Timore reverenziale

Il timore reverenziale nel diritto privato

Nozione, implicazioni ed applicazione ai nostri giorni di un istituto tanto antico quanto attuale: il timore reverenziale

 

La nozione di timore reverenziale

Il timore reverenziale consiste nella soggezione – talvolta nel rispetto – che si provano verso una figura autorevole, per motivazioni quali l’età, il prestigio, la posizione ricoperta o il rapporto tra le parti.

Esempi classici sono la soggezione del figlio nei confronti del padre, del dipendente nei confronti del datore di lavoro o dell’allievo nei confronti del maestro[1].

Il timore reverenziale viene in rilievo nell’ambito del diritto privato in quanto considerato idoneo ad inficiare, in determinate situazioni, la necessaria libertà contrattuale di una delle parti del negozio giuridico (quella ovviamente che prova nei confronti dell’altra detto sentimento).

La nozione si ritrova all’art. 1437 c.c. ed è laconica: “Il solo timore reverenziale non è causa di annullamento del contratto”.

La normativa non ne dà quindi una precisa definizione, ma non lo considera un elemento di per sé sufficiente ad inficiare la volontà contrattuale.

Dottrina e giurisprudenza sono piuttosto scarne in materia, proprio perché, affinché il timore reverenziale abbia rilievo a livello contrattuale, è necessario che venga analizzato ogni caso concreto e che lo stesso sia affiancato da altre fattispecie criminose o quantomeno illecite dal punto di vista privatistico.

 

Un passo indietro: i vizi del consenso

I vizi del consenso sono elementi che possono portare all’annullabilità del contratto e sono, ai sensi dell’art. 1427 c.c.:

  • l’errore,
  • la violenza e
  • il dolo.

 

In presenza di uno di essi, la volontà del soggetto è considerata viziata, poiché in loro assenza essa non si sarebbe determinata o si sarebbe determinata a condizioni diverse[2].

Dottrina e giurisprudenza hanno considerato l’elencazione di cui sopra difettosa[3] ed incompleta[4] e (a differenza di quanto avvenuto per il timore reverenziale) entrambe sono state prolifiche di orientamenti e pronunce per meglio chiarirla ed integrarla.

In particolare, la violenza consiste in una minaccia che costringe la persona a stipulare un contratto non voluto o a subirne un determinato contenuto. I requisiti per determinate l’annullamento del contratto sono la serietà/fondatezza della minaccia, che la stessa prefiguri un danno ingiusto e notevole a persone o beni o ancora che si paventi di esercitare un diritto per conseguire un vantaggio ingiusto.

Il timore reverenziale si accosta proprio alla violenza, e nella sua accezione negativa viene inteso come una pressione psicologica che un soggetto sa di esercitare nei confronti di un altro (per la propria posizione sociale, lavorativa o altro) e che deliberatamente utilizza per ottenere un determinato scopo o vantaggio.

Si tratta tuttavia di una fattispecie fumosa che, da un lato (quale sentimento di soggezione che ispira verso colui al quale si deve rispetto, obbedienza, soggezione) non rientra nella fattispecie della violenza per difetto dell’elemento della minaccia e che, dall’altro (anche se il timore reverenziale è, in concreto, di tale intensità da dar luogo ad un vizio della volontà) in assenza di un’esplicita disposizione di legge non può dar luogo ad automatica annullabilità del negozio, dato il carattere eccezionale ed anche personale di questo istituto.

 

Istituti a cui si affianca il timore reverenziale

La costrizione o l’induzione al matrimonio

Poiché il timore reverenziale abbia quindi rilievo non soltanto sociologico/psicologico ma anche privatistico, è necessario analizzarlo nell’ambito di specifiche e concrete situazioni.

Ne dà, ad esempio, modo la recente legge 69/2019 “Disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere” (considerabile oltretutto una grande conquista nella lotta alle violenze perpetrate in ambito familiare).

Nella prospettiva civilistica, particolare rilievo riveste l’art. 7, che ha introdotto il nuovo art. 558 bis c.p. rubricato “Costrizione o induzione al matrimonio” il quale punisce “chiunque, con violenza o minaccia, costringe una persona a contrarre matrimonio o unione civile” e chiunque “approfittando delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona, con abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia, la induce a contrarre matrimonio o unione civile”.

L’art. 7 l. 69/2019 – e quindi l’art. 588 c.p. – nasce per dare una più concreta attuazione alla Convenzione di Istanbul del 2011[5] ed in particolare alla lotta internazionale contro i c.d. matrimoni forzati, molto spesso contratti da bambine minorenni con uomini adulti in Paesi in cui è ancora normale costume che ciò avvenga [6].

Tale obiettivo principale non toglie che l’art. 588 c.p. sia andato a toccare corde più vicine al nostro ordinamento, in particolare dal punto di vista interpretativo: viene infatti punita non solo la “costrizione” al matrimonio, ma anche “l’induzione” allo stesso, se avvenuta mediante approfittamento di condizioni di vulnerabilità, o abuso delle relazioni “familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia”.

Allargando la prospettiva, in tale ambito il timore reverenziale ben potrebbe essere considerato come un’influenza sufficiente a indurre un soggetto al matrimonio, rendendo quindi tale negozio annullabile pur senza la presenza della minaccia.

 

L’associazione mafiosa

In altro contesto, diametralmente opposto e peculiare quale quello dell’associazione mafiosa[7], la giurisprudenza è intervenuta per sancire che “il timore reverenziale suscitato dal “mito del capo” non può mai bastare per qualificare una associazione come mafiosa”[8].

In altra occasione ha stabilito che “la sussistenza di relazioni di vicinanza (poco importa se per “deferenza”, “timore reverenziale” o “amicizia”) con soggetti acclaratamente appartenenti ad associazioni di stampo mafioso costituisce un elemento indiziario più che sufficiente per affermare che la fattispecie della c.d. “infiltrazione mafiosa” si è, in concreto, perfezionata”[9].

Vediamo quindi come, in un contesto apparentemente lontano da quello civilistico, il concetto di timore reverenziale possa essere comunque importante per qualificare – o meno – la rilevanza di determinati legali.

 

La volontà testamentaria

Tornando invece ad un ambito più prettamente civilistico, ed in particolare quello della volontà testamentaria, vediamo che l’art. 624, comma 1, c.c. elenca i vizi della volontà che possono inficiare la dichiarazione testamentaria, tra i quali esplicitamente la violenza.

Non vi sono, al riguardo, ragioni per non ritenere valevoli le medesime regole dettate per l’ambito contrattuale. Tuttavia, non dovendosi tutelare con testamento l’affidamento di alcuno, parte della dottrina sostiene che una volontà non del tutto spontanea, ancorché soverchiata dal timore reverenziale, non dovrebbe bastare come ragione giustificatrice per non far prevalere la volontà espressa. D’altra parte non è richiesto che la minaccia sia tale da fare impressione su una persona sensata, basta bensì che essa abbia comunque in concreto inciso sulla volontà del soggetto della cui dichiarazione testamentaria si tratta[10].

 

Conclusioni

Si evidenzia, in conclusione, la scarsità di produzione sia dottrinale che giurisprudenziale in merito al timore reverenziale.

Tale soggetto ritorna tuttavia, quasi di sfuggita, in numerosi ambiti e fattispecie, sia di diritto penale che di diritto civile, e meriterebbe maggiori approfondimenti nell’ottica di determinare una maggiore tutela per i soggetti deboli dei negozi giuridici.

Informazioni

TORRENTE, SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, ventiquattresima edizione, 2019, Giuffrè editore;

DE CRISTOFARO, La disciplina privatistica delle invalidità matrimoniali e il delitto di “costrizione o induzione al matrimonio” previsto dall’ art.558 bis c.p., in Le nuove leggi civili commentate, n. 6/2019, ed. Wolters Kluwer

AMARELLI, nota a sentenza (Tribunale di Rima, sez. X, 16 ottobre 2017) in Giurisprudenza Italiana n. 4/2018, ed. Wolters Kluwer

CIAN, Commento alla normativa, Sui vizi del volere nella dichiarazione testamentaria, in Rivista di Diritto Civile n. 1/2017, ed. Wolters Kluwer

Convenzione di Instanbul del 2011 (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica)

Cons. giust. amm. Sicilia, 11/12/2020, n. 1134

[1] A. TORRENTE, P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, ventiquattresima edizione, 2019, Giuffrè editore

[2] Ibidem

[3] Il difetto è stato individuato nel porre tutte e tre le fattispecie sullo stesso piano, poiché mentre l’errore è un fatto psicologico del soggetto che lo compie, dolo e violenza sono fatti materiali, compiuti da altri soggetti ai danni della parte contrattuale che a quel punto o compie un errore (ma voluto da qualcun altro) oppure accetta il negozio per timore di qualcosa.

[4] L’incompletezza, invece, è stata rinvenuta nel fatto che l’attuale ordinamento ha identificato altre ipotesi quali il timore causato dallo stato di pericolo, dallo stato di bisogno, nonché l’errore causato da anormali ma momentanee condizioni del contraente.

[5] Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, 11 maggio 2011

[6] G. DE CRISTOFARO, La disciplina privatistica delle invalidità matrimoniali e il delitto di “costrizione o induzione al matrimonio” previsto dall’ art.558 bis c.p., in Le nuove leggi civili commentate, n. 6/2019, ed. Wolters Kluwer

[7] Per un approfondimento sull’associazione mafiosa si rinvia all’articolo di Lorenzo Venezia per DirittoConsenso: http://www.dirittoconsenso.it/2018/06/07/articolo-416bis-codice-penale-italiano/

[8] G. AMARELLI, nota a sentenza (Tribunale di Rima, sez. X, 16 ottobre 2017) in Giurisprudenza Italiana n. 4/2018, ed. Wolters Kluwer

[9] Cons. giust. amm. Sicilia, 11/12/2020, n. 1134

[10] G. CIAN, Commento alla normativa, Sui vizi del volere nella dichiarazione testamentaria, in Rivista di Diritto Civile n. 1/2017, ed. Wolters Kluwer


Tik Tok

Tik Tok e la privacy per i minori

Il funzionamento di Tik Tok, il social network più in voga del momento, ed i rischi per i minorenni

 

Nascita e storia

Tik Tok è un social network creato nel 2016 dall’azienda cinese ByteDance. Nato inizialmente con il nome Musical.ly (e conosciuto in Cina come Douyin, ove oltretutto ha anche altre funzionalità), permette agli utenti di creare brevi video musicali di durata variabile, fino ad un massimo di 180 secondi, aggiungendo musica, effetti speciali ed eventualmente modificando la velocità di riproduzione.

Si passa da un video all’altro scorrendo verticalmente lo schermo, con una logica simile a quella dello zapping televisivo che permette di vedere video potenzialmente all’infinito[1].

Si tratta di uno strumento molto semplice da utilizzare, in quanto non è nemmeno necessario essere registrarsi per potervi accedere e visionare i video degli utenti, i quali account sono pubblici e visibili a chiunque (a meno di non configurarli appositamente come “privati”). Per poter pubblicare, invece, è necessario registrarsi.

La logica di visibilità è la stessa degli altri social network: più “like”, ed in generale reazioni, un video ottiene, più avrà la possibilità di essere visualizzato e diffuso a livello mondiale.

 

Il boom di Tik Tok

Tik Tok ha conosciuto una rapidissima espansione in un tempo relativamente breve: se nel 2019 si contavano circa 500 milioni di utenti in tutto il mondo[2], nel 2021 si è qualificata come la prima app non appartenente al gruppo Facebook a superare i 3 miliardi di download mondiali[3] (impennata alla quale ha con tutta probabilità contribuito il periodo di lockdown imposto dall’emergenza sanitaria Covid-19).

Questa velocissima diffusione, insieme alle funzionalità limitate e di semplice utilizzo, apparentemente innocue per i minori, nonché unitamente alla facilità di accesso a smartphone e ad internet per questi ultimi, ha impedito che di pari passo si sviluppassero adeguate tutele e controlli.

Si può affermare che Tik Tok è diventato uno dei social network più in voga tra una fetta di popolazione mondiale (composta per lo più da adolescenti) prima ancora che la restante parte della popolazione (tra cui i genitori o comunque gli over 35) ne comprendesse il funzionamento o addirittura ne conoscesse l’esistenza.

Uno degli eventi più frequenti è il lancio di sfide (c.d. challenges), vale a dire la condivisione di un video in cui un utente si filma mentre svolge una determinata prova, sfidando chiunque altro a fare lo stesso ed a farlo meglio.

Queste sfide vanno da quelle più banali ed innocue (come mettere in scena una danza) fino ad arrivare a quelle addirittura pericolose, come la Blackout Challenge, un’assurda prova di resistenza che consiste nel mostrare la propria capacità di resistere maggior tempo possibile con una cintura stretta attorno al collo.

Questa sfida, tristemente famosa in Italia poiché costata la vita ad una bambina di dieci anni[4], ha determinato una vera e propria presa di coscienza collettiva ed ha spinto il Garante per la Protezione dei Dati Personali ad agire concretamente per la tutela dei minori.

 

La tutela della privacy per i minorenni ed i recenti provvedimenti del Garante per la Protezione dei Dati Personali

Come noto, i modelli di business del settore tecnologico e digitale si fondano in gran parte sulla estrazione, sul trattamento e sull’elaborazione dei dati personali degli utenti.

Tale evoluzione del mercato pone il problema di come mantenere un alto livello di protezione ai diritti fondamentali (personali ed identitari) in gioco[5]. La difesa della privacy in rete dei minori, soggetti considerati particolarmente vulnerabili, è quindi un problema di primaria importanza.

La onlus Unicef, molto attenta a tale questione, ha avviato un’indagine statistica secondo la quale ogni giorno nel mondo 175.000,00 bambini e ragazzi si connettono per la prima volta nella loro vita a Internet, con una media di uno ogni mezzo secondo. I minorenni avrebbero inoltre un tasso di presenza sul web del 71% rispetto al 48% della popolazione totale[6].

È importante premettere che gli atti compiuti dal minore nella rete sono presi in considerazione da due diversi ordini di norme:

  • quello che concerne la disciplina della capacità legale di agire (la cui delimitazione è perentoriamente data dal compimento dei 18 anni);
  • quello relativo alle norme sulla privacy, che disciplinano la capacità di prestare il consenso al trattamento dei dati personali[7].

 

La normativa comunitaria[8] fissa in 16 anni l’età minima per poter prestare validamente consenso ai servizi della società dell’informazione: ove il minore abbia un’età inferiore, il trattamento è lecito soltanto se il consenso è fornito dal titolare della responsabilità genitoriale. Gli Stati membri possono poi stabilire per legge un’età inferiore a tali fini purché non inferiore ai 13 anni (dal 2018 in Italia la soglia è stata abbassata da 16 a 14 anni).

L’età minima per utilizzate Tik Tok è fissata a 13 anni, limite che ovviamente non risolve né il problema dell’accesso/utilizzo senza necessità di account, né quello delle false dichiarazioni di età per potersi iscrivere.

Nel dicembre 2020 l’Ufficio del Garante per la Privacy ha aperto un formale procedimento nei confronti di Tik Tok, contestando la presunta violazione di alcune disposizioni della normativa comunitaria sulla privacy e rinvenendo in particolar modo criticità rispetto al corretto rilascio dell’informativa, al trasferimento dei dati all’esterno ed alle forme previste per verificare l’età anagrafica degli utenti[9].

A seguito dell’enorme eco mediatico determinato dall’evento di cronaca nera di cui sopra, il Garante per la privacy ha poi emanato il provvedimento n. 20/2021 con il quale, viste le normative afferenti alla privacy sia interne[10] che comunitarie, ha disposto nei confronti di Tik Tok:

  • la limitazione provvisoria del trattamento dei dati personali, vietando l’ulteriore trattamento dei dati degli utenti collocati sul territorio italiano per i quali non vi fosse assoluta certezza dell’età e, conseguentemente, del rispetto delle disposizioni collegate al requisito anagrafico;
  • la durata di tale limitazione fino al 15 febbraio 2021, termine entro il quale Tik Tok avrebbe dovuto riscontrare la nota del 15 dicembre 2020[11].

 

A tale provvedimento Tik Tok ha dato riscontro – almeno formalmente – positivo, impegnandosi:

  • ad adottare misure per bloccare l’accesso agli utenti minori di 13 anni (il 9 febbraio 2021 sono stati momentaneamente bloccati tutti gli utenti italiani, con richiesta di indicare nuovamente la data di nascita prima di continuare ad utilizzare l’app);
  • a valutare l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale per la verifica dell’età (la società si è impegnata ad avviare con l’Autorità privacy dell’Irlanda – Paese nel quale la piattaforma ha fissato il proprio stabilimento principale – una discussione sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale a fini della c.d. “age verification”);
  • a lanciare una campagna informativa per sensibilizzare genitori e figli, nonché a migliorare l’informativa per gli utenti minori di 18 anni, rendendola più semplice da comprendere e maggiormente coinvolgente;
  • ad introdurre nell’app un pulsante per segnalare rapidamente e facilmente altri utenti che sembrano avere meno di 13 anni;
  • aumentare il numero dei moderatori di lingua italiana dei contenuti presenti sulla piattaforma[12].

 

 

Conclusioni: l’importanza di un riscontro della normativa nelle reti sociali

È evidente che tutti i provvedimenti di cui sopra potrebbero rimanere lettera morta senza una parallela tutela sociale dei minori, che deve provenire dalle reti primarie di contatto, quali, innanzitutto, la famiglia e la scuola.

Già nel 2004 l’Unione Europea ha istituito il Safer Internet Day, una giornata internazionale[13] per sensibilizzare la popolazione circa i rischi derivanti dall’utilizzo incontrollato – o poco consapevole – di Internet.

Nel dicembre 2017 l’Unicef ha pubblicato un interessante rapporto titolato “Figli dell’era digitale” nel quale viene sottolineato come il dovere di proteggere i bambini nel mondo digitale riguardi tutti i soggetti: governi, famiglie, scuole ma anche tutte le altre istituzioni, anche private (ovviamente in particolare l’industria tecnologica e delle comunicazioni)[14].

Il Garante per la Privacy ha avviato, dal mese di febbraio 2021, sulle tv nazionali ed in collaborazione con la onlus Telefono Azzurro, una campagna di sensibilizzazione con l’obiettivo di richiamare i genitori a svolgere un ruolo attivo di vigilanza sull’utilizzo dei social network da parte dei propri figli, sottolineando l’importanza di vietare detto utilizzo quando l’età anagrafica non raggiunga ancora quella richiesta[15].

Lo sforzo collettivo, sia nazionale che comunitario, va quindi – e del tutto inevitabilmente – nella direzione di sensibilizzare ogni rete sociale all’attenzione, alla vigilanza ed alla tutela preventiva dei minori nel loro utilizzo di internet e dei social network in particolare. Questo perchè gli strumenti digitali rivestono ormai una fondamentale importanza nel nostro sistema (dagli stessi derivano anche opportunità non indifferenti) e l’approccio per la tutela dell’infanzia non può essere quello di una censura bensì di un’educazione al corretto utilizzo ed allo sviluppo di una adeguata capacità di autodeterminazione.

Informazioni

Tik Tok becomes the first non-Facebook Mobile App to reach 3 billion download globally, in sensortower.it, 14 luglio 2021;

Tik Tok, l’app del momento, di cui non avete sentito parlare, in Il Post – sezione tecnologia, 16 marzo 2019;

I. GARACI, Il superiore interesse del minore nel quadro di uno sviluppo sostenibile dell’ambiente digitale, commento alla normative, in Le Nuove Leggi Civili Commentate, n. 4/2021, ed. Wolters Kluwer;

M. MODICA, Prova estrema su TikTok: bambina di 10 anni in coma a Palermo, dichiarata la morte cerebrale. Inchiesta per istigazione al suicidio, in Il Fatto Quotidiano, 21 gennaio 2021;

garanteprivacy.it: Nota Doc-Web n. 9524194, provvedimento n. 20 del 22 gennaio 2021, Nota Doc-Web 9584923 del 12 maggio 2021, Nota Doc-Web 47853 del 15 dicembre 2020;

unicef.it: Figli dell’era digitale: un utente del web su 3 è minorenne, pubblicato l’11.12.2017

Campagna “Se non hai l’età, i social possono attendere”

Regolamento UE 2016/679 così come aggiornato dalle rettifiche pubblicate sulla G.U. dell’UE n. 127 del 23 maggio 2018

D.lgs. 196/2003 come modificato dal d.lgs. 101/2018

[1] Tik Tok, l’app del momento, di cui non avete sentito parlare, in Il Post – sezione tecnologia, 16 marzo 2019

[2] Ibidem

[3] Tik Tok becomes the first non-Facebook Mobile App to reach 3 billion download globally, in sensortower.it, 14 luglio 2021

[4] Antonella Sicomero, 10 anni, è stata trovata dai genitori morta soffocata in bagno dalla cintura di un accappatoio, che la stessa si era stretta intorno al collo molto probabilmente per rispondere alla Blackout Challenge – da M. MODICA, Prova estrema su TikTok: bambina di 10 anni in coma a Palermo, dichiarata la morte cerebrale. Inchiesta per istigazione al suicidio, in Il Fatto Quotidiano, 21 gennaio 2021

[5] I. GARACI, Il superiore interesse del minore nel quadro di uno sviluppo sostenibile dell’ambiente digitale, commento alla normative, in Le Nuove Leggi Civili Commentate, n. 4/2021, ed. Wolters Kluwer.

[6] Safer Internet Day 2018, una guida sull’uso sicuro del web per i bambini, pubblicato il 6 febbraio 2018 in unicef.it

[7] I. GARACI, Il superiore interesse del minore nel quadro di uno sviluppo sostenibile dell’ambiente digitale, commento alla normative, in Le Nuove Leggi Civili Commentate, n. 4/2021, ed. Wolters Kluwer

[8] Regolamento UE 2016/679 così come aggiornato dalle rettifiche pubblicate sulla G.U. dell’UE n. 127 del 23 maggio 2018

[9] Nota Doc-Web 47853 del 15 dicembre 2020, consultabile su garanteprivacy.it

[10] D.lgs. 196/2003 come modificato dal d.lgs. 101/2018

[11] Nota Doc-Web n. 9524194, provvedimento n. 20 del 22 gennaio 2021, consultabile su garanteprivacy.it

[12] Nota Doc-Web 9584923 del 12 maggio 2021, consultabile su garanteprivacy.it

[13] Altra giornata internazionale interessante su questo tema è il fact checking day, ossia la giornata contro la disinformazione (precisamente sul controllo delle fonti e delle informazioni citate). Si rinvia in particolare all’articolo di Serena Greco per DirittoConsenso: http://www.dirittoconsenso.it/2021/04/02/contro-la-disinformazione-fact-checking-day/

[14] Figli dell’era digitale: un utente del web su 3 è minorenne, pubblicato l’11.12.2017 su unicef.it

[15] Campagna “Se non hai l’età, i social possono attendere”


Centri di Accoglienza Straordinaria

Che cosa sono i Centri di Accoglienza Straordinaria

Il processo di accoglienza dei migranti in Italia ed i Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS)

 

Introduzione al sistema dei Centri di Accoglienza Straordinaria

Il sistema italiano per l’accoglienza dei migranti è un insieme complesso in continuo mutamento, da un lato per l’avvicendarsi di numerose modifiche legislative varate nel giro di una manciata di anni, dall’altro lato per il decentramento del sistema stesso, che individua in Regioni e Comuni enti di particolare importanza, portando ad una estrema differenziazione territoriale e ad una grande frammentazione degli interventi.

Addirittura, c’è chi ritiene l’Italia annoverabile tra i pochi paesi europei non dotati di una organica normativa in materia di asilo, in quanto continua ad adottare un approccio emergenziale a fronte di un fenomeno strutturale, costante e che colpisce regolarmente il nostro paese per via della posizione geografica e dei numerosi accessi via mare[1].

È tuttavia necessario riconoscere, non tanto a titolo di scusante quanto a livello di complessità di gestione, l’enorme impatto sull’Italia, non solo economico ed amministrativo ma anche sociale e di integrazione, che le migrazioni stanno determinando, considerando che nelle ultime due decadi si è parlato quasi esclusivamente di flussi dovuti a situazioni di guerre, persecuzioni e disastri umanitari, e non di migrazioni di tipo economico[2].

 

Normativa e sguardo d’insieme

La normativa fa ovviamente riferimento al Testo Unico sull’Immigrazione (d. lgs. 286/1998), ma nel caso specifico è caratterizzata da una serie di altri testi varati ad hoc non tanto per gestire l’ingresso e lo stazionamento di stranieri sul territorio (compito appunto del T.U. Immigrazione) ma per gestire in particolare tali accadimenti in situazioni emergenziali, nei quali prima deve essere permesso l’ingresso e poi valutate a posteriori le condizioni di concessione o meno di un titolo di soggiorno.

Vediamo quindi che il sistema di accoglienza dei migranti nel territorio italiano è disciplinato dal decreto legislativo n. 142/2015, adottato in attuazione delle direttive europee 2013/32/UE e 2013/33/UE. Successivamente, alcune integrazioni e modifiche sono state apportate dapprima dal D.L. 13/2017, che ha previsto alcuni interventi urgenti in materia di immigrazione, poi dalla L. n. 47/2017 sui minori stranieri non accompagnati e dal D.Lgs. n. 220/2017. Nell’ultimo biennio, il D.L. 113/2018  (c.d. Decreto Salvini) e il D.L. 130/2020 (c.d. Decreto Lamorgese) hanno introdotto ulteriori significative modifiche[3].

 

La prima e la seconda accoglienza

Come anticipato, la prima accoglienza si differenzia in:

  • Hot Spot, e cioè centri situati nelle aree più soggetta a sbarchi, ove si svolgono le prime operazioni di soccorso ed assistenza sanitaria, di pre-identificazione e informazione sulle procedure di asilo. Dovrebbero sostanzialmente avere il compito di differenziare i richiedenti asilo dai migranti economici per meglio concentrare le risorse assistenziali sui primi[4];
  • Centri governativi di prima accoglienza: ne sono stati introdotti diverse tipologie (CARA, CDA, CPSA[5]) con la funzione di completare le procedure di identificazione e formalizzazione delle domande di asilo -qualora non sia stato possibile negli Hot Spot- nonché per accertare lo stato di salute e situazioni di vulnerabilità degli ospiti, predisponendo così lo smistamento in stabili strutture di accoglienza. I dati raccolti dal MEF nel 2018 hanno tuttavia rilevato una scarsa operatività di queste strutture[6].

 

Al contrario, la seconda accoglienza è composta da un’unica tipologia di centri residenziali, gestiti dagli Enti Locali quali Regioni e Comuni, con lo scopo di realizzare progetti di integrazione che possano superare il solo vitto e alloggio, prevedendo in modo complementare anche misure di informazione, accompagnamento, istruzione scolastica ed inserimento socio-economico.

Sono stati denominati nel tempo con diversi acronimi:

  • SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) termine coniato con il d.lgs. 142/2015;
  • SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati): tale acronimo è stato coniato con il d.l. 113/2018 ed ha sostanzialmente inglobato nel sistema SPRAR anche l’accoglienza, prima differenziata, per i minori, continuato poi ad operare con le medesime funzioni[7]:
  • SAI (Sistema di Accoglienza ed Integrazione): infine introdotto con il recente d.l. 130/2020, il c.d. Decreto Lamorgese, che è andato a modificare alcuni dei punti più discussi e controversi del Decreto Salvini[8].

 

 

I Centri di Accoglienza Straordinaria

La legge 142/2015 ha introdotto la possibilità, all’esaurimento dei posti nei centri di prima e seconda accoglienza, per evitare lunghi tempi di attesa in condizioni non accettabili, di inserire fin da subito i migranti richiedenti asilo in strutture temporanee, limitate al tempo strettamente necessario al trasferimento nei centri di primo o secondo livello.

I Centri di Accoglienza Straordinaria sono dunque strutture, individuate dalla Prefettura attraverso appositi bandi di gara per l’affidamento di contratti pubblici, e gestite generalmente da cooperative ed associazioni di varia natura, ove i migranti dovrebbero essere inseriti eccezionalmente, in caso di saturazione del sistema principale sopradescritto, sentito l’Ente Locale competente per territorio.

Da elemento “cuscinetto”, da utilizzarsi come ultima spiaggia, i CAS sono tuttavia divenuti un passaggio all’ordine del giorno (basti pensare che oggi su tutto il territorio nazionale sono presenti 5.000 CAS con una capacità di accoglienza di 80.000 persone[9]) rispetto alle quali caratteristiche lo stesso Ministero dell’Interno, nei vari bandi di gara pubblicati negli anni, ha fornito indicazioni diverse e contraddittorie.

Il problema si identifica sostanzialmente nella capienza insufficiente delle strutture di accoglienza convenzionali, costantemente sature.

Secondi i dati inseriti nella relazione ministeriale sul funzionamento del sistema di accoglienza di stranieri nel territorio nazionale riferita all’anno 2018, la rete della prima accoglienza era costituita da:

  • 13 centri governativi, che contano la presenza di circa 5.500 migranti;
  • 102 Centri di Accoglienza Straordinari dislocati nel territorio (dato in calo rispetto al 2017 e poi ancora diminuito per il 2020) che ospitano la maggior parte dei richiedenti asilo[10].

 

Studi e statistiche effettate negli ultimi quattro anni – con dati in costante mutamento – hanno quindi messo in evidenzia come la “straordinarietà” dei CAS risieda esclusivamente nel nome e non certo nell’applicazione concreta.

La strutturazione di questi centri (essendo la stessa demandata ai soggetti privati che vincono di volta in volta i bandi di gara) è decisamente variegata, in quanto le linee guida ministeriali fondano esclusivamente il punto di partenza, dal quale sono nate sul territorio, a seconda delle diverse risorse e situazioni concrete, numerose tipologie di centri.

I Centri di Accoglienza Straordinaria hanno oggi lo scopo non solo di garantire una momentanea accoglienza e servizi minimi, ma anche di fornire servizi alla persona più completi, comprensivi di mediazione culturale, assistenza sanitaria specifica, assistenza sociale e psicologica, orientamento al lavoro.

L’altro lato della medaglia, dovuto proprio alla modalità di accesso ai bandi di gara, è caratterizzato da un necessario sistema di controllo e vigilanza sugli stessi CAS da parte degli Enti Locali e dal Ministero dell’Interno, al fine di garantire uno standard qualitativo dei servizi che sia all’altezza delle linee guida ministeriali.

Tali linee guida, oltretutto, non si sono limitate a necessari standard di pulizia, igiene e fornitura di servizi, bensì di recente le indicazioni ministeriali sono andate anche a colpire la modalità interna di strutturazione delle stesse cooperative che gestiscono i CAS, prevedendo clausole finalizzate e promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato, anche al fine sociale di creare una positiva correlazione con l’accoglienza dei migranti[11].

 

Conclusioni

Dall’analisi effettuata emerge la difficoltà nel descrivere nel dettaglio che cosa sia un CAS: la definizione di poche righe di un sistema di accoglienza sussidiaria volta a sopperire all’eventuale saturazione del sistema ordinario, non è adeguata a chiarirne la reale complessità.

Appare infatti evidente come si tratti non solo di un apparato di accoglienza ad integrazione, ma anche di un insieme di burocrazia e differenti strutturazioni talvolta in contrasto con le strutture governative.

Ciò non significa che il sistema necessiti di una radicale modifica: l’innegabile difficoltà di gestione del fenomeno migratorio rende utopica l’instaurazione di un meccanismo perfetto, e l’attuale sistema italiano, per quanto non privo di criticità, denota un notevole investimento di risorse ed il vaglio di differenti approcci nel tentativo di trovare quello maggiormente idoneo.

L’ultima modifica legislativa, il Decreto Lamorgese, è andato ad introdurre i SAI in sostituzione dei SIPROIMI ma non ha toccato il sistema dei Centri di Accoglienza Straordinaria, segnale del fatto che, per il momento, non pare in vista un’organica riforma del sistema di accoglienza.

Informazioni

Camera dei Deputati – Servizio Studi: Diritto di asilo e accoglienza dei migranti sul territorio, 29 ottobre 2020.

E. GHIZZI GOLA, L’accoglienza dei richiedenti e titolari di protezione internazionale in Italia, in ADIR – L’altro diritto – Centro di ricerca interuniversitario su carcere, devianza, marginalità e governo delle migrazioni, 2015, pubblicato su adir.unifi.it

Nuovo capitolato di gara 7.03.2017 Fornitura di beni e servizi relativi alle strutture dei centri di accoglienza

interno.gov.it

openpolis.it

http://www.dirittoconsenso.it/2020/11/28/decreto-lamorgese-protezione-internazionale-nuova-fase-accoglienza-italia/

http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/09/permesso-di-soggiorno-per-cittadini-extracomunitari/

[1] E. GHIZZI GOLA, L’accoglienza dei richiedenti e titolari di protezione internazionale in Italia, in ADIR – L’altro diritto – Centro di ricerca interuniversitario su carcere, devianza, marginalità e governo delle migrazioni, 2015, pubblicato su adir.unifi.it

[2] Sulle varie tipologie di migrazioni e permessi d soggiorno v. http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/09/permesso-di-soggiorno-per-cittadini-extracomunitari/

[3] In Camera dei Deputati – Servizio Studi: Diritto di asilo e accoglienza dei migranti sul territorio, 29 ottobre 2020.

[4] Fondazione Openpolis: Che cosa sono i Cas, lo Sprar e gli Hot Spot, aggiornamento al febbraio 2021, in openpolis.it

[5] Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo, Centri di Accoglienza e Centri di Primo Soccorso e Accoglienza

[6] In Camera dei Deputati – Servizio Studi: Diritto di asilo e accoglienza dei migranti sul territorio, 29 ottobre 2020.

[7] Come si legge nel dossier del Viminale pubblicato in data 1.12.2018, “lo SPRAR continua ad esistere con la sua nuova denominazione SIPROIMI”.

[8] Vedi sul punto http://www.dirittoconsenso.it/2020/11/28/decreto-lamorgese-protezione-internazionale-nuova-fase-accoglienza-italia/

[9] Da interno.gov.it, aggiornamento al giugno 2020

[10] In Camera dei Deputati – Servizio Studi: Diritto di asilo e accoglienza dei migranti sul territorio, 29 ottobre 2020.

[11] Nuovo capitolato di gara 7.03.2017 Fornitura di beni e servizi relativi alle strutture dei centri di accoglienza


Notificazione via PEC

La notificazione via PEC

L’innovazione della notificazione via PEC introdotta con la legge 183/2011 e successive modifiche

 

Obbligatorietà e scopo della notifica per comprendere la notificazione via PEC

La notificazione degli atti giudiziari non è, ovviamente, una novità della c.d. digitalizzazione della giustizia, ma è un elemento fondamentale del processo[1], necessario per il rispetto del fondamentale principio del contraddittorio. Essa consiste nella comunicazione, mediante specifiche modalità, di determinati atti di causa, e deve essere fatta rispettando termini temporali ben precisi, talvolta disposti dal Giudice per il caso di specie ma spesso già previsi dal codice civile.

Prima fra tutte la notificazione dell’atto di citazione, che deve essere fatta almeno 90 giorni prima della data di prima udienza. Caso speculare per i procedimenti speciali sarà quello della notifica del ricorso introduttivo unitamente al decreto di fissazione d’udienza, ipotesi nella quale è invece il Giudice a stabilire il termine per effettuarla (normalmente quarantacinque giorni prima dell’udienza).

 

Cos’è la notificazione degli atti?

La notificazione dell’atto introduttivo (atto di citazione o ricorso che sia) serve per mettere a conoscenza la controparte dell’esistenza del procedimento.  La notifica in corso di causa può avvenire però anche in altre situazioni, ad esempio quando parte convenuta rimane contumace alla prima udienza ed il Giudice, per il prosieguo della causa, manda a parte attrice di notificare anche il successivo provvedimento.

La notificazione può poi riguardare atti prodromici all’istaurazione di un procedimento, come ad esempio la notifica di un atto di precetto, necessaria per procedere al recupero di un credito: in tal caso sarà proprio dalla notificazione che decorreranno i termini di novanta giorni per istaurare l’eventuale procedimento esecutivo.

Ancora, la notifica è prevista per provvedimenti emanati inaudita altera partein primis i decreti ingiuntivi – i quali devono obbligatoriamente essere notificati al debitore entro 60 giorni dall’emissione, pena la loro inefficacia. A notifica effettuata, dalla stessa decorrerà il termine di 40 giorni a seguito del quale l’ingiunzione diverrà esecutiva.

Infine, la notificazione è utilizzata per far decorrere i c.d. termini brevi per il passaggio in giudicato delle sentenze, che se meramente comunicate alle parti costituite divengono definitive dopo 6 mesi, mentre se notificate ad una parte a cura dell’altra lo diverranno dopo soli 30 giorni da detto adempimento.

È quindi evidente come la notificazione, il cui scopo principale è appunto il rispetto del principio del contraddittorio, abbia anche altre numerose ed importanti funzioni.

Affinché la parte che ne ha interesse possa dare prova della notificazione, la stessa si esegue attraverso la consegna di una copia dell’atto originale al destinatario, riportando in calce sia la data che il modo dell’avvenuta consegna. L’originale viene restituito al richiedente, con l’attestazione di avvenuta effettuazione[2].

 

Le diverse modalità di notificazione prima della PEC

Il nostro codice civile prevede, all’articolo 137 e ss, le varie modalità di notifica.

Premesso che la possibilità di effettuarla via PEC non ha eliminato le precedenti modalità, vediamo che innanzitutto la notifica tale adempimento può essere effettuata a mezzo Ufficiale Giudiziario, e cioè consegnando in duplice copia l’atto al funzionario preposto dell’UNEP[3] competente, che si occuperà di recarsi presso l’indirizzo indicato.

Qualora l’Ufficiale Giudiziario non trovi nessuno all’indirizzo, reperite informazioni in loco – ad esempio dai nominativi sul citofono e presso vicini – per assicurarsi che il destinatario sia ivi normalmente reperibile, lascia apposito avviso in buca ed effettua la notificazione a mezzo Posta Raccomandata ex art. 140 c.p.c.

Allo stesso modo, il legale previamente autorizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di appartenenza, può direttamente ed in proprio effettuare la notificazione a mezzo posta.

Nel caso in cui, in queste due ultime situazioni, la notifica non vada a buon fine per irreperibilità del destinatario all’indirizzo, è necessario prima effettuare una verifica anagrafica e, qualora il destinatario sia irreperibile, potrà effettuarsi una notificazione ex art. 143 c.p.c. ovvero mediante affissione dell’atto presso apposito albo della Casa Comunale dell’ultimo indirizzo di residenza conosciuto.

Vi sono, infine, un elenco di situazioni peculiari (come ad esempio la notifica ad un numero abnorme di conventi o la notifica a militari al fronte) strettamente disciplinate con modalità idonee ai singoli casi particolari.

 

La notificazione via PEC. Cosa prevede, quali sono i casi in cui non può essere utilizzata e come deve essere redatta la relata

Con l’introduzione della legge 53/1994, agli avvocati è stata data la possibilità di effettuare le notifiche in proprio a mezzo posta, senza avvalersi dell’Ufficiale Giudiziario, e la legge 183/2011[4] ha finalmente disposto la validità della notificazione in proprio via PEC.

Tale innovazione, che si inserisce nell’ambito della c.d. digitalizzazione del processo civile e nella prassi sempre più frequente che permette agli avvocati di estrarre telematicamente ed autenticare in proprio le copie degli atti, ha dato il via una sorta di rovesciamento della prospettiva tradizionale della gestione della prassi giudiziaria, fino a pochi anni fa tradizionalmente cartacea[5].

Il procuratore di parte può, quindi, eseguire in proprio a mezzo PEC la notificazione di tutti gli atti, a meno che il Giudice non abbia disposto diversamente o a meno che non si tratti del primo atto introduttivo del procedimento esecutivo vero e proprio (atto di pignoramento) che deve necessariamente essere eseguito dall’Ufficiale Giudiziario.

Innanzitutto, il notificante deve utilizzare una propria utenza PEC che sia registrata in un pubblico registro, e può inviare il messaggio solo a indirizzi PEC del destinatario o dei destinatari che siano inseriti in un pubblico registro[6].

Ciò premesso sugli indirizzi, il notificante deve inserire nel messaggio PEC:

  • l’atto da notificare in copia autentica conforme all’originale, che dovrà essere predisposta in diverse modalità a seconda che l’atto originale sia cartaceo o informatico. Nel primo caso sarà necessario effettuare una scansione dell’originale, apponendovi la dicitura di copia conforme (ed inserendo quest’ultima che nel file della relata a pena di nullità). Nel secondo cosa, sarà sufficiente apporre la dicitura di copia conforme in calce all’atto stesso;
  • la relata di notifica firmata digitalmente, che a pena di nullità dovrà contenere: nome, cognome e codice fiscale dell’avvocato notificante, della parte per la quale si agisce e del destinatario; l’indicazione dell’indirizzo PEC del destinatario ed il pubblico registro dal quale è stato estratto; l’attestazione id conformità dell’atto in caso di originale cartaceo; l’Ufficio Giudiziario, la sezione ed il numero di ruolo in caso di causa già pendente;
  • la dizione nell’oggetto della PEC, a pena di nullità, “notificazione ai sensi della legge n. 53 del 1994”.

 

Come dimostrare la notificazione?

Le significative innovazioni portate dalla legge 183/2011 hanno determinato anche non poche criticità, da un lato di natura estremamente tecnico-informatica ma dall’altro lato fondamentali in quanto incidenti sulla nullità o meno della notifica.

La più significativa è forse quella dell’esistenza di due diversi sistemi di firma digitale, CAdES e PAdES, dei quali solo il primo veniva inizialmente riconosciuto per effettuare validamente la notificazione via PEC.

Di tutta evidenza, ciò ha scatenato una valanga di vizi procedurali e problematiche nei procedimenti in corso, rendendo necessario addirittura l’intervento della Corte di Cassazione, la quale infine ha sancito che “secondo il diritto dell’UE e le norme, anche tecniche, di diritto interno, in caso di notifica a mezzo posta elettronica certificata (PEC), le  firme digitali di tipo CAdES e di tipo PadES sono entrambi equivalenti, sia pure con le differenti estensioni e devono, quindi essere riconosciute valide ed efficaci, anche nel processo civile di cassazione, senza eccezione alcuna”[7].

Più complesso (o forse, semplicemente diverso dalle precedenti abitudini) è dare la prova dell’avvenuta notificazione, che con il cartaceo viene data con l’esibizione della relata delll’atto originale firmata dal ricevente, oppure dalle cartoline di ricevuta di ritorno:

  • In primo luogo la notificazione via PEC si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione, e per il destinatario nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna.
  • In secondo luogo, la prova della notificazione a mezzo PEC deve essere fornita dall’avvocato esclusivamente in modalità telematica, quindi non presentando in udienza la stampa del contenuto delle ricevute PEC o allegando scansione delle stesse ad una busta telematica nel fascicolo informatico, bensì inviando nel fascicolo telematico i duplicati dei file in estensione .msg o .eml, allegandoli ad una nota di deposito[8].

 

La possibilità di provare in modalità cartacea la notifica a mezzo PEC è del tutto residuale, ed ammessa esclusivamente nel caso in cui non si possa procedere al deposito con modalità telematiche come ad esempio innanzi al Giudice di Pace oppure alla Corte di Cassazione[9].

 

Conclusioni

È evidente che la possibilità di effettuare le notifiche degli atti giudiziari via PEC ha da un lato accorciato determinate tempistiche (basti pensare al tempo necessario per il perfezionamento della notificazione a mezzo posta) e reso meno farraginoso un passaggio del tutto essenziale per il procedimento civile.

Dall’altro lato, questa innovazione ha però determinato la nascita di dettagli estremamente tecnici (come la questione della firma CAdES/PAdES, per la quale è stato addirittura necessario l’intervento delle Sezioni Unite) e fatto forse perdere un po’ di vista il vero fondamentale significato della notificazione – il rispetto del principio del contraddittorio – in favore di cavilli burocratici talvolta usati per allungare strategicamente i tempi processuali.

Inoltre, la non obbligatorietà per le persone fisiche ed anche per altri soggetti di avere un indirizzo PEC rende tale modalità, per quanto snella e pratica, ancora residuale ed al momento del tutto inapplicabile a molte branche del diritto civile.

Informazioni

L. TRAMONTANO, a cura di, Studium – Codice di Procedura Civile – Dottrina, Giurisprudenza, Schemi, esempi pratici, La Tribuna, XVII edizione 2019 p 425 e ss.

A. CIRIELLO, P. LUPI, Le notifiche a mezzo PEC eseguite dagli Avvocati, dispensa a cura della Scuola Superiore della Magistratura, in giustizia.lazio.it

http://www.dirittoconsenso.it/2020/09/01/uno-schema-pratico-del-processo-civile-ordinario/

L. 183/2011, modificata dal D.L. 179/2012 convertito in legge 221/2012

Cass. Civ., sez. lavoro, sent. 20072/2015

Cass. Civ. SSUU, sent. 10266/2018

[1] Sui tecnicismi ed i passaggi del processo civile v. http://www.dirittoconsenso.it/2020/09/01/uno-schema-pratico-del-processo-civile-ordinario/

[2] L. TRAMONTANO, a cura di, Studium – Codice di Procedura Civile – Dottrina, Giurisprudenza, Schemi, esempi pratici, La Tribuna, XVII edizione 2019 p 425 e ss.

[3] Ufficio Notificazioni, Esecuzioni e Protesti

[4] Poi significativamente modificata e integrata dal D.L. 179/2012 convertito in legge 221/2012

[5] A. CIRIELLO, P. LUPI, Le notifiche a mezzo PEC eseguite dagli Avvocati, dispensa a cura della Scuola Superiore della Magistratura, in giustizia.lazio.it

[6] L’art. 16-ter D.L. 179/2012 e successive modifiche indica questi pubblici registri: l’ANPR, l’anagrafe nazionale della popolazione residente (non ancora attivo); l’INI-PEC, l’Indice Nazionale degli Indirizzi di Posta Elettronica Certificata istituito dal Ministero dello sviluppo economico che raccoglie tutti gli indirizzi di PEC delle Imprese e dei Professionisti presenti sul territorio italiano; il ReGIndE, Registro Generale degli Indirizzi Elettronici, gestito dal Ministero della giustizia e che contiene i dati identificativi nonché l’indirizzo di PEC dei soggetti abilitati esterni (avvocati, curatori, CTU ed ausiliari del giudice in genere); il Registro delle Pubbliche Amministrazioni, gestito sempre dal Ministero della giustizia e che contiene gli indirizzi di Posta Elettronica Certificata delle Amministrazioni pubbliche ed è consultabile esclusivamente dagli uffici giudiziari, dagli uffici notificazioni, esecuzioni e protesti, e dagli avvocati; il Registro delle Imprese.

[7] Cass. Civ. SSUU, sent. 10266/2018

[8] A. CIRIELLO, P. LUPI, Le notifiche a mezzo PEC eseguite dagli Avvocati, dispensa a cura della Scuola Superiore della Magistratura, in giustizia.lazio.it

[9] Cass. Civ., sez. lavoro, sent. 20072/2015.


Matrimoni celebrati all'estero

I matrimoni celebrati all'estero

Requisiti soggettivi, formali e sostanziali per il riconoscimento in Italia dei matrimoni celebrati all’estero

 

La disciplina dei matrimoni celebrati all’estero

La questioni del riconoscimento in Italia dei matrimoni celebrati all’estero attiene alla materia del Diritto Internazionale privato, regolata nel nostro ordinamento dalla L. 218/1995 e successive modifiche (“Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato”) nonché – per i rapporti tra paesi facenti parte dell’Unione Europea – dal Regolamento UE 2201/2003 afferente alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale. Oltre a detti testi normativi, sono stati poi varate ulteriori disposizioni di carattere più strettamente amministrativo[1] con lo scopo di applicare concretamente le disposizioni nazionali ed europee.

Vediamo, in particolare, che la capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge nazionale di ogni futuro sposo[2] (e quindi da quella italiana per il coniuge cittadino italiano e per il coniuge straniero da quella richiesta dalla legge nazionale di detto cittadino).

Le condizioni ed i requisiti previsti dalla legge straniera per il cittadino straniero non devono comunque contrastare con i principi fondamentali dall’ordinamento italiano: a titolo di esempio, un individuo già sposato in un paese che riconosce ed accetta la bigamia, non potrà comunque contrarre un secondo matrimonio in Italia, né veder riconosciuto in Italia il suo secondo matrimonio contratto all’estero, anche se ciò è avvenuto in conformità con le leggi del proprio paese d’origine[3].

 

La validità del matrimonio

Il matrimonio è valido, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione o dalla legge nazionale di almeno uno dei coniugi al momento della celebrazione o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento[4].

Oltre al rispetto di detti requisiti formali e sostanziali, per avere valore in Italia il matrimonio celebrato all’estero deve essere trascritto presso il Comune italiano competente. Se i coniugi desiderano procedere alla trascrizione del proprio matrimonio in Italia pur continuando a risiedere all’estero, l’atto di matrimonio in originale, emesso dall’Ufficio dello Stato Civile estero e debitamente legalizzato e tradotto, dovrà essere trasmesso alla Rappresentanza diplomatico-consolare che ne curerà l’invio in Italia ai fini della trascrizione nei registri di stato civile del Comune competente[5]. In alternativa (come normalmente avviene in tutti i casi in cui i coniugi che hanno contratto matrimonio all’estero si trasferiscono in un successivo momento in Italia) gli interessati possono presentare l’atto, regolarmente legalizzato e tradotto, direttamente al Comune italiano di appartenenza[6] .

Rispetto agli incombenti di traduzione ed asseverazione, gli atti rilasciati dai Paesi che hanno aderito alla Convenzione di Vienna del 1976 sul rilascio di estratti plurilingue di atti di stato civile sono esenti da legalizzazione e da traduzione[7].

 

La pubblicazione

Incombente formale ma strettamente necessario perché si possa procedere alla celebrazione del matrimonio è quello della c.d. Pubblicazione, prevista dall’art. 93 c.c. e che consiste nell’affissione in apposito albo, per un periodo non inferiore ad 8 giorni, dell’informazione attinente all’imminente matrimonio.

Tale formalità è necessaria non sono quando una coppia residente in Italia (qualunque sia la nazionalità dei nubendi) decide di sposarsi su suolo italiano, ma anche quando i nubendi residenti all’estero o in Italia desiderano sposarsi presso una rappresentanza diplomatica o consolare italiana[8] e quando gli italiani residenti all’estero desiderano sposarsi in Italia.

Nel primo caso, è innanzi tutto necessario presentare istanza di celebrazione di matrimonio consolare alla rappresentanza consolare italiana di interesse. La celebrazione può essere rifiutata quando vi si oppongono le leggi locali o quando le parti non risiedono nella circoscrizione ove è stata presentata la richiesta[9], diversamente l’Ufficio consolare dovrà accogliere l’istanza ed i nubendi potranno procedere alla richiesta delle pubblicazioni, che andranno affisse nell’apposito albo consolare (diverso a seconda della residenza di ciascuno).

Nel secondo caso, gli italiani residenti all’estero che desiderano sposarsi in Italia dovranno richiedere le pubblicazioni di matrimonio alla Rappresentanza diplomatica o consolare italiana del luogo ove risultano iscritti, la quale compiuto detto incombente delegherà celebrazione il Comune italiano prescelto ai sensi dell’art. 109 c.c.

Se uno o entrambi i nubendi non sono italiani, altro documento necessario sarà il nulla osta di matrimonio (per gli Stati aderenti alla Convenzione di Monaco del 1980) oppure il certificato di capacità matrimoniale (per gli Stati non aderenti a detta Convenzione) da richiedere all’autorità competente presso il proprio paese d’origine.

Gli italiani che si sposano all’estero, invece, non sono soggetti alla disciplina delle pubblicazioni a meno che la stessa non sia egualmente richiesta dal Paese nel quale intendono sposarsi[10].

 

Gli ultimi interventi normativi in materia

Le cose si sono ulteriormente evolute, in Italia, con l’introduzione della legge 76/2016 (meglio conosciuta come “Legge Cirinnà”) storica nel nostro ordinamento poiché finalmente, seguendo la scia di molti altri paesi europei ed extraeuropei, ha introdotto riconoscimento e tutela delle Unioni Civili[11].

Ed infatti, a seguito dell’introduzione di questa nuova normativa, oggi è possibile trascrivere in Italia (con le relative tutele che ciò comporta) sia i matrimoni che le Unioni Civili tra persone dello stesso sesso celebrati all’estero, con la precisazione che i matrimoni avranno in Italia l’effetto delle Unioni Civili.

Su tale distinzione si è discusso e si discute ancora molto, sulla scia del fatto che la Legge Cirinnà – pur potendo essere considerata un grande passo avanti – non equipara totalmente i diritti di omosessuali ed eterosessuali sul punto.

Tuttavia, la disciplina del riconoscimento dei matrimoni celebrati all’estero e della relativa trascrizione può dirsi più prettamente amministrativa e burocratica, e come tale segue pedissequamente i mutamenti normativi legati ai diritti sostanziali che, si auspica, possano continuare ad evolversi nel senso di una maggiore tutela per ogni individuo.

Informazioni

G. NOVELLI, Compendio di diritto internazionale privato, ed Simone 2019

Direttive del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazione – sezione Italiani nel mondo, in www.esteri.it

DirittoConsenso http://www.dirittoconsenso.it/2019/01/11/le-unioni-civili/ e http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/15/legge-cirinna-e-successive-conseguenze/

L. 218/1995 “Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato”

DPR 396/2000 Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127

D.L. 71/2011, Ordinamento e funzioni degli uffici consolari, ai sensi dell’articolo 14, comma 18, della legge 28 novembre 2005, n. 246.

Convezione di Vienna del 1976

[1] A titolo esemplificativo e non esaustivo: DPR 396/2000 Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127; D.L. 71/2011 Ordinamento e funzioni degli uffici consolari, ai sensi dell’articolo 14, comma 18, della legge 28 novembre 2005, n. 246.

[2] Art. 27 l. 218/1995

[3] G. NOVELLI, Compendio di diritto internazionale privato, ed Simone 2019

[4] Art 28 l. 218/1995

[5] Direttive del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazione – sezione Italiani nel mondo, in www.esteri.it

[6] Art. 12, comma 11, del DPR 396/2000 Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127”

[7] I Paesi che hanno ratificato la Convenzione sono Austria, Belgio, Bosnia e Erzegovina, Bulgaria, Capo Verde, Croazia, Estonia, Francia, Germania, Italia, Lituania, Lussemburgo, Macedonia, Moldova, Montenegro, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Romania, Serbia, Slovenia, Spagna, Svizzera e Turchia. Si segnala che la Convenzione non può essere attualmente applicata per la Grecia che, sebbene Paese firmatario, non ha ancora provveduto alla ratifica.

[8] art. 12 del D. Lgs. 71/2011

[9] Ibidem

[10] Direttive del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazione – sezione Italiani nel mondo, in www.esteri.it

[11] Sul punto si richiamano gli articoli “Le Unioni Civili” e “Legge Cirinnà e successive conseguenze”, in DirittoConsenso rispettivamente http://www.dirittoconsenso.it/2019/01/11/le-unioni-civili/ e http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/15/legge-cirinna-e-successive-conseguenze/


Minoranze linguistiche in Italia

Minoranze linguistiche in Italia: tutela nel processo

La tutela processuale garantita alle minoranze linguistiche storiche sulla base dell’art. 6 della Costituzione italiana

 

Excursus storico e fondamento giuridico

La presenza di minoranze linguistiche esiste, ed è sempre esistita, in ogni paese: essa dipende da molteplici fattori, diversi tra loro, vecchi e nuovi, che partono dalle migrazioni costanti delle tribù nomadi passando per guerre e conflitti fino ad arrivare a spinte di natura economica.

La questione relativa alle minoranze linguistiche viene sovente in rilievo, purtroppo, per l’aspetto di minori diritti e tutele che le stesse si vedono attribuite, ed in molti paesi del mondo tale minorità di diritti non si limita a difficoltà burocratiche o processuali, ma si concretizza in vere e proprie persecuzioni.

Fortunatamente non è questo il caso dell’Italia, ove le minoranze linguistiche sono riconosciute sin dal livello costituzionale, e dove le tutele loro riservate necessitano di particolari accorgimenti su piani sì importanti, ma alla base dei quali è un dato certo lo stesso riconoscimento di diritti.

Ciò non significa che la legislazione italiana non presenti criticità e lacune sul punto.

Facendo un passo indietro, vediamo innanzi tutto che il fondamento di questa tutela si ritrova nell’art. 6 Cost: “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. Tale disposizione è riconosciuta come la principale espressione del diverso indirizzo politico adottato in relazione alle minoranze dopo la caduta del regime fascista, ponendo le basi di uno Stato democratico: essa infatti vieta ogni discriminazione in proposito e garantisce una tutela positiva all’insegna del pluralismo e della tolleranza[1].

La messa in pratica di questo principio fondamentale è avvenuta con la legge 482/1999[2], la quale, pur con 50 anni di ritardo, ha individuato dodici comunità linguistiche storiche[3]: Albanese, Catalana, Croata, Francese, Franco-provenzale, Friulana, Germanica, Greca, Ladina[4], Occitana, Sarda e Slovena.

Si tratta di una tutela giuridica di tipo “collettivo” che è in primo luogo lo Stato a dover difendere: viene infatti riconosciuta un’autonomia regionale, ma la stessa deve essere garantita e delineata alla base da disposizioni inderogabili statali, le uniche che possono qualificare una minoranza linguistica come tale[5].

In ogni caso, la l. 482/1999 “non esaurisce ogni forma di riconoscimento e sostegno la pluralismo linguistico” e le leggi regionali ben possono andare ad aumentare il sostegno degli specifici e diversi patrimoni linguistici e culturali[6].

 

Differenze territoriali e diversi livelli di tutela. Le criticità della tutela processuale

Le diverse -e numerose-  comunità minoritarie sono tradizionalmente collocate in tre diverse tipologie di aree geografiche:

  • regioni di confine (come Valle D’Aosta, Trentino e Friuli-Venezia Giulia, che peraltro spesso godono di maggiore autonomia regionale ed amministrativa);
  • regioni insulari (Sardegna);
  • ed aree non identificabili geograficamente ma che per motivi più che altro storici vedono in varie parti del territorio l’insediamento specifiche comunità (come quelle franco-provenziali, albanesi e greche)[7].

 

Si può dire inoltre che la legge 482/1999 sia andata a porre le basi a tre diversi livelli di tutela in particolare:

  1. un livello burocratico,
  2. un livello culturale ed
  3. uno processuale[8].

 

A livello burocratico, si parla ad esempio di garanzia di accesso agli atti ed ottenimento di detti atti in più lingue, nonché di uso delle lingue tutelate nell’esercizio di funzioni pubbliche quali i consigli comunali ed altri organi amministrativi collegiali[9].

A livello culturale e scolastico, sono previste disposizioni quali la garanzia di studio della lingua minoritaria nelle aree territoriali ove la stessa è radicata storicamente, l’utilizzo di tali idiomi anche come lingua di insegnamento e la promozione della formazione e aggiornamento degli insegnanti sul punto[10]. A ciò si uniscono numerosissime leggi regionali che, ciascuna per la propria area, vanno a sottolineare l’importanza non solo delle minoranze linguistiche ufficialmente conosciute ma anche dei singoli dialetti, promuovendo iniziative culturali -per quanto non obbligatorie- ad hoc proprio in un’ottica di conservazione culturale.

A livello processuale la questione è invece più controversa.

 

La tutela processuale delle minoranze linguistiche

Sebbene parrebbe logico che le minoranze sopraindicate potessero godere di uso della propria lingua in maniera partitaria nel corso dei processi, la questione non è tanto affrontata dalla legge statale quanto dalle specifiche disposizioni regionali che tutelano minoranza per minoranza.

Se da un lato ciò si può comprendere proprio perché una legge statale dettagliata sul punto non avrebbe potuto trovare adeguata efficacia (non potendo stabilire un criterio generale viste le differenze di ogni minoranza e di ogni area geografica che le ospita), d’altro canto anche la mancanza di una linea guida di massima pare una lacuna.

Vediamo infatti che, se è vero che nelle province e regioni di cui fanno parte comuni nei quali è riconosciuta una lingua di minoranza, è possibile che all’interno degli organi pubblici collegiali e nel corso della loro attività siano utilizzate anche le lingue minoritarie tutelate, è comunque stabilito che, qualora gli atti destinati ad uso pubblico siano redatti nelle due (i più) lingue, producano effetti giuridici soltanto quelli in lingua italiana[11]. Negli uffici delle amministrazioni pubbliche è “consentito” l’uso orale e scritto della lingua ammessa a tutela, ma sempre con la clausola restrittiva appena enunciata[12].

L’unica vera disposizione di apertura è rappresentata dall’art. 9 co. 3, prima parte, l. 482/1999: “Nei procedimenti davanti al giudice di pace è consentito l’uso della lingua ammessa a tutela”. Detto assunto è però immediatamente mitigato dalla seconda parte: “Restano ferme le disposizioni di cui all’articolo 109 del codice di procedura penale”. Ciò significa quindi che, non solo in tutti i gradi di procedimento superiori al Giudice di Pace deve essere utilizzata esclusivamente la lingua italiana, ma ciò varrà anche nei procedimenti avanti al Giudice di Pace qualora si tratti di ambito penale e non civile.

Se è poi vero che tanto nel processo penale[13] quanto in quello civile[14] deve sempre essere garantito un interprete all’imputato o alle parti qualora le stesse non comprendano adeguatamente la lingua italiana, ciò vale per qualsiasi soggetto straniero ed è una garanzia fornita all’individuo in generale, non una tutela delle minoranze linguistiche riconosciute.

Anche la legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4/1948 afferente allo Statuto speciale per la Valle d’Aosta, sottolinea sì la parità fra la lingua francese e italiana, introducendo un totale bilinguismo nella redazione degli atti pubblici, ma fa salva l’eccezione della redazione in italiano dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria[15].

 

Lo spiraglio di testi di legge statali ad hoc e della legislazione delle Regioni a Statuto Speciale. Conclusioni

Maggiore tutela viene fornita, in alcuni casi, alle singole regioni e quindi alle singole minoranze linguistiche.

La legge 38/2001[16], destinata peraltro ad applicarsi anche in deroga alle disposizioni della legge generale sulle minoranze linguistiche, prevede, tra gli altri, il diritto all’uso della lingua slovena nei rapporti con le autorità amministrative e giudiziarie locali, nonché il diritto di avere documenti bilingui (pur mantenendo fermo il carattere ufficiale della lingua italiana)[17].

Particolarmente all’avanguardia è la Regione Trentino-Alto Adige, il quale Statuto proclama solennemente la parità di diritti dei cittadini dei diversi gruppi linguistici. Ciò si è fino ad ora concretizzato in quattro modi:

  • con una particolare forma di tutela giurisdizionale della Corte Costituzionale: se una proposta di legge regionale, lesiva della parità dei diritti, viene approvata nonostante l’opposizione di un gruppo linguistico presente nel consiglio regionale, la maggioranza del gruppo stesso può impugnare la legge davanti alla Corte costituzionale (unico caso di ricorso diretto di minoranza consiliare alla Corte costituzionale)[18];
  • con il divieto di proposizione di referendum abrogativi per leggi regionali esistenti a tutela di una minoranza linguistica[19];
  • con il potere della Presidenza del Consiglio regionale o provinciale di respingere un progetto di legge di iniziativa popolare qualora esso sia in contrasto con il principio di tutela delle minoranze linguistiche[20];
  • con il D.P.R. 574/1988 “Norme di attuazione dello Statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige in materia di uso della lingua tedesca e della lingua ladina nei rapporti con la pubblica amministrazione e nei procedimenti giudiziari“, il quale viene appunto realizzata in concreto la garanzia dell’uso della lingua nei rapporti dei cittadini con l’autorità giudiziaria.

 

In conclusione, è possibile affermare che il principio di tutela delle minoranze linguistiche è ben radicato nel nostro ordinamento, ma tale tutela in ambito processuale è, sia a livello statale che regionale (con rare eccezioni) ancora piuttosto flebile, sovrastato dal fondamentale principio di predominanza della lingua italiana nei rapporti dei singoli con l’Autorità Giudiziaria.

Informazioni

Minoranze Linguistiche – dossier n. 493 del maggio 2017, a cura di Servizio Studi del Senato, ufficio ricerche sulle questioni istituzionali, sulla giustizia e sulla cultura;

Lingue di minoranza in Italia, in https://miur.gov.it/

Lingue di minoranza e scuola A dieci anni dalla Legge 482/99 Il plurilinguismo scolastico nelle comunità di minoranza della Repubblica Italiana, a cura di MIUR, Quaderni della Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e per l’Autonomia Scolastica, n. 1 dell’11.03.2010;

F. DEL GIUDICE, Compendio di Diritto Costituzionale, Edizioni Giudiriche Simone anno 2019

Legge regionale 24 giugno 1957, n. 11 “Norme sul referendum abrogativo di leggi regionali e provinciali”

Legge regionale 16 luglio 1972, n. 15 “Norme sull’iniziativa popolare nella formazione delle leggi regionali e provinciali”

Legge 38/2001 “Norme a tutela della minoranza linguistica slovena della regione Friuli-Venezia Giulia”

L. 482/1999 Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche

Corte Cost., sent. 81 del 20.03.2018

Cost., sent. 88 del 7.03.2011

[1] F. DEL GIUDICE, Compendio di Diritto Costituzionale, Edizioni Giuridiche Simone anno 2019, pp- 100-101.

[2] “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”

[3] Art. 2 l. 482/1999: “In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela le lingue e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”

[4] Il ladino è un idioma retoromanzo parlato in Trentino-Alto AdigeVeneto e Friuli-Venezia Giulia

[5] Lingue di minoranza e scuola A dieci anni dalla Legge 482/99 Il plurilinguismo scolastico nelle comunità di minoranza della Repubblica Italiana, a cura di MIUR, Quaderni della Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e per l’Autonomia Scolastica, n. 1 dell’11.03.2010, Questione dell’autonomia ripresa e confermata da Corte Cost., sent. 81 del 20.03.2018

[6] Così Corte Cost., sent. 88 del 7.03.2011

[7] Lingue di minoranza in Italia, in miur.gov.it

[8] Rispetto all’ordinario iter del processo civile, applicabile avanti a qualsiasi Tribunale italiano e quindi anche in quelle zone ove viene in rilievo la questione delle minoranze linguistiche, si rimanda a http://www.dirittoconsenso.it/2020/09/01/uno-schema-pratico-del-processo-civile-ordinario/

[9] Minoranze Linguistiche – dossier n. 493 del maggio 2017, pp 11-12, a cura di Servizio Studi del Senato, ufficio ricerche sulle questioni istituzionali, sulla giustizia e sulla cultura

[10] Ibidem

[11] Art. 7 co. 4 l. 482/1999.

[12] Art. 9 l. 482/1999.

[13] Art. 109 cpp

[14] Art. 122 cpc

[15] Minoranze Linguistiche – dossier n. 493 del maggio 2017, p. 17, a cura di Servizio Studi del Senato, ufficio ricerche sulle questioni istituzionali, sulla giustizia e sulla cultura

[16] “Norme a tutela della minoranza linguistica slovena della regione Friuli-Venezia Giulia”

[17] Art. 9 l. 38/2001, esplicato in Minoranze Linguistiche – dossier n. 493 del maggio 2017, pp 14-15, a cura di Servizio Studi del Senato, ufficio ricerche sulle questioni istituzionali, sulla giustizia e sulla cultura

[18] Ibidem

[19] legge regionale 24 giugno 1957, n. 11 “Norme sul referendum abrogativo di leggi regionali e provinciali

[20] Legge regionale 16 luglio 1972, n. 15 “Norme sull’iniziativa popolare nella formazione delle leggi regionali e provinciali”


Immigrazione clandestina

Il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina

Analisi e critiche dell’art. 12 T.U. 286/1998 in ottica europea ed internazionale per comprendere il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina

 

Nozione e normativa del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina

In Italia, per motivi di conformazione geografica, politiche pregresse e vicinanza territoriale con paesi che hanno subito dissesti politico-economici (solo per citarne alcuni), il tema dell’immigrazione clandestina è un argomento di costante attualità. Il diritto penale italiano prevede il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

È infatti divenuta particolarmente importante la punibilità di coloro che facilitano l’ingresso illegale di stranieri nello Stato, e la previsione di molteplici circostanze aggravanti ha permesso di ampliare e dettagliare in modo minuzioso la fattispecie.

Il riferimento è l’art. 12 del T.U. 286/1998, così come modificato dalla legge 189/2002 (c.d. legge Bossi-Fini): chiunque promuova, diriga, organizzi, finanzi o effettui il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato, ovvero compia altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso in Italia o in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona[1].

Rispetto alla disciplina originaria del 1998, la legge Bossi-Fini ha inserito la previsione delittuosa dell’aiuto all’ingresso dello straniero in altri Stati, introducendo inoltre alcune ipotesi di favoreggiamento aggravato. Ci sono poi state ulteriori modifiche, volte ad inasprire le sanzioni già previste, come l’aumento della pena detentiva ad un massimo di cinque anni – rispetto ai tre originariamente disposti – ai sensi della legge 241/2004.

Rispetto all’individuazione del bene protetto, nel tempo sono state elaborate due diverse tesi:

  • la prima identifica quale bene tutelato l’ordine pubblico
  • mentre la seconda, qualificando il reato come plurioffensivo, allarga la tutela alla sicurezza e dignità delle persone il cui ingresso illegale è favorito o procurato[2].

 

Viste le numerose circostanze aggravanti di seguito illustrate, che vanno ad inasprire la pena qualora l’incolumità dello straniero sia in qualsiasi modo messa in pericolo (dalle condotte specifiche o dallo scopo del favoreggiamento) è possibile abbracciare con sufficiente certezza la seconda tesi.

Inoltre, perché si abbia la consumazione del reato non è necessario che l’ingresso avvenga, essendo sufficiente “l’idoneità della condotta a raggiungere un simile risultato”[3].

Sulla punibilità del tentativo, invece, la dottrina è divisa: da un lato c’è chi sostiene che anche tale accezione possa essere penalmente rilevante (posta l’individuazione della pubblica sicurezza come bene tutelato)[4], dall’altro lato chi sostiene che, trattandosi di un reato di pericolo, sanzionando il tentativo si registrerebbe un’eccessiva anticipazione della soglia di punibilità[5].

 

La normativa europea e pattizia internazionale più recente

In ambito europeo, la normativa di riferimento è la Direttiva 2002/90/CE del Consiglio. Nota come “Facilitation Directive”, essa fornisce una definizione comune del concetto di favoreggiamento dell’immigrazione illegale: aiutare intenzionalmente il cittadino di uno stato terzo ad entrare, risiedere o transitare nel territorio dell’Unione Europea, con scopo di lucro o meno, oltre ad istigare la commissione di tali condotte[6].

Spostando la lente d’ingrandimento dall’Unione Europea all’ambito internazionale, invece, emergono in maniera rilevante la Convenzione delle Nazioni Unite contro la Criminalità Organizzata Transnazionale[7] ed il Protocollo contro il traffico di migranti via terra, mare e aria[8]. È evidente come, avendo il favoreggiamento in questione, molto spesso, scopo di lucro, esso sia strettamente connesso con il traffico di migranti ed il fenomeno acquisisca, quasi sempre, una connotazione transnazionale.

 

Le aggravanti del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina

Ad ogni modo, secondo la normativa italiana, si individuano le seguenti ipotesi aggravate:

  • reclusione da cinque a quindici anni (oltre alla multa di 15.000 euro per ogni persona) nei casi in cui: a) il fatto riguardi l’ingresso o la permanenza illegale di cinque o più persone; b) la persona trasportata sia stata esposta a pericolo per la sua vita o per la sua incolumità; c) la persona trasportata sia stata sottoposta a trattamento inumano o degradante; d) il fatto sia commesso da tre o più persone in concorso tra loro o utilizzando servizi internazionali di trasporto o documenti contraffatti; e) gli autori del fatto abbiano la disponibilità di armi o materie esplodenti (art. 12 comma 3 T.U. 286/1998);
  • ulteriore aumento di pena qualora si cumulino tra loro due o più ipotesi aggravate di cui al comma 3 ( 12 comma 3bis T.U. 286/1998);
  • aumento della pena detentiva da un terzo alla metà, oltre alla multa di € 25.000 a persona se i precedenti fatti sono: a) commessi al fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione, allo sfruttamento sessuale o lavorativo ovvero riguardano l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento; b) commessi in generale al fine di trame profitto, anche indiretto ( 12 comma 3ter T.U. 286/1998).

 

Si osservano, per contro, le seguenti ulteriori ipotesi, che pur non consistendo in circostanze aggravanti vanno a dettagliare ulteriormente la fattispecie:

  • reclusione fino a quattro anni, fuori dei casi previsti dai commi precedenti, per chiunque, al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero, favorisce la permanenza di questi nel territorio dello Stato in violazione delle norme del presente testo unico; quando il fatto è commesso in concorso da due o più persone, ovvero riguarda la permanenza di cinque o più persone, la pena è aumentata da un terzo alla metà (art. 12 comma 5 T.U. 286/1998);
  • reclusione da sei mesi a tre anni e (in caso di condanna con provvedimento irrevocabile) la confisca dell’immobile, per chiunque a titolo oneroso, al fine di trarre ingiusto profitto, dà alloggio o cede, anche in locazione, un immobile ad uno straniero che sia privo di titolo di soggiorno al momento della stipula o del rinnovo del contratto di locazione (art. 12 comma 5bisU. 286/1998).

 

La scriminante del soccorso e dell’assistenza umanitaria

L’art. 12 comma 2 T.U. 286/1998 stabilisce che, ferme restando le ipotesi date dallo stato necessità (art. 54 c.p.) non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato.

Tale comma costituisce la c.d. “scriminante umanitaria”, estremamente controversa e dibattuta alla luce del più recente – e consistente – fenomeno migratorio. L’enorme quantità di sbarchi clandestini che interessano (da sempre, ma da alcuni anni in maniera drammaticamente marcata) le coste del sud Italia, determinano l’approdo su territorio nazionale di migliaia di migranti irregolari. Questi però, trovandosi in stato di necessità poiché in fuga da realtà repressive, o comunque in situazioni di pericolo di vita per via delle traversate affrontate, devono prima essere accolti e solo successivamente messi di fronte al complesso iter del rilascio o meno di un idoneo documento di soggiorno.

In tale contesto si inserisce inoltre l’attività delle numerosissime navi ONG che si occupano del recupero in mare dei migranti in pericolo di vita: la disciplina giuridica dell’immigrazione clandestina via mare – e del favoreggiamento/sfruttamento della stessa – ricopre profili di diritto interno, europeo ed internazionale e configura un argomento a sé estremamente complesso.

 

Le critiche all’attuale sistema

La disciplina sul favoreggiamento dell’immigrazione clandestina non è, evidentemente, esente da critiche.

In particolare, molte associazioni umanitarie affermano che l’attuale legislazione italiana sia andata a erodere il confine tra profitto e solidarietà, denunciando che in alcuni casi semplici azioni come distribuire alimenti o ospitare un migrante siano passibili di sanzioni, come se si stesse effettivamente integrando il reato in questione (si pensi a recenti episodi che hanno avuto grande clamore mediatico come il caso del sindaco di Riace, Domenico Lucano, e quello di Carola Rackete) [9].

Altra posizione critica è quella di chi ritiene che i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di traffico di migranti vengano – sia dalla legislazione comunitaria, sia dalla disciplina internazionale con la Convenzione di Palermo, sia dalla maggior parte dei paesi europei – erroneamente accomunati e considerati coincidenti. Tale indebita sovrapposizione tra fattispecie di reato in realtà diverse genera una molteplicità di problemi, primo fra tutti quello della rischiosa equiparazione di coloro che forniscono assistenza ed aiuto ai trafficanti internazionali[10].

Parallelamente c’è chi ritiene che l’attuale regime sanzionatorio non sia adeguato, non tanto perché con previsione di pene troppo leggere, ma per via della difficoltà materiale con cui le stesse vengono processualmente applicate.

In conclusione, è possibile affermare che il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina – come la maggior parte dei temi afferenti i fenomeni migratori – non sia solo in costante aggiornamento ma anche strettamente connesso all’ambito politico-economico. Rimane come tale un argomento estremamente complesso rispetto al quale ogni sfaccettatura può essere debitamente ed autonomamente approfondita.

Informazioni

J. ESCOBAR VEAS, I traffici illeciti nel Mediterrano – Il fine di profitto nel reato di traffico dei migranti: analisi critica della legislazione europea, in Diritto Penale Contemporaneo, ed. 1/2018

F. DELLE CESE, Cos’è il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina?, in Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili, 17.10.2018, da cild.eu

DELPINO, R. PEZZANO, Favoreggiamento e sfruttamento dell’immigrazione clandestina, in Manuale di Diritto Penale, parte speciale, Ed. Giuridiche Simone, XXVI edizione, Napoli 2019.

http://www.dirittoconsenso.it/2019/02/11/il-protocollo-contro-il-traffico-di-migranti

portaleimmigrazione.it

Cass. Pen., Sez. I, 13/01/2009, n. 1082

[1] Art 12 comma 1 T.U. 286/1998 così come modificato dalla l. 189/2002

[2] DELPINO, R. PEZZANO, Favoreggiamento e sfruttamento dell’immigrazione clandestina, in Manuale di Diritto Penale, parte speciale, Ed. Giuridiche Simone, XXVI edizione, Napoli 2019.

[3] Cass. Pen., Sez. I, 13/01/2009, n. 1082

[4] portaleimmigrazione.it

[5] DELPINO, R. PEZZANO, Favoreggiamento e sfruttamento dell’immigrazione clandestina, in Manuale di Diritto Penale, parte speciale, Ed. Giuridiche Simone, XXVI edizione, Napoli 2019.

[6] F. DELLE CESE, Cos’è il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina?, in Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili, 17.10.2018, da cild.eu

[7] Nota anche come Convenzione di Palermo

[8] In proposito http://www.dirittoconsenso.it/2019/02/11/il-protocollo-contro-il-traffico-di-migranti

[9] F. DELLE CESE, Cos’è il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina?, in Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili, 17.10.2018, da cild.eu

[10] J. ESCOBAR VEAS, I traffici illeciti nel Mediterrano – Il fine di profitto nel reato di traffico dei migranti: analisi critica della legislazione europea, in Diritto Penale Contemporaneo, ed. 1/2018


Permesso di soggiorno

Il permesso di soggiorno per i cittadini extracomunitari

Tipologie di permesso di soggiorno, requisiti e modalità per ottenerlo

 

Definizione e normativa di riferimento

L’argomento del permesso di soggiorno per cittadini extraeuropei può dirsi, da sempre, una delle sezioni più complesse ed articolate del diritto dell’immigrazione[1].

Vediamo innanzi tutto che il permesso di soggiorno è un atto amministrativo, rilasciato dalla Questura della provincia in cui si trova lo straniero o in cui lo stesso intenda stabilirsi, che lo autorizza soggiornare legittimamente in Italia; si parla di emissione nei confronti dei membri di “paesi terzi” poiché i cittadini di Stati membri dell’Unione Europea non devono richiedere alcun permesso o visto, né per l’ingresso né per la permanenza in Italia. Qualora, eventualmente, il soggiorno abbia durata superiore a tre mesi, trascorso il primo trimestre dall’ingresso il cittadino dell’UE dovrà semplicemente iscriversi all’anagrafe del comune di residenza[2].

Per quanto riguarda quindi i permessi di soggiorno, la disciplina è contenuta nel D.lgs. n. 268/1998[3] – e relative disposizioni di attuazione[4]recentemente modificato dal D.L. 113/2018[5]. Tale ultima riforma, acclamata da alcuni ma duramente criticata da altri, ha mirato principalmente a ridurre la possibilità di ingresso in Italia per coloro che, non avendo motivazione familiari, lavorative o di studio, tentano l’ingresso nel Paese per sottrarsi a situazioni di guerra, persecuzione o pericolo invocando la tutela umanitaria. È stata quindi introdotto una maggiore tipizzazione dei casi di tutela, individuando specifici e più stringenti requisiti per i soggetti richiedenti.

In generale, vediamo che il cittadino straniero può entrate in Italia solo se è in grado di documentare il motivo e le condizioni del soggiorno, nonché di dare prova di una propria disponibilità di mezzi sia per mantenersi che per rientrare nel Paese di provenienza[6].

Il primo passo consiste nel domandare un visto all’ambasciata o alla sede consolare italiana del Paese di cittadinanza; solo una volta arrivato in Italia, lo straniero potrà domandare, entro otto giorni lavorativi ed alla Questura competente, l’emissione del permesso di soggiorno la cui durata, eventualmente prorogabile, sarà quella prevista dal visto stesso.

 

 

I diversi tipi di permesso di soggiorno

  • PDS per motivi di lavoro

Il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro è correlato all’annuale decreto flussi, un atto amministrativo, differente a seconda che si tratti di lavoro subordinato stagionale oppure di lavoro subordinato non stagionale o autonomo, emanato dal Presidente del Consiglio dei Ministri per programmare annualmente, entro il 30 novembre dell’anno precedente a quello di riferimento, le quote massime di stranieri non comunitari che possono entrare in Italia per motivi di lavoro[7].

Nel caso di lavoro subordinato, la procedura deve essere attivata in prima battuta dal datore di lavoro, mentre nel caso di lavoro autonomo sarà sufficiente la richiesta dello stesso lavoratore straniero; in entrambi i casi, anche se evidentemente con diverse modalità, dovrà essere richiesto ancor prima dell’ingresso in Italia il Nulla Osta allo Sportello Unico Immigrazione.

Ottenuto ciò e quindi un visto d’ingresso, una volta su suolo italiano il lavoratore dovrà recarsi allo Sportello Unico per firmare il contratto di soggiorno, dimostrare la validità di tutti i requisiti e quindi ottenere il permesso di soggiorno vero e proprio.

Sempre per quanto riguarda il lavoro subordinato, tale documento avrà durata di due anni se il contratto di lavoro è a tempo indeterminato e, in teoria, di un anno se il contratto di lavoro è a tempo determinato, anche se in questo ultimo caso, nella prassi, sovente la durata del permesso viene fatta combaciare con quella del contratto. In ogni caso potrà poi essere eventualmente rinnovato alla scadenza qualora perdurino i requisiti lavorativi mentre, qualora il contratto di lavoro termini, lo straniero potrà richiedere un permesso di soggiorno per attesa occupazione della durata di sei mesi, nei quali avrà la possibilità di reperire altra attività lavorativa[8].

 

  • PDS per motivi di studio e/o formazione

Il permesso di soggiorno per motivi di studio, soggiacente anch’esso ad un numero chiuso annuale,  viene rilasciato ai cittadini extracomunitari che vogliono frequentare un percorso di studi scolastico, universitario o di formazione: per ottenerlo devono presentare documentazione idonea ad attestare il percorso di studi già conseguito nel Paese d’origine, che deve essere equivalente a quello necessario in Italia per accedere al percorso desiderato.

Gli studenti dovranno dimostrare ogni anno di aver sostenuto esami o verifiche di profitto; tale PDS, che viene già concesso della durata complessiva del corso o comunque è rinnovabile, può essere convertito in un permesso per lavoro subordinato o autonomo qualora si ottengano i relativi requisiti.

 

  • PDS per ricongiungimento familiare

L’unità familiare rappresenta uno dei diritti primari della persona, tutelato livello internazionale (in particolar modo con la CEDU) comunitario (con la direttiva 2003/86/CE) e nazionale (con lo stesso TUI e con il D.lgs. 5/2007, con il quale è stata recepita la direttiva 2003/86/CE). Essa fonda il diritto a farsi accompagnare o a ricongiungersi ai membri della propria famiglia che si trovino in altri paesi[9].

I cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia possono chiedere il ricongiungimento familiare per:

  • il coniuge;
  • i figli minori o maggiorenni ma economicamente non autonomi o invalidi;
  • i genitori a carico che non abbiamo altri figli nel Paese d’origine che possano provvedere al loro sostentamento;
  • il genitore naturale del figlio minore regolarmente soggiornante in Italia con l’altro genitore;
  • gli ascendenti diretti di primo grado di minore non accompagnato titolare dello status di rifugiato[10].

 

Per presentare la domanda di ricongiungimento il richiedente deve innanzi tutto provare tale legame; poi dimostrare di avere un reddito annuo non inferiore a determinati standard, nonché dimostrare la disponibilità di un alloggio che risponda ai requisiti igienico-sanitari e di idoneità abitativa[11].

La procedura si articola in due fasi: la prima, da effettuarsi presso lo Sportello Unico per l’immigrazione della Prefettura, riguarda la verifica dei requisiti oggettivi per il rilascio del nulla osta (titolo di soggiorno, reddito, alloggio); la seconda, da effettuarsi invece presso la rappresentanza consolare, riguarda la verifica dei requisiti soggettivi per il rilascio del visto d’ingresso (legami di parentela ed altri requisiti dei soggetti da ricongiungere). Una volta inoltrata correttamente la domanda di ricongiungimento, il richiedente dovrà essere convocato, ed a partire dalla convocazione decorrerà un termine di 180 giorni per la definizione della pratica; ottenuto il nulla osta, il cittadino straniero dovrà presentarsi presso l’ambasciata italiana nel proprio Paese d’origine, la quale effettuerà gli accertamenti necessari rilasciando, entro trenta giorni, il visto per il ricongiungimento nei confronti del familiare per cui è stato rilasciato il nulla osta[12].

 

  • PDS per motivi di c.d. asilo o volti al riconoscimento dello status di rifugiato [13]

La normativa di riferimento, in questo caso, è ulteriormente specifica ed oltre al già richiamato TUI la si ritrova nei D.lgs. 251/2007 e 25/2008[14]. A seguito della riforma introdotta dal D.L. 113/2018, sono previste le seguenti tipologie di permesso di soggiorno:

  • PDS per motivi di asilo a seguito dell’ottenimento della c.d. Protezione internazionale, che riconosce un diritto di asilo allo straniero che abbia fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica[15]. Al richiedente di protezione internazionale è rilasciato, dalle Questure, un permesso di soggiorno per richiesta asilo, valido nel territorio nazionale per sei mesi, rinnovabile fino alla decisione della domanda, che consente di svolgere attività lavorativa ma che non può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Una volta ricevuto lo status di rifugiato, lo straniero potrà richiedere all’Ufficio Immigrazione il rilascio del permesso di soggiorno per asilo, con validità quinquennale e rinnovabile[16].
  • PDS per protezione sussidiaria ai sensi dell’ 14 D.lgs. 521/2007 per il cittadino straniero che non possieda i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se tornasse nel paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito nel medesimo decreto. Anche tale permesso avrà validità quinquennale con possibilità di rinnovo.
  • PDS per protezione umanitaria o casi speciali ai sensi degli artt. 3 D.lgs. 25/2008 e 5 TUI, attivabile in casi di pericolo non rientranti nelle opzioni precedenti, della durata di un anno e rinnovabile solo in casi particolari;
  • PDS per cure mediche ai sensi dell’art. 5 TUI.

 

  • PDS di lunga durata

In tutti i casi precedenti, nel caso in cui lo straniero risulti in possesso, da almeno 5 anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità, può avanzare la richiesta di conversione dello stesso in altro di lunga durata e cioè a tempo indeterminato, a condizione che dimostri la disponibilità di un reddito minimo non inferiore all’assegno sociale annuo (pari ad € 5953,87 euro per il 2019)[17].

 

Novità introdotte dal DL n. 34/2020

Il c.d. DL Rilancio[18] ha introdotto non una nuova tipologia di permesso di soggiorno, bensì la possibilità di richiedere, dall’1.06.2020 al 15.07.2020, con modalità telematiche, la regolarizzazione di migranti irregolari che reperiscano attività lavorativa come colf, badanti o braccianti agricoli[19].

L’art. 103 prevede due possibilità:

  • in un primo caso i datori di lavori possono presentare istanza per concludere un contratto di lavoro con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale. Questi ultimi devono essere stati sottoposti a rilievi foto dattiloscopici prima dell’8.03.2020 e devono aver soggiornato in Italia prima di tale data. Nell’istanza deve essere indicata la durata del contratto di lavoro e la retribuzione convenuta, e presentata dal datore di lavoro allo sportello unico per l’immigrazione. Nelle more della definizione dei procedimenti, la presentazione dell’istanza permette lo svolgimento dell’attività lavorativa
  • un secondo caso prevede, i cittadini stranieri con permesso di soggiorno scaduto dal 31.10.2019, non rinnovato o convertito in altro titolo di soggiorno, possono richiedere un permesso di soggiorno temporaneo di 6 mesi dalla presentazione dell’istanza. Devono essere presenti in Italia dall’8.03.2020 e aver svolto attività lavorativa nei settori dell’agricoltura, assistenza alla persona o lavoro domestico, antecedentemente al 31.10.2019. L’istanza deve essere presentata dal lavoratore alla Questura; se nel termine della durata del permesso di soggiorno temporaneo, viene esibito contratto di lavoro subordinato, il permesso viene convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

 

Conclusioni

Al di là di ogni opinione etica, politica o economica sull’opportunità di ridurre o ampliare le ipotesi di permesso di soggiorno per determinate categorie di soggetti, è innegabile che la materia in questione sia estremamente complessa.

Certamente la normativa italiana non è priva di lacune, ed in particolare i tempi amministrativi e burocratici possono essere molto lunghi, ma si tratta evidentemente di una disciplina articolata volta a tutelare un ampio spettro di situazioni e quindi di individui.

Le possibilità di movimento per tutti gli individui, aumentante considerevolmente negli ultimi decenni, nonché una maggiore sensibilità nei confronti di chi versi in condizioni di pregiudizio, sono argomento di estrema attualità ed hanno una incidenza considerevole in ambito sociale, politico ed economico.

Informazioni

Linee Guida Ministero dell’Interno aggiornate al 20.06.2020, in interno.gov.it

Inps.it

I. MARCONI, Il permesso di soggiorno per i cittadini stranieri, in altalex.com, 17.09.2019

Linee guida Polizia di Stato, Rifugiati-protezione internazionale, varate con circolari del 18.10.2018 e del 14.12.2018, reperibili su poliziadistato.it

C. PUGLISI, Il diritto all’unità familiare del cittadino extracomunitario, Pisa, 2012

L. D’ASCIA, Diritto degli stranieri e immigrazione: percorsi giurisprudenziali, GIUFFRE’ EDITORE, 2009

L. 40/1998

D.lgs. 268/1998

D.P.R. 394/1999

D.lgs. 251/2007

D.lgs. 25/2008

D.L. 113/2018 convertito in L. 132/2018

D.L. 34/2020

[1] In proposito, v.http://www.dirittoconsenso.it/2020/05/26/la-delimitazione-territoriale-degli-stati/

[2] I. MARCONI, Il permesso di soggiorno per i cittadini stranieri, in altalex.com, 17.09.2019

[3] C.d. T.U.I., Testo unico delle disposizioni concerni la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero

[4] D.P.R. 394/1999

[5] Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione, dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, coordinato con legge di conversione 132/2018

[6] Linee Guida Ministero dell’Interno aggiornate al 20.06.2020, in interno.gov.it

[7] Riferimento L. 40/1998; ultimo decreto flussi DPCM 12.03.2019

[8] Linee Guida Ministero dell’Interno aggiornate al 20.06.2020, in interno.gov.it

[9] C. PUGLISI, Il diritto all’unità familiare del cittadino extracomunitario, Pisa, 2012

[10] Art 29 comma 1 TUI

[11] Art 29 comma 3 TUI

[12] C. PUGLISI, Il diritto all’unità familiare del cittadino extracomunitario, Pisa, 2012

[13] In riferimento ai diritti fondamentali dell’uomo, v. http://www.dirittoconsenso.it/2019/10/02/i-core-rights-treaties-il-cuore-dei-diritti-di-ogni-uomo/ e http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/08/limmunita-degli-stati-e-la-tutela-dei-diritti-umani/

[14] Rispettivamente “Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta” e “Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato

[15] L. D’ASCIA, Diritto degli stranieri e immigrazione: percorsi giurisprudenziali, GIUFFRE’ EDITORE, 2009.

[16] Linee guida Polizia di Stato, Rifugiati-protezione internazionale, varate con circolari del 18.10.2018 e del 14.12.2018, reperibili su poliziadistato.it

[17] Dati reperibili su inps.it, aggiornamento al 16.01.2020

[18] “Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché’ di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”.

[19] Art 103 D.L. 34/2020, che prevede altresì la possibilità di regolarizzare lavoratori irregolari, italiani o stranieri, che già svolgano mansioni di assistenza domestica, alla persona o di lavoro agricolo.


Tribunale per i minorenni

Il tribunale per i minorenni e le sue funzioni di tutela

Funzioni civili, penali e amministrative del Tribunale per i minorenni ed il loro profilo dall’istituzione ad oggi

 

Nascita, obiettivi primari, riforme ed ipotesi di soppressione

L’istituzione del Tribunale per i minorenni nacque dall’esigenza di garantire a bambini ed adolescenti un’adeguata tutela cucita loro addosso su misura, non solo da parte del nucleo familiare nei confronti del mondo estero ma da parte dello Stato nei confronti di qualsiasi ente o individuo che potesse anche solo potenzialmente nuocere ai minori stessi. Parallelamente, esso risponde all’esigenza di controllare e sanzionare la devianza minorile con modalità che possano avere sì funzioni punitive ma anche portare ad un re-inserimento sociale dei giovani.

In passato, la piena responsabilità penale era riconosciuta solo ai maggiori di 21 anni, ma in ogni caso i ragazzi tra i 14 e 21 anni che commettevano reati, pur usufruendo di una sostanziale riduzione di pena, andavano a scontare la stessa nelle carceri comuni, senza particolari tutele o funzioni rieducative[1].

Tassello fondamentale nell’ottica di una specifica tutela venne posto dal Codice Rocco del 1930 che, recependo l’orientamento della Scuola Positiva del Diritto ed in particolare le teorie di Enrico Ferri[2], delineò una netta distinzione tra i soggetti definiti “in condizioni di normalità biologica e psichica” per i quali era presunto il libero arbitrio e quindi l’imputabilità, e quei soggetti invece considerati privi di tali requisiti e per i quali, dunque, l’imputabilità doveva essere provata e la pena caratterizzata da funzioni terapeutiche e di difesa sociale[3].

L’esigenza di un’Autorità Giudiziaria che potesse occuparsi di questi profili si è concretizzata nel 1934 con il R.D. 1404: in esso sono stati esplicitati gli scopi di istituire giudici minorili specializzati, idonei ad indirizzare la funzione punitiva verso finalità del riadattamento del minorenne e ad organizzare un sistema di prevenzione della delinquenza minorile basato sulla rieducazione (ambito penale e amministrativo) nonché a scopo di attribuire un’esclusiva competenza ad emettere provvedimenti limitativi della c.d. patria potestà (oggi “responsabilità genitoriale”) in ambito civile[4].

A riprova dell’intenzione di plasmare un’istituzione a misura dei minori, vi è la composizione del Tribunale: oltre ai giudici togati ciascun procedimento vede anche due giudici onorari, scelti non tra magistrati di carriera ma tra soggetti con particolari competenze in discipline umanistiche, psicologiche e pedagogiche.

Numerosissime sono state, negli anni, le riforme che hanno toccato la competenza del Tribunale per i minorenni modificandola, ampliandola o restringendola. A titolo di esempio, il DPR 616/1977 relativo alla de-carcerizzazione minorile oppure – in ambito civile – la L. 219/2012 prima ed il D.lgs. 154/2013 poi, che hanno eliminato le differenze tra filiazione legittima e filiazione naturale, determinando lo spostamento della competenza dei procedimenti tra genitori per la regolamentazione dei rapporti tra figli nati fuori dal matrimonio dal Tribunale minorile al Tribunale Ordinario.

Il conflitto Tribunale per i minorenni-Tribunale Ordinario è divenuto tale che, di recente, del primo si è addirittura ipotizzata l’estinzione, in favore di una eventuale sezione specializzata presso il secondo. Le polemiche ed obiezioni a questa possibile riforma sono state tali che, ad oggi, il progetto è rimasto fermo e non vi sono ipotesi di attuazione in vista.

 

Le competenze civili, penali e amministrative del tribunale per minorenni

Come già accennato, il Tribunale per i minorenni esercita ampie competenze in materia civile, penale ed anche amministrativa.

In tutti e tre i casi, caratteristica fondamentale è quella di prevedere procedimenti più snelli rispetto a quanto avviene presso i Tribunali Ordinari: la minore formalità dei procedimenti permette infatti una più ampia elasticità e quindi la possibilità di emettere provvedimenti mirati agli specifici bisogni dei minori coinvolti.

Dal punto di vista civile, fondamentale è stata la L. 219/2012 sulla filiazione, a seguito della quale, con modifica dell’art. 38 disp. att. del Codice Civile, è stata chiaramente distinta la competenza giurisdizionale tra Tribunale Ordinario e Tribunale per i Minorenni. Il primo può oggi emettere provvedimenti che riguardano la tutela dei minori in caso di separazione, divorzio o regolamentazione rapporti circa filiazione al i fuori del matrimonio; le restanti funzioni di tutela sono svolte dal Tribunale dei Minori (nell’ottica di realizzare il principio della concentrazione delle tutele dinnanzi ad un unico organo giudiziario[5]) che quindi più precisamente si occupa di conoscere:

  • i procedimenti relativi all’eventuale autorizzazione per minori di età a contrarre matrimonio e le questioni relative alle convenzioni matrimoniali per i predetti[6];
  • i procedimenti relativi alla pronuncia di decadenza o reintegrazione della responsabilità genitoriale sui figli (tranne i casi in cui tra i genitori sia pendente o venga poi instaurato un procedimento di separazione e divorzio innanzi al Tribunale Ordinario) nonché i procedimenti inerenti all’educazione dei minori e l’amministrazione ordinaria e straordinaria dei beni[7];
  • i procedimenti inerenti ai rapporti e diritto di visita dei nonni nei confronti dei nipoti[8];
  • le procedure per la pronuncia dell’adottabilità dei minori versanti in stato di abbandono morale e materiale ed i successivi procedimenti di adozione[9];
  • i procedimenti -di recente introduzione[10]– di tutela dei minori stranieri non accompagnati, per i quali è stato istituito l’ufficio del Giudice Tutelare anche presso i Tribunali minorili;
  • i procedimenti di accertamento dell’età inerenti ai minori stranieri non accompagnati o comunque di tutti quei minori privi di documenti[11].

 

In ambito penale, sebbene le competenze siano decisamente più ampie di quelle civili (ricordiamo oltretutto che la sua nascita fu dettata maggiormente da un’esigenza di specifica tutela per i minori dal punto di vista penalistico) le stesse possono essere più facilmente sintetizzate: il Tribunale per i minorenni è infatti è competente a conoscere e giudicare tutti i reati commessi dai minori tra i 14 ed i 18 anni.

Il processo penale a carico di imputati minorenni[12] si dice costruito “a misura di minore”: la scelta del legislatore non è stata rivolta alla creazione di un sistema processuale autonomo rispetto a quello in vigore per gli adulti, ma si è indirizzata a modellare la disciplina del processo ordinario in maniera tale da renderlo compatibile con la tutela della personalità del minore ancora in via di formazione[13].

I fondamentali principi che regolano questo procedimento sono:

  • il principio di adeguatezza (le misure punitive-restrittive devono essere adeguate alla personalità ed alle esigenze educative del minore);
  • il principio di minima offensività (il processo deve evitare che il contatto del minore con il sistema penale possa compromettere lo sviluppo armonico della sua personalità);
  • il principio di destigmatizzazione;
  • il principio di residualità della detenzione (carcerazione solo come extrema ratio e preferenza per arresti domiciliari, collocamento in comunità, lavori socialmente utili o attività di volontariato attraverso la c.d. messa alla prova, prescrizioni in generale)[14].

 

Fondamentale è quindi la funzione rieducativa della pena e l’ottica di reinserimento sociale onde tentare di evitare pregiudizi ed emarginazioni future[15].

Infine, per quanto riguarda la competenza amministrativa, se ne può parlare in senso lato in quanto strettamente connessa alle competenze di carattere rieducativo: si fa infatti riferimento a quei provvedimenti di azione preventiva per il reinserimento sociale (come l’affidamento al servizio sociale o la collocazione in una comunità residenziale, e in generale qualsiasi misura idonea ai fini della rieducazione) nei confronti dei minori che manifestino c.d. irregolarità di condotta[16]. È una funzione strettamente connessa all’operato dei Servizi Sociali competenti a conoscere e monitorare i vari casi di specie, che non presuppone necessariamente la precedente commissione di un reato.

 

Tribunale per i minorenni e Protocolli speciali Covid-19

Il D.L. 8 marzo 2020, n. 11[17]  ha indetto un periodo di sospensione feriale straordinaria di tutta l’attività giudiziaria (termini e scadenze) dal 9 marzo 2020 all’11 maggio 2020 compresi, ponendo in extremis una soluzione all’improvvisa ed obbligata limitazione dei movimenti delle persone che necessariamente ha colpito anche Tribunali e uffici giudiziari.

La sospensione di termini ed udienze ha visto però alcune eccezioni, tra le quali sono rientrate la gran parte delle attività gestite dai Tribunali per i minorenni. Ed infatti, tra l’altro, non sono state comprese nella sospensione le udienze relative a cause di competenza del tribunale per i minorenni relative alle dichiarazioni di adottabilità, ai minori stranieri non accompagnati, ai minori allontanati dalla famiglia ed alle situazioni di grave pregiudizio; le udienza di cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità; i procedimenti cautelari aventi ad oggetto la tutela di diritti fondamentali della persona, nonché in casi indifferibili i procedimenti per l’adozione di provvedimenti in materia di tutela, amministrazione di sostegno, interdizione e inabilitazione [18].

In realtà, anche per i procedimenti non sospesi la maggior parte delle udienze fissate nel periodo di sospensione sono state rimandate, purché non si trattasse di situazioni urgenti: sostanzialmente è stata demandata ai Giudici titolari dei singoli fascicoli la facoltà di valutare se fosse possibile disporne il rinvio o se i vari casi di specie trattassero di situazioni non ulteriormente differibili[19].

In ogni caso è stato necessario adottare misure emergenziali e di sicurezza e, così come per i Tribunali ordinari, la scelta di come gestire questi procedimenti è stata lasciata ad ogni singola Autorità Giudiziaria.

Ad esempio, il Tribunale per i minorenni di Torino ha disposto, per i procedimenti penali con udienze già fissate nei mesi di marzo ed aprile e nei quali gli imputati fossero sottoposti a misure di sicurezza, il rinvio d’ufficio delle udienze medesime, facendo salva la possibilità dei legali rappresentanti di depositare esplicita richiesta di procedere, da presentarsi a mezzo pec e non oltre le ore 10 del giorno precedente l’udienza[20]. Analoghe disposizioni sono state adottate dal Tribunale per i Minorenni di Roma[21].

Sempre a Torino sono poi stati emanati, di settimana in settimana, specifici ordini di servizio relativi alle attività considerate indifferibili ed agli orari di apertura di uffici e cancellerie, che potessero essere in linea con le concrete difficoltà riscontrate e con le specifiche esigenze manifestate dall’utenza[22]. Il Tribunale per i minorenni di Palermo, a tutela della già delicate situazioni dei minori collocati presso comunità residenziali, ha disposto uno speciale protocollo per la gestione degli incontri liberi o in luogo neutro tra detti minori e le famiglie d’origine[23].

L’emergenza Covid-19 ha inoltre determinato un’accelerazione nell’informatizzazione dei procedimenti pendenti presso i Tribunali per i minorenni, ancora tragicamente arretrata sia in ambito penale che civile: molte autorità minorili hanno infatti istituito, sulla base dell’ODG 3292 dell’1.04.2020 del Consiglio Superiore della Magistratura, sia lo svolgimento delle udienze da remoto sia il deposito telematico a mezzo pec degli atti.

 

In conclusione

Emerge da questa breve sintesi come il Tribunale per i minorenni sia un’istituzione plasmata nel tentativo di fornire una più adeguata e rapida tutela per i giovani, onde evitare che gli stessi (in particolar modo per quanto riguarda la commissione dei reati) restino invischiati in meccanismi troppo lenti o non adatti alla loro personalità in formazione. Anche in situazioni peculiari e straordinarie come nell’emergenza Covid-19, le singole autorità giudiziarie minorili hanno cercato di non far venir meno l’attenzione necessaria ai procedimenti che vedono coinvolti i minorenni.

Il funzionamento di tale istituzione non è chiaramente privo di difetti: in particolare, il frequente sottodimensionamento delle strutture rispetto alla popolazione, rende spesso troppo lenti e macchinosi sistemi che invece dovrebbero garantire una rapida soluzione.

In ogni caso, l’importanza delle funzioni dei Tribunali minorili è innegabile, ed una eventuale futura loro soppressione dei – in favore di una sezione specializzata presso i Tribunali Ordinari – resta un’ipotesi molto critica e soggetta a non pochi dubbi.

Informazioni

Il processo penale minorile, linee guida-informative del Ministero della Giustizia, in giustizia.it, 1.03.2019

E. FALLETTI, Il principio di concentrazione delle tutele durante fase intermedia tra la separazione ed il divorzio, in Famiglia e Successioni, quotidianogiuridico.it, Wolters Kluwer, 11.08.2017

V. MURGOLO, La riforma della giustizia minorile e la soppressione del Tribunale per i Minorenni, diritto.it, 31.03.2017

C. RUGI, La decarcerazione minorile, 2000, in La rivista, ISSN 1827-0565, Pacini Giuridica Editore.

Relazione al Progetto Ferri, in Rivista di diritto penitenziario, 1934

Tribunale per i Minorenni di Palermo, prot. n. 608/2020 dell’11.03.2020

Tribunale per i Minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta del 23.03.2020.

Tribunale per i Minorenni di Roma, prot. n. 364 del 17.03.2020.

Tribunale per i Minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta: Disposizioni d’urgenza del 23.03.2020; ODS del 7.04.2020, ODS 13/20 del 17.04.2020, ODS n. 17/2020 del 24.04.2020, ODS 15/20, 16/20 e 18/20 dell’8.05.2020, ODS 21/20 del 15.05.2020.

Tribunale per i Minorenni di Palermo, prot. n. 608/2020 dell’11.03.2020.

Cass. Civ. Sez. VI-1, ordinanza n. 17190 del 12,07,2017.

[1] V. MURGOLO, La riforma della giustizia minorile e la soppressione del Tribunale per i Minorenni, diritto.it, 31.03.2017

[2] La Scuola Positiva, una corrente di pensiero sulla criminologia sviluppatasi in Italia alla fine dell’Ottocento, adottava una visione deterministica-soggettiva del reato, che iniziò ad essere considerato non più un fatto isolato espressione esclusiva della condizione individuale, bensì come il risultato di un insieme di fattori quali sì il soggetto e la sua condizione individuale, ma anche il suo comportamento inserito in un dato contesto sociale ed i condizionamenti di quest’ultimo. Enrico Ferri ne fu uno dei principali esponenti, ed il suo progetto di codice penale andò ad influenzare in modo significativo il Codice Rocco del 1930.

[3] Relazione al Progetto Ferri, in Rivista di diritto penitenziario, 1934, p.808, in V. MURGOLO, La riforma della giustizia minorile e la soppressione del Tribunale per i Minorenni, diritto.it, 31.03.2017.

[4] C. RUGI, La decarcerazione minorile, 2000, in La rivista, ISSN 1827-0565, Pacini Giuridica Editore.

[5] E. FALLETTI, Il principio di concentrazione delle tutele durante fase intermedia tra la separazione ed il divorzio, in Famiglia e Successioni, quotidianogiuridico.it, Wolters Kluwer, 11.08.2017; sul principio di concentrazione delle tutele vedi Cass. Civ. Sez. VI-1, ordinanza n. 17190 del 12,07,2017.

[6] Riferimento artt. 84 e 90 c.c., 38 disp. att. c.c.

[7] Riferimento artt. 330, 332, 333, 334, 335, 371 c.c., 38 disp. att. c.c.

[8] Riferimento art. 317bis c.c.

[9] Riferimento l. 184/1983

[10] Riferimento L. 47/2017 (c.d. Legge Zampa)

[11] Riferimenti normativi d.lgs. n. 24/14, d.p.c.m. n. 234/16, art. 19 d.lgs. 25/08, art. 8 d.p.r. n. 448/88

[12] Riferimento normativo DPR 448/1988 “Disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”

[13] Il processo penale minorile, linee guida-informative del Ministero della Giustizia, in giustizia.it, 1.03.2019.

[14] Ibidem.

[15] Tali principi sono gli stessi che regolano l’applicazione di misure del processo penale minorile come la messa in prova e il perdono giudiziale nel processo minorile, rispettivamente: http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/14/la-sospensione-del-processo-con-messa-alla-prova/ e http://www.dirittoconsenso.it/2020/02/18/il-perdono-giudiziale-nel-processo-penale-minorile/

[16] Primo ad utilizzare tale espressione il R.G. 1404/1934

[17] “Misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria”

[18] Art 2, comma 2, lett. g), n. 1) D.L. 11/2020.

[19] Ibidem

[20] Disposizioni d’urgenza per il Tribunale per i Minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta del 23.03.2020.

[21] Tribunale per i Minorenni di Roma, prot. n. 364 del 17.03.2020.

[22] Solo a titolo di esempio: Tribunale per i Minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta, ODS del 7.04.2020, ODS 13/20 del 17.04.2020, ODS n. 17/2020 del 24.04.2020, ODS 15/20, 16/20 e 18/20 dell’8.05.2020, ODS 21/20 del 15.05.2020.

[23] Tribunale per i Minorenni di Palermo, prot. n. 608/2020 dell’11.03.2020


Legge Cirinnà

Legge Cirinnà e successive conseguenze

Le lacune della legge Cirinnà e le questioni aperte di diritto di famiglia

 

La differenza tra matrimonio e Unioni Civili in Europa ed il traguardo della legge Cirinnà

Come ormai ampiamente risaputo, la legge 76/2016 (nota comunemente come legge Cirinnà) ha introdotto nell’ordinamento italiano l’istituto delle Unioni Civili. È stato così riconosciuto alle stesse una tutela che, seppur non identica a quella prevista per il matrimonio tradizionale, ha quantomeno fatto un passo nella direzione del riconoscimento della dignità e dei diritti delle persone omosessuali[1].

Limitandosi ad un’analisi europea, vediamo che alcuni paesi sono ormai giunti alla piena equiparazione dei due istituti, altri no, mentre altri neanche prevedono la nuova fattispecie.

La differenza tra “Unione Civile” e “Matrimonio” non è solo indiscussa ma esistente in tutt’Europa, varia da Stato a Stato e mette in luce le modalità e tempistiche con le quali le varie culture hanno affrontato – e più o meno accettato – i  legami tra persone dello stesso sesso[2].

Al gennaio 2020, in Europa il matrimonio omosessuale viene riconosciuto in 16 Stati[3] (il primo che opera in tal senso sono i Paesi Bassi, nel 2001), ai quali si aggiungono 11 Stati[4] (a partire dalla Danimarca già dal 1989) che riconoscono una qualche forma di Unione Civile.

 

La Legge Cirinnà in Italia

In Italia, la differenza tra i due istituti si fonda sul sottile concetto che il matrimonio sia basato sugli artt. 2 e 29 della Costituzione, mentre l’Unione Civile esclusivamente sull’art. 2. Questo, oltre all’utilizzo di termini differenti (riconoscimento per il matrimonio, istituzione per le Unioni Civili[5]) sancisce un divario per certi versi sottile, ma solido e ben visibile.

La disciplina del diritto di famiglia introdotta negli anni ’40 è stata sostanzialmente modificata con la l. 151/1975, rimanendo però anche a seguito di quest’ultima ancorata a retaggi patriarcali ed ormai desueti. Tutte le altre leggi-riforma che ci sono state (antecedenti come la legge introduttiva del divorzio[6] ma soprattutto successive quali le leggi 184/1983, 121/1985, 40/2004, e 54/2006[7]) hanno a poco a poco trasformato la fisionomia del nostro ordinamento in maniera frammentata e non organica.

Tale evoluzione passo dopo passo è in gran parte dovuta al sottofondo religioso cristiano-cattolico dell’Italia, che al di là di ogni opinione in merito è indubbiamente stato – ed è ancora, anche se con minor peso – elemento caratterizzante la cultura, la società e, inevitabilmente, il diritto.

Nell’ultimo ventennio, tuttavia, anche l’Italia si è dovuta adeguare.

Utilizzando come base di partenza la modifica dell’art. 117 Cost. avvenuta con la riforma del Titoli V (l. cost. 3/2001), la quale ha disposto un’interpretazione della legge non più solo letterale e logica, bensì anche adeguata al diritto vivente, oggi questa interpretazione deve essere costituzionalmente e comunitariamente orientata[8]. In tal senso, con la legge Cirinnà, anche l’Italia si è finalmente sintonizzata sulla centralità della persona umana respingendo ogni trattamento discriminatorio.

 

Lacune e disparità

Pur essendo un inizio, la legge Cirinnà non può sicuramente dirsi un testo completo ed organico.

Lasciando da parte le differenze con il matrimonio tradizionale, due altri elementi vengono in rilievo:

  • la sproporzione di disciplina tra Unioni Civili e convivenze more uxorio (siano esse omo o etero sessuali) e
  • le problematiche relative alla trascrizione-riconoscimento di Unioni Civili o matrimoni celebrati all’estero.

 

Rispetto al primo punto, sappiamo che la l. 76/2016 ha, per la prima volta, previsto entrambi gli istituti, introducendo tuttavia una disciplina ampia per le Unioni Civili ma scarna per le convivenze more uxorio.

Ed infatti il legislatore, probabilmente concentrato a distinguere in modo significativo le Unioni Civili dal matrimonio tradizionale, si è sostanzialmente disinteressato di rivedere e migliorare la disciplina delle convivenze, sottovalutando le esigenze sociali e di giustizia delle famiglie di fatto, nonostante il fenomeno riguardi almeno un milione di persone[9] (e nonostante la legge vi dedichi 34 dei 69 commi di cui si compone la legge).

Guardando il bicchiere mezzo pieno, sicuramente con la legge Cirinnà il legislatore ha compiuto un importante passo avanti, sancendo formalmente – e finalmente – quello che ormai dalla giurisprudenza aveva iniziato ad essere riconosciuto fin dagli anni ‘90[10]. Ad esempio, oggi il partner può essere nominato amministratore di sostegno o tutore dell’altro, fargli visita nei luoghi di ricovero ed esprimere opinioni sul trattamento terapeutico che lo riguarda. Il decesso di uno dei conviventi causato da un illecito altrui legittima l’altro convivente a chiedere il risarcimento danni. Il lavoro del partner nell’impresa dell’altro gli attribuisce il diritto di partecipare agli utili. In caso di decesso di uno, il partner superstite subentra nel contratto d’affitto e, se l’immobile era di proprietà del defunto, mantiene il diritto di abitazione per un periodo proporzionale alla durata della convivenza.

D’altro canto permangono numerose lacune: la qualifica di “formazione sociale” in senso proprio non è attribuita alle convivenze di fatto, tanto che non è delineato con norme inderogabili un quadro di diritti e dover reciproci, bensì la regolamentazione – per quanto possibile – è rimessa in modo prevalente alla libera scelta dei conviventi[11].

Vediamo infatti che in caso di cessazione del legame non è contemplata la corresponsione di un assegno di mantenimento per il convivente economicamente più debole, ma solo un diritto agli alimenti vincolato dallo stato di bisogno e parametrato al periodo di convivenza (a meno che non sia stato diversamente pattuito in un contratto di convivenza regolarmente registrato). I conviventi non devono essere legati da vincoli di parentela, affinità o adozione, ma non sono indicati i limiti di grado. Non è prevista in favore del convivente more uxorio la pensione di reversibilità, poiché il diritto a quest’ultima non è ricompreso nei diritti fondamentali della persona e quindi tale impossibilità non comporterebbe una discriminazione illegittima tra gli individui[12]. Addirittura se i conviventi risultano ancora vincolati da un precedente matrimonio o Unione Civile (anche nel caso in cui sia intervenuta separazione giudiziale o di fatto, ma non ancora il divorzio) la l. 76/2016 non garantisce alcuna tutela.

 

La legge Cirinnà in relazione al diritto internazionale privato

Rispetto invece alla questione di Unioni Civili o matrimoni omosessuali celebrati all’estero, che debbono poi essere riconosciuti e trascritti in Italia, il problema è ancora più complesso e si interseca con il diritto internazionale privato.

Fino al 2016 era bandita l’ipotesi di trascrizione di entrambi gli istituti, considerati addirittura contrari all’ordine pubblico italiano. In tal senso la legge Cirinnà costituisce un passo avanti notevole ma, compiendo un necessario coordinamento con la legge 218/1995[13] (che la l. 76/2016 è andata in tal senso a modificare) può essere interessante mettere in luce alcune distinzioni.

I matrimoni omosessuali celebrati all’estero restano tutt’ora non trascrivibili, o meglio possono essere trascritti ma con gli effetti di un’Unione Civile italiana[14], disposizione inserita per evitare il c.d. forum shopping, ovvero la migrazione verso altri Stati solo per poter contrarre matrimonio; le Unioni Civili vengono invece regolarmente trascritte come tali.

Rispetto al matrimonio tradizionale (e come accade, in realtà, anche per esso), ai sensi del diritto internazionale privato, la legge applicabile alla fattispecie può non essere sempre la stessa.  Per valutare la capacità delle parti ed i requisiti per contrarre l’Unione Civile verrà applicata la legge nazionale delle parti e, se le parti hanno diversa nazionalità o la loro legge nazionale non prevede l’Unione Civile, si applicherà la legge italiana.

Nel matrimonio tradizionale, invece, requisiti e capacità di ciascuna delle parti andranno valutate separatamente secondo la legge nazionale di ciascuno. Per la valutazione di validità di forma, sia per il matrimonio che per l’Unione Civile si applicherà il principio del favor validitatis ovvero la legge più favorevole tra quella di nazionalità comune, di nazionalità di almeno una parte o del luogo in cui è stata celebrata l’unione.

Per i rapporti patrimoniali tra le parti, il matrimonio prevede in prima battuta l’applicazione della legge del luogo in cui la vita matrimoniale è prevalentemente collocata, mentre l’Unione Civile predilige la legge del luogo di celebrazione della stessa e, solo in subordine e su richiesta delle parti, la legge del luogo in cui la vita di coppia è prevalentemente collocata[15]. Rispetto a quest’ultimo punto (rapporti patrimoniali) solo dal gennaio 2019 sono entrati in vigore i regolamenti UE 2016/1103 e 2016/1104, che prediligono sia per matrimoni che per Unioni Civili la libera scelta delle parti, ma di tutta evidenza ciò vale esclusivamente per i paesi dell’Unione Europea.

 

Lacune a rovescio

Paradossalmente, oltre alle evidenziate lacune che rendono la legge Cirinnà un testo da perfezionare, essa ha introdotto per le coppie omosessuali qualcosa in più rispetto ai diritti sanciti per le coppie eterosessuali. L’elemento più interessante è la scelta del cognome comune, che una parte può anteporre o posporre al proprio facendone dichiarazione all’ufficiale di stato civile[16].

Se, da un lato, tale previsione è andata a ribadire un principio tradizionale immanente nel nostro ordinamento, e cioè quello di funzione identificativa del nucleo familiare[17], dall’altro lato ha indubbiamente introdotto una facoltà che, per le donne in coppia eterosessuale, ancora non è prevista. A seguito della riforma del diritto di famiglia del 1975, se la moglie non è più tenuta ad assumere il cognome del marito, le è comunque esclusivamente “concesso” di mantenere il proprio. Quindi, laddove la coppia sia eterosessuale, la legge impone la determinazione del cognome di famiglia in antica chiave patriarcale, laddove invece la coppia sia omosessuale, la legge rinuncia ad imporre un criterio di individuazione e rimette la scelta alla volontà delle parti[18].

 

Considerazione finale

In conclusione, è possibile affermare che la legge Cirinnà non solo è stata un primo passo avanti per i diritti delle coppie omosessuali, ma ha anche aggiunto un ulteriore tassello alle critiche relative alla disciplina sul cognome coniugale e sul diritto di famiglia in generale, per molti aspetti ancora legato ad una società a stampo eccessivamente patriarcale. È auspicabile che le questioni rimaste aperte con la stessa possano portare a future nuove riforme nell’ottica di maggiore parità e diritti per tutti gli individui.

Informazioni

Famiglia e diritto – mensile di legislazione, dottrina e giurisprudenza – Wolters Kluwer Milano, n. 10/2016, da cui i seguenti articoli: V. CARBONE, Riconosciute le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze di fatto; M. TRIMARCHI, Unioni civili e convivenze; M. N. BUGETTI, Il cognome comune delle persone unite civilmente

G. Novelli, compendio di Diritto internazionale privato e processuale, XX edizione, Ed. Giuridiche Simone, Napoli, 2019;

http://www.dirittoconsenso.it/2019/01/11/le-unioni-civili/

euronews.com

[1] A tale proposito http://www.dirittoconsenso.it/2019/01/11/le-unioni-civili/

[2] euronews.com

[3] Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Islanda, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia e Regno Unito.

[4] Andorra, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Grecia, Ungheria, Italia, Liechtenstein, Slovenia e Svizzera

[5] Ibidem

[6] L. 898/1970 e s.m.i.

[7] Nell’ordine: legge in tema di adozione e affido (modificata con l. 149/2001), legge con cui venne modificata la disciplina del matrimonio concordatario, legge a regolamentazione della procreazione assistita e legge sull’affido condiviso.

[8] V. CARBONE, Riconosciute le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze di fatto, in Famiglia e Diritto n. 10/2016 pp.857-858.

[9] M. TRIMARCHI, Unioni civili e convivenze, in Famiglia e Diritto n. 10/2016, pp.861-862.

[10] La prima innovativa sentenza si identifica in Cass. Civ. 6381/1993, con la quale le convivenze di fatto sono state riconosciute non contrarie al buon costume.

[11] M. TRIMARCHI, Unioni civili e convivenze, in Famiglia e Diritto n. 10/2016, p. 862.

[12] Cass. Civ. Sez. lav. n. 22318/2016; di diverso avviso Corte d’Appello di Milano, sent. n. 1005/2018. Posta la completa lacuna della legge Cirinnà sul punto, la questione può dirsi ancora aperta ed in attesa di riforma o intervento chiarificatore delle Sezioni Unite.

[13] L. 31 maggio 1995, n. 218 “Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato”

[14] Cass. Civ., sez. I, sent. 11696/2018.

[15] G. NOVELLI, compendio di Diritto internazionale privato e processuale, XX edizione, Ed. Giuridiche Simone, Napoli, 2019.

[16] L. 76/2016, art. 1, comma 10.

[17] M.N. BUGETTI, Il cognome comune delle persone unite civilmente, in Famiglia e Diritto n. 10/2016, pp. 911.

[18] Ibidem, pp. 917-918.