La convivenza more uxorio
Cosa si intende per convivenza more uxorio, quali sono i diritti dei conviventi di fatto, come fare un contratto di convivenza?
Cos’è la convivenza more uxorio?
La convivenza more uxorio è la relazione affettiva e solidaristica che lega due persone in comunione di vita.
La situazione di fatto che si crea è simile, per molti aspetti, al matrimonio. Difatti la Cassazione con la sentenza n. 6381/1993 dichiara che la convivenza more uxorio è legittima per il nostro ordinamento perché non contrasta con il buon costume, l’ordine pubblico e le norme imperative.
Ad oggi, rinveniamo la disciplina del predetto istituto nella legge n. 76/2016 la c.d Legge Cirinnà[1] che ne ha introdotto la disciplina nel nostro ordinamento.
La normativa prevede una serie di diritti a favore dei conviventi. Ad esempio:
- il partner di un soggetto dichiarato inabile può essere infatti nominato suo amministratore di sostegno o fargli visita nei luoghi di ricovero ed esprimere la sua opinione sul trattamento terapeutico che lo riguarda;
- il decesso di uno dei conviventi causata da un illecito altrui commesso sul posto di lavoro, durante la circolazione stradale o in altre circostanze, legittima l’altro convivente a chiedere il risarcimento danni da morte.
Ovviamente, questi sono soltanto alcuni dei diritti previsti dalla Legge Cirinnà, alla quale deve essere riconosciuto il merito di aver “dato nuovamente dignità alla convivenza more uxorio, paragonandola, ai fini degli effetti, al matrimonio”.
Il diritto al mantenimento e l’affidamento dei figli
Tra le problematiche più frequenti legate all’istituto della convivenza more uxorio, rientrano sicuramente il diritto al mantenimento e l’affidamento dei figli nell’ipotesi in cui la convivenza dovesse venire meno.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la corresponsione dell’assegno di mantenimento non è contemplata nel caso in cui a separarsi è una coppia di fatto, per cui intendiamo la coppia costituita da due soggetti legati sentimentalmente, ma che non hanno formalizzato il loro rapporto con un matrimonio o un’unione civile. Anche in tal caso, con la legge Cirinnà è stata data loro la possibilità di rendere la propria relazione giuridicamente rilevante senza dover necessariamente celebrare matrimonio o stipulare un’unione civile[2]. Dunque, l’unica forma di contributo prevista dalla nuova legge consiste nel diritto agli alimenti, ma solo se l’ex convivente versa in stato di bisogno, mentre la quantificazione della corresponsione degli alimenti è commisurata al periodo della convivenza.
Invece, in relazione alla controversa questione dell’affidamento dei figli che si pone qualora la convivenza more uxorio dovesse sciogliersi, il d.lgs. n. 154/2013 dispone che i figli naturali nati al di fuori del matrimonio, sono equiparati ai figli legittimi nati in costanza di matrimonio. Pertanto, se la convivenza more uxorio termina, ogni genitore, in assenza di accordo per gestire la relazione con i figli, può rivolgersi al Tribunale ordinario, al quale spetta l’onere di stabilire la misura dell’assegno di mantenimento, il diritto di visita, l’affidamento e l’assegnazione della casa familiare.
Sul punto, la Cassazione ha precisato che, anche in caso di convivenza more uxorio, i figli hanno anche il diritto a mantenere un rapporto adeguato con il genitore dal quale vengono separati.
Quando la convivenza more uxorio termina, emerge un’ulteriore tematica: le obbligazioni naturali.
Ribadiamo che l’obbligazione naturale consiste nel “pagamento spontaneo di una somma di denaro o nell’esecuzione spontanea di una prestazione, per puro ossequio a regole sociali o morali.”. L’assenza del vincolo giuridico comporta che le obbligazioni naturali siano soggette a quanto stabilito dall’art. 2034 c.c., dunque non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace, ed inoltre, il secondo comma prevede che i doveri indicati dal comma precedente e ogni altro per cui la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato non producono altri effetti.
Alla luce di quanto affermato dalla norma, il convivente che ha elargito somme per il mantenimento della coppia o della famiglia di fatto in presenza di figli, non può pertanto chiederne la restituzione, se sono stati rispettati i principi di proporzionalità e adeguatezza.
Sul punto, una recente pronuncia della Cassazione[3] prevede che al termine di un periodo di convivenza more uxorio, può essere stabilito un compenso economico a favore di un partner solo se questi ha svolto a favore dell’altro, talune prestazioni che esulano dai normali doveri materiali e morali, quale il lavoro domestico, il cui assolvimento non dà luogo a risarcimento alcuno, costituendo obbligazione naturale ex articolo 2034 c.c., conformemente al dettato costituzionale di cui all’articolo 2.
Il contratto di convivenza more uxorio
Ai fini della stipula del contratto di convivenza more uxorio sono richieste delle apposite formalità affinché la convivenza sia effettivamente valida. Infatti la norma prevede che i contratti di convivenza presuppongono la registrazione anagrafica della coppia di fatto presso il Comune di residenza. Tale adempimento si rileva particolarmente utile in caso di separazione, poiché le parti possono stabilire a priori le rispettive modalità di contribuzione alle necessità della famiglia di fatto la convivenza e quando questa viene meno.
Informazioni
Manuale di diritto privato, P. Stazione, ed. 2018;
Le tutele legali nelle crisi di famiglia, M.A. Lupoi, ed. 2018, Maggioli Editore
[1] Sulla legge Cirinnà rimando ad un altro articolo pubblicato su DirittoConsenso. Link: http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/15/legge-cirinna-e-successive-conseguenze/
[2] Anche sull’argomento delle unioni civili, rimando ad un altro approfondimento consultabile su DirittoConsenso. Link: http://www.dirittoconsenso.it/2019/01/11/le-unioni-civili/
[3] Corte di Cassazione, Sezione I civile, Sentenza 25 gennaio 2016, n. 1266
Le funzioni del Garante della Privacy
Parlando di un’importante autorità amministrativa indipendente è fondamentale citare le funzioni del Garante della Privacy. Quali sono?
Inquadramento teorico: Il Garante della privacy e le sue funzioni
Prima di analizzare le funzioni del Garante della Privacy, è necessario fare un brevissimo inquadramento della normativa vigente. Il Regolamento europeo 2016/679 sulla protezione dei dati, noto anche come GDPR, dispone che ogni Stato membro debba prevedere “che una o più autorità pubbliche indipendenti siano incaricate di sorvegliare l’applicazione del presente regolamento al fine di tutelare i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche con riguardo al trattamento e di agevolare la libera circolazione dei dati personali[1] all’interno dell’Unione”.
In Italia, tale autorità esiste dal 2003 nella figura del Garante, i cui compiti e poteri sono definiti agli articoli 154 a 154ter del Codice della Privacy.
Il GDPR è un atto normativo che ha segnato una svolta epocale in materia di protezione dati, in favore di una disciplina più agevole ed innovativa, capace di rispondere alle esigenze derivate dallo sviluppo esponenziale delle nuove tecnologie. Si apre quindi la strada al principio di accountability, ovvero responsabilizzazione dei titolari e responsabili del trattamento, chiamati a porre in essere “comportamenti proattivi e tali da dimostrare la concreta adozione di misure finalizzate ad assicurare l’applicazione del regolamento”.
Andiamo ora ad analizzare quelle che sono le principali funzioni del Garante della privacy.
Informazione e sensibilizzazione in tema di privacy sono fondamentali
Il GDPR prevede tra le funzioni del Garante la promozione della consapevolezza, sia del pubblico che dei titolari e responsabili del trattamento, favorendo così la comprensione dei rischi, delle norme, delle garanzie e dei diritti in relazione al trattamento dei dati.
L’informazione al pubblico viene considerata da parte del legislatore europeo come la chiave di volta per sensibilizzare tutti i soggetti, pubblici e privati, tenuti all’applicazione del Regolamento, all’adozione di tutte quelle buone prassi che permettono la riduzione del rischio di trattamento non corretto dei dati trattati. Questa funzione viene assolta al Garante mediante diversi strumenti, siano essi cicli di incontri per sensibilizzare al meglio lo sviluppo e la diffusione della cultura e della materia di protezione dati, ma anche mediante un ampio ricorso a linee guida operative e infografiche esplicative, come quella in materia phishing.
È bene tenere presente che le funzioni del Garante non si riducono solo alla protezione dei dati, poiché si occupa anche della salvaguardia delle stesse attività di business degli operatori economici in ottica pro-concorrenziale, restando ferma la tutela dei diritti degli interessati.
Il ruolo consultivo del Garante
Tra le funzioni del Garante indicate dall’articolo 57 del GDPR rientra quello di dare pareri su proposte di atti normativi. Il Garante, infatti, deve fornire “consulenza, a norma del diritto degli Stati membri, al parlamento nazionale, al governo e ad altri organismi e istituzioni in merito alle misure legislative e amministrative relative alla protezione dei diritti e delle libertà delle persone fisiche con riguardo al trattamento”.
Ed inoltre, i titolari del trattamento, “qualora la valutazione d’impatto sulla protezione dei dati a norma dell’articolo 35 del GDPR, indichi che il trattamento presenterebbe un rischio elevato in assenza di misure adottate dal titolare del trattamento per attenuare il rischio”, devono consultare l’autorità di controllo prima di procedere al trattamento. Il fine di questo parere preventivo è “di rendere più vicino possibile allo zero il rischio di procurare danni alle libertà e ai diritti o all’Interessato”. Così, il ruolo di consulenza preventiva del Garante è perfettamente in linea con quanto evidenziato pocanzi, vale a dire l’implementazione di un clima di collaborazione tra Garante e aziende mirato ad evitare violazioni dei dati e garantirne la protezione.
La funzione del Garante in materia di reclami
Infine, tra le altre funzioni del Garante rientra quella di controllare l’applicazione delle regole e quindi trattare i reclami. A questo ruolo di trattamento dei reclami vengono spesso associate le sanzioni, intese piuttosto come procedure che possono fornire un’interpretazione delle regole e quindi fornire un aiuto ad aziende ed enti pubblici che si trovano a ridefinire i processi interni alla luce della normativa comunitaria.
Così, la procedura di reclamo non è affatto un mero strumento finalizzato unicamente a irrogare sanzioni ma permette anche di interpretare e di conseguenza rendere più leggibili le regole in vigore per tutti gli intervenenti al processo di trattamento dei dati.
Per comprendere meglio quest’ultima funzione del Garante, è possibile fare riferimento alla procedura di data breach. Quest’ultima richiede che in caso di violazione dei dati, il titolare del trattamento debba notificarne gli estremi al Garante entro 72 ore dal momento in cui ne viene a conoscenza. Dopodiché l’Autorità potrà decidere come intervenire, ad esempio prescrivendo l’adozione di misure che siano in grado di garantire una maggior protezione e tutela dei diritti degli interessati e, solo nei casi più gravi, ove ne ricorrano i presupposti, infliggere sanzioni pecuniarie.
La funzione del Garante della Privacy in materia di reclami: il caso
In un recente caso[2], che ha visto la violazione di milioni di credenziali di account di posta elettronica per via di un accesso fraudolento a un hot spot della rete Wifi, il titolare del trattamento dopo aver informato il Garante aveva informato gli interessati della violazione descrivendola come una “attività anomala sui sistemi” suggerendo semplicemente il cambio della password come unica azione correttiva. In tal caso il Garante, ravvisando l’inadeguatezza della predetta comunicazione inidonea ai sensi dell’articolo 34 del GDPR, ha ingiunto al titolare di “effettuare una nuova comunicazione della violazione dei dati personali agli interessati contenente una descrizione della natura della violazione e delle possibili conseguenze della stessa, nonché indicazioni specifiche sulle misure che gli interessati possono adottare per proteggersi da eventuali conseguenze negative della violazione, quale la raccomandazione di non utilizzare più le credenziali compromesse, modificando la password utilizzata per l’accesso a qualsiasi altro servizio online qualora coincidente o simile a quella oggetto di violazione”.
Questo dimostra che la figura del Garante è volta ad accompagnare e informare i titolari del trattamento sulle modalità più idonee ad adottare misure concrete per la difesa dei diritti e delle libertà degli interessati e non semplicemente infliggere sanzioni.
Informazioni
M. FIORDALISI, “Garante Privacy, si vota il 19 luglio. Testa a testa Scorza-Pollicino”, Corriere comunicazioni.
M. FIORDALISI, “Garante Privacy e Agcom, tutto tace. Partita rimandata a settembre?”, Corriere comunicazioni.
E. CARLONI, M. FALCONE “L’equilibrio necessario: principi e modelli di bilanciamento tra trasparenza e privacy”, Diritto pubblico, n. 3, 2017
[1] Per approfondimenti sul tema è consigliata la lettura dell’articolo di R. Giuliani: http://www.dirittoconsenso.it/2018/01/07/la-privacy-e-il-trattamento-dei-dati-personali/
[2] Garante per la protezione dei dati personali, Provvedimento su data breach, 30 aprile 2019. Link: https://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9116509
Il giudizio direttissimo
Il giudizio direttissimo, annoverato tra i procedimenti penali speciali, persegue la finalità di garantire uno sviluppo processuale più celere attraverso l’omissione dell’udienza preliminare
Inquadramento del giudizio direttissimo
Il giudizio direttissimo è uno tra i procedimenti speciali annoverati dal codice di procedura penale, il quale consente di anticipare il processo senza, però, perseguire finalità premiali per l’imputato.
Sotto il profilo strutturale, il giudizio direttissimo presenta delle affinità con il rito immediato chiesto dal Pubblico Ministero, poiché in entrambi l’iniziativa della pubblica accusa permette il passaggio immediato dalla fase delle indagini a quella del dibattimento, omettendo l’udienza preliminare. Bisogna precisare però, che mentre l’instaurazione del giudizio immediato è conseguenza di una valutazione del PM che ritenga evidente la colpevolezza dell’imputato oppure della valutazione circa la sussistenza di gravi indizi che giustificano l’adozione di una misura custodiale, il giudizio direttissimo richiede altri presupposti quali l’arresto in flagranza o la confessione dell’imputato, sui quali il giudice deve pronunciarsi in udienza, durante il contraddittorio.
Il rito direttissimo rinviene la propria disciplina negli artt. 449 e ss. c.p.p, la quale è stata modificata dal decreto legge sulla pubblica sicurezza n. 92 del 2008 che ha previsto due ipotesi obbligatorie ed una facoltativa:
- Per quanto riguarda le ipotesi obbligatorie, il Pubblico Ministero deve instaurare il rito direttissimo quando l’indagato è stato arrestato in flagranza di reato e l’arresto è stato convalidato dal giudice per le indagini preliminari[1], ad eccezione dell’ipotesi in cui ciò dovesse gravemente pregiudicare lo svolgimento delle indagini; ovvero, il PM deve procedere con tale rito in presenza di una confessione dell’imputato nel corso dell’interrogatorio.
- In merito all’ipotesi facoltativa, invece, il PM può procedere con il giudizio direttissimo quando ritiene opportuno chiede al giudice del dibattimento la convalida dell’arresto. In questo caso, l’arrestato deve essere condotto direttamente nell’aula dibattimentale, non oltre il termine di 48 ore dall’inizio dell’applicazione della misura custodiale. Si evince, pertanto, che la convalida dell’arresto è un presupposto fondamentale per l’instaurazione del suddetto procedimento speciale.
Il codice prevede però, un’unica ipotesi eccezionale, in cui si può instaurare il rito in assenza della convalida, ossia, quando, ai sensi dell’art. 449 comma 2 c.p.p., la pubblica accusa e l’imputato vi consentono.
L’instaurazione del giudizio direttissimo
All’instaurazione del rito provvede il Pubblico Ministero con modalità differenti a seconda che l’imputato si trovi in stato di arresto o di custodia cautelare, sia libero oppure sottoposto a misure cautelari non custodiali. Difatti, nei primi due casi il PM conduce direttamente l’imputato in udienza, dove viene contestata oralmente la sua imputazione; mentre nelle altre ipotesi viene notificata all’imputato una citazione a comparire, in cui venga enunciato il fatto di reato attribuitogli. Spetta al PM formare il fascicolo del dibattimento, il quale viene successivamente trasmesso alla cancelleria del giudice competente, invece, gli atti delle indagini vengono depositati presso la segreteria del PM, in modo tale che i difensori possano prenderne visione.
Lo svolgimento
La peculiarità che contraddistingue questo rito consiste nel fatto che non viene svolta la fase degli atti preliminari al dibattimento, dunque, non ci saranno liste testimoniali, la persona offesa ed i testimoni possono essere citati anche oralmente da un ufficiale giudiziario o da un agente di polizia giudiziaria[2], così come il PM, l’imputato e la parte civile, possono presentare testimoni in dibattimento anche in assenza di citazione ad hoc. Piuttosto, il Presidente dovrà verificare la regolare costituzione delle parti ai sensi delle disposizioni sancite all’art. 484 c.p.p., ed in particolare, fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, l’imputato può chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova. L’imputato, inoltre, viene avvertito della facoltà di chiedere l’instaurazione del giudizio abbreviato o del patteggiamento, e della possibilità di avvalersi di un termine non superiore a 10 giorni per la preparazione della propria difesa.
Una volta aperto il dibattimento, esso prosegue secondo le regole ordinarie con la richiesta di ammissione delle prove (artt. 492-495 c.p.p.).
Il rito abbreviato atipico
In seguito all’instaurazione del giudizio direttissimo, l’imputato può chiedere, prima dell’apertura del dibattimento, il rito abbreviato. In tal caso, il giudice dovrà valutare se la richiesta è incondizionata o meno, ed in tal caso verificarne l’ammissibilità.
Il rito abbreviato c.d. atipico è regolato in parte dalle norme ordinarie ed in parte da quelle speciali, entrambe modificate dalla legge n. 103 del 2017, ben nota anche come Riforma Orlando, la quale ha disposto la sanatoria di tutte le nullità che non siano assolute, con l’instaurazione del giudizio abbreviato.
Una volta disposto il giudizio abbreviato, vengono osservate le norme previste per l’udienza preliminare anche se il giudizio si volge dinanzi al giudice del dibattimento.
Il giudizio direttissimo in seguito all’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare
La legge n. 119 del 2013, in tema di contrasto alla violenza di genere, ha previsto la possibilità di procedere con il giudizio direttissimo nel caso in cui sia stato disposto l’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare di un indagato colto in flagranza di reato, in materia di delitti contro la persona individuati dall’art. 282 bis, comma 6 c.p.p[3].
Dopo aver disposto questo nuovo tipo di misura pre-cautelare, la polizia giudiziaria deve provvedere, entro il termine di 48 ore dall’esecuzione della misura, a citare l’indagato in dibattimento affinché si proceda direttamente alla convalida. Pertanto, verificata l’opportunità della scelta di procedere immediatamente con il dibattimento, il giudice può convalidare la misura, ed eventualmente, applicarne altre su richiesta del PM. Può anche accadere che il giudice non disponga la convalida dell’allontanamento, pertanto, in questo caso viene applicata la normativa ordinaria.
Invece, nell’ipotesi in cui il PM ritenga che il giudizio direttissimo possa pregiudicare gravemente lo svolgimento delle indagini, la polizia giudiziaria deve provvedere sempre entro il termine di 48 ore, alla citazione per l’udienza di convalida dinanzi al giudice per le indagini preliminari. In questa circostanza, se il giudice decide di non procedere alla convalida, gli atti vengono restituiti al PM, che dovrà procedere in altro modo. Viceversa, se il giudice convalida l’allontanamento dalla casa familiare, entro 30 giorni, l’indagato è citato a comparire per il giudizio direttissimo. (art. 449, comma 4 c.p.p.)
Il giudizio direttissimo previsto da leggi speciali
In seguito all’emanazione del codice, alcune leggi hanno introdotto l’instaurazione del giudizio direttissimo in ipotesi non convenzionali: ad esempio quando si perseguono reati inerenti armi ed esplosivi, oppure reati finalizzati alla discriminazione etnica o religiosa. In quest’ultima ipotesi, l’instaurazione del rito direttissimo è obbligatoria e prescinde dall’esistenza dei presupposti genericamente previsti dalla legge.
Ulteriori ipotesi di giudizio direttissimo obbligatorio sono finalizzare a prevenire e reprimere fenomeni di violenza inerenti alle competizioni sportive, ed in particolare a quelle calcistiche. Infatti, il rito direttissimo si applica a quei reati inerenti all’inosservanza delle prescrizioni del questore, il possesso di materiale artificioso o la violenza compiuta in occasione di manifestazioni sportive.
Potremmo, dunque, legittimamente affermare la particolare attualità e rilevanza della tematica trattata, nonché di questo rito speciale, sempre più attinente agli interessi di vita quotidiani.
Informazioni
Manuale di procedura penale, P. Tonini, Giuffrè, 2019
[1] Per approfondimento sul tema, si consiglia la lettura dell’articolo “Le indagini preliminari e la tutela dell’indagato di G. Venturin: http://www.dirittoconsenso.it/2021/01/04/indagini-preliminari-e-tutela-indagato/
[2] Per approfondimento sul tema, si consiglia la lettura dell’articolo “I poteri della polizia giudiziaria” di E. Cancellara: http://www.dirittoconsenso.it/2021/02/15/poteri-polizia-giudiziaria/
[3] Art. 282 bis, comma 6,c.p.p.: “Qualora si proceda per uno dei delitti previsti dagli articoli 570, 571, 572, 582, limitatamente alle ipotesi procedibili d’ufficio o comunque aggravate, 600, 600 bis, 600 ter, 600 quater, 600 septies 1, 600 septies 2, 601, 602, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies e 609 octies e 612, secondo comma, 612 bis del codice penale, commesso in danno dei prossimi congiunti o del convivente, la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’articolo 280, anche con le modalità di controllo previste all’articolo 275 bis.”
Il controinteressato nel processo amministrativo
Chi è il controinteressato nel processo amministrativo? Quali sono i suoi compiti? Si tratta di una figura la cui definizione è spesso controversa e poco chiara, nonostante sia di fondamentale importanza nel corso del procedimento
Il controinteressato: parte necessaria del procedimento amministrativo
La figura del controinteressato è da sempre oggetto di dibattito ma le posizioni legislative più recenti tendono a riconoscerne la posizione, in applicazione del principio di eguaglianza e del buon andamento della Pubblica Amministrazione.
I soggetti che assumono la qualifica di controinteressati nel processo amministrativo[1], sono titolari di un interesse qualificato che generalmente attribuisce loro una posizione giuridica di vantaggio, di natura uguale e contraria a quella del ricorrente. Pertanto, la loro figura deve essere individuata o facilmente individuabile all’interno dell’atto o del provvedimento in questione.
Il controinteressato è tipicamente legato all’instaurazione del giudizio di primo grado, in relazione alla circostanza che il potere esercitato dalla Pubblica Amministrazione non coinvolge soltanto il ricorrente che assume l’iniziativa processuale, ma anche altri soggetti che devono essere messi in condizione di partecipare al processo per tutelare le proprie situazioni giuridiche soggettive. Difatti, ai fini di garantire un giusto processo, devono essere preservate anche le posizioni di coloro che possono essere titolari di situazioni soggettive contrapposte e che potrebbero ricevere uno svantaggio dal provvedimento finale.
Sul punto è stata significativa la riforma del 1971, grazie alla quale si è consolidato l’orientamento che ritiene parti passive necessarie non soltanto quelle espressamente contemplate dal provvedimento impugnato, ma anche tutti coloro che siano obiettivamente individuabili dall’atto impugnato in quanto titolari di situazioni giuridiche soggettive coinvolte. Inoltre, la successiva giurisprudenza ha introdotto dei criteri per identificare correttamente i controinteressati:
- Elemento di natura formale, richiede che il provvedimento impugnato indichi nominativamente i terzi oppure che questi siano “obiettivamente”, “facilmente” o “agevolmente” identificabili sulla base del medesimo;
- Elemento di natura sostanziale che si concretizza nella sussistenza in capo al terzo di una situazione soggettiva giuridicamente qualificata di segno contrario a quella fatta valere dal ricorrente, finalizzata alla conservazione del provvedimento impugnato.
L’ordine di integrazione del contraddittorio
Ai fini della validità del contraddittorio, il ricorso deve essere notificato sia all’Amministrazione resistente che almeno ad un controinteressato. Nell’ipotesi in cui il giudice riscontri che il contraddittorio avrebbe dovuto essere esteso ad altri soggetti, è necessario che ne ordini l’integrazione, altrimenti la sentenza viene dichiarata annullabile perché affetta da vizio procedurale.
Il controinteressato cui non sia stato notificato il ricorso originariamente o a seguito di un ordine di integrazione del contraddittorio del giudice, viene definito pretermesso ed ha la possibilità di tutelarsi intervenendo, comunque, in giudizio oppure proponendo opposizione avverso la sentenza a lui sfavorevole.
Le facoltà riconosciute al controinteressato che partecipa regolarmente al giudizio, sono piuttosto limitate e consistono in:
- Articolare argomentazioni difensive;
- Ampliare il thema decidendum, proponendo ricorso incidentale;
- Solo nel caso di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, egli può impugnare la decisione anche per errores in iudicando.
Il controinteressato nell’accesso ai documenti amministrativi
Uno degli ambiti in cui il controinteressato viene maggiormente richiamato e altresì tutelato, è l’accesso ai documenti ammnistrativi. L’articolo 22 della legge n.241/1990 cita tale soggetto tra quelli legittimati, ai quali la legge consente di presentare un’istanza di accesso ai documenti amministrativi, al fine di conoscerne il contenuto e di tutelare la propria situazione giuridica soggettiva. In aggiunta, successivamente anche nel d.lgs. n. 33 del 2013, all’articolo 5 bis, i controinteressati vengono espressamente menzionati, difatti la norma afferma che “il procedimento di accesso civico deve concludersi con provvedimento motivati ed espresso, nel termine di trenta giorni dalla presentazione dell’istanza, con la comunicazione al richiedente e agli eventuali controinteressati”. Dunque, vengono considerati soggetti che mirano alla protezione dei dati personali, alla libertà e alla segretezza della corrispondenza ed infine alla protezione di interessi economici e commerciali, compresi la proprietà intellettuale, il diritto d’autore e i segreti commerciali. Di conseguenza, nel termine di dieci giorni dal momento in cui ricevono la comunicazione, hanno la possibilità di opporsi alla richiesta di accesso, purché l’opposizione sia motivata.
La previsione di tale categoria costituisce un’importante innovazione in materia di accesso, poiché vengono considerati soggetti da sempre conosciuti ma rimasti all’oscuro fino alla riforma del 2005. Infatti, è stata proprio la Legge n. 15 del 2005 ad identificare il controinteressato come portatore dell’interesse alla riservatezza, che si esplica nell’esigenza di evitare un danno, qualora venga consentito l’accesso. Per questo motivo, la legge si preoccupa di offrire particolare tutela a tali soggetti, prevedendo che l’amministrazione a cui è indirizzata l’istanza di accesso, è tenuta “a dare comunicazione ai controinteressati, mediante invio di copia con raccomandata con avviso di ricevimento, o per via telematica per coloro che abbiano consentito a tale forma di comunicazione”. In seguito alla notifica, i controinteressati possono presentare opposizione motivata alla richiesta di accesso entro dieci giorni dalla ricezione della comunicazione; decorso tale termine ed accertata la ricezione della comunicazione da parte del controinteressato, all’amministrazione sarà consentito provvedere sulla richiesta di accesso.
Al pari degli altri soggetti coinvolti nel procedimento amministrativo, anche i controinteressati possono avvalersi di strumenti di tutela, ed in particolare nell’ambito del diritto di accesso, il legislatore prevede un rimedio di tipo giurisdizionale, affidato al giudice amministrativo, ed uno alternativo dinanzi alla Commissione per l’accesso o dinanzi al difensore civico.
Il ricorso può essere esperito avverso il diniego o il silenzio dell’amministrazione sulle istanze di accesso ai documenti amministrativi, non soltanto dai soggetti titolari della posizione giuridica soggettiva alla base della richiesta di accesso, ma anche dai controinteressati. Il ricorso deve essere proposto nel termine di trenta giorni dalla conoscenza della determinazione dell’amministrazione o della formazione del silenzio, mediante notificazione del ricorso all’amministrazione che ha emanato il provvedimento o sia rimasta silente.
Considerazioni conclusive
Sulla base della disciplina precedentemente analizzata, si evince l’assoluta centralità della figura del controinteressato all’interno del procedimento amministrativo, sebbene si tratti di un soggetto la cui individuazione, spesso, non è espressamente disciplinata. Infatti, è possibile affermare un’equiparazione del controinteressato alle altre parti necessarie, ai fini processuali.
Di fondamentale importanza, citiamo la sentenza n. 5362 del 2015 del Consiglio di Stato, la quale ha affermato che la mancata notificazione ad almeno uno dei controinteressati del ricorso innanzi al T.A.R. non può che causare l’inammissibilità dell’impugnazione proposta. Tale risultato deriva dall’applicazione di quanto previsto all’art. 41, comma 2, del d.lgs. 104 del 2010, secondo cui “qualora sia proposta azione di annullamento il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati che sia individuato nell’atto stesso”.
Sull’argomento si reputa importante sottolineare come la nozione di controinteressato sia stata più volte analizzata e dibattuta, sia in dottrina che in giurisprudenza, da un lato per evitare l’inutile appesantimento che potrebbe materializzarsi a carico di chi intende promuovere un’azione giurisdizionale, dall’altro, per garantire a chi subirebbe un danno dall’accoglimento del ricorso di essere evocato in giudizio per poter in quella sede manifestare le proprie ragioni.
Informazioni
Inserisci qui la bibliografia
[1] Per approfondimento sul processo amministrativo, si consiglia la lettura del seguente articolo di E. Cancellara: http://www.dirittoconsenso.it/2020/11/30/uno-schema-sul-processo-amministrativo/
I poteri della polizia giudiziaria
La polizia giudiziaria è un soggetto attivo del processo penale: quali sono i suoi poteri e le sue funzioni?
La polizia giudiziaria: soggetto del processo penale
La polizia giudiziaria viene annoverata tra i soggetti del processo penale[1], insieme al giudice, al Pubblico Ministero, all’imputato, alla parte civile, al responsabile civile, alla persona offesa ed il difensore. Ricordiamo che per soggetti intendiamo coloro che sono titolari di poteri di iniziativa nel procedimento, il cui compimento di un atto fa sorgere in un altro soggetto il dovere di compiere un atto successivo.
Le funzioni della polizia giudiziaria
Lo Stato si occupa di tutelare l’ordine pubblico e il rispetto della legge servendosi di corpi di polizia che, a seconda delle funzioni che svolgono, si possono distinguere in:
- polizia giudiziaria e
- polizia di sicurezza.
Ciò che distingue i due corpi di polizia, è proprio la contrapposizione tra prevenzione dei reati e repressione dei reati. Quando svolge la funzione di prevenire i reati, la polizia non gode di poteri coercitivi ma non appena giunge a conoscenza della notizia di reato potrà avvalersene, poiché l’esercizio di poteri coercitivi è correlato all’instaurazione di un procedimento penale nel quale viene garantito il diritto alla difesa, sotto il controllo del giudice e del Pubblico Ministero.
In sintesi, le attività che la polizia giudiziaria svolge possono essere facilmente definitive come informative, investigative e repressive.
In particolare, la polizia giudiziaria trova la propria definizione nell’articolo 55 c.p.p. che individua le seguenti funzioni:
- prendere notizia dei reati,
- impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori,
- ricercarne gli autori,
- compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova
- raccogliere quant’altro per l’applicazione della legge penale.
In genere si parla di dipendenza funzionale della polizia giudiziaria, poiché essa svolge le proprie funzioni sotto la direzione del Pubblico Ministero[2] e sotto la sorveglianza del Procuratore generale presso la Corte d’Appello, il quale è legittimato a dare inizio al procedimento disciplinare contro l’ufficiale o agente di polizia in caso di trasgressione dei doveri correlati al proprio ufficio. Possiamo affermare che il PM e la polizia giudiziaria svolgono parallelamente le proprie funzioni durante la fase delle indagini preliminari, infatti come disposto dall’articolo 327 c.p.p. “il pubblico ministero dirige le indagini e dispone direttamente della polizia giudiziaria”. Dalla norma si evince proprio come il ruolo della polizia giudiziaria sia subordinata a quello del PM e al rispetto delle direttive da quest’ultimo dettate.
L’autonoma iniziativa della polizia giudiziaria
Nell’ambito delle indagini preliminari il codice effettua una distinzione tra l’autonoma iniziativa del Pubblico Ministero e quella della polizia giudiziaria.
Tale distinzione viene effettuata solo a livello disciplinare, per agevolare lo studio e renderlo più chiaro, in quanto non esistono attività svolte sulla base dell’esclusiva iniziativa della polizia giudiziaria, essendo essa sempre subordinata al potere del PM. Invece è possibile individuare una differente regolamentazione degli atti compiuti da tali soggetti: ad esempio, l’attività di perquisizione ed ispezione compiuta dal PM è molto più incisiva rispetto a quella posta in essere dalla polizia giudiziaria, legata soltanto ai casi di flagranza o evasione e richiedente sempre la convalida del PM. Nel caso di perquisizione ordinata dal PM è sufficiente solo la sussistenza di indizi, non è richiesta alcuna convalida ma è necessario che l’indagato sia affiancato da un difensore di fiducia o d’ufficio, nel caso in cui non abbia provveduto a nominarlo.
In merito all’attività svolta ad iniziativa della polizia giudiziaria è possibile ravvisare un’attività autonoma in senso stretto che inizia nel momento in cui la polizia viene a conoscenza della notizia di reato e termina quando il PM impartisce le proprie direttive. Quest’attività consiste nel raccogliere ogni elemento funzionale alla ricostruzione del fatto di reato e alla ricerca del colpevole.
Vi è poi un’attività in senso ampio svolta dalla polizia in seguito alla ricezione delle direttive del PM e che può ulteriormente distinguersi in:
- iniziativa guidata, volta ad eseguire in modo preciso le istruzioni date dal PM;
- iniziativa parallela, che comprende tutte le attività di indagine finalizzare all’accertamento dei reati svolte dalla polizia, purché abbia tempestivamente informato il PM. Specifichiamo, però, che questo tipo di attività pur essendo legittima, ha carattere residuale ed eccezionale.
- Iniziativa integrativa, svolta ad iniziativa della polizia giudiziaria ma sulla base dei dati emersi in seguito al compimento di atti delegati dal PM, al fine di assicurarne la massima efficacia. Ovviamente, la polizia non può mai compiere attività che sia in contrasto con quella svolta dal PM e deve informare prontamente quest’ultimo dei risultati conseguiti.
Altre attività
La polizia giudiziaria, inoltre, è legittimata a compiere quelle attività che richiedono specifiche competenze tecniche, per le quali potrà avvalersi dell’ausilio di figure maggiormente specializzate quali l’ausiliario, che presta semplicemente un aiuto materiale all’agente di polizia, di conseguenza si tratta comunque di un atto svolto dalla polizia giudiziaria; ed il consulente tecnico, il quale svolge le attività autonomamente e dovrà riferire i risultati al PM.
Atti della polizia giudiziaria senza l’uso di poteri coercitivi
Andiamo ora ad analizzare i singoli atti tipici che la polizia giudiziaria svolge senza avvalersi della forza coercitiva.
Sommarie informazioni dall’indagato
l’articolo 530 c.p.p. indica diverse modalità con lui l’indagato può deferire informazioni alla polizia giudiziaria: in presenza del difensore, il che presuppone che la polizia abbia invitato l’indagato a nominare un difensore; dichiarazioni spontanee rese su spontanea iniziativa dall’indagato all’ufficiale o agente di polizia; informazioni per la prosecuzione delle indagini che consente alla polizia giudiziaria di porre domande all’indagato anche in assenza del difensore, ma esclusivamente sul luogo e nell’immediatezza del fatto di reato e deve trattarsi, inoltre, di notizie utili ai fini dell’immediata prosecuzione delle indagini.
Sommarie informazioni da persone diverse dall’indagato
Coloro che rendono informazioni sono indicate dal codice come persone informate o possibili testimoni ed hanno una posizione analoga a quella del testimone, in quanto su di essi grava l’obbligo di rispondere secondo verità.
Altri atti ad iniziativa della polizia giudiziaria
Esistono inoltre atti che la polizia giudiziaria svolge anche avvalendosi della forza coercitiva.
Identificazione
Si tratta di un atto non garantito con cui viene identificata una persona fisica della quale non si conoscono le generalità. Possono essere sottoposti ad identificazione la persona offesa, i possibili testimoni e la persona sottoposta alle indagini, in sintesi tutte quelle persone che hanno avuto a che fare con il reato direttamente o indirettamente. Il sopralluogo è il mezzo più veloce per procedere all’identificazione del colpevole ed ha la finalità di comprendere la dinamica del fatto di reato, raccogliere elementi di prova e cercare spunti per la successiva attività di indagine.
Perquisizione
Questa può essere compiuta solo nei casi di flagranza di reato, in caso di evasione o se si deve procedere al fermo di una persona indagata o all’esecuzione di un’ordinanza che dispone la custodia cautelare o la carcerazione per uno dei delitti per cui è previsto l’arresto obbligatorio. In merito agli aspetti procedimentali, la polizia deve informare l’indagato della facoltà di nominare un difensore di fiducia e deve trasmettere al PM del luogo dove la perquisizione è stata eseguita, il relativo verbale affinché egli possa disporre la convalida entro le successive 48 ore.
Sequestro probatorio
Il sequestro probatorio è compiuto dalla polizia giudiziaria se vi è pericolo che il PM non possa intervenire tempestivamente o quando non ha ancora assunto la direzione delle indagini. Il verbale del sequestro deve essere trasmesso entro 48 ore al PM del luogo in cui il sequestro è eseguito, il quale nelle 48 ore successive convalida il sequestro con decreto motivato, qualora ne ricorrano i presupposti.
Prelievo di materiale biologico
La polizia giudiziaria può prelevare coattivamente materiale biologico dall’indagato al fine di provvedere alla sua identificazione. Per quanto concerne soggetti diversi dall’indagato, tale prelievo può avvenire solo sulla base del proprio consenso.
Cos’è la relazione di servizio?
La doppia qualifica degli ufficiali di polizia che generalmente cumulano anche la funzione di polizia di sicurezza, impone loro l’obbligo di redigere una relazione di servizio. Si tratta di un atto che ha rilevanza interna al corpo di appartenenza ed è destinato al dirigente dell’ufficio al quale viene conferito quanto accaduto durante il servizio. L’atto svolge una funzione tipica di pubblica sicurezza che secondo la giurisprudenza prevalente dovrebbe sempre essere inserito nel fascicolo del dibattimento, trattandosi di atto non ripetibile. Al contrario, però, una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione ha stabilito il carattere ripetibile dell’atto quando rappresenta una mera attività di constatazione ed osservazione.
Informazioni
Codice di Procedura Penale esplicato, Edizioni SIMONE, XXI edizione, 2019
Manuale di procedura penale, Tonini, Giuffrè, 2019
[1] Per approfondimento sul processo penale è consigliata la lettura dell’articolo di Viviana Simi http://www.dirittoconsenso.it/2020/12/17/uno-schema-pratico-del-processo-penale/
[2] Per approfondimento sul ruolo del Pubblico Ministero e della polizia giudiziaria nella fase delle indagini preliminari è consigliata la lettura dell’articolo di Giulia Venturin http://www.dirittoconsenso.it/2021/01/04/indagini-preliminari-e-tutela-indagato/
I mezzi di impugnazione nel processo amministrativo
Ai sensi dell’art. 91 del Codice sul processo amministrativo, costituiscono mezzi di impugnazione nel processo amministrativo l’appello, la revocazione, l’opposizione di terzo ed il ricorso in Cassazione
I mezzi di impugnazione nel processo amministrativo
Il Codice sul processo amministrativo (da qui in avanti, c.p.a.) individua i mezzi di impugnazione nel processo amministrativo[1]:
- Appello,
- Revocazione,
- Opposizione di terzo,
- Ricorso in Cassazione per i soli motivi inerenti alla giurisdizione.
L’elencazione è ispirata ai principi di tassatività e tipicità, caratteristici del sistema di impugnazione nel processo civile ordinario[2], di cui all’articolo 323 c.p.c. Sulla base di tali principi, escludiamo, invece, dal novero dei mezzi di impugnazione il regolamento preventivo di giurisdizione (art. 41 c.p.c) per la sua natura di rimedio straordinario ed eccezionale.
Prima dell’entrata in vigore del Codice sul processo amministrativo, la disciplina delle impugnazioni era piuttosto scarna e lacunosa. Difatti solo nel 2010 sono stati risolti una serie di dubbi interpretativi ed applicate delle regole generali in materia. La prima questione risolta aveva ad oggetto i termini di decadenza per proporre impugnazione e furono individuati:
- Un termine breve di 60 giorni decorrenti dalla notifica della sentenza
- Un termine lungo di 6 mesi decorrenti dal deposito della sentenza in cancelleria, rilevante nel caso in cui non sia intervenuta la notifica della stessa.
I termini indicati sono perentori, salvo la possibilità, come avviene nel processo civile ex art 327 c.p.c, per la parte non costituita nel grado precedente di dimostrare di non aver avuto conoscenza del processo per la nullità del ricorso o della sua notifica: solo in quest’ultimo caso è ammessa un’impugnazione tardiva.
Generalmente l’impugnazione si propone con ricorso, che va notificato alla controparte nei termini indicati, presso la residenza dichiarata o il domicilio eletto da essa nell’atto di notifica della sentenza o, in difetto, presso il difensore, nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio. Infine, alla notifica dell’impugnazione segue il suo deposito presso la cancelleria del giudice adito.
Le impugnazioni incidentali
Altra questione risolta con l’avvento del Codice riguarda le impugnazioni incidentali.
Esse devono essere proposte nello stesso giudizio, ai fini della realizzazione di esigenze di economia processuale e per consentire a tutte le parti di confrontarsi in un unico giudizio, evitando, inoltre, decisioni contrastanti.
A tal proposito, il secondo comma dell’articolo 96 c.p.a., richiamando l’articolo 333 c.p.c, dispone che “chi abbia ricevuto la notifica dell’impugnazione di una sentenza, dovrà proporre le proprie doglianze, nei confronti della stessa sentenza, mediante un’impugnazione incidentale nel medesimo processo.”
Il Codice, inoltre, effettua una distinzione tra:
- Cause inscindibili o tra loro dipendenti: se l’impugnazione non è stata notificata a tutte le parti, il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle altre parti, fissando il termine per la notifica nei loro confronti; ma se la notifica non viene effettuata, l’impugnazione è dichiarata inammissibile.
- Cause scindibili: se l’impugnazione non è stata notificata a tutte le parti, il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle altre parti, fissando il termine per la notifica nei loro confronti; in questo caso però se la notifica non viene effettuata, il giudizio rimane in sospeso fino alla scadenza del termine entro il quale la parte non intimata avrebbe potuto a sua volta proporre impugnazione.
L’impugnazione incidentale di regola deve essere notificata alle altre parti nel termine di 60 giorni dalla notifica della prima impugnazione e comunque prima della decorrenza dei termini per il passaggio in giudicato della sentenza.
L’appello al Consiglio di Stato (art. 100 c.p.a.)
Il primo dei mezzi di impugnazione del processo amministrativo è l’appello al Consiglio di Stato. L’appello viene definito come un mezzo di impugnazione a critica libera, con cui la parte soccombente può far valere errori e vizi della sentenza di primo grado. Inoltre, ha carattere rinnovatorio, perché la decisione del Consiglio di Stato si sostituisce a quella del TAR ed ha portata generale, essendo idoneo ad inlfuenzare anche l’assetto degli altri mezzi di impugnazione.
Sono legittimate a proporre l’appello le parti necessarie del giudizio di I grado e il cosiddetto interventore ad opponendum nel giudizio di primo grado, quando risulta titolare di una posizione giuridica autonoma rispetto alle altre parti.
Ai fini della presentazione dell’appello è necessario che la parte abbia interesse ad appellare, per cui si intende l’interesse di chi sia risultato soccombente, in tutto o in parte, nel grado precedente del giudizio.
Nei confronti delle sentenze non definitive, la parte ha la possibilità di proporre appello, ma può anche riservarsi di impugnare la sentenza non definitiva unitamente a quella non definitiva. Difatti il c.p.a. ha riconosciuto l’istituto della riserva d’appello (art. 103 c.p.a.), che va proposta con atto notificato alle altre parti, entro il termine fissato per l’appello e va depositato, nei successivi 30 giorni presso il TAR.
L’articolo 101 c.p.a. indica il contenuto del ricorso:
- Generalità del ricorrente e del difensore;
- Identità delle parti contro cui è proposto appello;
- Individuazione della sentenza impugnata;
- Esposizione sommaria dei fatti;
- Conclusioni;
- Sottoscrizione del difensore con indicazione della procura speciale.
Nel ricorso ma devono essere enunciate anche le specifiche censure contro la relativa pronuncia del giudice di primo grado. Pertanto, l’appellante non può limitarsi a riproporre le sue ragioni, già disattese dal giudice di primo grado, ma deve formulare una critica specifica alla sentenza di primo grado: a pena di inammissibilità deve enunciare le ragioni per le quali ritiene che la sentenza non sia corretta o condivisibile.
L’appello consente di ottenere dal giudice di II grado il riesame della decisione del grado precedente, per cui il giudice del Consiglio di Stato deve poter conoscere e decidere la vertenza con la stessa pienezza del giudice di I grado. A questo proposito si parla di effetto devolutivo dell’appello, indicando la riproposizione automatica in appello, delle questioni già sollevate in I grado.
Altro profilo importante in tema di impugnazioni è rappresentato dal concetto dei “nova”, con cui viene data la possibilità alla parte di colmare eventuali manchevolezze della sua difesa nel I grado, proponendo censure, eccezioni o mezzi di prova. Con l’appello al Consiglio di Stato non è ammessa la presentazione di nuovi motivi, né di domande nuove ma sono ammessi esclusivamente i motivi aggiunti concernenti vizi che emergono da documenti conosciuti per la prima volta in appello.
Lo svolgimento del giudizio di appello
L’appello contro una sentenza del TAR deve essere proposto con ricorso al Consiglio di Stato, da notificarsi, entro 60 giorni dalla notifica della sentenza. Se invece la sentenza non è stata notificata, il termine per la notifica è di 6 mesi dalla data di pubblicazione della stessa. L’appello deve essere notificato alle altre parti del giudizio di I grado, osservando le regole per la notifica delle impugnazioni del processo civile. Nei 30 giorni successivi alla notifica, il ricorso deve essere depositato presso la segreteria del Consiglio di Stato. Il deposito dà luogo alla pendenza del giudizio e le parti possono costituirsi in giudizio depositando una memoria di costituzione entro il termine di 60 giorni dalla notifica dell’appello.
Le altre fasi seguono le regole del giudizio di I grado, giungendo infine alla fase della decisione, in cui la sentenza del Consiglio di Stato può annullare o riformare la pronuncia del grado inferiore. Gli effetti che la sentenza produce sono contemplati dall’articolo 336 c.p.c:
- effetto espansivo interno: sono travolti, oltre ai capi riformati o annullati, anche quelli che sono conseguenza necessaria di questi, rispetto a cui non sono autonomi;
- effetto espansivo esterno: la riforma o l’annullamento di un capo di sentenza travolge gli atti che la parte soccombente abbia posto in essere in esecuzione del capo stesso. Questi effetti non sono direttamente previsti nel c.p.a., ma la dottrina li ritiene pacificamente ammissibili anche con riferimento al giudizio d’appello amministrativo.
La revocazione (art. 106 c.p.a.)
Secondo mezzo di impugnazione è la revocazione, ammesso dall’articolo 106 c.p.a. contro le sentenze del TAR o del Consiglio di Stato, ma la cui disciplina rinvia all’art. 395 c.p.c.
I casi di revocazione riguardano:
- la sentenza che sia effetto del dolo di una parte in danno a un’altra;
- la sentenza pronunciata in base a prove riconosciute o dichiarate false dopo la sentenza o che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate false prima della sentenza;
- il caso di ritrovamento, dopo la sentenza, di uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario;
- la sentenza che sia affetta da errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa;
- la sentenza contraddittoria con altra passata in giudicato, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione;
- la sentenza affetta da dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato.
Nella prassi la revocazione è il mezzo di impugnazione maggiormente utilizzato, trattandosi dell’unico rimedio esperibile contro le decisioni assunte in grado di appello, poiché il ricorso il Cassazione è ammesso solo per motivi di giurisdizione. Il ricorso deve essere presentato dinanzi al medesimo giudice che ha emesso la sentenza, il quale procede all’accertamento della sussistenza delle condizioni per procedere a revocazione (fase denominata iudicium riscindens). Nel caso in cui l’accertamento abbia esito positivo, il giudice adito provvede al riesame nel merito della controversia (fase denominata iudicium rescissorium). Specifichiamo però che queste due fasi non rappresentano due momenti processuali distinti, poiché il giudice si pronuncia sulla revocazione con un’unica sentenza.
Nei confronti della sentenza sono ammessi i mezzi di impugnazione previsti per la sentenza oggetto di revocazione, non è ammessa però una nuova impugnazione per revocazione.
L’opposizione di terzo (108 c.p.a.)
Il terzo mezzo di impugnazione è l’opposizione di terzo che rinviene la sua disciplina nell’articolo 404 c.p.c e consente al terzo di porre in discussione una sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva che pregiudichi i propri diritti, ma sia stata pronunciata in un giudizio dal quale egli sia rimasto estraneo. L’articolo 108 del c.p.a. ha, inoltre, introdotto un’opposizione revocatoria per i creditori o gli aventi causa di una delle parti, nei confronti della sentenza che sia il risultato di collusione o di dolo a loro danno.
In base al testo originario dell’art 108 c.p.a., legittimato a proporre opposizione era soltanto il terzo titolare di una posizione autonoma e incompatibile, ma questa previsione, ritenuta incompleta, è stata successivamente modificata con il d.lgs 195/2011 che aggiunto il riferimento anche al controinteressato e al litisconsorte pretermesso. Il codice non si pronuncia sui termini per proporre opposizione ordinaria, di conseguenza vengono applicate le norme sulle impugnazioni in generale.
Il ricorso alla Corte di Cassazione (art. 110 c.p.a.)
L’ultimo tra i mezzi di impugnazione nel processo amministrativo è il ricorso in Corte di Cassazione.Questo è ammesso nei confronti delle sentenze del Consiglio di Stato solo per motivi di giurisdizione e per denunciare la violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa. La Cassazione ha accolto un’interpretazione estensiva dei motivi inerenti al ricorso per giurisdizione e non ha identificato questi soltanto sulla base della distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivi, o fra interessi qualificati e non; ma ha compreso anche altre ipotesi:
- distinzione fra giurisdizione di merito e giurisdizione di legittimità, anche se tale distinzione è riconducibile alla competenza del medesimo giudice amministrativo;
- gravi irregolarità nella composizione del collegio giudicante.
Lo svolgimento del giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione è regolato dalle disposizioni del c.p.c: esso va presentato nel termine di 60 giorni dalla notifica della sentenza di II grado o di 6 mesi dal deposito della decisione, in caso di mancanza di notificazione. Infine, in merito al profilo decisorio, la Cassazione si pronuncia a Sezioni Unite.
Informazioni
Scoca F.G, 2017, Giustizia amministrativa, Giappichelli Editore
Travi A., 2018, Lezioni di giustizia amministrativa, Giappichelli Editore
[1] Per approfondimenti sul processo amministrativo si consiglia la lettura del seguente articolo di E. Cancellara: http://www.dirittoconsenso.it/2020/11/30/uno-schema-sul-processo-amministrativo/
[2] Per approfondimento sul tema del processo civile ordinario, si consiglia la lettura del seguente articolo di B. Sapone: http://www.dirittoconsenso.it/2020/09/01/uno-schema-pratico-del-processo-civile-ordinario/
La pena di morte
La seguente trattazione si pone l’obiettivo di definire una pratica particolarmente controversa, presente nel panorama giuridico-culturale da anni: la pena di morte
Un quadro generale della pena di morte
La pena di morte, definita anche pena capitale, è una sanzione penale la cui esecuzione consiste nel privare il condannato della stessa vita. Si tratta di una punizione estrema ed alquanto risalente, inflitta in seguito al compimento di un crimine molto grave. In origine, veniva spesso utilizzata per punire assassini, eretici, traditori del Re; ma con il passare del tempo la brutalità di tale pena è stata contrastata da numerose associazioni, come Amnesty International che si è fortemente schierata contro questa pratica, in qualunque forma venisse esercitata.
Malgrado ciò, la pena capitale oggi è utilizzata ancora in circa 80 Paesi ed il dibattito inerente pro e contro è ancora aperto ed acceso.
La pena di morte in Italia
Per trattare questa tematica, è necessario ripercorrere i principali momenti storici della sua evoluzione.
In Italia la pena di morte è rimasta in vigore fino al 1889, anno in cui venne abolita in tutto il Regno d’Italia con l’approvazione, quasi all’unanimità di entrambe le Camere, del nuovo Codice penale, conosciuto anche come Codice Zanardelli. Tale pena, però, restò ancora in vigore nel Codice Penale Militare, venendo effettivamente applicata durante la Prima Guerra Mondiale per fatti di diserzione e comportamenti definiti disonorevoli. Infatti, nel 1926 la pena capitale venne reintrodotta con una legge da Mussolini per punire coloro che avessero attentato alla vita, alla libertà della famiglia reale o del Capo del Governo, e per altri reati commessi contro lo Stato. Soltanto dopo la caduta del fascismo, venne abolita per tutti i reati previsti dal Codice penale del 1930, ma fu mantenuta per i reati di collaborazione con i nazisti e fascisti, nonché inflitta dai tribunali militari degli alleati della Seconda guerra mondiale.
Soltanto con l’avvento della Costituzione, la pena di morte venne definitivamente abolita per tutti i reati comuni e militari compiuti in tempo di pace e con la promulgazione della legge n. 589 del 1994 fu sostituita nel Codice Penale Militare di Guerra con la massima pena prevista dal Codice penale, ossia l’ergastolo.
L’Italia ha poi ratificato il protocollo n. 13 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, inerente all’abolizione della pena di morte in qualsiasi circostanza. Ed infine, la legge costituzionale n.1 del 2007, modificando l’articolo 27 della Costituzione, ha eliminato le disposizioni in materia ancora presenti, sancendone in modo definitivo la non applicabilità.
La pena di morte: profili europei ed internazionalistici
Punto di riferimento per il profilo internazionalistico è di sicuro il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, Si tratta di un trattato delle Nazioni Unite nato in seguito alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottato nel 1966 ed entrato in vigore il 23 marzo del 1976. Il trattato concede la facoltà agli Stati firmatari di aggiungere una riserva riguardante l’uso della pena capitale per gravi reati di natura militare commessi in tempo di guerra; quindi, bisogna precisare che l’articolo 6 non vieta esplicitamente tale condanna, piuttosto la sottopone ad importanti limitazioni ed afferma che “una sentenza capitale può essere pronunciata soltanto per i delitti più gravi, in conformità alle leggi vigenti al momento in cui il delitto fu commesso” e “può essere eseguita soltanto in virtù di una sentenza definitiva, resa da un tribunale competente”. Inoltre, “ogni condannato a morte ha il diritto di chiedere la grazia o la commutazione della pena” e “una sentenza capitale non può essere pronunciata per delitti commessi dai minori di 18 anni e non può essere eseguita nei confronti di donne incinte”. Attualmente il Patto è stato ratificato da 168 Stati, ed oggi, dopo quarant’anni dalla sua entrata in vigore, viene considerato vincolante per tutti gli Stati in virtù del diritto internazionale consuetudinario. Sembrerebbe, quindi, infondata ogni pretesa di non applicazione delle sue norme.
Per la nostra trattazione, di fondamentale importanza è il secondo protocollo facoltativo, in quanto abolisce la pena di morte. Gli articoli 1 e 2 stabiliscono che “Nessuna persona soggetta alla giurisdizione di uno Stato Parte al presente Protocollo sarà giustiziata” e che “Ciascuno Stato Parte adotterà tutti i provvedimenti necessari per abolire la pena di morte nell’ambito della sua giurisdizione”. Il Protocollo non ammette nessuna riserva, dunque è bene ricordare che nemmeno i delitti di gravità estrema quali genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità sono punibili con la morte dai Tribunali Penali Internazionali istituiti dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
L’impegno dell’UE contro la pena di morte
La lotta, sia giuridica che culturale, per l’abolizione definitiva della pena capitale è stata ardua e lunga, ma ad oggi sembra essere un principio largamente condiviso. Ulteriore protagonista di questo percorso è stata l’Unione Europea, infatti come accennato precedentemente, la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo ha introdotto a livello globale il divieto di applicazione della pena capitale, sottolineando implicitamente il diritto alla vita di ogni soggetto. Vediamo ad esempio come l’Europa si impegni attivamente nella lotta contro la pena di morte, di fatti sono molteplici le iniziative prese a livello comunitario per disincentivare sempre di più l’utilizzo di questa pratica. Nella Risoluzione n. 2869 del 2015 il Parlamento ha espressamente condannato l’uso della pena di morte come strumento di soppressione di libertà civili e personali, come strumento di lotta al traffico di stupefacenti, ed inoltre si propone di interagire con i Paesi che ancora la ritengono utile. L’azione promossa dall’Unione Europea parte dal rispetto degli articoli della CEDU, ma prende in considerazione anche accordi internazionali come la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura[1], ed altre pratiche disumane e degradanti. È importante mettere in evidenza come l’Unione Europea non si sia impegnata solo a sopprimere la pena di morte all’interno del proprio territorio, bensì ha svolto e continua a svolgere un’intensa azione a livello internazionale in favore di una generale restrizione del suo utilizzo.
Come messo in risalto dal documento “The death penalty and the EU’S fight against it”, l’Unione si è impegnata seguendo le linee guida istituite dal hoc nel 1998 dalla Commissione Europea in processi e dialoghi con altri enti e Nazioni per favorire l’utilizzo di misure carcerarie alternative, incoraggiando l’adesione alle normative internazionali inerenti alla tematica.
Spunti di riflessione
Se i sistemi occidentali, ma non solo, hanno instaurato regimi giuridici che escludessero la pena di morte, è evidente che sia necessaria anche una riforma culturale e sociale che modifichi la forma mentis comune riguardo il più generale concetto di pena. Dal punto di vista giuridico e legislativo sono stati fatti numerosi tentativi per raggiungere una soluzione unitaria, ma il problema si propone ancora da un punto di vista sociologico e psicologico. Bisognerebbe condividere, a livello globale, che la funzione della pena sia in primis rieducativa, ma anche general-preventiva: la pena, quindi, non va intesa come un mezzo afflittivo nei confronti del reo, bensì ha l’obiettivo di distogliere la generalità dei cittadini dal compimento di ulteriori fatti illeciti, ed inoltre svolge una funzione di risocializzazione nei confronti del reo che ha già scontato la sua pena.
Quest’assunto è l’esatta dimostrazione di come la pena di morte sia esclusivamente orientata alla tortura e ad infliggere la morte nei confronti del soggetto colpevole, di conseguenza non persegue la funzione sociale ed educativa della pena che abbiamo menzionato precedentemente. Di conseguenza, sarebbe opportuno virare sull’applicazione di misure alternative.
Siccome questa pratica non è stata ancora scongiurata in tutto il mondo, per giungere a questo risultato, sarebbe necessario investire tempo ed impegno da parte dei legislatori nazionali, di enti ed associazioni, ma anche risorse economiche, considerando la condizione nella quale riversano molti dei Paesi in questione. Si auspica, infine, che anche l’opinione pubblica, seppur giustamente allarmata da eventi emergenziali ed episodi di criminalità particolarmente gravi, possa essere messa nelle condizioni di inquadrare correttamente il problema e di comprendere come una pena rieducativa non sia necessariamente una pena della portata della pena capitale.
Informazioni
Fiandaca-Musco, 2017, Diritto Penale. Parte generale, Zanichelli Editore
Oriolo, 2008, La responsabilità penale internazionale degli individui: tra sovranità statale e giursidizione universale, Esi, Napoli
La funzione reducativa della pena https://www.altalex.com/documents/news/2017/09/19/essay-competition-elsa-teramo-2017
[1] Per approfondimento sul tema della tortura si consiglia la lettura del seguente articolo di B. Sapone: http://www.dirittoconsenso.it/2018/10/24/il-reato-di-tortura/
Uno schema sul processo amministrativo
Il seguente articolo presenta uno schema sul processo amministrativo, riassumendone le fasi principali e citando la disciplina di riferimento
La disciplina di base prima di passare allo schema sul processo amministrativo
Il procedimento amministrativo viene definito come l’insieme di atti finalizzati alla manifestazione dell’effetto giuridico tipico di una fattispecie, attraverso cui la Pubblica Amministrazione manifesta la propria volontà. Ma per rendere il più chiaro possibile lo studio della giustizia amministrativa è bene rivedere lo schema sul processo amministrativo.
Alla luce della legge n. 241/1990, il processo si fonda sui criteri di economicità, efficacia, pubblicità e trasparenza, previsti costituzionalmente dall’articolo 97 Cost.
Il secondo libro del codice del processo amministrativo in particolare, approvato con il d. lgs. n. 104 del 2010, è dedicato al giudizio di primo grado e detta una disciplina di carattere generale all’art. 38 c.p.a.
L’introduzione del giudizio (art. 41, comma 1, c.p.a.)
Questo schema sul processo amministrativo si apre con l’individuazione della prima fase: l’iniziativa. Il giudizio avanti al TAR viene introdotto con la notifica di un ricorso, atto introduttivo del processo amministrativo, con il quale è proposta la domanda giudiziale.
L’art. 40 c.p.a individua i contenuti necessari del ricorso, che pena la sua inammissibilità, deve contenere:
- Indicazione organo giurisdizionale adito,
- Generalità del ricorrente, del suo difensore e delle altre parti necessarie,
- Oggetto della domanda,
- Esposizione sommaria dei fatti e dei motivi specifici su cui si fonda,
- Mezzi di prova e provvedimenti chiesti al giudice.
Il ricorso deve essere sottoscritto dall’avvocato, con indicazione della procura speciale ovvero dalla parte che stia in giudizio personalmente. L’atto è nullo per difetto di sottoscrizione o in caso di incertezza assoluta delle persone o dell’oggetto della domanda; tale nullità è rilevabile d’ufficio ed il giudice amministrativo può concedere al ricorrente un termine per rinnovare l’atto.
Il ricorso deve essere notificato, a pena di inammissibilità, all’amministrazione che ha emanato l’atto e almeno ad uno dei controinteressati entro 60 giorni dalla comunicazione, pubblicazione o piena conoscenza dell’atto. Invece, l’originale del ricorso, con la prova dell’avvenuta notifica, devono essere depositati presso la segreteria del TAR entro 30 giorni dal perfezionamento della notifica, realizzandosi in tal modo la costituzione in giudizio del ricorrente e la pendenza del giudizio.
I motivi aggiunti (art. 43 c.p.a.)
In genere, l’assoggettamento del ricorso ad un termine di decadenza comporta la preclusione di ulteriori censure nei confronti dell’atto impugnato, una volta decorso il termine. Questa regola se fosse applicata in modo indiscriminato potrebbe compromettere il diritto all’azione, infatti la giurisprudenza ha ammesso per il ricorrente che abbia già impugnato un provvedimento e solo successivamente venga a conoscenza di un vizio, la possibilità di integrare il ricorso originario con i c.d. motivi aggiunti.
Parte della giurisprudenza ha ritenuto che con i motivi aggiunti si potessero introdurre nel giudizio anche vizi di altri provvedimenti, purché connessi con quello impugnato, in modo da attuare nel processo amministrativo il principio di economia processuale e consentire al giudice di avere un quadro completo degli elementi da valutare.
Tale soluzione è stata accolta dall’art. 43 c.p.a. che consente la formulazione di ragioni nuove a sostegno delle domande già proposte e domande nuove purché connesse a quelle proposte. Il codice adotta la disciplina analoga prevista in tema di ricorso: infatti i motivi aggiunti devono essere notificati nel termine perentorio di 60 giorni dalla conoscenza dei nuovi documenti.
La costituzione delle parti (art. 46 c.p.a.)
Lo schema sul processo amministrativo prosegue con la fase della costituzione delle parti; infatti entro 60 giorni dalla notifica del ricorso, l’amministrazione resistente e le altre parti intimate possono costituirsi in giudizio depositando una memoria con le difese e le istanze istruttorie.
Se il ricorso non è stato notificato a tutti i controinteressati o a tutti i litisconsorti necessari, il giudice amministrativo ordina l’integrazione del contraddittorio e da questo momento, le parti nei cui confronti sia stato integrato il contraddittorio, possono svolgere tutte le attività processuali che ritengono opportune. Ricordiamo che nel processo amministrativo, la costituzione di parti diverse dal ricorrente non è sottoposta al rispetto di termini perentori, di fatti la loro costituzione può avvenire fino all’udienza di discussione del ricorso.
Le parti costituite hanno l’onere della contestazione specifica dei fatti dedotti da altre parti, ma ciò non significa che la contestazione vada fatta esclusivamente nella memoria di costituzione. Una volta instaurato il giudizio, chi ha interesse potrà intervenire e l’intervento va proposto con apposito atto notificato alle altre parti e depositato nella segreteria del TAR adito, fino a 30 giorni prima dell’udienza di discussione. Infine, il codice prevede che il giudice possa ordinare la chiamata in causa di un terzo, in tutti i casi in cui ritenga opportuno lo svolgimento del processo nei suoi confronti.
Il ricorso incidentale (art. 42 c.p.a.)
Entro il termine perentorio di 60 giorni dalla notifica del ricorso principale, le parti resistenti e i controinteressati possono proporre ricorso incidentale, da notificarsi alle altre parti e da depositare nei successivi 30 giorni in segreteria. In tal modo, la parte può impugnare nello stesso giudizio il provvedimento già impugnato dal ricorrente, facendo però valere vizi diversi per ottenere un risultato a lui maggiormente favorevole.
Il ricorso incidentale ha carattere accessorio rispetto a quello principale, ma è soggetto alla medesima disciplina ed assicura il principio della parità delle armi, in modo tale che ricorrente e resistente abbiano a disposizione gli stessi strumenti processuali. Se con il ricorso incidentale viene impugnato un atto diverso da quello impugnato dal ricorrente, la competenza territoriale resta radicata innanzi al TAR del giudizio principale, salvo che rispetto al nuovo atto impugnato non vi sia una competenza funzionale di un altro TAR, il quale attrae anche il giudizio principale.
La fase istruttoria: i principi
Nella fase istruttoria il giudice svolge le attività dirette a conoscere i fatti rilevanti per il giudizio, sia tramite un’attività di interpretazione delle norme inerenti la controversia, sia tramite la valutazione concreta dei fatti. Non sempre la fase istruttoria si svolge in una fase autonoma, in quanto la regola del processo amministrativo prevede che si possa svolgere nel corso della trattazione della controversia dinanzi all’organo decidente.
La tematica dell’istruttoria ruota intorno a tre profili fondamentali:
- Il rapporto tra le allegazioni dei fatti riservati alle parti e i poteri di cognizione del giudice;
- I vincoli che producono sul potere istruttorio del giudice le istanze istruttorie delle parti;
- I vincoli che comportano per la decisione le risultanze dell’istruttoria.
In merito al primo punto, bisogna individuare i fatti che possono essere introdotti nel processo solo dalle parti, poiché in caso di loro inerzia o inadempienza il giudice non potrà sopperirvi con il suo intervento. Generalmente si distinguono:
- i fatti principali che sono materiali e costituitivi del vizio. Su di essi si fonda la pretesa dell’annullamento dell’atto, dunque possono essere allegati esclusivamente dalle parti;
- i fatti secondari che sono materiali la cui dimostrazione consente di verificare la sussistenza o meno, o la rilevanza dei fatti principali.
Il secondo punto riguarda la prova dei fatti: anche nel procedimento amministrativo vige il principio dell’onere della prova, secondo il quale la parte che contesta la legittimità di un atto deve provare i fatti posti a fondamento della sua pretesa, di conseguenza la mancanza della prova determina la soccombenza.
Secondo il principio della trattazione il giudice non può disporre mezzi di prova se non in base alle specifiche richieste delle parti, in quanto i poteri d’ufficio del giudice in merito all’istruzione probatoria, sono giustificati esclusivamente dall’esigenza di riequilibrare le posizioni delle parti.
Per quanto riguarda il terzo profilo, quello dei vincoli che comportano le risultanze dell’istruttoria per la decisione del giudice, nel processo amministrativo vige il principio del libero apprezzamento del giudice, per cui le prove raccolte sono valutate secondo il prudente apprezzamento del giudice. Questo principio comporta l’esclusione delle probe legali (giuramento e confessione) che vincolerebbero il giudice alla verità di un fatto, impedendogli di prendere una decisione differente.
I provvedimenti istruttori
L’istruttoria indica il complesso delle attività, svolte dal giudice e dalle parti, di acquisizione degli elementi necessari per la formazione della decisione. La fase presenta carattere eventuale, poiché la causa, spesso, risulta “matura” per la decisione già al momento della introduzione del giudizio.
Di conseguenza, all’interno di questo schema sul processo amministrativo, ci limiteremo semplicemente a citare i provvedimenti istruttori, considerando l’obiettivo riassuntivo che questo elaborato persegue. Il quadro dei mezzi istruttori è stato profondamente rinnovato dal c.p.a., prevedendo tutti i mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile[1], eccetto il giuramento e l’interrogatorio formale.
I mezzi istruttori tradizionali del procedimento amministrativo sono:
- la richiesta di chiarimenti alla Pubblica Amministrazione;
- la richiesta di documenti;
- le verificazioni;
Recentemente, il codice ha aggiunto la consulenza tecnica, che può essere disposta eccezionalmente ed è effettuata da un perito in condizioni di terzietà rispetto alle parti. Inoltre, il giudice può:
- sempre chiedere chiarimenti alle parti su fatti rilevanti per il giudizio (art. 63 c.p.a.);
- ammettere la prova testimoniale in forma scritta (art. 63 III comma c.p.a.);
- disporre l’ispezione.
I provvedimenti istruttori possono essere adottati con ordinanza dal Presidente o da un magistrato da lui delegato, in qualsiasi momento fino all’udienza di discussione e possono essere adottati dal collegio durante la fase cautelare o all’udienza di discussione.
La decisione
Il nostro schema sul processo amministrativo si conclude, ovviamente, con la fase decisoria. Ai fini della decisione è necessario che venga richiesta con apposita istanza, la fissazione dell’udienza di discussione ma in caso di urgenza la parte. Può chiedere al Presidente l’anticipazione dell’udienza presentando la c.d. istanza di prelievo (art. 71 c.p.a.).
Successivamente, il Presidente fissa l’udienza di discussione del ricorso, di cui deve essere data comunicazione alle parti almeno 60 giorni prima dell’udienza. Le parti possono presentare documenti fino a 40 giorni prima dell’udienza, memorie conclusionali fino a 30 giorni prima e memorie di replica fino a 20 giorni prima (art. 73 c.p.a.). L’udienza si svolge pubblicamente e le parti possono intervenire tramite i loro avvocati per illustrare le proprie ragioni. Una volta conclusa la discussione, il TAR decide il ricorso pronunciando la sentenza (art. 75 c.p.a.), ma se il collegio rileva d’ufficio una questione rilevante per la decisione e non trattata nel corso del giudizio, deve sottoporre la questione alle parti, affinchè venga trattata.
L’art. 74 c.p.a prevede la possibilità di emettere una sentenza in forma semplificata che si caratterizza per una motivazione sintetica, ammessa quando il ricorso appaia manifestamente fondato o infondato, inammissibile, improcedibile o irricevibile; cioè in tutti i casi in cui sia superflua un’ampia motivazione o per esigenze di celerità processuale, come nel caso del giudizio di ottemperanza. Nel caso in cui il collegio intenda decidere con sentenza semplificata all’esito della fase cautelare, deve prima sentire le parti che possono segnalare esigenze istruttorie o di difesa.
Infine, in alcuni casi il processo amministrativo può essere definito con un decreto presidenziale, adottato dal Presidente del TAR o da un magistrato da lui delegato: ciò avviene nei casi di estinzione nel giudizio o di improcedibilità. Nei confronti di tale decreto le parti possono proporre opposizione al collegio, che deciderà con ordinanza.
Informazioni
Marinelli, 2011, Ancora in tema di ricorso incidentale escludente e ordine di esame delle questioni, in Dir. Proc. Amm
Scoca F.G, 2017, Giustizia amministrativa, Giappichelli Editore
Travi A., 2018, Lezioni di giustizia amministrativa, Giappichelli Editore
[1] Per approfondimento sul tema del processo civile ordinario, si consiglia la lettura del seguente articolo di B. Sapone: http://www.dirittoconsenso.it/2020/09/01/uno-schema-pratico-del-processo-civile-ordinario/
Diritto di accesso e tutela della privacy: un equilibrio complesso
L’evoluzione del rapporto tra diritto di accesso e tutela della privacy finalizzata all’individuazione di un bilanciamento tra i due valori
Che cos’è il diritto di accesso?
Nel panorama giuridico italiano, il diritto di accesso rappresenta una vera e propria conquista, finalizzata a porre fine alla segretezza che per anni ha connotato lo svolgimento dell’attività delle Pubbliche Amministrazioni. Punto di riferimento da considerare ineludibilmente è la legge n. 241 del 1990 che, con la riforma del processo amministrativo, segna il passaggio ad una fase storica più moderna che vede come protagonista un’amministrazione “al servizio” dei cittadini, i cui atti diventano conoscibili da parte dei soggetti interessati. Così, la trasparenza e la pubblicità, richiamati dall’articolo 1 della legge, diventano i criteri generali dell’azione amministrativa.
In quest’ottica, ai sensi dell’articolo 22, alle amministrazioni è fatto obbligo di assicurare l’accesso alla documentazione amministrativa nei confronti dei soggetti che vantino un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente rilevante e collegata al documento di cui si chiede l’ostensione.
Tipologia di accesso previste dall’ordinamento giuridico italiano
Il nostro ordinamento individua tre tipologie di diritto di accesso, sulla base di una tripartizione elaborata dall’ANAC nel 2016:
- l’accesso ai documenti disciplinato dalla legge n. 241/1990, di cui si è parlato in precedenza,
- l’accesso civico e l’accesso generalizzato che rinvengono la propria disciplina nel d.lgs. n. 33 del 2013,
- le varie discipline settoriali.
L’impostazione originaria del d.lgs. n. 33/2013 configurava la trasparenza come accessibilità totale ai dati e documenti detenuti dalla Pubblica Amministrazione, mediante lo strumento dell’obbligo di pubblicazione. Di fatti, l’accesso civico si presentava come un corollario di obblighi di pubblicazione ed il diritto ad esso sotteso, era esercitabile soltanto in caso di inosservanza degli obblighi da parte delle P.A.
La dottrina ha contestato il carattere “dirigista” di tale impostazione, ritenendo inappropriato concretizzare il concetto di trasparenza amministrativa mediante una serie di tassativi obblighi di pubblicazione. Di conseguenza, è sorto un ampio dibattito all’interno del quale è stata valutata l’introduzione nell’ordinamento italiano di istituti analoghi al Freedom of Information Act (FOIA), caratterizzato dal riconoscimento dell’accesso civico generalizzato. Così con il d.lgs. n. 97 del 2016, l’accesso civico assume una valenza più generale e all’articolo 5, dispone il diritto di chiunque di accedere a dati e documenti ulteriori rispetto a quelli oggetti di pubblicazione obbligatoria.
Confrontando le varie discipline inerenti il diritto di accesso, si possono rilevare delle differenze: innanzitutto, l’accesso generalizzato ha un ambito di applicazione più ampio poiché ricomprende, oltre ai documenti amministrativi, anche i dati. Variano, inoltre, i requisiti di legittimazione in quanto l’accesso documentale è consentito solo ai soggetti titolari di situazioni giuridiche qualificate, mentre l’accesso generalizzato è riconosciuto quisque de populo e l’istanza non necessita di motivazione.
Ulteriore differenza tra le due fattispecie è procedurale, infatti la mancata risposta dell’amministrazione all’istanza di accesso documentale entro 60 giorni, configura un’ipotesi di silenzio-rigetto impugnabile ai sensi dell’articolo 116 c.p.a, invece è irrilevante il silenzio dinanzi ad un’istanza di accesso civico generalizzato ed il privato, al massimo, potrà esperire il rito avverso il silenzio-inadempimento ex art. 117 c.p.a.
Che cos’è la privacy?
Il concetto di privacy compare negli USA nel 1890 in seguito alla pubblicazione dell’articolo denominato “The right to privacy” ad opera dei giuristi Warren e Brandeis, configurandosi come “diritto ad essere lasciato solo”[1]. In Italia il dibattito su tale tematica è rimasto sopito fino agli anni ’50 del secolo scorso, per comparire solo successivamente grazie ad un ampio dibattito giurisprudenziale.
Nel 1963, la Corte di Cassazione pur escludendo un autonomo riconoscimento, ha estrapolato dall’articolo 2 della Costituzione un diritto erga omnes alla libertà di autodeterminazione, ma solo dieci anni più tardi il diritto alla riservatezza viene tutelato tra quelle situazioni strettamente personali e familiari, contro ingerenze che seppur compiute con mezzi leciti, non siano giustificate da interessi pubblici preminenti. Ovviamente, nell’evoluzione legislativa di tale diritto, non bisogna tralasciare le fonti sovra-nazionali, poiché il primo atto che mira a proteggere la propria sfera personale è la Carta Europea dei Diritti dell’Uomo. Questa stabilisce il divieto di ingerenze nel diritto alla libertà individuale se non per motivi di sicurezza nazionale, difesa dell’ordine pubblico e per la prevenzione di reati.[2]
La nozione di dato personale e la questione dei dati sensibili
Il dato personale è definito come:
“qualunque informazione relativa a persona fisica identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale”.
La persona a cui si riferiscono i dati soggetti al trattamento si definisce “interessato” e può essere solo una persona fisica e non un’azienda. Dalla definizione suddetta, si comprende che, condicio sine qua non alla classificazione di un dato come “personale”, sia il fatto che consenta l’identificazione dell’individuo e lo descriva in modo tale da consentirne l’identificazione acquisendo altri dati. I dati personali sono classificabili in varie tipologie che, a seconda delle loro peculiarità, devono essere trattati con cautele e regole differenti.
Una delle categorie più delicate rientranti all’interno della nozione di dato personale, spesso protagonista del contrasto tra privacy e diritto di accesso, è quella dei dati sensibili, in quanto entrano spesso in contatto con le Pubbliche Amministrazioni che dovranno astenersi da una divulgazione illegittima.
Con tale formula si intende far riferimento a quei dati che sono idonei a rivelare «l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona»; in particolare i dati relativi alla salute e alla vita sessuale sono detti anche “super-sensibili” in quanto sono gli unici per i quali non sussiste alcune esenzione che ne consente l’uso in assenza di un consenso. La ratio di una tutela differenziata risiede nella considerazione che non si tratta di dati di carattere “neutro”, bensì riguardanti gli aspetti più intimi della vita di un individuo.
La tutela amministrativa dinanzi al Garante per la protezione dei dati personali
Nel contrasto tra diritto di accesso e privacy, è opportuno fare riferimento alla figura del Garante per la protezione dei dati personali. Si tratta di un’autorità amministrativa indipendente, finalizzata ad assicurare la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché il rispetto della dignità dell’individuo in caso di trattamento dei dati personali, al quale l’interessato può rivolgersi con tre tipologie di strumenti:
- il reclamo,
- la segnalazione
- il ricorso.
Il reclamo e la segnalazione costituiscono ciò che il Codice definisce “Tutela amministrativa”, contrapposta a quella giurisdizionale offerta mediante il ricorso di cui all’articolo 145 c.p.a.
Il reclamo si qualifica rispetto alla segnalazione per essere maggiormente particolareggiato, infatti l’articolo 142 c.p.a, al primo comma, richiede ai fini della sua esperibilità, la dettagliata indicazione dei fatti e delle circostanze su cui si fonda, oltre che delle disposizioni che si presumono violate e delle misure sollecitate. Nel caso in cui il reclamo risulti fondato, il Garante, anche prima della definizione del procedimento, prescrive al titolare le misure opportune o necessarie per conformare il trattamento alle disposizioni vigenti oppure dispone il blocco del trattamento illecito o non corretto, ovvero quando vi è il concreto rischio del verificarsi di un pregiudizio rilevante per uno o più interessati.
La segnalazione, invece, si caratterizza per alcune differenze procedimentali rispetto al reclamo, infatti deve riportare gli elementi utili per consentire un eventuale intervento del Garante, ma non è richiesta una descrizione dettagliata dei fatti e delle circostanze. Inoltre, persegue anche diverse finalità, poichè attiva poteri di accertamento e controllo, specialmente in talune materie in cui la legge esclude il ricorso.
Ultimo rimedio esperibile dall’interessato è il ricorso che si configura come un atto formale presentabile solo per far valere i diritti previsti dall’articolo 7 del Codice privacy, consistenti nell’ottenere la conferma dell’esistenza o meno dei dati personali che lo riguardano.
Diritto di accesso e privacy
Nonostante il concetto di privacy costituisce un limite all’esercizio del diritto di accesso, si tratta di due valori che concorrono all’attuazione di principi di rango costituzionale, quali:
- il buon funzionamento e l’imparzialità della Pubblica Amministrazione,
- il diritto all’informazione
- il diritto all’autodeterminazione informativa[3].
Infatti, il diritto alla privacy non è più soltanto una pretesa alla non ingerenza dei terzi nella propria sfera privata, bensì uno strumento di tutela e garanzia della corretta gestione delle informazioni personali.
La problematica è piuttosto risalente, infatti i giudici amministrativi, per anni, hanno cercato di definire i contenuti dell’assetto della pubblica attività designato dalla legge n. 241/1990 incontrando molteplici difficoltà, in quanto le scarse previsioni normative non sembravano offrire un risultato convincente a risolvere il conflitto tra diritto di accesso, sinonimo di trasparenza, e riservatezza.
Numerosi T.A.R. e le sezioni del Consiglio di Stato si sono pronunciati sulla questione, arrivando nel 1997 ad interrogare l’Adunanza Plenaria, dalla quale sono emersi due orientamenti tra loro contrastanti:
- il primo, sulla base di una interpretazione normativa strettamente letterale, ha considerato l’accesso sempre prevalente sulla tutela della privacy, poiché finalizzato alla cura e alla difesa di interessi giuridici[4].
- Invece, il secondo ha ritenuto che i due valori dovessero essere ponderati, volta per volta in base alle peculiarità del caso concreto, mediante un bilanciamento operato in astratto, mettendo a confronto il diritto alla privacy con l’interesse giuridico sottostante la richiesta di accesso.
Nel 1997, la questione sembra essere stata, finalmente, risolta in via definitiva dall’Adunanza Plenaria, sulla base della sentenza n. 633 del T.A.R. delle Marche che ha stabilito in base alla lettera d) dell’articolo 24, comma 2° della legge n. 241/1990, “non sembra esservi dubbio che nel conflitto tra accesso e riservatezza dei terzi la normativa statale abbia dato prevalenza al primo, allorché questo sia necessario per curare o difendere i propri interessi giuridici”. Si evince come il bilanciamento tra la trasparenza amministrativa e la privacy sia piuttosto faticoso, incerto e non pacifico. Il conflitto tra diritto di accesso e privacy è una questione straordinariamente attuale, nella quale emergono tensioni frutto di trasformazioni sociali, giuridiche e tecnologiche; infatti è proprio la rapidità dell’evoluzione tecnologica a creare nuove sfide per la protezione dei dati personali, in virtù della facilità di raccolta e condivisione dei dati.
L’equilibrio tra i due valori si declina in modo differente a seconda del dato personale in questione:
- per i dati comuni della persona sarà sufficiente per il richiedente l’accesso, dimostrare di essere titolare di un interesse concreto, diretto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente rilevante, collegata al documento di cui si richiede l’ostensione;
- per la categoria dei dati sensibili, l’accesso può essere consentito solo se necessario per la tutela di interessi giuridici propri del richiedente e se strettamente indispensabile;
- per i dati super-sensibili il trattamento è giustificato solo nei limiti in cui la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso, sia di rango pari ai diritti dell’interessato, consista in un diritto della personalità o altra libertà fondamentale.
In conclusione, per quanto possa essere riduttivo tentare di voler porre un punto fermo all’interno di una questione così complessa, si può sostenere una generale tendenza dell’ordinamento a proteggere in modo maggiore le esigenze di trasparenza su quelle di riservatezza.
In questo scenario, la ricerca di un equilibrio è comunque un’operazione che non può essere fatta una volta per tutte, ma muta al variare degli strumenti, delle tipologie di dati e di elementi da valutare. Vanno ricercate soluzioni possibili ed attuabili, evitando irrigidimenti e tendenze alla assolutizzazione di uno dei due diritti che non aiutano la ricerca di un equilibrio necessario.
Informazioni
Diritto all’accesso e diritto alla riservatezza: un difficile equilibrio mobile di G.P Cirillo; 2004; in www.giustizia-amministrativa.it
Manuale di diritto alla protezione dei dati personali di M. Maglio – M. Polini – N. Tilli; 2017; Maggioli Editore
La privacy e il trattamento dei dati personali di Roberto Giuliani; 2018; (DirittoConsenso) http://www.dirittoconsenso.it/2018/01/07/la-privacy-e-il-trattamento-dei-dati-personali/
Istituzioni di diritto amministrativo; Torino; 2017; Giappichelli Editore
L’accesso ai dati delle Pubbliche Amministrazioni. Tra libertà di informazione e tutela della riservatezza di G. Pepe; Torino; 2018; Giappichelli Editore
[1] Per approfondimento: Manuale di diritto alla protezione dei dati personali di M. Maglio – M. Polini – N. Tilli; 2017; Maggioli Editore
[2] La privacy e il trattamento dei dati personali di Roberto Giuliani; 2018; (DirittoConsenso) http://www.dirittoconsenso.it/2018/01/07/la-privacy-e-il-trattamento-dei-dati-personali/
[3] Per approfondimento: Diritto all’accesso e diritto alla riservatezza: un difficile equilibrio mobile di G.P Cirillo; 2004; in www.giustizia-amministrativa.it
[4] Con. di Stato, sez. IV, sen. 6 febbraio 1995, n. 71