Patrocinio a spese dello Stato

Il patrocinio a spese dello Stato

Cos’è il patrocinio a spese dello Stato? E quali sono le disposizioni particolari dell’istituto?

 

Premessa

Originariamente nato con il nome di “gratuito patrocinio”[1], il patrocinio a spese dello Stato era stato pensato in un’ottica onorifica e a tratti obbligatoria per la classe forense per consentire alle persone meno abbienti di adire gratuitamente la giustizia o di difendersi[2] e, così, determinare condizioni di generale uguaglianza nella tutela giurisdizionale dei diritti.

L’istituto ha poi trovato un consolidamento nella Costituzione, che lo colloca nell’alveo dei diritti.

È l’art. 24, infatti, a sancire il diritto di “tutti” alla difesa, diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, garantendo a “tutti” i mezzi per agire e difendersi davanti a ogni giurisdizione.

Non solo. Salendo di rango, ritroviamo il diritto alla difesa nella CEDU, che all’art. 6 garantisce il diritto all’equo processo, di cui il diritto alla difesa costituisce un necessario corollario.

La Convenzione distingue le controversie civili da quelle penali ed è finalizzata a tutelare diritti concreti ed effettivi, in particolare il diritto di accesso a un tribunale e, a tal fine, lo Stato potrebbe essere obbligato[3] a fornire l’assistenza di un difensore, quando tale assistenza risulta indispensabile per un effettivo accesso a un tribunale.

 

Da gratuito a patrocinio a spese dello stato: l’evoluzione normativa

Tre riforme hanno investito l’istituto.

La prima, L. 30.07.1990 n. 217, ha introdotto la nuova denominazione del patrocinio “a spese dello stato” limitandone però l’operativa agli ambiti penale, penale militare e civile, quest’ultimo limitatamente ai giudizi di risarcimento del danno e a quelli relativi alle restituzioni dipendenti da fatto costituente reato.

La seconda, L. 29.03.2001 n. 134, abrogando la disciplina originaria e modificando la successiva legge di modifica, ha esteso l’applicabilità delle norme ai giudizi civili e amministrativi.

L’ultima è stata concomitante all’entrata in vigore del Testo Unico sulle spese di giustizia (D.P.R. 30.05.2002, n. 115), il quale ha disposto l’abrogazione di tutta la precedente normativa (ad eccezione degli articoli 19-21 della L. n. 134/2001) e assorbito la maggior parte delle norme ivi contenute.

 

I requisiti d’accesso all’istituto

Al soggetto che versi nelle condizioni di cui all’art. 76 del Testo Unico sulle spese di giustizia, la Legge riconosce il diritto di essere ammesso al patrocinio a spese dello stato, in ogni stato e grado del processo.

In particolare, può essere ammesso il soggetto che possegga un reddito imponibile non superiore a € 11.746,68[4] (importo aggiornato nel 2020 dal Ministero della Giustizia[5]).

Nel processo civile, amministrativo, contabile e tributario l’ammissione al patrocinio soggiace altresì alla valutazione di meritevolezza delle ragioni del richiedente[6].

L’istanza, redatta nel rispetto di quanto stabilito dall’art. 79, viene sottoscritta dall’interessato e la firma necessita di autenticazione[7].

 

Disposizioni particolari sul patrocinio a spese dello Stato

Sono il Titolo II e il Titolo IV del Testo Unico sulle spese di giustizia a disciplinare nel dettaglio criteri e procedure di applicazione dell’istituto del patrocinio, rispettivamente per il processo penale e per quelli civili, amministrativi, contabili e tributari.

 

Nel processo penale

L’istanza è presentata esclusivamente dall’interessato o dal difensore, ovvero inviata, a mezzo raccomandata, all’ufficio del magistrato innanzi al quale pende il processo. Se è competente la Corte di Cassazione, l’istanza è presentata all’ufficio del magistrato che ha emesso il provvedimento impugnato[8].

Il termine entro cui il magistrato dovrà decidere è di dieci giorni.

Il provvedimento di rigetto dell’istanza di ammissione può essere impugnato dall’interessato con ricorso,   entro  venti  giorni  dalla  notizia,  davanti  al  presidente  del  tribunale  o  al  presidente  della corte d’appello ai quali appartiene il magistrato che ha emesso il decreto di rigetto.

 

Nel processo civile, amministrativo, contabile e tributario

Competente a ricevere l’istanza è il consiglio dell’ordine degli avvocati del luogo in cui ha sede il magistrato davanti al quale pende il processo o, se non ancora pendente, quello competente a conoscere del merito.

L’istanza deve contenere le enunciazioni in fatto e in diritto utili a valutare la non manifesta infondatezza della pretesa che l’interessato intende far valere, nonché le relative prove a sostegno.

Il consiglio ha dieci giorni per decidere.

Nel caso di diniego, la medesima istanza potrà essere presentata al magistrato competente per il giudizio[9].

 

Revoca del beneficio: presupposti e conseguenze

Nell’ipotesi in cui si verifichi una variazione del reddito del beneficiario, idonea a superare la soglia indicata dal decreto ministeriale, ovvero l’interessato abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il patrocinio verrà revocato dal giudice, ai sensi dell’art. 136.

Il decreto di liquidazione del compenso al difensore, emesso dal giudice competente contestualmente alla pronuncia del provvedimento che chiude la fase cui si riferisce, non verrà intaccato dall’eventuale revoca del beneficio, se quest’ultima è successiva all’emissione del decreto di pagamento[10].

Informazioni

Guida all’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – Diritto a un equo processo, in www.echr.coe.int.

Taraschi C. (a cura di), Manuale di diritto processuale civile, XXX ed., Ed. giuridiche SIMONE, Napoli, 2020

[1] R.D.L. 30.12.1923, n. 3282.

[2] Per un approfondimento sul diritto di difesa si rinvia a quest’altro articolo pubblicato su DirittoConsenso: Il diritto di difesa dell’indagato – DirittoConsenso

[3] Art. 6 par. 1 CEDU.

[4] L’art. 125 prevede sanzioni penali per le dichiarazioni false sul limite di reddito o per l’omesso aggiornamento delle dichiarazioni precedentemente rese.

[5] I limiti di reddito sono adeguati ogni due anni in relazione alla variazione, accertata dall’ISTAT, dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, verificatasi nel biennio precedente, con decreto dirigenziale del Ministero della giustizia, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze.

[6] Invece nel processo penale il patrocinio viene riconosciuto per la difesa del cittadino non abbiente, indagato, imputato, condannato, persona offesa da reato, danneggiato che intenda costituirsi parte civile, responsabile civile ovvero civilmente obbligato per la pena pecuniaria.

[7] La sottoscrizione è autenticata dal difensore ovvero con le modalità di cui all’art.  38, comma 3, del D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa).

[8] Per il richiedente detenuto, internato in un istituto, in stato di arresto o di detenzione domiciliare, ovvero custodito in un luogo di cura, si applica l’art. 123 del codice di procedura penale.

[9] Se l’istanza venga successivamente riproposta nei medesimi termini e accolta, gli effetti decorreranno dalla data di presentazione della medesima istanza all’ordine professionale.

[10] Sez. 4, Sentenza n. 17668 del 14/02/2019, Barbuto, Rv. 276256. A tale conclusione si giunge già da una lettura attenta del testo di legge laddove, all’art. 111, dispone che, in ambito penale, sono recuperate nei confronti dell’imputato l’onorario e le spese agli avvocati (spese di cui all’art. 107 comma 3, lettera F, che rientrano fra le spese “anticipate dall’erario”)


Dichiarazione di morte presunta

La dichiarazione di morte presunta

Profili giuridici e peculiarità della dichiarazione di morte presunta

 

Premessa alla trattazione della dichiarazione di morte presunta

Prima di definire il concetto di ‘morte presunta’ è opportuno fare chiarezza sull’uso – erroneo – di alcuni termini che viene fatto nel linguaggio di tutti i giorni. Accade spesso, infatti, di usare o di sentire usare come sinonimi i termini ‘assenza’ e ‘scomparsa’. Tuttavia, nel linguaggio giuridico, essi descrivono situazioni distinte.

Si dice ‘scomparso’ il soggetto che “non è più comparso nel luogo del suo ultimo domicilio o dell’ultima residenza e non se ne hanno più notizie”. Trattasi, dunque, di una situazione fattuale. L’assenza, invece, è una situazione di diritto, che garantisce ai legittimati una tutela specifica dei loro interessi: i presunti successori per legge dello scomparso, nonché coloro che ritengano di avere diritti dipendenti dalla morte del soggetto, trascorsi due anni “dal giorno a cui risale l’ultima notizia”, possono domandare al tribunale competente che venga dichiarata l’assenza.

Il passaggio successivo (e per ‘successivo’ si intende “quando siano trascorsi dieci anni dal giorno a cui risale l’ultima notizia dello scomparso”) sarà proprio la dichiarazione di morte presunta[1].

 

Definizione

La morte presunta, a differenza dell’assenza, tende a realizzare un assetto definitivo, al fine di rimediare a una situazione di incertezza. Essa, infatti, produce gli stessi effetti patrimoniali e personali della morte naturale: si apre una successione per causa di morte, con tutti gli effetti che ne derivano; il coniuge del presunto morto ha la facoltà di contrarre nuovo matrimonio civile (per il diritto canonico, la dichiarazione di morte presunta non abilita il coniuge a contrarre matrimonio canonico)[2].

In definitiva, con la dichiarazione di morte presunta si attua un “mezzo di accertamento indiretto della morte di un soggetto”, secondo le modalità indicate dalla legge.

 

Procedura ed effetti

Il Codice Civile individua un elenco tassativo di soggetti che, portatori di diritti di carattere patrimoniale, possono presentare il ricorso per la dichiarazione di morte presunta. Il ricorso non può essere presentato in relazione ai minorenni, per i quali la legge stabilisce che “la sentenza” possa essere pronunciata solo una volta trascorsi 9 anni dal compimento della maggiore età.

Il rito richiede la pubblicazione del ricorso in Gazzetta Ufficiale, per due volte consecutive a distanza di 10 giorni, e sul sito internet del Ministero della Giustizia, cui segue una sospensione semestrale del giudizio. In questo modo si realizza una notificazione per pubblici proclami[3], a beneficio di tutti coloro che avessero interesse a partecipare al procedimento.

A conclusione della procedura se il giudice lo riterrà, pronuncerà sentenza dichiarativa della morte presunta[4], la quale dovrà contenere l’ora del decesso al fine di determinare i successori del defunto (che rientrano nell’elenco “chiuso” dei soggetti legittimati a presentare il ricorso).

La legge richiede, inoltre, l’annotazione della sentenza nell’atto di nascita e anche negli eventuali atti di matrimonio.

Agli stessi soggetti legittimati a presentare il ricorso, il legislatore ha riservato anche il diritto all’impugnazione.

 

Rimedi

Qualcuno a questo punto potrebbe chiedersi: “cosa accade nel caso di ritorno del presunto morto?”.

L’assetto che si viene a creare con la dichiarazione di morte presunta è una situazione reversibile, poiché l’ipotesi di ritorno del presunto morto ripristina la situazione anteriore all’accertamento, senza necessità di alcun intervento giudiziale[5].

Il Codice Civile riconosce al presunto morto, che abbia fatto ritorno o del quale si ha la prova essere in vita, il diritto di recuperare “i beni nello stato in cui si trovano” e di “conseguire il prezzo di quelli alienati o i beni nei quali sia stato investito”.

Nel rispetto dei principi di buona fede che governano il nostro ordinamento civile, i possessori dei beni del presunto morto sono considerati “in buona fede” e, pertanto, gli atti compiuti da questi ultimi risultano irrevocabili.

Quanto invece al coniuge superstite che abbia contratto nuove nozze, il secondo matrimonio, nell’ipotesi di ritorno del coniuge presunto morto, è nullo, considerato che sarebbe stato celebrato in assenza del requisito della libertà di status, richiesto ai fini della validità dell’atto.

Tuttavia, la nullità (o annullabilità assoluta, come sostenuto dalla dottrina[6]) non inficia i diritti civili derivanti dall’unione coniugale ai figli nati dal secondo matrimonio.

Informazioni

Figone A., Assenza, scomparsa e morte presunta, in Il Familiarista

De Rosa A., La morte presunta, in AA.VV., Formulario commentato della volontaria giurisdizione, CEDAM, Padova, 2006

Codice Civile – https://www.gazzettaufficiale.it/dettaglio/codici/codiceCivile

[1] La dichiarazione di morte presunta non richiede la preventiva pronuncia di assenza del soggetto.

[2] La legge Cirinnà estende espressamente la specifica disciplina matrimoniale all’unione civile tra persone del medesimo sesso. Pertanto, con la morte presunta della persona civilmente unita, il superstite potrà contrarre nuova unione civile. Sulla Legge Cirinnà si veda: http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/15/legge-cirinna-e-successive-conseguenze/

[3] Quando la notificazione nei modi ordinari è sommamente difficile per il rilevante numero dei destinatari o per la difficoltà di identificarli tutti, il capo dell’ufficio giudiziario davanti al quale si procede, può autorizzare, su istanza della parte interessata e sentito il pubblico ministero, la notificazione per pubblici proclami (art. 150 c.p.c.).

[4] Il tribunale dichiara la morte presunta solo quando ritenga estremamente probabile l’avvenuto decesso, tenendo conto delle circostanze in cui è avvenuta la scomparsa e di tutti gli elementi del caso concreto.

[5] La regola non si estende all’esercizio dell’azione di accertamento di cui all’art. 67, opportuna relativamente agli obblighi di rettifica degli atti dello stato civile.

[6] La nullità non opera in automatico, essendo necessario un procedimento di impugnazione ex art. 117 c.c. da parte dei legittimati, all’esito del quale il tribunale pronuncerà una sentenza di carattere costitutivo.


Assegno di divorzio

Assegno di divorzio: revisione per giustificati motivi sopravvenuti

La sopravvenienza di giustificati motivi nella rideterminazione dell’assegno di divorzio

 

Origini e presupposto dell’assegno di divorzio

Se nella originaria concezione della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (d’ora in avanti per comodità legge sul divorzio[1]) l’assegno di divorzio si fondava sul principio di reciproca assistenza economica e la sua determinazione veniva compiuta in ragione del suo assetto polifunzionale[2], dopo la riforma del ’87[3] l’assegno rinveniva la sua nuova ragion d’essere nell’assenza di redditi e mezzi adeguati al sostentamento del coniuge richiedente[4].

L’introduzione del presupposto della mancanza di redditi e mezzi adeguati al mantenimento autonomo ha così portato all’affermazione di una natura esclusivamente assistenzialistica dell’assegno di divorzio.

Il riconoscimento in pari misura della sua natura perequativo-compensativa[5] è avvenuto solo successivamente, quando ci si è resi conto che il giudizio di accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi di mantenimento avrebbe necessariamente dovuto tener conto, nell’ottica di un intervento equilibratore dei redditi degli ex coniugi, del contributo fornito da ciascuno di essi alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e di quello personale di ognuno.

 

La revisione dell’assegno di divorzio nella legge 898/70

I provvedimenti resi in sede di divorzio sono soggetti a modifica tramite lo strumento di adeguamento previsto dal legislatore, il quale ha regolato il funzionamento di meccanismi di revisione, al ricorrere di determinati presupposti o in presenza di date circostanze.

Infatti, l’art. 9 della legge sul divorzio afferma, al 1° co., che «qualora sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale […] può, su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni […] relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere ai sensi degli articoli 5 e 6».

Si parla di «giustificato motivo» in presenza di un “mutamento sostanziale nelle condizioni originarie del beneficiario e/o obbligato[6], vale a dire quando si verifica una palese variazione delle condizioni che il giudice valutò, in sede di prima determinazione dell’assegno.

 

Casistica/quali sono i giustificati motivi sopravvenuti

Le nuove condizioni economiche in cui versano il beneficiario e l’obbligato vengono spesso assunte quale giustificato motivo legittimante la domanda di revisione.

Nello specifico, il deteriorarsi delle condizioni economiche del beneficiario o l’aumento delle sue necessità, così come il miglioramento delle condizioni del beneficiario o un peggioramento di quelle dell’onerato, possono condurre il giudicante all’emanazione di un provvedimento di revisione dell’assegno di divorzio, il quale potrà dunque modificare, in meius o in peius, l’originaria determinazione dell’assegno di divorzio.

Un’altra ipotesi legittimante, in astratto, un provvedimento di revisione è quella della convivenza more uxorio intrapresa da uno degli ex coniugi, e in particolar modo dal coniuge beneficiario.

Nel silenzio della legge[7], la giurisprudenza maggioritaria del nuovo millennio ha ritenuto che la convivenza dell’ex coniuge beneficiario possa costituire il giustificato motivo legittimante la revisione del quantum dell’assegno di divorzio.

In virtù della natura assistenzialistica dell’assegno di divorzio, la giurisprudenza ha affermato ricorrentemente che “l’assegno di divorzio, in linea di principio, non può essere negato per il fatto che il suo titolare abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra persona, salvo che sussistano i presupposti per la revisione dell’assegno […] e cioè sia data la prova, da parte dell’ex coniuge onerato, che tale convivenza ha determinato un mutamento in melius – pur se non assistito da garanzie giuridiche di stabilità, ma di fatto consolidato e protraentesi nel tempo – delle condizioni economiche dell’avente diritto”[8].

La stessa giurisprudenza, conscia della difficoltà di una tale prova, ha precisato che essa possa “essere data con ogni mezzo di prova, anche presuntiva, soprattutto con riferimento ai redditi e al tenore di vita della persona con la quale il titolare dell’assegno convive, i quali posso far presumere, secondo il prudente apprezzamento del giudice, che dalla convivenza […] il titolare dell’assegno tragga benefici economici idonei a giustificare la revisione dell’assegno”[9].

In conclusione, come emerge dall’analisi che questo articolo si è impegnato a svolgere, la revisione delle condizioni patrimoniali di divorzio tende ad armonizzare l’entità dei contributi di mantenimento con le esigenze e con le situazioni di fatto in cui versano il beneficiario e l’obbligato, con lo scopo di evitare che gli ex coniugi  debbano sostenere oneri o godere di benefici indebitamente.

Informazioni

Legge 1 dicembre 1970, n. 898, “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”;

Achille D., Rideterminazione Dell’assegno Di Divorzio Tra Giustificati Motivi Sopravvenuti e Convivenza More Uxorio Degli Ex Coniugi, in www.dirittodellafamiglia.com

[1] Sulla distinzione tra gli istituti della separazione e del divorzio si veda l’articolo di Beatrice Alba per DirittoConsenso: http://www.dirittoconsenso.it/2021/02/03/separazione-e-divorzio-in-italia/ .

[2] La determinazione dell’assegno cercava di soddisfare al contempo esigenze risarcitorie, assistenziali e compensative.

[3] La riforma operata dalla l. 6 marzo 1987, n. 74 di fatto ha parificato nei presupposti l’assegno di divorzio a quello di separazione.

[4] Il novellato art. 5, co. 6, L. n. 898/70, prevede infatti «l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive».

[5] SS.UU. n. 18287/2018 e si vedano anche ordinanze nn. 21926/2019; 6982/2020.

[6] M.G. Cubeddu, I contributi e gli assegni di separazione e divorzio, in Il nuovo diritto di famiglia (a cura di G. Ferrando), I, Bologna, 2007, 933.

[7] L’art. 5 l. n. 898 del 1970 espressamente prevede che l’obbligo di versare l’assegno di mantenimento cessa se l’avente diritto contrae nuovo matrimonio, nulla dice però in relazione a un’ipotesi di convivenza.

[8] Tra le tante v. in particolare, Cass. 8 luglio 2004 n. 12557, in Fam. pers. succ., 2005, 404, con nota di commento di D. Torelli; Cass. 10 novembre 2006 n. 24056, in Fam. dir., 2007, 329 ss.; Cass. 28 giugno 2007 n. 14921, in Fam. pers. succ., 2007, 12, con nota di commento di F.R. Fantetti.

[9] Cass. 8 luglio 2004 n. 12557, cit.


Condominio

Il condominio negli edifici: disciplina codicistica

La disciplina del condominio negli edifici: vademecum per il condomino

 

Introduzione: cos’è il condominio negli edifici

Il condominio negli edifici viene disciplinato nel titolo VII (libro III, capo II) del codice civile, titolo dedicato all’istituto della comunione.

Il condominio negli edifici, infatti, viene definito dall’art. 1117 c.c. come “la comproprietà su alcune parti dell’edificio”, spettante a più soggetti accanto alla proprietà riconosciuta a ciascuno di essi sulla propria porzione di piano.

 

Le parti comuni: categorie, facoltà, innovazioni

La regola generale di cui all’art. 1102 c.c. sancisce il diritto di ciascun condomino di servirsi liberamente delle parti comuni, con la sola condizione di non alterarne la destinazione d’uso e di non impedire agli altri di farne analogo uso, limitatamente al loro diritto.[1]

Qualcuno potrà a questo punto chiedersi quali siano le parti comuni.

L’art. 1117 c.c. annovera tra le parti c.d. comuni di un condominio: le parti di uso comune (quali travi, scale, portoni d’ingresso, etc.); le aree adibite a parcheggio, portineria; tutte le opere, le installazioni e i manufatti di uso comune (ne sono un esempio gli ascensori, gli impianti).

Il sistema di comunione condominiale pensato dal codice civile impone al singolo condomino, il quale abbia un diritto sulle cose comuni proporzionale al valore della sua proprietà, di contribuire alle spese per la conservazione delle stesse, salvo, naturalmente, che gli altri partecipanti al condominio acconsentano a una deroga.

Tuttavia, la legge fa salva la facoltà di rinunciare all’uso dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, subordinando tale diritto a una precisa condizione: vale a dire che dal distacco non derivino «notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini»[2].

In materia di innovazioni, ovverosia di modifiche materiali o funzionali dirette al miglioramento, uso più comodo o al maggior rendimento delle parti comuni[3], esse dovranno essere deliberate, ai sensi dell’art. 1136 co. 5, con «un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno i due terzi del valore dell’edificio».

Qualora, poi, l’innovazione comporti una spesa molto gravosa o sia ritenuta superflua, ma sia suscettibile di utilizzazione separata, i condomini che non intendano trarne alcun vantaggio potranno ritenersi esonerati da qualsiasi contributo economico. Questo sancisce l’art. 1121 c.c., con la naturale conseguenza che se l’utilizzazione separata dell’innovazione gravosa o voluttuaria non è concretamente realizzabile, l’innovazione sarà possibile solo se la maggioranza che l’ha deliberata o accettata decide anche di accollarsene integralmente la spesa.[4]

 

I criteri generali di ripartizione delle spese

Le spese di carattere necessario sono suddivise tra i condomini ai sensi dell’art. 1123 c.c., il quale usa suddividerle in tre categorie:

  1. Spese inerenti alla conservazione e al godimento delle parti comuni;
  2. Spese per la prestazione dei servizi nell’interesse comune;
  3. Spese per le innovazioni deliberate in sede di assemblea di condominio.

 

Le spese necessarie seguono il criterio di proporzionalità, disciplinato dal primo comma, secondo il quale i condomini parteciperanno alle spese in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno.

I commi seguenti dell’art. 1123 c.c. tracciano due ipotesi particolari, per le quali il legislatore ha previsto una regola derogatoria rispetto a quella generale:

  • quando «si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell’uso che ciascuno può farne» (ripartizione secondo l’uso) e
  • nel caso in cui «un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità» (ripartizione tra gli interessati).

 

Relativamente alle spese afferenti alla manutenzione e la ricostruzione di soffitti, volte e solai, l’art. 1125 c.c. fornisce una disciplina ad hoc che, suddividendo orizzontalmente due proprietà, stabilisce che «sono sostenute in parti eguali dai proprietari dei due piani l’uno all’altro sovrastanti, restando a carico del proprietario del piano superiore la copertura del pavimento e a carico del proprietario del piano inferiore l’intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto».

Da ultimo, il codice fa salva la facoltà dei condomini di siglare una convenzione derogatoria, al fine di ripartire le spese in misura diversa rispetto a quella legale.

 

L’amministrazione di condominio

Ogni condominio composto da più di 8 unità abitative ha l’obbligo legale di nominare un amministratore di condominio[5].

L’art. 1136 c.c. prescrive il raggiungimento di un quorum specifico, affinché la nomina sia valida. In particolare, il quarto comma richiede la maggioranza degli intervenuti all’assemblea, che rappresentino almeno 500 millesimi[6].

Il ruolo di amministratore condominiale, che può essere occupato sia da una persona fisica che da una persona giuridica, è un ruolo prettamente esecutivo.

Nel novero dei doveri dell’amministratore di cui all’art. 1130 c.c. troveremo: l’approvazione del rendiconto di gestione ordinaria del condominio, il controllo sul rispetto del regolamento da parte dei condomini, nonché la regolamentazione dell’uso delle cose comuni nell’interesse di tutto il condominio.

Ancora, rientrano nella sfera degli oneri amministrativi lo svolgimento degli adempimenti fiscali, la riscossione dei contributi, l’erogazione delle spese necessarie (di cui al precedente paragrafo) e l’azionamento del giudizio nei confronti dei condomini morosi entro i termini di legge.

Per quanto concerne la rappresentanza, l’art. 1131 c.c. stabilisce che «nei limiti delle attribuzioni stabilite dall’art. 1130 o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea[7], l’amministratore ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condomini sia contro i terzi».

Infine, l’amministratore dovrà curare la tenuta di una serie di registri, che avrà l’obbligo di consegnare al momento della cessazione dell’incarico.

Il rapporto tra amministratore e condominio si estingue attraverso la revoca del mandato.

Il codice non limita le possibilità di revoca al solo caso in cui l’amministratore, nell’esercizio del suo mandato, abbia commesso gravi irregolarità, bensì le estende anche al caso in cui l’assemblea si esprima, con la medesima maggioranza prevista per la nomina, in senso favorevole alla revoca del mandato.

 

L’Assemblea di condominio

Se l’amministratore di condominio esercita il potere esecutivo, l’assemblea condominiale detiene invece il potere deliberante.

Dopo aver indicato tutte le principali prerogative dell’assemblea all’art. 1135 c.c., il codice individua negli articoli successivi le corrette modalità di convocazione della stessa[8].

Le disposizioni attuative stabiliscono che l’assemblea, oltre che svolgersi regolarmente con cadenza annuale, possa essere convocata in via straordinaria dall’amministratore, su richiesta di almeno due condomini, che rappresentino un sesto del valore dell’edificio.

L’art. 1136 c.c. prevede la possibilità di due distinte convocazioni della stessa riunione, al fine di velocizzare le tempistiche e snellire i quorum deliberativi, rendendo di fatto più agevole la deliberazione.

Il condomino che ne abbia interesse potrà provvedere, ai sensi dell’art. 1137 c.c., a “correggere” eventuali irregolarità verificatisi durante la fase della convocazione o durante la deliberazione.

Informazioni

Bartolini F. (a cura di), Codice civile e di procedura civile e leggi complementari, La tribuna, Piacenza, 2018

Condominio: guida legale, agosto 2020, articolo pubblicato su www.studiocataldi.it

[1] Sempre parlando di diritti del condomino, la legge tutela la presenza di animali domestici all’interno del condominio. Sul tema si veda il mio articolo per DirittoConsenso: http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/08/animali-domestici-e-condominio-connubio-possibile/

[2] La giurisprudenza di legittimità ha affermato che, al ricorrere di determinate condizioni, il principio possa applicarsi anche ad altre spese.

[3] Il co. 2 dell’art. 1120 c.c. fornisce tutti gli esempi del caso.

[4] A tal proposito, il d.l. n. 76/2020 ha previsto che le innovazioni con le quali, negli edifici privati, vengono eliminate le barriere architettoniche non sono mai considerate di carattere voluttuario, con la conseguenza che, l’unico limite alla loro realizzazione attiene i caratteri della sicurezza e della stabilità del fabbricato.

[5] Di converso, per piccoli condomini (anche detti condomini minimi) non sussiste lo stesso obbligo, di talché per i condomini sarà possibile gestire in autonomia le questioni condominiali.

[6] Per ottenere la nomina dell’amministratore, allorquando l’assemblea non riesca a raggiungere il quorum richiesto, è possibile ricorrere all’autorità giudiziaria, secondo le modalità e i termini contenuti nelle disposizioni attuative del codice civile (art. 59).

[7] Ad eccezione del procedimento di esecuzione forzata nei confronti dei condomini morosi, il quale non è subordinato ad alcuna autorizzazione da parte dell’organo assembleare.

[8] La procedura di convocazione delineata dal codice civile prevede anzitutto che l’avviso di convocazione, preciso e circostanziato, dev’essere comunicato ai condomini, a mezzo di posta raccomandata, pec, fax o consegna a mano, almeno cinque giorni prima della data fissata per lo svolgimento dell’adunanza in prima convocazione.


Testamento olografo

Il testamento olografo falso

Dalla definizione codicistica di testamento olografo ai rimedi contro le sue patologie

 

Definizione e requisiti tipici

Il codice civile disciplina la forma testamentaria olografa all’art. 602 c.c., il quale stabilisce che il testamento olografo è quel testamento datato, redatto e sottoscritto di proprio pugno dal testatore.

Ebbene, i requisiti richiesti dalla legge affinché il testamento olografo sia valido sono:

  • l’autografia, vale a dire che la scheda testamentaria sia interamente scritta dal testatore di suo pugno;
  • la datazione, necessaria a indicare il momento cronologico in cui il testamento è stato confezionato e che deve contenere, in particolare, l’indicazione di giorno, mese e anno;
  • la sottoscrizione, segno distintivo di colui al quale si riconducono le disposizioni testamentarie in oggetto.

 

Il testamento olografo costituisce una scrittura privata[1], pertanto, trovano applicazione gli articoli 2702 c.c. e 214 e ss. c.p.c., in tema di efficacia della scrittura privata e riconoscimento.

 

Patologie e conseguenze: il testamento olografo falso

Con il fine ultimo di tutelare la spontanea formazione della volontà testamentaria, nonché la sua libera manifestazione, scongiurandone tentativi di coartazione o alterazione, il nostro ordinamento ha individuato, al fianco delle ordinarie figure di invalidità, quali nullità e annullabilità, alcune ipotesi di inesistenza.

Il testamento falso ne rappresenta il caso principe.

Il legislatore civile ha statuito l’insanabilità del testamento apocrifo, principio cristallizzato in seconda battuta dalla Suprema Corte[2], e ha prescritto, inoltre, all’art. 463 n. 6 c.c.[3], l’esclusione dalla successione del soggetto che abbia partecipato alla formazione o che abbia anche solo fatto uso di un testamento olografo falso.

La falsificazione di un testamento comporta conseguenze non solo sul piano civile, bensì anche su quello penale. Tuttavia, se nel giudizio civile si mira esclusivamente a provare la non verosimiglianza del documento impugnato, in quello penale si vuole individuare – e di conseguenza perseguire – l’autore del falso.

La riforma del 2016[4], ha modificato il disposto dell’art. 491 c.p., ora rubricato “Falsità in testamento olografo, cambiale o titoli di credito”, operando un’equiparazione dei predetti documenti agli atti pubblici, agli effetti della pena. L’art. 491 c.p. rappresenta, dunque, una fattispecie aggravante[5] dei reati di falsità materiale di cui agli artt. 476 e 482 c.p.

Le due ipotesi più comuni che integrano gli estremi del reato di cui all’art. 491 c.p. sono: la contraffazione integrale del testamento olografo, vale a dire la formazione di un atto totalmente falso che assuma forma e contenuto apparenti di atto dispositivo di ultima volontà di taluno (Cass. n. 23613/2012), e la redazione della scheda testamentaria con l’aiuto di un terzo, che si verifica quando il documento – apparentemente scritto di proprio pugno dal testatore – è stato in realtà redatto con l’aiuto materiale di un terzo soggetto, che ha guidato il testatore nella stesura (Cass. n. 51709/2014)[6].

Per le suddette condotte criminose, il legislatore penale ha previsto la condanna della reclusione da uno a sei anni, ridotta di un terzo se il fatto è commesso da un privato.

 

Rimedi

La legge ha previsto dei rimedi civili, atti a contestare l’autenticità del testamento olografo, esperibili mediante il ricorso a diversi strumenti processuali, sull’idoneità e l’efficacia dei quali la Suprema Corte si è espressa.

Le Sezioni Unite della Cassazione, con l’obiettivo di appianare l’oramai pluridecennale contrasto tra orientamenti giurisprudenziali diacronicamente contrapposti[7], ha stabilito che la parte che voglia contestare l’autenticità del testamento olografo deve proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura, con tutte le conseguenze probatorie che derivano dall’applicazione dei principi generali operanti in materia (Cass. n. 12307/2015).

La medesima giurisprudenza di legittimità, però, ha lasciato spazio alla facoltà delle parti di ricorrere alla querela di falso, stante la maggiore ampiezza degli effetti di una relativa pronuncia.

Informazioni

Cian G., Trabucchi A., Commentario breve al codice civile – Ed. per prove concorsuali ed esami, CEDAM, Padova, 2019

Bonilini G., Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, UTET, Milano, 2017

Cass. civ., SS.UU., 15 giugno 2015 n. 12307 in De Jure (consultato il 27.10.2020)

[1] La scrittura privata è un atto sottoscritto da uno o più soggetti al fine di regolamentare una particolare situazione (economico – finanziaria, commerciale, di scambio) fra privati e che, ai sensi di legge, assume un particolare valore legale.

[2] Cass. n. 10065/2020.

[3] L’art. 463 c.c. contiene anche gli ulteriori casi di indegnità a succedere. Sul rapporto tra indegnità e diseredazione si veda l’articolo di Davide De Pasquale per DirittoConsenso: http://www.dirittoconsenso.it/2019/02/14/la-diseredazione/

[4] D.lg. 15 gennaio 2016, n. 7.

[5] La Cassazione ha ribadito nel corso degli anni che l’art. 491 c.p., nell’equiparare il testamento, la cambiale e il titolo di credito all’atto pubblico limitatamente alla pena applicabile, configura una circostante aggravante e non un titolo autonomo di reato.

[6] In questo caso, infatti, il documento non reca la firma autografa del testatore, così come prescritto dalla legge civile ed è per tale ragione che la predetta condotta viene sussunta sotto la fattispecie di cui all’art. 491 c.p.

[7] Secondo un primo indirizzo giurisprudenziale, il testamento olografo, nonostante i requisiti di forma previsti dall’art. 602 c.c., trova comunque la sua legittima collocazione tra le scritture private, sicché, sul piano della efficacia sostanziale, è necessario e sufficiente che colui contro il quale sia prodotto disconosca la scrittura. Un secondo orientamento, pur senza iscrivere il testamento olografo nella categoria degli atti pubblici, ne evidenzia tuttavia l’eccezionale rilevanza sostanziale e processuale, derivandone che la contestazione della sua autenticità debba essere sollevata esclusivamente ai sensi degli art. 221 ss. c.p.c.


Fauna selvatica

La responsabilità della P.A. per i danni cagionati dalla fauna selvatica

Evoluzione dell’istituto della responsabilità della P.A. per i danni cagionati dalla fauna selvatica e giurisprudenza sul tema

 

La categoria della fauna selvatica: da res nullius a demanio

Fino agli anni ’70 la categoria della fauna selvatica veniva considerata res nullius, ovverosia una categoria di beni di cui nessuno poteva dirsi legittimamente titolare e dei quali chiunque poteva liberamente disporre. Ciò ha comportato, come conseguenza diretta e immediata, l’impossibilità di azionare richieste risarcitorie per i danni cagionati dalla fauna selvatica.[1]

La legge n. 968/1977 recante “Principi Generali e Disposizioni per la Protezione e la Tutela della Fauna e la Disciplina della Caccia”, all’art. 1, dichiarava per la prima volta la fauna selvatica «patrimonio indisponibile dello stato» e, dunque, ne sanciva una tutela «nell’interesse della comunità nazionale».

Sempre in ambito venatorio, la successiva legge n. 157/1992, oltre a riconfermare l’assetto statuito dalla legge summenzionata, tracciava una ripartizione delle competenze Stato-Regioni ossequiosa dell’art. 117 della Costituzione.

In particolar modo, nell’ottica di definire un “quadro” entro cui le regioni potessero esercitare i propri poteri amministrativi, la legge del ’92 attribuiva allo Stato, in via precipua, il compito di tutelare la fauna e la biodiversità in genere, fissando le misure minime di tutela.

 

La natura giuridica della responsabilità della P.A.

L’affermazione di una forma di responsabilità civile a carico della P.A. per i danni cagionati dalla fauna selvatica ha animato annosi dibattiti sulla natura giuridica di tale responsabilità.

Nel tempo la giurisprudenza di legittimità si è fatta esponente di tesi differenti, contribuendo così a creare incertezza nelle scelte applicative.

L’orientamento quasi univoco della Cassazione, successivamente superato, sosteneva la non applicabilità dell’art. 2052 c.c.[2], non potendosi considerare la fauna selvatica al pari degli animali domestici.[3]

Il predetto indirizzo giurisprudenziale, soppiantato dalla recentissima ordinanza della Suprema Corte n. 13848/2020, affermava la sussistenza di una responsabilità aquiliana in capo alla P.A.

Orbene, ai sensi dell’art. 2043 c.c., il privato che veniva ad essere danneggiato da un animale selvatico, doveva dimostrare l’esistenza di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità generale, tra i quali la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa in capo al soggetto dotato di legittimazione passiva.

Tuttavia, proprio l’individuazione del soggetto responsabile risultava incerta: quale ente era il legittimato passivo? Il soggetto affidatario o il soggetto titolare di ogni potere di vigilanza e disposizione sull’animale?

Di recente, la sezione terza della Corte di Cassazione, ha dissipato ogni dubbio sul punto, ridefinendo la natura giuridica della responsabilità per danni cagionati dalla fauna selvatica.

L’ultima pronuncia della Corte, sulla scia di un precedente orientamento minoritario, ha riconosciuto che tutte le incertezze in merito all’individuazione del soggetto titolare di legittimazione passiva fossero state originate dall’inquadramento giuridico del tipo di responsabilità. L’esclusione dell’applicabilità dell’art. 2052 c.c. derivava dalla circoscrizione del campo d’azione della norma ai soli animali domestici.

Tuttavia, l’art. 2052 c.c., che determina come criterio di imputazione della responsabilità la violazione di un dovere di custodia sull’animale – scelta che lo aveva reso fino questo momento inadeguato alla categoria della fauna selvatica – non contiene in realtà alcun riferimento espresso agli “animali domestici”.

Invero, da una corretta lettura dell’articolo si evince che l’imputabilità ad un soggetto dei danni cagionati dall’animale prescinde da qualsivoglia rapporto di effettiva custodia tra i due. Conseguentemente, e anche in ossequio al principio cuius commoda eius et incommoda[4], risponde dei danni il soggetto che in quel momento trae beneficio dall’animale.

 

Danni cagionati dalla fauna selvatica: conseguenze pratiche

Il cambio di rotta operato dalla Corte di Cassazione ha mutato, inoltre, gli equilibri tra le parti alleggerendo l’onere probatorio del danneggiato.

In primo luogo, non dovendosi applicare l’art. 2043 c.c., il soggetto danneggiato non dovrà fornire la prova dell’elemento soggettivo del danneggiante (dolo o colpa) e, in secondo luogo, qualora il danneggiato dovesse avere dei dubbi nell’individuazione del legittimato passivo, potrà in ogni caso azionare la propria richiesta di ristoro nei confronti dell’ente Regione[5] per i danni cagionati dalla fauna selvatica.

In sintesi, un’altra volta la Corte di Cassazione, discostandosi dal suo precedente orientamento prevalente, compie un passo importante verso la responsabilizzazione della P.A., la quale viene quasi parificata al soggetto privato e perde i benefici che traeva dall’attuazione di deroghe alla disciplina generale.

Informazioni

A.Talamonti, La natura della responsabilità della p.a. per danni causati da animali selvatici: il recente revirement della Suprema Corte di Cassazione, in Il diritto amministrativo, anno XII – n. 10, 2020

[1] L’impostazione vigente fin a quel momento era coerente con il ruolo vantato dalla pubblica amministrazione, la quale era stata sempre messa in una posizione di vantaggio rispetto al singolo. Consiglio, per un approfondimento del tema, la lettura della sentenza spartiacque SS.UU 22 luglio 1999 n. 500, con la quale la Suprema Corte rimuove “un’isola di immunità e di privilegio che mal si concilia con le più elementari esigenze di giustizia”.

[2] Sul tema si veda anche l’articolo “Profili di responsabilità extracontrattuale nell’attività di gestione di un maneggio” in http://www.dirittoconsenso.it/2020/09/11/responsabilita-extracontrattuale-gestione-di-maneggio

[3] Secondo tale interpretazione, la disposizione codicistica sarebbe rivolta esclusivamente agli animali che sfuggono al controllo del proprietario e, per tale ragione, sarebbe inestendibile alla fauna selvatica.

[4] La traduzione letterale del brocardo è la seguente: “di chi [sono] i vantaggi, suoi [sono] anche gli svantaggi”.

[5] La Regione, qualora reputasse di non essere il soggetto atto a individuare e applicare le misure idonee ad impedire il danno, avrà la facoltà di agire in rivalsa nei confronti di chi di competenza.


Maneggio

Profili di responsabilità extracontrattuale nell'attività di gestione di un maneggio

Chi risponde del danno verificatosi all’interno del maneggio durante l’attività di equitazione? Quando si applica l’art. 2052 e quando l’art. 2050 c.c.?

 

Il caso di un danno avvenuto nel maneggio

Il caso, ormai divenuto scolastico, è quello di una novellina, ancora minorenne, alle prese con una delle sue primissime lezioni collettive di equitazione, la quale viene disarcionata dal cavallo che stava montando, a causa di un imbizzarrimento dell’animale, riportando così lesioni personali. Si è dibattuto sulla natura della responsabilità per il danno verificatosi: al gestore del maneggio sarebbe da ascriversi una responsabilità per danno cagionato da animale ovvero per esercizio di attività pericolosa?

 

La responsabilità per il danno cagionato dall’animale

L’art. 2052 del codice civile, che si occupa di disciplinare la responsabilità per il danno cagionato dall’animale, prevede che il proprietario dell’animale, ovvero il soggetto che ne abbia l’uso – non rilevando l’astratta titolarità dell’animale, bensì solo il suo impiego – risponda per il danno cagionato da quest’ultimo, salvo che si provi il caso fortuito.

Il codice prevede una forma di responsabilità oggettiva, basata non su una specifica condotta o su un’attività esercitata dal proprietario, dal custode o dal detentore dell’animale, bensì sul rapporto di fatto esistente con l’animale stesso, conseguendo ragionevolmente che, per i danni cagionati dall’animale al terzo, il soggetto che se ne serve risponderà sempre e in toto, a meno che non fornisca la prova dell’intervento di un fattore esterno che abbia avuto efficacia esclusiva nella produzione del danno.

Orbene, al fine di evitare di incorrere in una forma di responsabilità di questo tipo, il soggetto, nel caso di specie il gestore del maneggio, è tenuto al rispetto della disciplina fissata ex lege per chi possiede, custodisce o detiene un animale.[1]

 

La responsabilità per l’esercizio di attività pericolosa

L’art. 2050 del nostro codice civile delinea un modello di responsabilità civile extracontrattuale, fondato su una presunzione di responsabilità, tale per cui l’esercente l’attività pericolosa è tenuto al risarcimento per i danni cagionati nello svolgimento della propria attività, salvo che dimostri di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.

Tale prova risulterà fondata solo qualora si dimostri che non sussiste alcun rapporto di causa-effetto tra l’attività pericolosa e l’evento dannoso.

Circoscritto il campo di applicazione dell’articolo in esame, sorge l’esigenza di definire l’“attività pericolosa” per cercare di individuarne i connotati tipici.

Ai sensi dell’art. 2050 c.c., è caratterizzata da pericolosità non solo l’attività così qualificata dalle leggi speciali, bensì anche quella attività che «per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati», nonché ancora per il suo grado di offensività[2], comporti sul piano pratico la possibilità che si verifichi un danno.

Nel prossimo paragrafo andremo, dunque, a illustrare le ipotesi in cui l’attività equestre svolta all’interno di un maneggio si annovera tra le attività c.d. pericolose.

 

La giurisprudenza sul punto

Rispetto all’attività sportiva e, precisamente, all’attività di equitazione, la giurisprudenza di legittimità nel corso degli anni si è ripetutamente pronunciata[3], consolidando di fatto il seguente principio, ormai pacifico: l’attività di equitazione, qualora sia svolta all’interno di un maneggio da un cavaliere principiante e privo di qualsivoglia capacità di controllo sull’animale, seppure sotto la sorveglianza di un collaboratore dello stesso maneggio, si annovera tra le attività c.d. pericolose.

Ne deriva che, per i danni subiti dall’allievo inesperto a seguito di una caduta da cavallo avvenuta durante una lezione di equitazione, la responsabilità del gestore del maneggio debba essere inquadrata non nella fattispecie di cui all’art. 2052 c.c., bensì in quella di cui all’art. 2050 c.c., con tutto ciò che ne consegue sul piano probatorio.

La Corte di Cassazione ha tenuto a specificare che il discrimen da cui partire è la distinzione tra soggetti principianti e soggetti esperti.

Infatti, l’art. 2050 si applica unicamente alle ipotesi di danno conseguente a esercitazioni di principianti, ignari di ogni regola di equitazione o inesperti, la cui inesperienza rende pericolosa l’attività imprenditoriale di maneggio. Al contrario, in situazioni di “ordinarietà”, quando cioè l’attività di equitazione viene svolta da un soggetto esperto all’interno di un circolo ippico, alla presenza di un istruttore e con cavalli collaudati e addestrati all’uopo, il gestore del maneggio è soggetto alla presunzione di responsabilità di cui all’art. 2052 e non a quella di cui all’art. 2050 c.c.

Informazioni

Chinè G., Garofoli R., Codice civile annotato con la giurisprudenza, Nel diritto Editore, Roma, 2008

[1] Sul tema si veda anche l’articolo “Animali e condominio: connubio possibile?” in http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/08/animali-domestici-e-condominio-connubio-possibile/ .

[2] La pericolosità dell’attività, da tenere ben distinta dalla pericolosità della condotta (che fa riferimento a una attività generalmente innocua, resa pericolosa dalla condotta irresponsabile del soggetto agente), indica un’attività intrinsecamente dannosa e rappresenta un elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 2050 c.c.

[3] Cass., sez. III civile, sent. n. nn. 16637/2008; 6888/2005; 121307/1998; 11861/1998; 1380/1994.


Animali domestici

Animali domestici e condominio: connubio possibile?

Come gestire la convivenza con gli altri condomini quando si possiedono animali domestici

 

Legge vigente e garanzie per il possessore/detentore di animali

L’accresciuta sensibilità nei confronti degli animali e più nello specifico rispetto agli animali domestici, ritrovata con l’avvento del nuovo millennio, ha portato con sé l’esigenza di un rinnovamento anche sul piano normativo.

La L. n. 220 del 11 dicembre 2012, recante “modifiche alla disciplina del condominio negli edifici”, ha sdoganato la presenza degli animali da compagnia[1] all’interno del condominio, modificando l’art. 1138 c.c., con l’aggiunta del comma di seguito indicato: «Le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici».

Più chiaro di così! La legge vigente funge dunque da baluardo dei diritti di possessori/detentori di animali domestici, ai quali nessuna delibera assembleare può proibire la detenzione o il possesso di animali domestici all’interno della propria proprietà.

Infatti, tra i rimedi esperibili dal condomino al quale venisse interdetto il possesso o la detenzione di un animale all’interno delle proprie mura domestiche vi è sicuramente l’impugnativa della delibera assembleare, con ricorso davanti al Giudice di pace da depositarsi entro 30 giorni dalla data in cui è stata emessa o da quella in cui il soggetto ha ricevuto il verbale[2].

Ogni delibera avente ad oggetto il predetto divieto sarebbe infatti tacciabile di nullità, ponendosi in aperto contrasto con il dettato legislativo.

 

Limiti e conseguenze

Esistono tuttavia dei limiti alla facoltà del condomino di possedere/detenere animali domestici.

Innanzitutto, la regola generale secondo cui è ammessa la presenza di animali domestici all’interno del condominio può essere derogata dal proprietario dell’immobile condominiale che decida di affittarlo. In sede di firma del contratto di locazione, egli potrà infatti inserire una clausola ad hoc con cui impedire al locatario di possedere/detenere animali domestici.

In secondo luogo, nessuno è esente dal rispettare i diritti degli altri condomini e le parti comuni dell’edificio. Infatti, la vita condominiale deve svolgersi in ossequio alla regola generale sull’uso della cosa comune, contenuta nell’art. 1102 c.c., secondo la quale «Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto».

Al condomino è dunque richiesto di mantenere puliti gli spazi comuni cui ha accesso con i propri animali domestici, nonché adottare guinzaglio e mascherina (specialmente per animali di taglia grande), affinché agli altri condomini venga garantito un uso “in sicurezza” dei medesimi spazi.

La mancata adozione di cautele idonee a salvaguardare l’igiene può comportare problemi di immissioni olfattive, che diventano “moleste”, ergo perseguibili – penalmente e civilmente – se queste superano la soglia di normale tollerabilità fissata per gli odori, nonché per i rumori, dall’art. 844 c.c.

Lo stesso discorso vale per i rumori, come poc’anzi accennato: se la frequenza e il volume del rumore provocato dagli animali domestici superano questa soglia, la legge prevede il rimedio dell’inibitoria della condotta molesta, nonché la domanda di risarcimento del danno.

Non solo! Quando il disturbo, effettivo o potenziale, della pace non investe solo un numero definito di persone, abitanti nelle circostanze dell’abitazione dal quale lo stesso proviene, bensì raggiunge un numero indeterminato di soggetti, il detentore/possessore dell’animale “molestatore” si espone da un punto di vista penalistico, in quanto impendendo all’animale di disturbare, viola l’art. 659 c.p., configurandosi la fattispecie di disturbo alla quiete pubblica.

Ultimo, ma non per ordine di importanza, il nostro codice civile, all’art. 2052 c.c., disciplina il danno cagionato da animali, imputandone al possessore/detentore la responsabilità oggettiva. Con ciò a sottolineare l’importanza di un’attività di vigilanza incessante e scrupolosa sui propri animali, rimessa ai padroni.

In sintesi, e con questo mi avvio a concludere, il connubio condominio/animali domestici è possibile, ma, come per ogni aspetto della vita quotidiana, la buona riuscita di questo dipende dal senso civico di ciascun condomino e dal rispetto del prossimo.

Informazioni

A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffrè, Milano, 2013

www.ilmessaggero.it/casa/news/

www.diritto24.ilsole24ore.com

[1] La L. n. 201/2010, che ha ratificato la Convenzione di Strasburgo ed è in vigore dal 4 dicembre 2010, contiene la definizione di animale da compagnia, come tale da intendersi “ogni animale tenuto, o destinato ad essere tenuto dall’uomo, in particolare presso il suo alloggio domestico, per suo diletto e compagnia”.

[2] Quando la questione non era stata neppure inserita nell’ordine del giorno, ma era stata trattata sommariamente la delibera è intrinsecamente nulla e si rende inutile l’intervento dell’autorità giudiziaria.