnational cybercrime[1].

Al centro di ogni investigazione digitale forense vi sono le cc.dd. prove digitali, ovverosia un qualsiasi dato digitale contenente informazioni utilizzabili per supportare o confutare l’ipotesi di reato.

La disciplina della digital forensics trova delle sue ramificazioni nella:

  • computer forensics,
  • memory forensics,
  • network forensics,
  • multimedia forensics,
  • mobile forensics e
  • drone forensics[2].

 

L’attualità della criminalità informatica e la Convenzione di Budapest del 2001

Alla luce di quanto detto, il problema che la scienza della digital forensics si pone è come indagare sui crimini che coinvolgono i dispositivi informatici, ancor più se si tratta di cybercrime o transnational cybercrime. Tale esigenza nasce dal fatto che oltre ai siti internet che quotidianamente vengono consultati (c.d. surface web)[3], vi è una parte di deep web[4] che costituisce circa il 96% dell’attività svolta in internet e il cui contenuto fa riferimento ad articoli accademici, risorse governative, documenti finanziari, documenti medici, atti di organizzazioni. Di questo 96%, tuttavia, il 6% costituisce il c.d. dark web al cui interno si trovano atti riconducibili soprattutto ai transnational cybercrime (nella forma di terrorismo, warfare, vendita di armi, riciclaggio, furti di identità)[5].

Visto il rilevante incremento di tali atti, nell’ambito del Consiglio d’Europa è stata adottata la Convenzione sulla criminalità informatica. Essa fu firmata a Budapest nel 2001 ma entrò in vigore il 01/07/2004 al raggiungimento delle cinque ratifiche necessarie[6].  La Convenzione è il primo trattato internazionale sugli illeciti penali commessi via internet e su altre reti informatiche, disciplinando in particolare le violazioni dei diritti d’autore, la frode informatica, la pornografia infantile e le violazioni della sicurezza della rete. Contiene inoltre una serie di misure e procedure di investigazione appropriate, quali la perquisizione dei sistemi di reti informatiche e l’intercettazione dei dati. Il suo obiettivo principale, enunciato nel Preambolo, è perseguire una politica penale comune per la protezione della società contro la cybercriminalità, in special modo adottando legislazioni nazionali ad hoc e promuovendo la cooperazione internazionale in tale materia. Con la l. 48/2008, l’Italia ha ratificato e dato piena ed intera esecuzione alla Convenzione di Budapest[7], introducendo modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, alla l. 231/2001 e alla l. 196/2003[8].

Queste nuove fonti giuridiche in materia si rendono necessarie a causa di un’evoluzione che dagli anni ’70 ha investito il cybercrime: fino al nuovo millennio si trattava di attacchi diretti contro sistemi e reti; negli ultimi 20 anni, invece, sono diventate vittime specifiche degli attacchi cyber anche e soprattutto gli individui. Quest’ultima fase, infatti, è caratterizzata dalla manipolazione dei social media e dal furto o dall’acquisto dei dati personali, a seguito di un’accurata selezione delle vittime in base al loro orientamento politico, sessuale, religioso, sociale. Il pericolo è intensificato quando le organizzazioni criminali transnazionali minacciano reti e infrastrutture sensibili delle imprese e del governo, mettendo a rischio la sicurezza del sistema-Paese.                                                                      Alla luce di ciò, la scienza della digital forensics diventa necessaria non solo per verificare l’esistenza e l’entità del reato, ma anche per proteggere la sicurezza dello Stato e dei suoi cittadini.

 

Il Workflow della Digital Forensics

L’attività di digital forensics è costituita da un vero e proprio modello di lavoro ripetibile, le cui fasi mirano all’organizzazione sistematica dei dati informatici presenti nel dispositivo investigato. L’innesco del workflow è la denuncia o la segnalazione dell’attività illecita attraverso le forme di notizia di reato previste dagli ordinamenti interni[9].

A ciò segue un procedimento di investigazione che costituisce il momento più importante di tale modello. Esso consta di cinque fasi che vengono attuate consecutivamente:

  1. identificazione,
  2. raccolta (o acquisizione),
  3. ispezione,
  4. analisi,
  5. presentazione.

 

Le fasi del Workflow, nello specifico

In particolare, l’identificazione consente di individuare i dispositivi informatici che potrebbero contenere prove digitali: tale attività non è sempre agevole per le molteplici forme che i dispositivi possono assumere[10]. Individuato il dispositivo, segue la ricerca del dato informatico al suo interno: se il sistema non è in fase di attività, esso va avviato; una volta che il sistema è attivo, va verificata la presenza di memorie volatili che potrebbero andar perse se il sistema si spegnesse. Il dato informatico, affinché possa costituire una prova all’interno del processo penale, deve essere acquisito senza alcun tipo di alterazione: la ratio è quella di preservare la genuinità della prova e la maggiore difficoltà si riscontra quando gli hardware o i dati sono danneggiati. Per evitare eventuali compromissioni dei dati originali, con conseguente alterazione della prova e sua inutilizzabilità in giudizio, è necessario lavorare su copie “esatte” dei dati. Inoltre, è possibile iniziare ad analizzare il contenuto della copia, solo dopo che l’autorità giudiziaria si sia determinata, seppur in maniera generale ab initio, circa il fatto illecito, di modo da individuare i dati digitali rilevanti ad accertarne l’esistenza ed eventualmente la sua entità e favorire, se del caso, la formulazione di un’accusa più dettagliata. Questa esigenza di selezione dei dati sorge per tutelare la riservatezza dell’autore, dal momento che il suo dispositivo sicuramente contiene informazioni sensibili che possono essere visionate solo su autorizzazione dell’autorità titolare dell’indagine. La fase di analisi, più nello specifico, consente di redigere una timeline che ricostruisca in ordine cronologico le attività di un cybercriminale.

A questo punto, ai fini della sua utilizzabilità in giudizio, il digital foresicser dovrà produrre un verbale contenente il risultato dell’investigazione, così da presentarlo (anche oralmente, se previsto dalle norme interne di procedura) dinnanzi al giudice. Il workflow della digital forensics, dunque, si conclude con la possibile acquisizione in dibattimento del dato digitale che, nei casi di cybercrime, costituisce lo strumento probatorio decisivo ai fini della decisione del giudice circa la colpevolezza o la non colpevolezza dell’imputato.

 

La Digital Forensics e la Cybersecurity

Si è detto in apertura che la commissione di transnational cybercrime può mettere in grave pericolo la sicurezza del sistema-Paese. Tale rischio è rilevabile, per esempio, quando l’attività di attacco avviene mediante l’uso di droni utilizzati per il contrabbando, la violazione della privacy e lo spionaggio di individui, imprese ed enti governativi. Al fine di investigare tali tipi di atti illeciti, sempre più frequenti[11], viene utilizzata la drone forensics, il cui obiettivo fondamentale è quello di ricostruire il tragitto del drone ed analizzare il contenuto della sua memoria.

Alla luce di questi attacchi alla sicurezza nazionale anche l’Unione europea ha adottato alcuni atti volti alla protezione dei sistema-Paese: si pensi alla Risoluzione del Parlamento europeo del 12 giugno 2012, al documento finale sulla “Strategia dell’Ue per la cybersicurezza” del 2013, alla Direttiva 1148/2016, al Regolamento 881/2019[12]. L’obiettivo degli Stati membri è quello di proteggere la rete, i sistemi di informazione e la riservatezza degli utenti[13]. Pur riconoscendo che spetta in primo luogo agli Stati membri la competenza ad affrontare le sfide di sicurezza nel cyberspazio, l’Unione europea ha individuato interventi specifici che possono rafforzare la sua efficienza complessiva. Le priorità cyber-strategiche dell’Unione si sintetizzano in:

  • cyberresilienza,
  • riduzione e accertamento del cybercrimine,
  • sviluppo di una politica di cyberdifesa,
  • sviluppo di risorse industriali e tecnologiche per la cybersicurezza,
  • anticipazione del rischio cyber,
  • creazione di una politica internazionale dell’Ue sul cyberspazio che promuova i suoi valori costitutivi[14].

 

Le fonti europee in materia sono solo alcuni degli esempi con cui gli ordinamenti cercano di fronteggiare il pericolo di attacco alla propria sicurezza. A tale scopo per gli Stati diventa sempre più ineludibile l’esigenza di creare una cyberdiplomacy che, oltre allo sfruttamento delle opportunità volte alla promozione del Paese, si incentri sull’aspetto difensivo dei dati da cui dipende la sicurezza della Nazione. In questo senso la digital forensics, non solo rappresenta una scienza utile per l’accertamento del crimine, ma serve anche quale strumento di prevenzione dello stesso.

Informazioni

Alexandrou, Alex. “10 Cybercrime”, International and Transnational Crime and Justice (2019).

Faga, Hemen Philip. “The implications of transnational cyber threats in international humanitarian law: analysing the distinction between cybercrime, cyber attack, and cyber warfare in the 21st century“, Baltic Journal of Law & Politics 10.1 (2017).

Choo, Kim-Kwang Raymond, and Russell G. Smith. “Criminal exploitation of online systems by organised crime groups”, Asian journal of criminology 3.1 (2008).

Årnes, André (Editor). “Digital forensics.” John Wiley & Sons, 2017 (Chapters 1, 2).

Garfinkel, Simson L. “Digital forensics research: The next 10 years.” digital investigation 7 (2010).

Barton, Thomas Edward Allen, and MA Hannan Bin Azhar. “Open source forensics for a multi-platform drone system.” International Conference on Digital Forensics and Cyber Crime. Springer, Cham, 2017.

[1] Così in Årnes, André (Editor), Digital forensics“, John Wiley & Sons, 2017 (Chapters 1, 2).

[2] In ragione del “contenitore” in cui è situato il dato informatico oggetto di investigazione.

[3] Facebook, Twitter, Instagram, Netflix, motori di ricerca vari, etc.

[4] Attenzione a non confondere deep web con darknet. Su quest’ultimo si veda:  http://www.dirittoconsenso.it/2019/02/06/la-darknet-e-il-mercato-della-droga/

[5] Fonte: La Repubblica, Tecnologia e sicurezza, 21/02/2019.

[6] Informazioni reperibili sul sito ufficiale del Consiglio d’Europa https://www.coe.int/it/web/conventions/full-list/-/conventions/treaty/185

[7] Appare degno di nota che, tra i membri del Consiglio d’Europa, l’unico Stato non firmatario della Convenzione è la Federazione Russa, mentre Irlanda e Svezia pur risultando come Stati firmatari non hanno mai proceduto alla sua ratifica.

[8] Per prendere visione della legge di autorizzazione alla ratifica e contenente l’ordine di esecuzione: https://www.camera.it/parlam/leggi/08048L.htm

[9] Per l’ordinamento italiano, si veda l’art. 347 c.p.p.

[10] Si pensi ad una pennetta usb che assume la forma di un tappo di sughero.

[11] Per esempio nel 2017 il cartello messicano ha provato a contrabbandare droga attraverso i droni.

[12] Da ultimo, in maniera più generale, si pensi alla “Strategia digitale europea” del 2020. Per un maggiore approfondimento si veda http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/11/la-strategia-digitale-europea/

[13] Cfr. art. 2 reg. Ue 881/2019.

[14] Cfr. Strategia dell’Ue per la cybersicurezza” del 2013.


Convenzione di Oviedo

La Convenzione di Oviedo e il consenso informato

Il capitolo II della Convenzione di Oviedo e i principi costituzionali in materia di consenso informato

 

I principi della Convenzione di Oviedo nella Costituzione italiana

La “Convenzione per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti dell’applicazioni della biologia e della medicina”[1] è stata adottata nell’ambito del Consiglio d’Europa e firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997. Tralasciando per il momento la sua possibile applicazione nell’ordinamento italiano – di cui ci si occuperà nel prosieguo -, ad una prima lettura appare immediatamente visibile che molti principi sanciti dalla Convenzione di Oviedo siano già riscontrabili nella Costituzione italiana o comunque attraverso una sua interpretazione evolutiva.

La Carta fondamentale, infatti, pone il principio di dignità ed il principio di solidarietà sociale a presidio dell’autonomia nelle scelte sulla salute. Il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost. implica altri diritti discendenti dalla piena tutela che il costituente gli ha attribuito:

  • il diritto ai trattamenti sanitari con opposto diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari non imposti dalla legge,
  • il diritto di lasciarsi morire e presupposto divieto di accanimento terapeutico,
  • il diritto di determinate prestazioni essenziali (ex 117 co.3, lett. m, Cost.),
  • il diritto a cure gratuite in presenza di una condizione di indigenza.

 

Non è, tuttavia, esaustivo configurare il diritto alla salute soltanto come rispetto dell’integrità fisica e ciò per tre ordini di ragioni: il primo intende la salute non solo come fisica ma anche come psichica (c.d. integrità psicofisica); il secondo ricomprende tutte quelle ipotesi in cui è proprio la tutela della salute che impone di ledere l’integrità fisica[2]; l’ultimo pone la salute in relazione allo sviluppo della persona, in quanto la prima può fungere quale parametro della liceità e della illiceità dei comportamenti della seconda nei rapporti intersoggettivi.

 

Il concetto ampio di “salute”

Ecco che la salute, pur se disciplinata autonomamente in Costituzione all’art. 32, deve essere unitariamente considerata alle previsioni ex artt. 2 e 3 Cost[3], a cui si potrebbe aggiungere anche l’art. 13 Cost. così da individuare il valore della “libertà di disporre del proprio corpo”.

D’altronde il fatto che la salute debba essere considerata come unità psicofisica è confermato anche dalla nozione che di essa ha dato la World Health Organization, la quale la ricostruisce come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”. Da qui uno stimolo agli Stati membri di promuovere un’attività preventiva sia sanitaria (es. monitoraggio del possibile insorgere di fatti morbosi) che extrasanitaria (es. promozione di stili di vita e di lavoro adeguati e di un ambiente salubre).

 

La garanzia costituzionale della salute: un diritto con varie sfaccettature

Si possono, inoltre, individuare due livelli di garanzia costituzionale della salute: una di natura “negativa o passiva” che impedisce ai terzi di porre in essere condotte pregiudizievoli, a conseguenza delle quali l’ordinamento pone mezzi inibitori, ripristinatori e risarcitori; un’altra di natura “positiva o attiva” che è ricollegabile alla pretesa che il titolare del diritto in esame possa utilizzare mezzi terapeutici necessari per la tutela della sua salute.

Pertanto, il diritto alla salute si presenta ora come diritto di libertà ora come diritto di prestazione. In questo senso trovano tutela i già richiamati diritti ad essere curato, a rifiutare le cure ed al consenso informato, cioè tutti quei momenti che pervadono la scelta qualitativa e quantitativa della terapia. Tali ultimi, per trovare la loro piena realizzazione, richiedono che il legislatore adotti norme ad hoc, in particolare, in materia di organizzazione della pubblica amministrazione che eroga effettivamente la prestazione dovuta.

Le maggiori problematiche interpretative si sono registrate in ordine al rifiuto delle cure mediche: tale diritto, infatti, può essere esercitato sia nei casi in cui le cure siano funzionali alla tutela della salute sia in quelli in cui esse garantiscano proprio la permanenza in vita della persona e questo perché l’art. 32 Cost. pone una facoltà, e dunque un non obbligo, a ricevere cure fuori dai casi espressamente previsti dalla legge; naturalmente, però, il rifiuto può essere esercitato solo in quei casi in cui il soggetto, all’avvio della terapia, è in grado di esprimere liberamente ed autonomamente il proprio consenso ovvero dissenso. A tal fine, va sottolineato, che un’attuazione, e in certi casi, un ampliamento del dettato costituzionale è riscontrabile nella l. 219/2017[4] a cui si rimanda.

Dal prosieguo della trattazione, dunque, si vedrà come molti dei principi qui brevemente richiamati, soprattutto in materia di dignità e consenso medico, sono disciplinati anche nella Convenzione di Oviedo.

 

Il consenso medico nella Convenzione di Oviedo

In questa sede interesserà maggiormente la trattazione delle norme sul consenso medico contenute nella Convenzione di Oviedo.

Essa si apre sancendo il primato dell’essere umano e della sua dignità, integrità ed identità, che trovano sostanza nell’accesso equo alle cure sanitarie e nell’adempimento degli obblighi professionali e di condotta del personale medico-sanitario[5].

Il capitolo II della Convenzione di Oviedo – artt. 5-9 – è dedicato in maniera precipua al tema del consenso.

L’art. 5 pone il principio generale secondo il quale un intervento medico non possa essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia rilasciato il proprio consenso libero ed informato. Ciò implica, in primo luogo, che il paziente debba essere scevro da qualsiasi condizionamento esterno che possa influenzare la sua scelta in un senso o in un altro. In secondo luogo, sarà necessario che il medico – titolare della diagnosi – presenti al soggetto interessato un’informazione chiara ed adeguata su quelli che sono lo scopo e la natura del trattamento: ciò di modo che il paziente sia edotto sulle conseguenze e sui rischi dello stesso. È, quindi, facilmente intuibile che anche la modalità di presentazione dell’informazione può incidere sul carattere libero che la scelta del soggetto richiede. Tale libertà, inoltre, si sostanzia anche nel fatto che – una volta prestato il consenso – il paziente possa ritirarlo in qualsiasi momento attraverso gli stessi strumenti con cui lo abbia prestato ab initio. Ovviamente è la legislazione interna di ciascuno Stato parte alla Convenzione di Oviedo che disciplina le modalità con cui i pazienti possono prestare, modificare ovvero revocare il proprio consenso.

L’art. 6, tuttavia, disciplina il caso in cui il consenso debba essere prestato da un soggetto che non ne abbia la capacità. In questi casi – tenendo in debito conto anche gli artt. 17 e 20 della stessa Convenzione di Oviedo[6] – il trattamento può essere effettuato solo se a suo beneficio diretto. A questo punto appare necessario capire cosa debba intendersi per incapace ai sensi della presente Convenzione: tale nozione ricomprende tanto i minori quanto i maggiorenni che sono affetti da un handicap che non consenta loro di prestare un consenso libero e consapevole. Nel primo caso, la minore età va accertata in base alla legge dello Stato[7] e il consenso potrà essere prestato, rifiutato o revocato da coloro che ne esercitano la potestà genitoriale ovvero, in via generale, dal proprio tutore. Tuttavia il parere del minore, in ragione della sua età e della sua maturità, potrà essere preso in debita considerazione da parte dell’autorità sanitaria e, se del caso, anche giurisdizionale. Al pari dei minori, anche nel caso di maggiorenne affetto da un certo handicap mentale, il consenso dovrà essere prestato dal suo curatore ovvero chiunque ne sia designato dalla legge come rappresentante; fermo restando che il maggiorenne debba essere sempre coinvolto nel procedimento di autorizzazione.

Un’ipotesi particolare è disciplinata dall’art. 7 avente ad oggetto il consenso di persona affetta da grave disturbo mentale per un trattamento finalizzato a curare tale malattia: il medico può procedere alla prestazione sanitaria solo quando l’assenza del trattamento sia pregiudizievole per la salute del soggetto e comunque nei limiti della legge. In tutti i casi qui analizzati, i rappresentanti del paziente dovranno comunque essere informati del trattamento secondo i canoni di cui all’art. 5 della Convenzione, così come il loro consenso ovvero dissenso dovrà integrare i caratteri richiesti dalla stessa norma.

Appare chiaro – in conformità all’art.8 – che quando il consenso non può essere espresso per motivi di urgenza dell’intervento, il personale medico-sanitario procederà comunque ai trattamenti necessari per recare beneficio al paziente. Tuttavia, quando la persona interessata abbia precedentemente espresso desideri in merito a determinati trattamenti e il consenso non può essere manifestato il quel dato momento, il medico dovrà tenerne conto in conformità all’art. 9 della Convenzione di Oviedo.

Alla luce di questa breve disamina – che, si ricorda, si limita solo al tema del consenso – è evidente quale sia l’obiettivo della Convenzione di Oviedo: far prevalere l’interesse dell’uomo su quello della scienza o della società, così come è riscontrabile dalla lettura del Preambolo che – tra le altre – richiama la CEDU e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.

 

Le ratifiche della Convenzione di Oviedo e il caso italiano

L’art. 33 della Convenzione di Oviedo subordina la sua entrata in vigore alla ratifica di cinque Stati di cui almeno quattro membri del Consiglio d’Europa. Tale risultato è stato raggiunto il 01/12/1999. Rebus sic stantibus, la Convenzione è stata ratificata (comprese le ipotesi di adesioni, in quanto si tratta di un trattato aperto) da 29 Stati[8].

Tra questi, tuttavia, non compare l’Italia che ha però firmato la Convenzione. In realtà con la l. 145/2001 il Parlamento italiano ha autorizzato la ratifica del trattato ma, ad oggi, non è mai stato depositato lo strumento di ratifica in seno al Consiglio d’Europa. Ne consegue che, formalmente, ai sensi degli artt. 11 e 16 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, il procedimento di assunzione dell’obbligo di adempimento della Convenzione di Oviedo non si sia concluso per lo Stato italiano e, dunque, essa non lo vincoli. Per di più la stessa Corte Costituzionale italiana, nell’ord. 282/1983 e nella sent. 379/2004, ha sottolineato che in caso di mancato deposito dello strumento di ratifica, la legge italiana di esecuzione è inefficace.

Ancorchè sia necessaria questa ricostruzione formale ai fini soprattutto della non configurabilità della responsabilità internazionale dello Stato italiano nel caso di eventuale violazione della Convenzione di Oviedo, quanto detto nel primo paragrafo mostra che principi analoghi a quelli contenuti dalla Convenzione sono riscontrabili nell’ordinamento italiano, tanto nella l. 219/2017 quanto più nella Costituzione repubblicana.

Dunque, pur essendo auspicabile il completamento del procedimento di attuazione della Convenzione di Oviedo nell’ordinamento italiano con il deposito dello strumento di ratifica[9], si può dire che i principi contenuti in essa vincolino già il personale medico-sanitario.

Informazioni

Convenzione di Oviedo

Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati

Costituzione italiana

Legge 145/2001

Legge 219/2017

LENTI, FABRIS & ZATTI, 2011, Trattato di biodiritto. I diritti in medicina, Milano, Giuffrè Editore

PENASA, 2019, Alla ricerca dell’anello mancante: il deposito dello strumento di ratifica della Convenzione di Oviedo in Forum di Quaderni Costituzionali

PERLINGIERI, 2006, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli, Edizioni scientifiche Italiane

Sito ufficiale del Consiglio d’Europa

[1] Più brevemente conosciuta come “Convenzione sui diritti dell’Uomo e la biomedicina”.

[2] Si pensi a tutti quei casi di interventi chirurgici c.d. demolitivi finalizzati ad un miglior funzionamento dell’organismo o per scongiurare l’aggravarsi di una malattia già in atto (a titolo esemplificativo: l’amputazione di un arto per evitare la cancrena).

[3] Così PERLINGIERI, 2006, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli, Edizioni scientifiche Italiane, p.730.

[4] Recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.

[5] Cfr. artt. 1-4 Convenzione di Oviedo.

[6] Che disciplinano rispettivamente la tutela delle persone che non hanno la capacità di consentire ad una ricerca e di quelle incapaci di consentire al prelievo d’organo.

[7] In materia di consenso del minore nella fattispecie del fine vita, si veda http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/23/fine-vita-nei-bambini-il-problema-del-consenso/

[8] L’andamento della procedura è visibile sul sito ufficiale del Consiglio d’Europa al seguente link: https://www.coe.int/it/web/conventions/full-list/-/conventions/treaty/164/signatures?p_auth=iT0NJQUu

[9] Così come auspicato anche dal Senato della Repubblica con atto n. 1-00854 del 17 ottobre 2017 (seduta n. 899).


Risoluzione delle controversie

La risoluzione delle controversie tra gli Stati

L’arbitrato internazionale e i procedimenti diplomatici di risoluzione delle controversie quali corollari del divieto dell’uso della forza

 

La risoluzione delle controversie tra gli Stati e l’arbitrato internazionale

Nell’ambito della prima comunità classica, la prassi internazionale consentiva agli Stati di risolvere liberamente le controversie tra loro, anche mediante l’uso della forza. Solo dal XIX secolo la comunità internazionale arrivò ad individuare l’arbitrato come lo strumento preferenziale per giungere alla risoluzione pacifica delle controversie. Ciò vale a maggior ragione da quando l’art. 2 par. 4 Carta ONU pone un imperativo divieto dell’uso della forza, quale obbligo erga omnes[1]. Considerare l’arbitrato come espressione della funzione giurisdizionale internazionale implica che gli Stati, parte della controversia, abbiano preventivamente accettato la sua competenza: in definitiva, nessun Tribunale internazionale può adottare decisioni che abbiano effetti sugli Stati, se il suo intervento non sia stato precedentemente concordato dalle parti.

La nozione di controversia tra due o più soggetti internazionali è stata elaborata per la prima volta dalla Corte Permanente di Giustizia Internazionale nel 1924 che la definisce quale “disaccordo su di un punto di diritto o di fatto, un conflitto di tesi giuridiche o di interessi tra due soggetti”[2]. Da ciò ne deriva che non debba trattarsi necessariamente di una controversia giuridica, ma essa può assumere anche natura politica.

La comunità internazionale è giunta alla istituzionalizzazione della giurisdizione passando per forme embrionali di arbitrato internazionale.

La forma più rudimentale di accettazione dell’arbitrato risale al 1800 (c.d. arbitrato isolato), quando gli Stati parte della controversia designavano come arbitro un capo di Stato terzo o un gruppo di capi di Stati terzi, previo accordo, il quale, non solo individuava l’arbitro, ma disciplinava anche le regole procedurali e l’impegno delle parti a rispettare la decisione arbitrale di cui, tra l’altro, non si conosceva la motivazione.

Tuttavia i primi due veri istituti caratterizzanti l’arbitrato internazionale – seppur incompleti ab origine – sono stati la clausola compromissoria e il trattato generale di arbitrato, la cui prassi ha avuto origine tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 in America Latina. Iniziò, infatti ad essere invalsa la consuetudine di inserire nelle Convenzioni internazionali una clausola (compromissoria, appunto) che obbligasse gli Stati parte a ricorrere all’arbitrato nel caso di controversie future concernenti l’applicazione e l’interpretazione delle norme convenzionali. A ciò si aggiunge il trattato generale di arbitrato che, inizialmente, istituiva per gli Stati un obbligo generico di ricorrere all’arbitrato in ogni caso di controversia futura, salvo quelle riguardanti l’onore e il rispetto, l’indipendenza, il dominio riservato e questioni di natura politica. Si disciplinava così solo un generale obbligo de contrahendo per gli Stati.

All’inizio del XX secolo la clausola compromissoria e il trattato generale di arbitrato subiscono un’evoluzione che porta gli Stati, non solo a rispettare l’obbligo di contrarre, ma anche quello di sottoporre la controversia al giudizio di un organo internazionale che operi secondo proprie regole procedurali. Vengono istituite così Corti permanenti, quali la Corte Permanente di Arbitrato (1899) e la Corte Permanente di Giustizia Internazionale (1920), fino ad arrivare alla Corte Internazionale di Giustizia (1945) e ad altri Tribunali Internazionali più recenti.

 

La Corte Internazionale di Giustizia

Con l’istituzionalizzazione della giurisdizione internazionale, uno Stato può citare in giudizio unilateralmente un suo omologo, fermo restando una preesistente accettazione della competenza di quella Corte da ambo le parti. Si ribadisce, dunque, che la istituzione di una qualsiasi Corte internazionale è subordinata alla stipula di trattati bilaterali, multilaterali o istitutivi di organizzazioni internazionali che vincolano gli Stati parte a sottoporsi alla giurisdizione del Tribunale internazionale, oggetto della norma convenzionale, ai fini della risoluzione delle controversie.

La Corte Internazionale di Giustizia[3], istituita con la Carta delle Nazioni Unite del 1945[4], con sede a L’Aja presso il Palazzo della Pace, è senza dubbio il massimo organo giurisdizionale mondiale. Ai sensi dell’art. 92 Carta ONU, essa opera sia sulla base della stessa Carta sia sulla base del suo Statuto. È proprio la ratifica di queste due fonti da parte degli Stati che si configura come manifestazione della volontà di sottoporsi alla giurisdizione della CIG. Essa può essere adita solo dagli Stati e generalmente decide sulla controversia applicando il diritto internazionale; può decidere, tuttavia, ai sensi dell’art. 38 par. 2 Statuto CIG, anche ex aequo et bono quando le parti vi consentono: in questo caso la CIG, trattandosi di una funzione ausiliaria, non applica il diritto internazionale ma decide secondo equità. Le sentenze adottate vengono qualificate quali fonti internazionali di III grado, in quanto – ex art. 94 Carta ONU e 60 Statuto CIG – sono vincolanti tra le parti data la loro definitività e inappellabilità.

Oltre alla funzione contenziosa, la CIG svolge anche una funzione consultiva su sollecitazione dell’Assemblea Generale o di altri organi ONU previo parere della prima: in tal caso non adotterà una sentenza bensì un parere di solito non vincolante per gli Stati. Alla luce di poco più di 70 anni di attività, la CIG ha trattato circa 180 casi, con una pendenza attuale di 15. L’ultimo ricorso, avente ad oggetto la presunta violazione degli obblighi previsti dalla Convenzione sulla prevenzione e la repressione del genocidio, è stato presentato l’11 novembre 2019 dalla Repubblica di Gambia contro la Repubblica dell’Unione di Myanmar[5]. La giurisprudenza della CIG ha contribuito a cristallizzare numerosi principi che vengono considerati fondamentali ed imperativi nell’ambito del diritto internazionale: a titolo esemplificativo, si consideri il principio di autodeterminazione dei popoli che è stato oggetto di una sentenza del 1995[6] e di numerosi pareri[7]– l’ultimo nel 2019 riguardante le Isole Chagos -, grazie ai quali è possibile delineare i caratteri essenziali di questa norma di ius cogens[8].

 

Gli altri Tribunali internazionali

Ai fini della trattazione, tuttavia, non può non farsi cenno anche agli altri Tribunali internazionali istituiti nell’ambito di organizzazioni internazionali: il Tribunale del Commercio, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea[9], la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[10], il Tribunale del Mare[11].

Il Tribunale del Commercio opera nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio sulla base degli accordi di Marrakech del 1994 volti principalmente ad assicurare la parità fiscale di trattamento tra i prodotti nazionali e quelli importati. A differenza della CIG, il Tribunale del Commercio è strutturato in modo tale da garantire un appello al panel di primo grado.

Con effetti diretti e più frequenti nell’ordinamento italiano la CGUE e la CtEDU si iscrivono tra le due Corti internazionali a livello europeo, esercitando competenze molto differenti tra loro – si badi bene – in ragione di trattati istitutivi diversi. La CGUE, infatti, opera nell’ambito dell’Unione Europea e dei trattati che istituiscono tale organizzazione (da ultimo, dunque, il Trattato di Lisbona), al fine di interpretare ed applicare il diritto dell’Unione; la CtEDU, invece, opera nell’ambito del Consiglio d’Europa al fine di interpretare ed applicare la Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali del 1950[12]. La prima con sede a Lussemburgo e la seconda a Strasburgo, entrambe possono essere adite sia dagli Stati sia – alle condizioni previste rispettivamente dal Trattato di Lisbona e dalla CEDU – dagli individui. È quest’ultima forma di legittimazione processuale attiva che, oltre alla vocazione regionale e non universale, distingue la CGUE e la CtEDU dalla CIG.

Nel 1996 è stato poi istituito ad Amburgo l’ITLOS. Esso ha competenza nella risoluzione delle controversie tra gli Stati che nascono dall’applicazione ed interpretazione della Convenzione di Montego-Bay sul diritto internazionale del mare (c.d. Convenzione UNCLOS). A tale tribunale attualmente sono stati deferiti solo 29 casi[13], dal momento che la prassi internazionale mostra come spesso – anche per questioni riguardanti il diritto del mare – gli Stati adiscano la CIG.

La presente trattazione, ovviamente, non esaurisce l’individuazione dei Tribunali Internazionali che hanno competenza nella risoluzione delle controversie tra gli Stati: si pensi alla Corte Interamericana dei Diritti Umani in ambito OSA.

 

Mezzi diplomatici per la risoluzione delle controversie tra gli Stati

L’art. 33 co.1 Carta ONU, nell’ottica di giungere ad una soluzione pacifica delle controversie tra gli Stati, individua dei mezzi diplomatici che facilitano l’accordo tra le parti.

Il mezzo più utilizzato è il negoziato che si caratterizza per la sola partecipazione degli Stati coinvolti nella controversia. Esso, infatti, si distingue dagli altri procedimenti diplomatici previsti, nei quali vengono coinvolti – in misura più o meno rilevante – gli Stati terzi: buoni uffici, mediazione e conciliazione. Nell’ambito dei primi, lo Stato terzo si limita a favorire la messa in contatto delle parti controvertenti. Nel caso di conciliazione, invece, il terzo partecipa attivamente al negoziato potendo presentare anche proprie soluzioni per porre fine alla controversia. Il mezzo diplomatico, nel quale la partecipazione dello Stato terzo è massima, è sicuramente la conciliazione: in questo caso la procedura si avvicina molto a quella arbitrale, in quanto lo Stato terzo riceve dalle parti in conflitto l’incarico di proporre una soluzione della controversia.

Tra le procedure diplomatiche si devono considerare anche le commissioni d’inchiesta: esse sono formate da esperti indipendenti e imparziali, designati dalle parti, che devono accertare il fatto relativo alla controversia.

Resta inteso, come è facilmente intuibile, che la più evidente differenza tra le procedure giurisdizionali e quelle diplomatiche è proprio la mancanza di vincolatività delle eventuali soluzioni prospettate per gli Stati parte della controversia. Entrambe, però, si caratterizzano per essere dei deterrenti all’uso della forza quale strumento di risoluzione delle controversie internazionali, in misura ancor più rilevante dato il generale divieto previsto dal diritto internazionale.

Informazioni

Carta ONU

CEDU

CONFORTI, 2014, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica

Convenzione UNCLOS

DEL VECCHIO, 2003, Giurisdizione internazionale e globalizzazione, Giuffrè Editore

FOCARELLI, 2019, Diritto internazionale, Wolters Kluwer CEDAM

SINAGRA-BARGIACCHI, 2019, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Giuffré Francis Lefebvre

Sito CIG: www.icj-cij.org

Sito ITLOS: www.itlos.org

Statuto CIG

Trattato di Lisbona

[1] Per esigenza di completezza va considerata l’unica deroga che la Carta ONU individua all’uso della forza: si tratta della legittima difesa, quale attacco diretto e già sferrato, da potersi esercitare nei limiti della proporzionalità ed in attesa di intervento del Consiglio di Sicurezza (cfr. art. 51 Carta ONU). Per maggiori approfondimenti sul tema dell’uso della forza si rimanda a A. FEDERICO, Un nuovo ordine internazionale? I rapporti USA-Afghanistan, consultabile al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/12/un-nuovo-ordine-internazionale-i-rapporti-usa-afghanistan/

[2] Cfr. PCIJ, 1924, The Mavrommatis Palestine Concessions (Greece vs UK): <<Disagreement on a point of law or fact, a conflict of legal views or of interests between two persons>>.

[3] Da qui in poi, CIG.

[4] Trattato istitutivo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite firmato a San Francisco il 26 giugno 1945 ed entrato in vigore il 24 ottobre dello stesso anno.

[5] Tali informazioni sono facilmente consultabili sul sito www.icj-cij.org

[6] Sent. sul Timor Est.

[7] Parere sulla Namibia, sul Sahara Occidentale, sulle Isole Chagos.

[8] Per approfondimenti in materia, si veda A.FEDERICO, Il principio di autodeterminazione dei popoli: profili attuali, consultabile al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/15/principio-di-autodeterminazione-dei-popoli-profili-attuali/

[9] Da qui in poi, CGUE.

[10] Da qui in poi, CtEDU.

[11] Da qui in poi, ITLOS.

[12] Da qui in poi, CEDU.

[13] Tali informazioni sono facilmente consultabili sul sito www.itlos.org


Articolo 117 Costituzione

L'articolo 117 della Costituzione tra sussidiarietà e adattamento

Il riparto di competenze tra Stato e Regioni in base all’articolo 117 Costituzione e i limiti alla potestà legislativa a seguito della riforma costituzionale del Titolo V

 

L’originaria formulazione dell’articolo 117 della Costituzione

L’Assemblea costituente, eletta in occasione delle elezioni del 2 giugno 1946, perseguendo la strada del decentramento delle funzioni statali, dibatté a lungo sulle competenze da affidare alle Regioni. Nell’originaria formulazione dell’articolo 117 della Costituzione, infatti, si optò per una competenza concorrente delle Regioni in alcune materie elencate esplicitamente dalla norma[1] “nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni[2]”. Una potestà piena ed esclusiva era riconosciuta – nelle materie indicate dai rispettivi Statuti – alle Regioni a statuto speciale e alle Province di Trento e Bolzano. Infine l’ultimo comma della norma – nella sua originaria formulazione – disciplinava una competenza di natura attuativa delle leggi statali, che lo avessero previsto, a favore delle Regioni a statuto ordinario. Era comunque fatta salva, sulla base dell’articolo 118 della Costituzione, la possibilità di delegare alle Regioni l’esercizio di talune funzioni amministrative.

Questo sintetico riferimento alla dottrina regionalista[3], così come recepita in Assemblea costituente, era comunque da ascriversi all’esigenza primaria di realizzare uno Stato unitario conformemente al principio fondamentale di cui all’articolo 5 della Costituzione.

Tuttavia la completa lettura dell’originario Titolo V della Costituzione non sembrava fornire un significativo grado di autonomia agli enti diversi dallo Stato. Sarebbero state successive riforme ordinarie[4] a promuovere notevolmente – a Costituzione invariata – le autonomie locali. Tale nuovo assetto ha, dunque, portato alla riforma del Titolo V della Costituzione del 1948.

 

La riforma costituzionale ed il principio di sussidiarietà

Con la l. cost. 3/2001, preceduta dalla l. cost. 1/1999, si è giunti a realizzare “una Repubblica delle autonomie, articolata su diversi livelli di governo dotati di autonomia costituzionalmente garantita”[5]. È tuttavia errato giungere alla conclusione che si abbia una totale equiparazione fra gli enti locali e tra questi e lo Stato: prova ne è che solo lo Stato può adottare una riforma costituzionale ed, inoltre, Comuni, città metropolitane e Province (diverse da quelle autonome) non hanno potestà legislativa[6].

Dalla nuova formulazione dell’articolo 117 della Costituzione si rileva un’equiparazione tra legge statale e legge regionale per quanto concerne i limiti di cui al primo comma[7]. La norma individua al secondo comma le materie di competenza esclusiva dello Stato[8], al terzo quelle di competenza concorrente tra Stato e Regioni[9] e, infine, al quarto comma è disciplinata una competenza residuale delle Regioni per tutte le materie non riservate alla potestà legislativa dello Stato[10].

La norma, in aggiunta, fornisce la possibilità alle Regioni di esercitare funzioni regionali in collaborazione o in comune, in ragione di intese ratificate con legge regionale[11].

L’assetto che risulta dalla revisione costituzionale del 2001 è stato concepito per garantire una maggiore efficienza ed effettività dell’azione dei pubblici poteri attraverso l’allocazione delle funzioni ed, eventualmente, anche esercitando le competenze in forma associata con altri enti. Si tratta dell’applicazione del principio di sussidiarietà verticale che si sviluppa sulla base di un’azione amministrativa efficiente, efficace, differenziata ed adeguata. Tale principio, risultante dall’elaborazione giurisprudenzial-costituzionale, consente di derogare al rigido riparto di competenze ex articolo 117 della Costituzione, superando – laddove necessario per garantire l’unità e l’indivisibilità della Repubblica – la competenza regionale, fatto salvo un eventuale controllo di ragionevolezza e proporzionalità dell’intervento statale da parte della Corte costituzionale[12].

Tra le competenze concorrenti, un aspetto degno di nota è rappresentato, da una parte, dalla partecipazione delle Regioni alla formazione del diritto comunitario, dall’altra, dal loro potere di attuazione ed esecuzione del diritto europeo. In ordine al primo aspetto (c.d. fase ascendente) tale competenza si realizza in ambito nazionale attraverso l’operato della Conferenza Stato-Regioni e, esternamente, mediante la presenza di funzionari regionali all’interno delle istituzioni europee ovvero della Rappresentanza Permanente dell’Italia presso l’Ue. In ordine, invece, alla competenza di natura attuativa (c.d. fase discendente), le Regioni vi provvedono sulla base delle norme di procedura stabilite dalla l. 128/1998 e attraverso il Comitato delle Regioni istituito dal Trattato di Lisbona.

 

L’articolo 117 della Costituzione e l’adattamento del diritto interno al diritto internazionale ed europeo

Alla disciplina di cui al comma 1 dell’articolo 117 della Costituzione., fino a questo momento, è stato fatto solo un sintetico cenno a proposito della potestà legislativa di Stato e Regioni. La norma merita un approfondimento adeguato, stante le sue implicazioni costituzionali ed internazionali.

La potestà legislativa, infatti, “è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

La lettera della norma costituzionale, oltre a sancire una preminenza della Carta fondamentale sulla legislazione ordinaria, ne consacra anche quella degli obblighi internazionali, inclusi quelli di natura europea. Poiché, ai sensi dell’articolo 10 della Costituzione, la Repubblica si conforma al diritto internazionale generale, è da concludersi che l’articolo 117 della Costituzione faccia esplicito riferimento agli obblighi derivanti dai trattati internazionali.

La questione della rilevanza dei trattati e degli obblighi comunitari sulla legislazione ordinaria ha impegnato per molti anni la Corte Costituzionale. Essa, a seguito delle sentt. 348 e 349 del 2007, riconosce formalmente una prevalenza degli obblighi internazionali tale che possa essere dichiarata incostituzionale – sulla base dell’articolo 117 co.1 della Costituzione – una legge ordinaria che non rispetti i vincoli derivanti da un trattato. Inoltre la stessa Consulta affida al giudice comune l’obbligo di interpretare le norme interne conformemente alle disposizioni internazionali, nel caso in cui egli dubiti della compatibilità della norma interna con quella internazionale ed al fine di proporre giudizio in via incidentale. A conferma di ciò, la sent. 39/2008 Corte Cost. consente il ricorso alla Consulta anche nel caso di legge di esecuzione posteriore.

Non bisogna, però, dimenticare che l’articolo 117 co. 1 della Costituzione impone in via prioritaria che la norma interna sia conforme a Costituzione. Orbene, dal momento che i trattati internazionali vengono adattati all’ordinamento interno mediante l’ordine di esecuzione – che è atto legislativo o amministrativo –, la Consulta può esercitare controllo di costituzionalità anche su questi. Ne consegue che, se nel contrasto norma ordinaria-trattato prevale il secondo, nell’eventualità di norme pattizie contrarie a Costituzione si giunge alla declaratoria di incostituzionalità di queste. Tale ricostruzione consente di considerare, nell’ambito della gerarchia delle fonti, le norme pattizie quali norme interposte tra Costituzione e legge ordinaria. Ciò perché è ampiamente accolta, nell’ordinamento italiano, la c.d. teoria dei controlimiti, quali principi supremi inderogabili disciplinati dalla Costituzione italiana.

La nuova formulazione del co.1 dell’articolo 117 della Costituzione prevede, inoltre, che il legislatore statale e regionale sia tenuto al rispetto degli obblighi derivanti dal diritto europeo. Anche questa disposizione è stata oggetto di dibattito giurisprudenziale tra la Corte costituzionale e la Corte di giustizia dell’Unione europea. In particolare, dalla sent. 284/2007 Corte cost. la Consulta ha ribadito un’esigenza di coerenza con l’ordinamento europeo sulla base dell’articolo 11 della Costituzione, il quale trova conferma nel novellato articolo 117 della Costituzione. Dunque ciò è riscontrabile sul piano pratico con l’obbligo del giudice nazionale di interpretare il diritto interno alla luce del diritto dell’Unione; nel caso in cui egli rilevi un contrasto – non sanabile in via ermeneutica – deve disapplicare il diritto interno a favore di quello europeo, fatti salvi sempre e comunque i principi fondamentali sanciti dalla Costituzione italiana.

 

L’attualità della norma in esame

Tale breve analisi del novellato articolo 117 Costituzione consente di verificare quanto difficile sia stata l’attuazione di questa complessa e articolata norma precettiva, in ragione del dibattito che ne è seguito, non solo di natura giurisprudenziale ma anche dottrinale. La norma infatti continua ad essere studiata sotto vari profili sia dai costituzionalisti che dai cultori del diritto internazionale ed europeo. Se pare sia stato raggiunto uno standard interpretativo circa i limiti all’esercizio della potestà legislativa, sembra meno evidente che il dibattito si sia placato sul riparto di competenze tra Stato e Regioni. La pandemia da Covid-19 ha ridato vigore a tale confronto tra giuristi, economisti e statisti, soprattutto in ordine alle competenze regionali in materia sanitaria e di sicurezza.

Ci si avvia verso una nuova revisione costituzionale? Nessuna iniziativa legislativa è ancora stata presa, ma l’attualità mostra continui contrasti tra il Governo ed alcuni presidenti di Regione.

Informazioni

CONFORTI, 2014, Diritto internazionale, Editoriale Scientifica.

FOCARELLI, 2019, Diritto internazionale, Wolters Kluwer CEDAM.

MODUGNO (a cura di), 2019, Diritto pubblico, Giappichelli Editore.

SINAGRA-BARGIACCHI, 2019, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Giuffré Francis Lefebvre.

VILLANI,2020, Istituzioni di diritto dell’Unione europea, Cacucci Editore.

https://www.cortecostituzionale.it/default.do

[1] A titolo esemplificativo si ricordi la caccia, la pesca nelle acque interne, l’agricoltura e l’ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi.

[2] Cfr. art. 117 Cost. originaria formulazione.

[3] In approfondimento al tema, a seguito della riforma costituzionale del 2001,  si veda http://www.dirittoconsenso.it/2019/05/23/le-nuove-frontiere-del-regionalismo-differenziato/

[4] L. 142/1990 e l. 59/1997.

[5] Così in MODUGNO (a cura di), 2019, Diritto pubblico, Torino, Giappichelli Editore, cap. IX.

[6] Cfr. sent. 274/2003 Corte cost.

[7] Di cui tratteremo nel prosieguo.

[8]Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:

  1. a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea;
    b) immigrazione;
    c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose;
    d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi;
    e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione dei bilanci pubblici; perequazione delle risorse finanziarie;
    f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo;
    g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali;
    h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale;
    i) cittadinanza, stato civile e anagrafi;
    l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa;
    m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;
    n) norme generali sull’istruzione;
    o) previdenza sociale;
    p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane;
    q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale;
    r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere dell’ingegno;
    s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali
    ”.

[9]Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”.

[10]Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”.

[11]La legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni” (art. 117, co. 8, Cost.).

[12] Cfr. sent. 303/2003 Corte cost.


Diritto di passaggio inoffensivo

Il passaggio inoffensivo nel diritto internazionale marittimo

Il diritto di passaggio inoffensivo delle navi straniere e i poteri dello Stato costiero

 

Diritto di passaggio inoffensivo: limite ai poteri dello Stato costiero

Come è noto, la Convenzione UNCLOS[1] si configura quale accordo di codificazione disciplinante le norme consuetudinarie di diritto internazionale marittimo. L’argomento che qui interessa è il diritto di passaggio inoffensivo. Ma facciamo un passo indietro.

Superata la prassi del principio di libertà dei mari, gli Stati si assicurano il controllo delle acque adiacenti alla propria costa. Ciò ha portato, a seguito della c.d. dottrina Truman[2], ad una distinzione delle acque in ragione dei poteri che lo Stato costiero può esercitare su di esse: mare territoriale, zona contigua, piattaforma continentale, zona economica esclusiva[3], mare internazionale.

Ciò che in questa sede interessa è verificare, nell’ambito del mare territoriale, quali siano i limiti ai poteri esercitabili dallo Stato costiero. Ai sensi dell’art. 3 Conv. UNCLOS, il mare territoriale si estende fino a massimo 12 miglia marine dalla linea di base, la quale – generalmente – viene individuata nella linea di bassa marea[4]. Tuttavia l’art. 7 Conv. UNCLOS stabilisce, quale deroga a tale criterio, quello del sistema delle linee rette finalizzato al congiungimento dei punti sporgenti della costa. L’Italia, in conformità a questa norma consuetudinaria, ha adottato il sistema delle linee rette – per tutte le coste della penisola e delle isole maggiori – con il D.P.R. n. 816/1977.

Ebbene, di regola lo Stato costiero può esercitare sul mare territoriale tutti i poteri attribuitigli sulla costa[5]; ma, come accade sulla terraferma, esistono dei limiti alla potestà dello Stato.

Il primo è senz’altro costituito dall’impossibilità di esercitare la giurisdizione sulle navi straniere per fatti interni[6] che non minino la pace e la sicurezza dello Stato costiero ovvero non si tratti di crimina iuris gentium o violazione delle norme di ius cogens[7].

Altro limite, al pari fondamentale, è il diritto di passaggio inoffensivo o innocente[8] delle navi straniere, così come ricostruito dagli artt. 17 e ss Conv. UNCLOS.

L’accordo di codificazione in esame riconosce alle navi di tutti gli Stati, costieri o privi di litorale, il diritto di passaggio inoffensivo attraverso il mare territoriale, in conformità alle condizioni previste dallo stesso. Il diritto internazionale attribuisce al termine “passaggio” il significato di “navigazione” del mare territoriale, individuando – precipuamente – le caratteristiche di tale atto: mero attraversamento senza entrare nelle acque interne né fare scalo in una rada o installazione portuale situata al di fuori delle acque interne; ovvero dirigersi verso le acque interne o uscirne, oppure fare scalo in una rada o installazione portuale. A tale scopo il passaggio deve essere continuo e rapido, purtuttavia consentendo la fermata e l’ancoraggio, ma soltanto se questi costituiscono eventi ordinari di navigazione o sono resi necessari da forza maggiore o da condizioni di difficoltà, oppure sono finalizzati a prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo o in difficoltà[9].

 

La specificità dell’articolo 19 della Convenzione UNCLOS

L’art. 19 Conv. UNCLOS, inoltre, offre un’analisi dettagliata dell’aggettivo “inoffensivo”, qualificato quale passaggio che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero.

Dunque, il diritto di passaggio inoffensivo è consentito solo alle navi straniere che non pongono in essere atti:

  • di minaccia o di impiego della forza contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dello Stato costiero, o contro qualsiasi altro principio del diritto internazionale enunciato nella Carta delle Nazioni Unite;
  • di esercitazione o manovra con armi di qualunque tipo;
  • di raccolta di informazioni a danno della difesa o della sicurezza dello Stato costiero;
  • di propaganda diretti a pregiudicare la difesa o la sicurezza dello Stato costiero;
  • di lancio, appontaggio o recupero di aeromobili;
  • di lancio, appontaggio o recupero di apparecchiature militari;
  • di carico o scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero; di inquinamento intenzionale e grave;
  • di pesca;
  • di conduzione di ricerca scientifica o di rilievi;
  • diretti a interferire con i sistemi di comunicazione o con qualsiasi altra attrezzatura o installazione dello Stato costiero;
  • che non siano in rapporto diretto con il passaggio[10].

 

È lasciata, tuttavia, la possibilità allo Stato costiero di adottare leggi o regolamenti relativi al diritto altrui di passaggio inoffensivo che le navi straniere sono tenute a rispettare.

 

Il diritto di passaggio inoffensivo nei porti

Dal combinato disposto degli artt. 19, par. 2 e 25, par. 2 Conv. UNCLOS, è rintracciabile il diritto dello Stato costiero di subordinare a condizioni l’accesso ai propri porti delle navi straniere.

La questione in Italia ha riguardato soprattutto lo sbarco dei migranti irregolari, in ordine alle vicende delle navi Open Arms, Aquarius e Sea Watch, in quanto una parte dell’opinione pubblica ha ritenuto le attività di queste navi straniere come minacce alla pace ed alla sicurezza del territorio nazionale.

Se è vero che l’art. 19, par. 2, lett. g individua lo sbarco di persone in violazione delle leggi sull’immigrazione quale atto che legittima lo Stato costiero a definire il passaggio come offensivo, è altrettanto in vigore la consuetudine internazionale che configura lo stato di necessità (distress) come causa di esclusione dell’illecito internazionale.

Ed, ancora, se è vero che nessuna norma della Convenzione di Montego Bay disciplina esplicitamente un obbligo dello Stato costiero di intervento, è però previsto che ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile e senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio e i passeggeri:

  • presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo;
  • proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa;
  • presti soccorso, in caso di abbordo, all’altra nave, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri e, quando è possibile, comunichi all’altra nave il nome della propria e il porto presso cui essa è immatricolata, e qual è il porto più vicino presso cui farà scalo[11].

 

Dall’analisi fin qui svolta, dunque, sembrerebbe che non esista un obbligo dello Stato costiero di accogliere nei propri porti navi battenti bandiere straniere con a bordo migranti irregolari, ma solo un obbligo di salvataggio da parte di una propria nave che intuisca la situazione di pericolo in cui si trovano queste persone durante la loro traversata.

A ben vedere, non ci si può limitare a quanto disciplinato dalla Convenzione di Montego Bay che ha codificato le soli norme consuetudinarie di diritto marittimo. La prassi internazionale è molto più ampia, anzi, un upgrade nella gerarchia delle fonti internazionali impone – in ragione del tema trattato – di prendere in considerazione anche le norme di ius cogens che qui potrebbero venire il rilievo.

Senza ombra di dubbio, anche in questo caso, a prevalere è la tutela della dignità umana ovvero divieto di gross violation, così come ricostruiti con un’interpretazione estensiva degli artt. 1 e 2 Carta ONU. Se in passato l’obbligo di rispettare i diritti umani per gli Stati era solo negativo – cioè di astensione dal commettere atti di genocidio, tortura, pulizia etnica, espulsioni collettive e trattamenti inumani e degradanti –, la giurisprudenza della Corte Internazionale di Giustizia[12] ha elaborato un obbligo attivo al fine di prevenire qualsiasi violazione di tale nucleo irrinunciabile.

Questa ricostruzione, dunque, offre una lettura più ampia del diritto di passaggio inoffensivo, non limitando l’analisi alla sola Convenzione UNCLOS, ma tenendo in considerazione anche i diritti delle altre persone coinvolte, alla luce di una vasta articolazione delle fonti del diritto.

 

Il passaggio negli stretti internazionali: inoffensivo o in transito?

Dal combinato disposto degli artt. 34, 35, 36 Conv. UNCLOS è possibile qualificare gli stretti internazionali quali vie marittime, interamente ricoperte dalle acque territoriali degli Stati costieri, che mettono in comunicazione due parti dell’alto mare ovvero una parte di questo con le acque territoriali o le ZEE[13] di un altro Stato. Oltre a questo fondamentale criterio geografico, non si può non far cenno anche ad un elemento funzionale nella definizione degli stretti internazionali, ovverosia l’utilizzo della via marittima a fini mercantili o quale luogo di transito nelle rotte internazionali.

Trattandosi nella sostanza, quindi, di una porzione di mare territoriale ovvero di ZEE, anche in questo caso dovrebbe riconoscersi – quale limite alla sovranità dello Stato rivierasco – il diritto altrui di passaggio inoffensivo. Tuttavia la Convenzione di Montego Bay – agli artt. 37 e ss – disciplina uno specifico istituto per gli stretti internazionali: il passaggio in transito.

I diritti derivanti da tale ultimo sono certamente più ampi di quelli connessi al passaggio inoffensivo, dal momento che quello in transito si applica anche ai sommergibili ed agli aeromobili civili e militari[14]. Tuttavia sia le navi sia gli aerei che esercitano il diritto di passaggio in transito sono subordinati agli obblighi previsti dall’art. 39 Conv. UNCLOS, che – al pari di quanto previsto per il passaggio inoffensivo – attengono al rispetto della sovranità territoriale e della sicurezza dello Stato costiero.

Se quest’ultimo può limitare l’esercizio dell’innocent passage, non è invece previsto – dall’accordo di codificazione in esame – alcun tipo di sanzione a carico delle navi che violino gli obblighi ex art. 39 Conv. UNCLOS, né una deroga al divieto dell’uso della forza per lo Stato costiero minacciato. Ciò non impedisce, però, l’attuazione di eventuali misure diplomatiche al fine di risolvere la controversia tra gli Stati.

Istituti diversi, dunque, quello del diritto di passaggio inoffensivo e quello del passaggio in transito applicabile ai soli stretti internazionali i quali – oltre ad avere un diverso campo di applicazione – trovano una disciplina divergente in ordine ai diritti ed alle sanzioni nel caso di violazione degli obblighi previsti dalla Convenzione di Montego Bay.

Informazioni

CAMARDA, CORRIERI, SCOVAZZI, 2010, La riforma del diritto marittimo nella prospettiva storica, Milano, Giuffrè Editore.

CONFORTI, 2014, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica.

FOCARELLI, 2019, Diritto internazionale, Wolters Kluwer CEDAM.

SINAGRA-BARGIACCHI, 2019, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Giuffré Francis Lefebvre.

Convenzione UNCLOS http://www.ibneditore.it/wp-content/uploads/_mat_online/DirittoMarittimo/Convenzione_Diritti1982.pdf

Legge di ratifica Convenzione UNCLOS https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1994/12/19/094G0717/sg

https://www.biicl.org/

[1] Firmata a Montego Bay il 10 dicembre 1982

[2] Con cui gli Stati Uniti hanno rivendicato il controllo e la giurisdizione sulle risorse della piattaforma continentale.

[3] Per approfondimenti sul tema si rimanda a A. FEDERICO, “Il diritto internazionale marittimo: la zona economica esclusiva” in DirittoConsenso, 3 settembre 2020. http://www.dirittoconsenso.it/2020/09/03/diritto-internazionale-marittimo-zona-economica-esclusiva/

[4] Cfr. art. 5 Conv. UNCLOS.

[5] Cfr. art. 2 Conv. UNCLOS.

[6] Per la distinzione tra fatti interni ed esterni veda Cass. 30/10/1985.

[7] Cfr. art. 27 Conv. UNCLOS.

[8] C.d. innocent passage.

[9] Cfr. art. 18 Conv. UNCLOS.

[10] Cfr. art. 19 Conv. UNCLOS.

[11] Cfr. art. 98 Conv. UNCLOS.

[12] Caso Marx vs Belgio.

[13] Zona economica esclusiva.

[14] Cfr. art. 38, par. 1 Conv. UNCLOS.


Zona economica esclusiva

Il diritto internazionale marittimo: la zona economica esclusiva

La Zona Economica Esclusiva nella Convenzione UNCLOS e le sue implicazioni strategiche nelle relazioni diplomatiche

 

La Convenzione di Montego Bay e la Zona Economica Esclusiva

Fino al XIX-XX secolo il diritto internazionale marittimo trovava il proprio fondamento nel principio di libertà dei mari: tale prassi fu inizialmente promossa dagli olandesi per contrastare il c.d. dominio dei mari da parte di Inghilterra, Spagna e Portogallo.

La libertà dei mari implica che nessuno Stato possa impedire ad un suo omologo l’utilizzo e lo sfruttamento degli spazi marini, con il limite della pari libertà altrui. Tale eccezione configura l’inammissibilità della sottrazione permanente delle risorse del mare agli Stati terzi[1].

Tuttavia, benché il principio di libertà si sia affermato quale norma di diritto internazionale generale, gli Stati hanno sempre preteso l’esercizio di una certa sovranità nelle acque adiacenti alle proprie coste. Ciò ha portato nel XIX secolo ad “un’erosione del regime di libertà[2]”, attraverso l’individuazione di diversi istituti giuridici in ragione di poteri diversificati che lo Stato costiero può esercitare in altrettante distinte zone marine: mare territoriale, zona contigua, piattaforma continentale e zona economica esclusiva.

Il diritto internazionale marittimo, così come delineatosi dalle consuetudini adottate dagli Stati della Comunità internazionale, è stato oggetto di due importanti conferenze di codificazione[3]: la Conferenza di Ginevra del 1958 e la Terza Conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare che nel 1982 ha portato alla firma della Convenzione di Montego Bay (o, altrimenti detta, Convenzione UNCLOS[4]). Quest’ultima è giuridicamente qualificabile quale accordo di codificazione, riportante la disciplina consuetudinaria del diritto internazionale marittimo.

La presente trattazione intende dar conto di un’analisi dei più importanti principi contenuti negli artt. 55-75 Conv. UNCLOS, disciplinanti i poteri dello Stato costiero nella zona economica esclusiva, che negli anni si sono sovrapposti a quelli esercitabili sulla piattaforma continentale[5].

 

La Zona Economica Esclusiva e lo sfruttamento delle risorse marine

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, in seguito ai progressi della tecnologia, gli Stati iniziano a mettere a punto tecniche sempre più sofisticate per avviare un processo di sfruttamento delle risorse marine, ovviamente oltre quelle ittiche. Tale tendenza ha portato gli Stati ad estendere il proprio controllo al di là del mare territoriale, delineandosi così la piattaforma continentale e, non molto tempo dopo, la zona economica esclusiva. Essa, ai sensi dell’art. 57 Conv. UNCLOS, si estende fino a 200 miglia marine dalle linee di base da cui viene misurata la larghezza del mare territoriale.

Tale limite è individuato nella linea di bassa marea; tuttavia questo principio, ex art. 7 Conv. UNCLOS, può essere derogato ricorrendo al c.d. “sistema delle linee rette”, le quali vengono tracciate congiungendo i punti sporgenti della costa ovvero, nel caso vi siano isole o scogli, congiungendo le estremità di questi. Evidente è, dunque, la vastità della zona economica esclusiva: ciò crea problemi in ordine alla delimitazione dell’area tra Stati frontisti e Stati contigui. La soluzione interpretativa trova un suo riferimento normativo nell’art. 6 della Convenzione di Ginevra, il quale impiegava per gli Stati che si fronteggiano il criterio dell’equidistanza, misurato dai punti delle rispettive linee di base del mare territoriale, salvo diversa volontà delle parti[6].

Gli artt. 56 e ss Conv. UNCLOS attribuiscono allo Stato costiero il controllo, nella zona economica esclusiva, di tutte le risorse economiche, biologiche e minerali del suolo, del sottosuolo e delle acque sovrastanti. Ovviamente l’esclusività dei poteri si estende anche alla pesca, in quanto gli artt. 61 e 62 Conv. UNCLOS prevedono che sia lo Stato costiero a fissare, con legge nazionale, la quantità massima di risorse ittiche sfruttabili e la propria capacità di sfruttamento; solo se quest’ultima è inferiore al massimo, allora lo Stato costiero può stipulare accordi con i suoi omologhi consentendo la pesca anche agli stranieri.

Nella zona economica esclusiva, inoltre, lo Stato costiero esercita la giurisdizione in materia di installazione e utilizzazione di isole artificiali, impianti e strutture, ricerca scientifica marina, protezione e preservazione dell’ambiente marino[7]. Quando i poteri dello Stato costiero sulla zona economica esclusiva si confondono con quelli sulla piattaforma continentale, esso mantiene comunque la possibilità di esercitare la propria giurisdizione[8].

A questo punto appare indispensabile comprendere se nella zona economica esclusiva è possibile individuare diritti e obblighi per gli Stati terzi. L’art. 58 Conv. UNCLOS non pregiudica l’utilizzazione delle risorse per gli altri Stati, i quali continueranno a godere della libertà di navigazione, di sorvolo, di posa di condotte e cavi sottomarini. La norma, con tale precisazione, pone un bilanciamento tra il diritto dello Stato costiero di sfruttare esclusivamente e razionalmente le risorse marine e il diritto degli altri Stati di utilizzare la zona economica esclusiva per ragioni connesse alla comunicazione ed ai traffici marittimi ed aerei. Si tratta, per entrambe le parti, di diritti che “hanno carattere funzionale[9]“, tali da escludere una preminenza sia del principio della libertà dei mari sia del principio della sovranità dello Stato costiero. Ciò trova conferma nell’art. 59 Conv. UNCLOS il quale, disciplinando situazioni giuridiche residuali per cui la Convenzione non attribuisce né diritti né doveri allo Stato costiero o agli altri Stati, individua come principio applicabile per la soluzione dei conflitti quello dell’equità.

Sulla base di quest’ultimo principio vengono regolati anche i diritti dei cc.dd. Stati geograficamente svantaggiati, cioè quelli che non hanno accesso al mare o hanno uno sviluppo costiero minimo, ai quali, dunque, è precluso il diritto esclusivo di sfruttamento delle risorse marine. Gli artt. 69 e 70 Conv. UNCLOS riconoscono a questi Paesi il diritto dello sfruttamento di una parte delle risorse biologiche eccedentarie delle zone economiche esclusive degli Stati costieri vicini, in ragione di accordi tra gli Stati interessati.

 

Accordo Libia-Turchia

Il 27 novembre 2019 è stato firmato un accordo bilaterale tra Libia e Turchia al fine di, non solo realizzare una cooperazione militare, ma anche delimitare le rispettive zone economiche esclusive. Tale ultimo obiettivo del trattato si è reso necessario per la configurazione dei limiti di sfruttamento delle risorse energetiche da parte dei due Stati. Il confine tra le due aree marittime è stato individuato in una zona che la Grecia considera come propria, sulla base di un’interpretazione estensiva della Convenzione di Montego Bay[10].

La questione oggetto del trattato involge anche l’Europa, laddove – in virtù di questo – la Turchia potrebbe eccepire ostacoli allo sfruttamento e all’esportazione di gas dal Mediterraneo Orientale. In ragione di tale possibilità, l’accordo è stato ampiamente criticato dall’Unione europea in quanto lesivo dei diritti di sovranità dei Paesi terzi[11] (in particolare Grecia, Cipro e Italia) e delle norme consuetudinarie di diritto internazionale marittimo.

L’accordo internazionale preso in esame costituisce il paradigma per dimostrare quanto sia importante – anche per la tenuta delle relazioni diplomatiche tra gli Stati – la delimitazione della zona economica esclusiva, a motivo delle implicazioni strategiche che lo sfruttamento delle risorse marine comporta laddove si realizzino profitti economici.

Informazioni

CAMARDA, CORRIERI, SCOVAZZI, 2010, La riforma del diritto marittimo nella prospettiva storica, Milano, Giuffrè Editore.

CONFORTI, 1983, La Zona Economica Esclusiva, Milano, Giuffrè Editore.

CONFORTI, 2014, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica.

DEL VECCHIO, 1984, Zona Economica Esclusiva e Stati Costieri, Firenze, Le Monnier.

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/approfondimento-laccordo-turchia-gna-sui-confini-marittimi-25158

Convenzione UNCLOS http://www.ibneditore.it/wp-content/uploads/_mat_online/DirittoMarittimo/Convenzione_Diritti1982.pdf

Legge di ratifica Convenzione UNCLOS https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1994/12/19/094G0717/sg

[1] Si pensi all’esaurimento di una specie in una determinata zona.

[2] Così CONFORTI, 2014, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica, p. 289.

[3] Meeting intergovernativi volti alla creazione di accordi di codificazione i quali, lungi dall’essere fonti di secondo grado, ricostruiscono la disciplina consuetudinaria di una determinata materia.

[4] Acronimo di “United Nations Convention on the Law of the Sea”. Da questo momento “Conv. UNCLOS”.

[5] Ai sensi dell’art. 76, par.1, Conv. UNCLOS: “La piattaforma continentale di uno Stato costiero comprende il fondo e il sottosuolo delle aree sottomarine che si estendono al di là del suo mare territoriale attraverso il prolungamento naturale del suo territorio terrestre fino all’orlo esterno del margine continentale, o fino a una distanza di 200 miglia marine dalle linee di base dalle quali si misura la larghezza del mare territoriale, nel caso che l’orlo esterno del margine continentale si trovi a una distanza inferiore”.

[6] Esse potrebbero decidere di stipulare un trattato internazionale regolante i rispettivi poteri nella zona economica esclusiva sulla base del principio di equità. Anzi, tale soluzione è auspicata dalla sentenza della CIG del 20 febbraio 1969 (Caso della delimitazione della piattaforma continentale del Mare del Nord), laddove i giudici hanno ritenuto che il criterio dell’equidistanza non sia più norma di diritto internazionale generale.

[7] Cfr. art. 56, par. 1, lett. b Conv. UNCLOS.

[8] Cfr. artt. 76 e 82 Conv. UNCLOS.

[9] Così CONFORTI, 2014, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica, p. 305.

[10] Convenzione che la Turchia non ha mai firmato. Tuttavia, trattandosi di un accordo di codificazione, ad esso sono vincolati tutti gli Stati della Comunità internazionale.

[11] Per maggiori approfondimenti si veda il seguente articolo di LORENZO VENEZIA in DirittoConsenso http://www.dirittoconsenso.it/2020/05/26/la-delimitazione-territoriale-degli-stati/


Principio di autodeterminazione dei popoli

Il principio di autodeterminazione dei popoli: profili attuali

Come l’evoluzione del principio di autodeterminazione dei popoli ha modificato i rapporti geopolitici

 

Il principio di autodeterminazione dei popoli quale norma di ius cogens

Come è noto, il principio di autodeterminazione dei popoli è riconducibile alle norme di diritto internazionale cogente ai sensi degli artt. 1, par. 2, 55 e 76 della Carta delle Nazioni Unite[1].

Tale classificazione consente di considerare le norme in esame come inderogabili se non da altre norme di pari grado. L’espressione “autodeterminazione dei popoli” indica l’assenza di dominazione straniera che per tutta l’era del colonialismo ha invece assediato le popolazioni locali.

Soprattutto nei primi decenni del ‘900 le grandi potenze europee hanno approfittato del loro potere contrattuale ed economico per attuare progetti di sfruttamento su territori abitati da altri popoli, disinteressandosi della volontà di questi ultimi.

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in seguito all’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite, la comunità internazionale ha riconosciuto a ciascun popolo la libertà di autodeterminarsi sia rispetto ai confini esterni che rispetto alla scelta di un proprio governo, acquisendo così il rango di ius cogens. Tuttavia la portata – inizialmente solo formale – del principio di autodeterminazione dei popoli si è ampliata quando nel 1960 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato la risoluzione n. 1514 recante “Dichiarazione per la garanzia dell’indipendenza dei Paesi e dei popoli coloniali”, con la quale il colonialismo viene a delinearsi come illecito internazionale[2]. Sarà poi la Corte Internazionale di Giustizia a dare piena operatività al principio, soprattutto in sede consultiva, in ragione di una serie di pareri adottati per tentare una conciliazione in situazioni di conflitto interno[3].

Da queste molteplici fonti si delinea un diritto in formazione nella misura in cui si riconosce al popolo, sottoposto al governo straniero, l’aspettativa di divenire Stato ovvero di associarsi o integrarsi con un altro Stato indipendente, scegliendo il proprio regime politico. Infatti la soggettività internazionale – quale idoneità ad essere destinatario di diritti e obblighi – non è riconosciuta al popolo, bensì allo Stato-organizzazione capace di esercitare un effettivo potere d’imperio su un determinato territorio e nei confronti degli individui che ivi insistono, traendo la propria forza giuridica da una Costituzione.

 

Movimenti di liberazione nazionale: conflitto israelo-palestinese, Kosovo e Daesh

La prassi testimonia l’insorgere di numerosi movimenti di liberazione nazionale che lottano per l’affermazione del principio di autodeterminazione dei popoli.

Dal punto di vista giuridico-formale si rende difficile il delinearsi del riconoscimento della soggettività internazionale a tali associazioni private, laddove manchevoli del principio di effettività; tuttavia non si può negare sic et simpliciter che sul piano internazionale a tale movimenti vengano riconosciuti diritti e che essi siano destinatari di sanzioni.

Un paradigma è rappresentato sicuramente dall’O.L.P. (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), fondata nel 1964 per l’istituzione di uno Stato Palestinese a fronte di una sovranità territoriale israeliana, alla quale l’ONU ha riconosciuto lo status di membro osservatore in seno all’Assemblea Generale. Benchè negli ultimi decenni si sia giunti al riconoscimento di un’Autorità statale palestinese nella persona di Maḥmūd ʿAbbās, la questione isreaelo-palestinese è tornata ad avere rilievo nell’ambito dell’attualità internazionale quando – in seguito ad una crisi politica in Isreaele, aggravata dalla situazione epidemiologica data dalla pandemia da Covid 19 –  i due attuali leader partitici del Paese, Netanyahu e Gantz, hanno concluso un accordo per la formazione di un Governo di emergenza nazionale. Tra gli obiettivi di questo innovativo modus operandi vi è anche l’annessione delle colonie e, successivamente, di migliaia di chilometri quadrati nella Valle del Giordano: un territorio, questo, che è considerato parte di un possibile e futuro Stato palestinese. L’avvio delle operazioni di annessione era previsto per il primo luglio ma le possibili conseguenze diplomatiche[4], che un tale atto avrebbero avuto, ne hanno determinato un rinvio. È ictu oculi evidente che l’annessione unilaterale di un territorio si configuri da un lato come una violazione del principio di autodeterminazione dei popoli – determinandosi così un illecito internazionale -, dall’altro come un reagente per le relazioni geopolitiche mediorientali già molto lontane dalla stabilità.

Un’esperienza giuridicamente molto vicina a quella dell’O.L.P. – seppur lontana in ragione di un sostrato geografico-diplomatico diverso – è quella vissuta in Kosovo a partire dagli anni ’90 quando il dittatore Milošević ha abolito l’autonomia regionale di questo territorio: tale atto ha spinto alcuni cittadini kosovari a costituire nel 1992 l’U.C.K. (Ushtria Çlirimtare e Kosovës – Esercito di Liberazione del Kosovo). Anche questo leading case in materia di autodeterminazione è un esempio di conflitto politico interno, sfociato poi in una vera e propria guerra civile[5], tanto che l’ONU nel 1998 inserisce l’U.C.K. nella lista delle organizzazioni terroristiche.

Deve riservarsi un approccio non molto diverso anche alla questione del Daesh[6], in quanto gli accordi di Sykos-Picot, all’indomani della Prima Guerra Mondiale, hanno fatto naufragare la possibilità di creare una confederazione di Stati arabi; pur tuttavia l’appartenenza ad una comunità araba ha a lungo prevalso – forse prevale ancora –  sui concetti di popolo siriano ed iracheno.  Soprattutto l’U.C.K. e il Daesh hanno trasformato la loro lotta per l’affermazione del principio di autodeterminazione dei popoli in terrorismo[7]: questa è la causa per cui, nonostante il tentativo del Tribunale penale per il Libano[8], non è possibile individuare una netta linea di demarcazione tra le due nozioni giuridiche. Tale ultima conclusione costituisce la causa principale della mancata configurazione del terrorismo quale crimine internazionale, laddove non c’è un riconoscimento universale della antigiuridicità degli atti connessi.

 

Il principio di autodeterminazione dei popoli contemporanei: cenni

Le questioni dell’indipendenza catalana, dei disordini ad Hong Kong e del recesso del Regno Unito dall’Unione europea[9] si qualificano quali volontà dei popoli coinvolti di autodeterminarsi.

In particolare la Catalunia ha goduto di una certa autonomia dalla Spagna sin dal Medioevo, salvo la parentesi della dittatura franchista. Anche la Costituzione spagnola del 1978 riconosce un regime di autogoverno alla Regione, ampliatosi nel 2006 in seguito all’adozione di un nuovo Statuto, alcune norme del quale sono state impugnate presso il Tribunale costituzionale spagnolo per violazione del principio di unità indissolubile dello Stato ex art. 2 Cost. I due referendum plebiscitari del 2014 e del 2017 – l’uno dichiarato inammissibile dai giudici costituzionali, l’altro non riconosciuto dal Parlamento di Madrid – hanno portato alla dichiarazione unilaterale di indipendenza della Cataluna dalla Spagna che è costata la condanna al Presidente catalano Carles Puidgemont da parte della Corte Suprema spagnola.

La questione hong-kongese invece prende avvio nel 1997 quando il Regno Unito ha trasferito questa sua colonia all’amministrazione speciale cinese[10]: da questo momento Hong Kong sarà sottoposto alla sovranità territoriale di Pechino ma godrà di un sistema – quasi – democratico (c.d. one country, two systems). Tra l’estate e l’autunno scorso, tuttavia, hanno preso avvio numerose manifestazioni in piazza tra i cittadini hong-kongesi, a seguito di alcuni tentativi del governo centrale cinese di limitare l’autonomia democratica della Regione. L’allora proposta di emendamento della legge sull’estradizione poi ritirata e la recente approvazione della legge sulla sicurezza da parte dell’Assemblea Nazionale del Popolo hanno sostanzialmente messo fine al sistema di amministrazione speciale, giungendo così alla omogeneizzazione ordinamentale del territorio con il resto della Cina.

Ed, infine, non appare avulsa dal tema la c.d. Brexit, laddove un’esigenza di autodeterminazione interna del popolo britannico – manifestatasi con il referendum consultivo del 2016 – ha portato i governi May e Johnson a negoziare il recesso del Regno Unito dall’Unione europea ai sensi dell’art. 50 TUE. Approvato l’accordo di recesso sia dal Parlamento britannico sia dal Parlamento europeo, ciò che maggiormente si teme è un no deal all’esito del periodo di transizione che si concluderà alla fine del 2020.

I leading case di una autodeterminazione dei popoli contemporanea realizzano esiti diversificati tra loro in ragione di presupposti altrettanto eterogenei: la situazione che maggiormente preoccupa, anche per le conseguenze diplomatiche che potrebbe avere nella tenuta degli equilibri internazionali, è sicuramente quella di Hong Kong che ha già dimostrato di non volersi svincolare dal meccanismo one country two systems, a protezione della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini che il governo di Pechino non garantirà ed a motivo di un (non) riconoscimento della nuova situazione da parte della Comunità internazionale.

Informazioni

Arangio Ruiz, Autodeterminazione (diritto dei popoli alla) in Enciclopedia Giuridica Giuffrè, 1988, vol.IV.

Conforti, 2014, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica.

Di Nolfo, 2004, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale nel XX secolo, Bari, Editori Laterza.

Frigo, Il caso catalano, il principio di autodeterminazione dei popoli e la posizione dell’Unione europea in www.eurojus.it, 30 ottobre 2017.

Nino, 2012, Terrorismo internazionale, privacy e protezione dei dati personali, Napoli, Editoriale scientifica.

[1] Disciplinanti rispettivamente i fini delle Nazioni Unite, i principi in materia di cooperazione internazionale economica e sociale e gli obiettivi del regime di amministrazione fiduciaria.

[2] E’ proprio nel 1960 che molti Stati del continente africano dichiarano la loro indipendenza dalle potenze europee. A titolo esemplificativo si ricordi il c.d. “communautè” dell’allora Ministro degli Esteri francese De Gaulle.

[3] Parere sulla Namibia (1971); parere sul Sahara occidentale (1975); parere sulla costruzione del muro (2004); parere sull’indipendenza del Kosovo (2010).

[4] Soprattutto rispetto alle relazioni con l’Autorità nazionale palestinese, la vicina Giordania e tutta la comunità araba globale.

[5] Nella quale vengono commessi crimini di guerra e crimini contro l’umanità, la cui giurisdizione è stata conferita al Tribunale speciale per il Kosovo.

[6] Daesh è l’acronimo arabo equivalente a Stato islamico: tuttavia l’inesistenza delle condizioni giuridiche per l’istituzione di un’organizzazione statale impongono l’utilizzo di una tale terminologia, seppur meno conosciuta rispetto a quella di ISIS.

[7] Sul tema si veda l’articolo di Nicolò Brugnera http://www.dirittoconsenso.it/2019/07/12/terrorismo-una-nuova-sfida-del-xxi-secolo/.

[8] Istituito nel 2007 per perseguire i crimini connessi all’assassinio del premier libanese Hariri avvenuto nel 2005. Tale tribunale speciale ha adottato una audace sentenza volta a definire il terrorismo quale crimine internazionale.

[9] Per alcuni riferimenti in materia di Brexit si veda l’articolo di Lorenzo Venezia http://www.dirittoconsenso.it/2018/12/01/il-futuro-allargamento-dellunione-europea/.

[10] Trattato c.d. Handover.


Balcani occidentali

Processo di integrazione europea dei Balcani occidentali

Dal 1999 ad oggi: UE e Balcani occidentali, un lungo percorso di trattative e processi di integrazione

 

Balcani occidentali e allargamento dell’Unione Europea

Come è noto, l’Unione europea è un’organizzazione internazionale regionale. La sua membership dipende non solo da fattori geografici, ma anche politici, economici e culturali, in ragione di un common background condiviso tra gli Stati membri. L’Unione europea si fonda su trattati istitutivi cc.dd. aperti: ciò significa che, successivamente alla loro conclusione, possono aderirvi anche altri Stati che non hanno partecipato ai negoziati. Allo stato dell’arte è possibile contare sette processi di effettivo allargamento, realizzatisi tra il 1973 e il 2013[1]; è poi attualmente in corso il processo di adesione[2] di alcuni Stati dei Balcani occidentali, nella species Albania, Kosovo[3], Montenegro, Repubblica della Macedonia del Nord e Serbia.

I requisiti per la presentazione della domanda di adesione ai fini dell’ammissione sono disciplinati dall’art. 49 TUE[4], al quale si aggiungono i cc.dd. criteri di Copenaghen[5]. In buona sostanza uno Stato terzo che desidera diventare membro dell’Unione deve rispettare i valori fondanti ex art. 2 TUE[6] e assicurare l’esistenza di istituzioni stabili che garantiscano i principi di uno Stato di diritto (democrazia, tutela dei diritti dell’uomo e delle minoranze), un’economia di libero mercato su base concorrenziale e, last but not least, la capacità di assumere gli obblighi derivanti dall’adesione all’Unione al fine di realizzare politiche comuni. Ovviamente – di converso – l’Unione deve adattare le proprie istituzioni al processo di allargamento: si pensi al numero dei parlamentari europei fissato dal Trattato di Lisbona a 751 unità (presidente compreso).

Ciò che, però, in questa sede si intende trattare in maniera precipua è l’integrazione dei Balcani occidentali, che ha avuto inizio con il processo di stabilizzazione e associazione (PSA) nel 1999: esso si configura quale piano di pre-accesso all’Unione che ha permesso un avvicinamento degli Stati dei Balcani occidentali all’organizzazione internazionale, attraverso accordi politici ed economici aventi ad oggetto la creazione di un’area di libero scambio con i Paesi in questione, la cui esecuzione è garantita da una cooperazione tra i parlamenti nazionali ed il Parlamento europeo.

Solo quando sia i criteri di adesione sia le condizioni del processo di stabilizzazione e associazione saranno soddisfatti, gli Stati dei Balcani occidentali potranno divenire definitivamente membri dell’Unione europea, la quale – dalle conclusioni del Consiglio europeo di Tessalonica del 2003 fino alla Dichiarazione di Zagabria del mese scorso, passando per la Dichiarazione di Sofia del 2018 – si è espressa nel senso di sostenere tale prospettiva.

 

Ostacoli al processo di integrazione

A questo punto verrebbe spontaneo chiedersi perché, a distanza di vent’anni, non si sia ancora arrivati ad una adesione formale di questi Stati all’Unione europea. E’ importante sottolineare che in tutti questi anni i negoziati non si sono mai interrotti ma hanno subito un’alternanza di up and down, in ragione di alcuni ostacoli che le parti hanno incontrato sulla strada del processo di allargamento.

Gli ordinamenti dei Balcani occidentali, infatti, ancora provati dall’esperienza del regime sovietico durante il periodo della guerra fredda e dalla successiva dittatura di Milošević (che in Albania si aggiunge all’occupazione fascista durante il Ventennio), non sono in grado di garantire pienamente i termini degli accordi con l’Unione. I principali impedimenti riguardano la mancata repressione della criminalità organizzata, della corruzione e del terrorismo; ancora, lo sfollamento forzato della popolazione causato da guerre, persecuzioni e conflitti civili, nonché dalle migrazioni generate dalla povertà; ed infine, la labile cooperazione economica nella regione e tra la regione e il resto dell’Europa. A tutto questo si aggiungono le difficoltà nel consolidare la rule of law, laddove manca un’organizzazione statale che consenta la separazione dei poteri e la capacità di stabilire un sistema legale e costituzionale effettivamente funzionante.

Gli Stati dei Balcani occidentali interessati all’integrazione europea stanno tentando di superare questi ostacoli attuando le pratiche di enforcement previste dallo Stability Pact del 1999: l’iniziativa regionale anticorruzione (regional anticorruption initiative), la cooperazione con l’Europa meridionale (southeast european cooperation initiative), il centro regionale per combattere i crimini transnazionali (regional centre for combating trans-border crime) e l’iniziativa regionale in materia di rifugiati, migrazione e asilo (migration, asylum, and refugee regional initiative)[7].

Diversamente da quello che è il tentativo di integrazione da parte degli stessi Stati membri dell’Unione europea – secondo il c.d. “Processo di Berlino”, la cui prima conferenza si è tenuta nella capitale tedesca nel 2014, – non si può negare che, nel corso degli ultimi anni, l’Unione europea abbia creato – almeno formalmente –  le condizioni favorevoli all’adesione, attraverso la configurazione di nuove strategie: ex multis, si ricordi la “Six-flagship initiative EU-Western Balkans” del febbraio 2018, con la quale la Commissione europea si propone da un lato di coadiuvare questi Stati nel rafforzamento dello Stato di diritto e nel miglioramento dello sviluppo socio-economico, dall’altro si impegna ad adottare una politica europea in materia di sicurezza e migrazione nei Balcani occidentali, a programmare un’agenda digitale per i Paesi WB e ad assicurare buone relazioni diplomatiche.

L’integrazione europea dei Balcani occidentali si realizza anche attraverso forme di cooperazione regionale[8] che consentano lo sviluppo in diversi settori, quali l’energia e le infrastrutture, la giustizia e gli affari interni, la sicurezza, la costruzione del capitale umano e le relazioni parlamentari. Un altro passo importante è, senza dubbio, rappresentato dalla libera circolazione delle persone[9] nello spazio Schengen: dal 2009 i cittadini macedoni, montenegrini e serbi, dal 2010 i bosniaci e gli albanesi e dal 2018 i kosovari beneficiano dell’esenzione visto.

 

Prospettive future

Dalla ricostruzione delle vicende fin qui operata, emerge con evidenza che il processo di allargamento definitivo a tutta l’area dei Balcani occidentali non si concluderà a breve termine.

Il ruolo chiave nei prossimi mesi (o forse anni) sarà svolto dal Parlamento europeo il quale – non solo, ai sensi dell’art. 49 TUE, deve approvare qualunque nuova adesione all’Unione – ma è annualmente tenuto ad adottare risoluzioni sull’opportunità degli allargamenti e ad intrattenere relazioni bilaterali con i parlamenti dei Balcani occidentali.

Nell’attuale contesto le prospettive di adesione più prossime sono quelle dell’Albania e della Repubblica di Macedonia del Nord, in ragione delle conclusioni adottate dal Consiglio europeo nel marzo 2020, con le quali si è dato formale avvio ai negoziati in attesa della Dichiarazione di Zagabria di maggio. Tale ultima, tenuto conto anche della diffusione del Covid-19 nella regione balcanica, ha rinnovato la solidarietà europea ai Paesi WB, realizzatasi concretamente con lo stanziamento di risorse economiche e sanitarie, ma ha anche ribadito la necessità di preservare – sempre e comunque – i principi dello Stato di diritto, in particolare per quanto riguarda la lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata, il buon governo, nonché il rispetto dei diritti umani, della parità di genere, dei diritti delle persone appartenenti a minoranze e della libertà di espressione. E non poteva essere altrimenti, dal momento che sono proprio questi i nodi più difficili da sciogliere per la futura adesione all’Unione. Prospettive più a lungo termine, invece, riguardano gli altri Stati dei Balcani occidentali che, comunque, rimangono vincolati ai precedenti patti di pre-adesione.

Il processo di integrazione europea dei Paesi WB permette loro di avere, nel bene e nel male, un maggiore appeal nelle relazioni diplomatiche globali: se da una parte gli Stati Uniti insistono per un’adesione alla NATO[10], dall’altra la Cina si propone come alternativa all’Unione nelle relazioni commerciali.

Non sfuggano, in chiusura, i rischi per le frontiere esterne dell’Unione europea nel caso di adesione degli Stati WB, soprattutto rispetto al confine turco, sebbene Ankara abbia già da tempo iniziato anch’essa un processo di integrazione europea. Un percorso parallelo tra Balcani occidentali e Turchia, volto al superamento degli ostacoli culturali, giuridici ed economici che impediscono l’allargamento, potrebbe configurarsi quale soluzione all’adesione definitiva di tutti gli Stati dei Balcani occidentali e, forse, anche della Turchia.

Informazioni

[1] Danimarca, Irlanda e Regno Unito (1973); Grecia (1981); Spagna e Portogallo (1986); Austria, Finlandia e Svezia (1985); Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Cipro e Malta (2004); Bulgaria e Romania (2007); Croazia (2013).

[2] Sul tema dell’allargamento, si veda questo articolo di Lorenzo Venezia: http://www.dirittoconsenso.it/2018/12/01/il-futuro-allargamento-dellunione-europea/

[3] In linea con lo status dichiarato nella risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e con il parere della Corte Internazionale di Giustizia sulla dichiarazione di indipendenza del Kosovo.

[4] “Ogni Stato europeo che rispetti i valori di cui all’articolo 2 e si impegni a promuoverli può domandare di diventare membro dell’Unione. Il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali sono informati di tale domanda. Lo Stato richiedente trasmette la sua domanda al Consiglio, che si pronuncia all’unanimità, previa consultazione della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, che si pronuncia a maggioranza dei membri che lo compongono. Si tiene conto dei criteri di ammissibilità convenuti dal Consiglio europeo.

Le condizioni per l’ammissione e gli adattamenti dei trattati su cui è fondata l’Unione, da essa determinati, formano l’oggetto di un accordo tra gli Stati membri e lo Stato richiedente. Tale accordo è sottoposto a ratifica da tutti gli Stati contraenti conformemente alle loro rispettive norme costituzionali.”

[5] Stabiliti dal Consiglio europeo di Copenaghen del 1993.

[6] “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.”

[7] Rispettivamente con sedi a Sarajevo, Bucarest e Skopje.

[8] In particolare il Consiglio di cooperazione regionale con sede a Sarajevo e l’accordo centroeuropeo di libero scambio.

[9] L’argomento è stato trattato da Giuseppe Guerra: http://www.dirittoconsenso.it/2019/06/27/schengen-le-adesioni-ed-il-caso-di-bulgaria-e-romania/

[10] L’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord.


Checks and balances

Checks and balances nell'ordinamento USA

Il principio di checks and balances in ordine alla nomina dei giudici federali, al controllo diffuso di costituzionalità delle leggi e al diritto di veto del Capo di Stato

 

Un rapido accenno alla forma di governo statunitense prima del principio dei checks and balances

Gli Stati Uniti d’America integrano una forma di governo che è riconducibile a quella presidenziale in un sistema federale[1]. Vi è, infatti, un unico soggetto di diritto avente personalità internazionale, il quale ricomprende cinquanta stati. Tale confederazione è guidata dal Presidente che, quale commander in chief[2] avente responsabilità politica nei confronti del popolo, è allo stesso tempo Capo di Stato e di Governo. La sua funzione quadriennale ha origine elettiva e non può venir meno se non nel caso di impeachment[3]. L’indipendenza statunitense trae la sua forza giuridica dalla Costituzione del 1787 che, ancorché delineando un ordinamento di common law, è Legge fondamentale scritta. Quest’ultima sancisce la separazione dei poteri mitigata dal principio di checks and balances: tale espressione indica un sostanziale equilibrio tra i tre poteri dello Stato, i quali si controllano vicendevolmente.

L’art. I attribuisce il potere legislativo al Congresso, un organo la cui bicameralità è data dal Senato eletto su base statale e dalla Camera eletta su base nazionale. Quest’organo adotta le leggi “necessarie ed adatte”[4] per l’esercizio dei poteri espressamente previsti nel dettato costituzionale.

Ai sensi dell’art. II il Presidente degli Stati Uniti esercita il potere esecutivo, ha il comando delle forze armate, ha il potere – previo consenso del Senato – di stipulare trattati internazionali e nominare ambasciatori, consoli ed altri rappresentanti diplomatici. A ciò si aggiunge la fondamentale competenza di nominare i giudici della Corte Suprema e tutti gli altri pubblici ufficiali statunitensi: tale funzione, come si vedrà nel prosieguo, è uno dei paradigmi del sistema di pesi e contrappesi che caratterizzano l’ordinamento nordamericano.

La funzione giurisdizionale federale, infine, è espressamente attribuita dall’art. III alla Corte Suprema. Il Congresso può, inoltre, istituire corti federali inferiori: ciò è quanto accaduto con l’adozione del Judiciary Act del 1789, la cui attuazione ha realizzato un sistema che, oltre alla Suprema Corte quale giudice di ultima istanza, si articola su due gradi di giudizio (le Corti distrettuali in primo grado e le Corti d’Appello in secondo).

L’ordinamento giudiziario statunitense si realizza sia sul piano nazionale ma anche su quello locale: alle Corti federali suindicate, si affiancano le Corti statali che hanno una varietà di denominazioni states by states.

 

Bilanciamento dei poteri e nomina dei giudici federali

Uno degli aspetti della vita istituzionale statunitense nel quale opera il sistema di checks and balances è sicuramente la nomina dei giudici federali di qualunque grado, che avviene ad opera del Presidente degli Stati Uniti ma con il consenso del Senato ai sensi dell’art. III Cost.

Questo meccanismo implica nella sostanza che il Presidente sia portato a scegliere persone che – tra i giudici delle Corti inferiori, i professori delle facoltà giuridiche e i pubblici ufficiali – manifestano un’ideologia simile alla propria, che perseguono, cioè, un medesimo orientamento. Ma è proprio in tale propensione che si inserisce il principio che si sta tentando di analizzare, in quanto spetterà poi al Senato fare un’indagine conoscitiva sulla persona individuata dal Presidente e confermarne la nomina[5]. Tale equilibrio istituzionale nella scelta è fondamentale, perché i giudici federali, salvo l’attivazione del procedimento di impeachment[6], sono nominati a vita. Ciò, se si riflette bene, realizza anche una simmetria tra le nomine dei giudici, in ragione del susseguirsi delle presidenze americane.

Per quanto concerne, invece, la nomina dei giudici statali, si assiste all’attuazione di una serie di differenti modelli impiegati tra i vari stati: elezione popolare, nomina da parte del governatore previo consenso del Senato ovvero sistema misto. A ben vedere, dunque, anche l’ordinamento giudiziario locale favorisce l’attuazione del principio di checks and balances tra i tre poteri.

 

Sentenza Marbury e potere di judicial review

La Costituzione statunitense non disciplina esplicitamente il potere di judicial review. Si tratta del procedimento di controllo giurisdizionale sulla legittimità delle leggi. Tuttavia l’art. VI Cost. individua nella Costituzione la Legge suprema della nazione ed obbliga i giudici di ogni stato ad uniformarvisi.

Ecco che il judicial review dal 1803 è divenuto l’esempio più famoso di attuazione del principio di checks and balances, grazie alla redazione della sent. Marbury vs Madison ad opera del Chief Justice Marshall. La vicenda ha inizio quando il ricorrente viene nominato giudice dal Presidente Adams poche ore prima che scada il suo mandato; dopo l’elezione del Presidente Jefferson, il nuovo funzionario presidenziale Madison non completa la procedura di nomina attraverso l’atto di notifica dell’incarico a Marbury. Poiché quest’ultimo considera la notifica un atto dovuto, ricorre alla Corte suprema – ai sensi del Judiciary Act – chiedendo un writ of mandamus che obblighi Madison a notificargli la nomina. La questione, per il collegio presieduto dal giudice Marshall, è alquanto delicata, perché avrebbe potuto aprire un conflitto politico-istituzionale sia se fosse stata accolta la domanda sia se essa fosse stata rigettata. Ma la controversia viene magistralmente risolta da Marshall, il quale sostiene che la norma del Judiciary Act che conferisce a Marbury il diritto di adire la Corte Suprema è incompatibile con l’art. III della Costituzione statunitense, il quale elenca in maniera esplicita ed incontrovertibile i casi in cui la Corte Suprema è competente in primo grado: in queste ipotesi individuate dalla norma costituzionale – tra cui, si ricorda, la nomina di ambasciatori, consoli e diplomatici – sicuramente non rientra il caso in analisi, perché trattasi della nomina di un giudice.

La celeberrima sent. Marbury vs Madison apre, nell’ordinamento statunitense, al controllo di legittimità costituzionale c.d. diffuso. Ciò significa che – contrariamente a quanto accade nei sistemi continentali, anche grazie all’elaborazione dei filosofi Kelsen e Schmitt – non vi è un organo istituzionale ad hoc che esercita la funzione di giudice costituzionale, ma tutti i giudici ordinari possono – anzi devono – esercitare sindacato di costituzionalità sulle leggi nel momento in cui si trovano a risolvere il caso concreto.

Questo modus operandi, il cui funzionamento è garantito anche dal principio dello stare decisis, implica il potere di qualunque giudice federale di disapplicare le norme ordinarie in contrasto con la Costituzione. Dunque, la ponderazione tra checks and balances in questo caso è data dal fatto che, da un lato, i giudici possono esercitare il controllo di costituzionalità sulle leggi, dall’altro, competenza e numero di questi sono determinati dal Congresso.

 

Checks and balances e potere di iniziativa legislativa

Si è già detto che la funzione legislativa viene esercitata dal Congresso, ai sensi dell’art. I Cost. Questa regola implica che il potere di iniziativa legislativa spetti in via esclusiva a Camera e Senato e che, quindi, l’Esecutivo, in linea generale, non abbia competenze in tal senso. Ma anche questo ulteriore assetto è mitigato dal principio di checks and balances, laddove il Presidente degli Stati Uniti, oltre a poter essere autorizzato dal Congresso all’adozione di regulations[7], ha anche diritto di veto sulle leggi.

Dunque ogni bill approvato dal Congresso, prima di essere pubblicato ed entrare in vigore, deve essere sottoposto entro dieci giorni al Presidente, il quale potrà optare per la firma dell’atto ovvero per l’esercizio del veto. Nel primo caso l’atto acquisterà forza di legge; nel secondo è restituito alle Camere, le quali – se non intendono votare un nuovo bill da sottoporre al Presidente – approvano lo stesso già oggetto di veto che entrerà in vigore solo se raggiungerà la maggioranza dei due terzi dei componenti.

Rispetto a questo assetto è preoccupante – al pari di quanto accade nell’ordinamento italiano con la prassi dell’abuso del decreto legge – non tanto il numero di leggi su cui è stato esercitato il diritto di veto, quanto le sempre più frequenti deroghe all’iniziativa legislativa congressuale, che ammettono l’adozione dei decreti presidenziali, oltre che delle regulations. Tale degenerazione rischia di alterare irrimediabilmente un principio – quello del checks and balances appunto – attraverso il quale l’ordinamento costituzionale statunitense si è mosso fin dai suoi primi passi, delegittimando così la funzione istituzionale del Congresso quale luogo della rappresentanza, già incredibilmente variegata, degli Stati Uniti d’America.

Informazioni

Casper, An Essay in Separation of Powers: Some Early Versions and Practices, University of Chicago Law School, 1989.

Elia, Governo (forme di) in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè Editore, 1970.

Meernik & Ignagni, Judicial Review and Coordinate Construction of the Constitution in Midwest Political Science Association, 1997.

Whittington, Constitutional Construction: Divided Powers and Constitutional Meaning, Harvard University Press, 1999.

Varano & Barsotti, La tradizione giuridica occidentale, Torino, Giappichelli Editore, 2018.

Per la Costituzione Americana: http://www.consiglioveneto.it/crvportal/BancheDati/costituzioni/us/usa_sin.pdf

[1] In tema di forme di governo si rimanda a: http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/10/le-varie-forme-di-governo-parlamentare/

[2] Così in ELIA, Governo (forme di) in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè Editore, 1970.

[3] Esso è il processo attraverso il quale un organo legislativo pone in stato di accusa un funzionario governativo.

[4] C.d. necessary and proper clause.

[5] Non sono mancati i casi in cui il Senato non abbia confermato il nome scelto dal Presidente: si pensi al caso Regan – Bork.

[6] Nella storia statunitense solo il giudice Samuel Chase è stato sottoposto a tale procedimento, conclusosi con un’assoluzione.

[7] Una sorta di decreto legislativo all’italiana.