Il rent to buy nell'ordinamento italiano
Funzioni ed applicazioni del rent to buy, un istituto contrattuale “d’importazione”
Cos’è il rent to buy?
Il rent to buy è un modo d’acquisto della proprietà a titolo derivativo di recente introduzione nel nostro ordinamento. Questo permette al conduttore di iniziare a godere del bene immobile sin da subito dandogli la possibilità di scegliere in un secondo momento se acquistare definitivamente il bene.
Disciplina normativa del rent to buy
Si tratta di uno schema contrattuale nato dalla prassi economica, specialmente statunitense, delle compravendite immobiliari, che il legislatore ha tipizzato col cosiddetto Decreto Sblocca Italia (Decreto Legge n. 133/2014, convertito in Legge n. 164/2014). In particolare, l’art. 23 del Decreto Sblocca Italia riconosce e disciplina questo istituto, rubricandolo “Contratto di godimento in funzione della successiva alienazione di immobili”.
L’origine legislativa ci dà un indizio sulla funzione cui, nell’ottica del legislatore, questo tipo di contratto dovrebbe assolvere. Infatti, questa modalità d’acquisto risponde all’esigenza di sbloccare il mercato immobiliare, che più di altri settori economici ha risentito della crisi economica globale dei primi anni ’10. A questa già critica situazione che il mercato immobiliare porta sulle spalle si aggiunge l’attuale crisi economica e del mercato del lavoro dovuta alla pandemia da Covid-19, che rende estremamente gravoso per i privati e per le imprese programmare acquisti di immobili residenziali o aziendali a causa di una fisiologica incertezza sulla congiuntura economica ventura e dell’ormai patologica precarietà degli impieghi lavorativi.
Inoltre, la disposizione normativa che disciplina il rent to buy, trovandosi nel capo V del Decreto recante “Misure per il rilancio dell’edilizia”, suggerisce lo stretto legame tra questa fattispecie giuridica e le finalità economiche di ripresa e di semplificazione, ed evidenzia la volontà del legislatore di mettere nelle mani degli imprenditori uno strumento di leva degli investimenti che prescinda dall’indebitamento, vista anche la difficoltà di accesso al credito bancario.[1]
Il rent to buy, in quest’ottica di rilancio del mattone, potrebbe permettere principalmente di superare l’ostacolo economico dell’assenza, o insufficienza, del capitale iniziale, ma questo dato risulterà più chiaro andando ad analizzare la struttura normativa del contratto.
Gli effetti della trascrizione del contratto
Prima che il rent to buy fosse tipizzato e disciplinato dal legislatore come figura contrattuale autonoma, gli operatori economici raggiungevano gli stessi risultati stipulando due contratti collegati: un contratto preliminare di compravendita ed un contratto locazione. Ovviamente questo schema negoziale può essere astrattamente soggetto a maggiori incertezze[2] riguardo la sua efficacia nel tempo, e non dà adeguate garanzie alle parti, proprio perché originato esclusivamente dell’autonomia contrattuale dei privati senza che vi sia alcuna previsione legislativa generale.
Il futuro acquirente per avere maggiore tutela contro eventuali alienazioni del promittente alienante durante il periodo di locazione pattuito, trascrive il contratto preliminare ai sensi dell’art. 2645-bis del codice civile, ottenendo effetti di pubblicità dichiarativa che mettono al riparo da trascrizioni successive da parte di terzi il suo diritto obbligatorio all’acquisto dell’immobile. Tuttavia, il comma 3 dell’art. 2645-bis stabilisce che “gli effetti della trascrizione del contratto preliminare cessano e si considerano come mai prodotti se entro un anno dalla data convenuta tra le parti per la conclusione del contratto definitivo, e in ogni caso entro tre anni dalla trascrizione predetta, non sia eseguita la trascrizione del contratto definitivo o di altro atto che costituisca comunque esecuzione del contratto preliminare”. Il legislatore del 2014, così, corregge il limite temporale triennale elevandolo a tutta la durata del contratto, o comunque ad un periodo non superiore a dieci anni, come si evince dal comma 3 dell’art. 23 del Decreto.
Anche per questo la previsione del contratto di godimento in funzione della successiva alienazione di immobili è stata accolta con favore dagli operatori, e gode di un utilizzo via via crescente nel mondo degli affari invece della prassi contrattualistica dei contratti collegati.
La fonte contrattuale
Il rent to buy, come disciplinato dal dl 133/2014, nasce dall’incontro di volontà tra un concedente, che concede in godimento appunto l’immobile in vista di una futura cessione definitiva, ed un conduttore, che inizia a godere del bene a fronte di un corrispettivo dovuto al concedente. Il legislatore è volutamente vago nell’indicazione del nomen delle parti contrattuali proprio perché vuole evitare di avvicinare questa fattispecie contrattuale ad altri tipi già presenti nell’ordinamento, valorizzando massimamente la volontà dei contraenti[3].
Innanzitutto, le parti concordano un canone che il conduttore versa nei confronti del concedente sia a titolo di canone di locazione (come avviene tipicamente in un normale contratto di locazione), sia come anticipo sul prezzo finale di vendita dell’immobile concordato nello stesso contratto. Le parti quindi dovranno specificare all’interno del contratto in che misura vengono ripartite le due diverse componenti del canone: quella destinata alla remunerazione del godimento dell’immobile e quella da imputare al prezzo finale nel caso in cui il conduttore decida di esercitare il suo diritto all’acquisto.
La disciplina del godimento
Una volta che le parti hanno pattuito questa particolare forma di locazione in funzione della successiva alienazione, bisogna analizzare le norme che disciplinano il periodo di godimento fino alla decisione finale del conduttore. In merito il dl 133/2014 richiama le norme civilistiche contenuti negli articoli 1002 e seguenti, che regolano l’usufrutto.
Innanzitutto, quindi, il conduttore riceve in godimento l’immobile nello stato in cui si trova, ma, sebbene sia previsto dalla norma codicistica, può essere dispensato dall’onere di compilare l’inventario dei beni.
Le spese relative alla gestione ed al mantenimento dell’immobile sono ripartite tra concedente e conduttore secondo lo schema classico dell’usufrutto ex art. 1004 del codice civile: la manutenzione e l’amministrazione ordinarie gravano in capo al conduttore, mentre gli oneri economici per le spese straordinarie incombono sul concedente, che ancora risulta proprietario dell’immobile.
Può avvenire, però, che le riparazioni risultino necessarie a causa di un inadempimento degli obblighi di ordinaria manutenzione da parte del conduttore, ed in questo caso la norma stabilisce che le spese siano a carico dello stesso. Riguardo l’interpretazione delle fattispecie di riparazioni ordinarie e straordinarie, il successivo articolo 1005 del codice civile chiarisce che “riparazioni straordinarie sono quelle necessarie ad assicurare la stabilità dei muri maestri e delle volte, la sostituzione delle travi, il rinnovamento, per intero o per una parte notevole, dei tetti, solai, scale, argini, acquedotti, muri di sostegno o di cinta”. Si tratta, però, di un elenco non tassativo per cui sono ricomprese tra le spese straordinarie anche gli interventi su parti strutturali degli edifici, e quelli per la sostituzione degli impianti di dotazione (impianto elettrico, idraulico, di riscaldamento, altro)[4].
Vista la particolare natura di questo tipo contrattuale, che vede come parti un proprietario attuale e un proprietario in divenire, il soggetto incaricato dalla legge nel concedente potrebbe rifiutarsi di sostenere le spese. In questo caso, richiamando la lettera dell’art. 1006 del codice civile, il conduttore ha facoltà di anticipare il prezzo delle spese di riparazione, salvo un eventuale rimborso successivo da parte del proprietario-concedente.
La fase finale del rapporto
Il decorso fisiologico del rent to buy, come suggerito dalla stessa locuzione, prevede l’acquisto finale del bene da parte del conduttore. Quest’ultimo, alla scadenza del periodo di godimento del bene indicato nel contratto, manifesta nuovamente la volontà contrattuale all’acquisto del bene, adempiendo all’obbligazione di pagamento nascente dal contratto originale. Dunque, per quanto riguarda il consenso delle parti il meccanismo alla base del rent to buy non prevede un trasferimento automatico dei diritti sulla proprietà del bene man mano che vengono pagati i canoni, ma risulta necessaria una nuova manifestazione della volontà del conduttore di acquistare definitivamente il bene[5]. Nel momento in cui il conduttore esercita il diritto all’acquisto, si impegna ad adempiere ad una obbligazione pecuniaria nei confronti del concedente, quantificata al netto dei canoni di locazione già precedentemente corrisposti a titolo di acquisto dell’immobile nella misura stabilita ab origine nel contratto.
Qualora il conduttore scelga di avvalersi del diritto all’acquisto, potrebbe però trovarsi davanti al rifiuto del concedente a procedere alla vendita dell’immobile. In questo caso, a fronte dell’inadempimento del concedente, il conduttore ha tre soluzioni:
- richiedere giudizialmente l’adempimento in forma specifica previsto dall’art. 2931 del codice civile per gli obblighi di fare,
- ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso come prescritto nell’art. 2932 del codice civile, o infine
- conseguire la risoluzione del contratto a seguito di inadempimento di non scarsa importanza.
Quale che sia la scelta del conduttore, avrà comunque diritto anche ad un risarcimento del danno da parte del concedente inadempiente.
In ogni caso, per quanto riguarda la fine del rapporto contrattuale, il concedente è tenuto a restituire al conduttore i canoni pagati sino a quel momento per la parte imputata alla vendita, maggiorati degli interessi legali.
Al contrario, potrebbe verificarsi l’ipotesi del conduttore che, al termine del periodo di locazione, decida di non esercitare il diritto all’acquisto. In questo caso, innanzitutto, sarà cessato ogni effetto del contratto tra le parti; il concedente avrà diritto alla riconsegna immediata dell’immobile ed a trattenere i canoni corrisposti dal conduttore sia a titolo di utilizzo in godimento, sia nella misura stabilita dal contratto per l’imputazione del prezzo finale d’acquisto; quest’ultima somma viene percepita dal concedente a titolo di indennità risarcitoria per il danno derivante dal mancato esercizio del diritto d’acquisto del conduttore.
Informazioni
V. Cuffaro, Oltre la locazione: il rent to buy, nuovo contratto per l’acquisto di immobili, in Corriere giuridico 1/2015:
M. Bianca, La vendita con riserva di proprietà quale alternativa al rent to buy, in Riv. dir. civ., 2015
A. Torroni, La vendita a rate con patto di riservato dominio. Alla riscoperta di un istituto antico ma sorprendentemente efficiente, in Rivista del Notariato 3/2019
[1] V. Cuffaro, “Oltre la locazione: il rent to buy, nuovo contratto per l’acquisto di immobili”, in Corriere giuridico 1/2015
[2] Sui rischi legati agli effetti prenotativi negli acquisti online si veda anche: http://www.dirittoconsenso.it/2020/09/22/siti-web-buy-and-share/
[3] V. Cuffaro, “Oltre la locazione: il rent to buy, nuovo contratto per l’acquisto di immobili”, in Corriere giuridico 1/2015
[4] Corte di Cassazione sentenza n. 27540/2013
[5] M. Bianca, La vendita con riserva di proprietà quale alternativa al rent to buy, in Riv. dir. civ., 2015
La sospensione del 5G: tra precauzione e concorrenza del mercato
La sospensione del 5G pone interrogativi al diritto e alla politica. Tra incertezze e criticità della tecnologia
Introduzione al 5G: sospeso dalle ordinanze comunali
Con un’ordinanza sindacale dell’ottobre 2019[1] il comune di San Lazzaro di Savena (BO) ha stabilito il blocco dell’installazione di antenne per la ricezione della nuova rete 5G. Cosa ha motivato la sospensione del 5G?
Alla base della decisione della sindaca vi è l’individuazione di potenziali rischi per la salute, o quantomeno l’assenza di certezza circa la sicurezza della suddetta tecnologia, motivi che hanno poi portato alla sospensione del 5G.
Quello di San Lazzaro di Savena non è un caso isolato.
Diverse amministrazioni su tutto il territorio italiano infatti hanno preso provvedimenti di eguale tenore, come i comuni di Vicenza[2] (ordinanza poi revocata), Messina[3], Pistoia[4]. In altri casi ancora è stato richiesto di sospendere le installazioni di antenne 5G fintanto che non vengano emanati regolamenti comunali ad hoc. Queste ordinanze hanno dato il via ad una battaglia legale sulla sospensione del 5G nei Tribunali Amministrativi Regionali tra gli operatori telefonici e le amministrazioni comunali che, finora, sembra dare ragioni ai primi[5].
Di fatti queste limitazioni portano a parlare oggi di 5G sospeso, con una significativa incognita sui passaggi futuri.
Il principio di precauzione per la sospensione del 5G
Le amministrazioni hanno ancorato i provvedimenti di sospensione del 5G al principio di precauzione. Si tratta di un istituto che legittima il legislatore, o le amministrazioni locali, ad adottare provvedimenti restrittivi dell’iniziativa economica privata anche in presenza di situazioni di rischio non ancora accertate dalla scienza.
Il principio di precauzione nasce nell’alveo del diritto comunitario ed è previsto dall’art. 191 TFUE, il quale afferma che la tutela ambientale è fondata sui principi della precauzione e della prevenzione, nonché sul principio del “chi inquina paga”. Di eguale tenore è il Principio 15 della Dichiarazione di Rio del 1992, stilata nell’ambito della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo[6].
Queste indicazioni sono state tradotte dal legislatore nazionale nel corposo D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, che all’art. 3-ter contiene un’importante norma da considerarsi programmatica per l’azione politica in materia ambientale delle assemblee legislative e delle amministrazioni[7].
L’applicazione del principio di precauzione porta alla necessità di realizzare un accorto bilanciamento costituzionale tra il diritto alla salute ed il diritto alla libera iniziativa economica.
Nel caso specifico, le ordinanze sindacali o comunali di sospensione del 5G delle varie amministrazioni hanno considerato preminente la tutela della salute e dell’integrità fisica da potenziali danni legati allo sviluppo delle infrastrutture di telecomunicazione sulle ragioni delle imprese operanti nel settore legate, invece, alla libera iniziativa economica. Si configura così un conflitto tra principi di pari rango, entrambi costituzionalmente tutelati (la salute all’art. 32 della Costituzione, e la libera iniziativa economica all’art. 41 della Costituzione).
Secondo la lettura data dalla Consulta, in casi simili possono senza dubbio ritenersi tutelati come valori primari i beni giuridici della salute e dell’ambiente, ed in quanto tali non suscettibili di essere subordinati alla realizzazione di altri interessi (pur costituzionalmente tutelati)[8]. Questa lettura del giudice delle leggi è ben ancorata al dato letterale dell’articolo 41 della Costituzione, dove, al secondo comma, si legge che “[l’iniziativa economica privata] non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”[9].
Il rischio incerto del 5G
Tuttavia, la materia del principio di precauzione è molto incerta nell’individuazione delle situazioni di rischio potenziale che possono legittimare l’impiego di questo istituto nei casi concreti.
È stata la giurisprudenza della Corte di Giustizia a definire le soglie di intervento del principio di precauzione nei casi in cui si riscontrino rischi incerti di un danno grave alla salute delle persone o all’ambiente, secondo studi scientifici seri ed attendibili[10].
In relazione a queste evidenze scientifiche, quindi, sorge un onere nei confronti delle autorità pubbliche competenti di adottare misure proporzionate, adeguate e provvisorie. Tali misure, secondo la giurisprudenza europea, devono:
- tenere conto dell’entità e della gravità del rischio,
- essere idonee ad incidere sul rischio, riducendolo, e, infine,
- essere modificabili (o revocabili) alla luce delle successive evoluzioni scientifiche[11].
Nel caso di specie la letteratura scientifica non ha finora evidenziato rischi potenziali per la salute umana. Innanzitutto, la IARC ha classificato i campi elettromagnetici di radiofrequenza come “possibilmente cancerogeni per gli esseri umani” (gruppo 2B), e non come “probabilmente cancerogeni per gli esseri umani” (gruppo 2A), né tantomeno come “cancerogeni per l’uomo” (gruppo 1)[12]. Ciò induce a chiedersi se ci sia la necessità, nel nostro caso, di adottare già in questa fase provvedimenti di sospensione del 5G.
Nello specifico, il 5G in sé non si serve di segnali elettromagnetici di intensità tale da comportare aumenti significativi dei rischi per la salute umana[13]. Inoltre, la severità della normativa italiana sull’installazione degli impianti di telecomunicazione[14], più restrittiva rispetto agli standard internazionali per la protezione dagli effetti termici, non induce a creare allarmismi riguardo la temuta diffusione selvaggia delle antenne 5G nelle nostre città.
Certamente c’è da rilevare, dall’altro lato, che lo sviluppo della rete 5G richiede un numero maggiore di small cells, le quali sono, però, dotate di una potenza di emissione significativamente più bassa delle attuali macrocelle. Una potenza che secondo gli attuali studi non consente neppure la penetrazione di onde elettromagnetiche all’interno del corpo[15].
Le delibere e gli ostacoli alla concorrenza
Di recente anche l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha preso una posizione netta sulla vicenda delle ordinanze di sospensione del 5G[16]. Nell’adunanza del 28 luglio 2020, infatti, l’Autorità ha deliberato l’invio di una segnalazione alla Conferenza delle Regioni e delle Provincie Autonome ed alla Associazione Nazionale dei Comuni Italiani in merito agli ostacoli all’installazione di apparecchiature per la ricezione del segnale 5G rappresentati dalle varie ordinanze dei comuni sul territorio nazionale.
Secondo l’opinione dell’authority questi atti di sospensione del 5G da parte dei comuni costituisce una violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, tanto più di quelle che riguardano le procedure di installazione di frequenze. Infatti, il Codice delle comunicazioni elettroniche[17], emanato in attuazione della Direttiva 2014/61/UE, ha tra le sue finalità programmatiche l’attuazione di politiche volte ad abbattere i costi legati all’installazione delle infrastrutture in modo tale da garantire le migliori condizioni di mercato per i players delle telecomunicazioni e di incentivare la creazione di nuove imprese nel settore, con grande vantaggio per la concorrenzialità del mercato e per le condizioni di utilizzo dei consumatori. Per raggiungere tali obiettivi la Direttiva evidenzia l’esigenza di predisporre una corretta pianificazione urbana, e, soprattutto, la necessità di abbattere gli oneri burocratici amministrativi.
Inoltre, gli atti di sospensione del 5G o di blocco delle installazioni di impianti di telecomunicazione, incrementando gli oneri economici a carico delle imprese, creano un duplice effettivo negativo:
- da un lato determinano una intollerabile discriminazione legata alla capacità di sopportazione dell’incremento dei costi tra operatori cosiddetti incumbent e nuovi operatori nativi 5G,
- dall’altro comportano una diminuzione dei livelli di qualità dei servizi erogati ai consumatori ed alle imprese.
Ciò produce non solo una lesione del principio della libera concorrenza tra imprese, come detto, ma anche una lesione della libertà di stabilimento (artt. 49-55 TFUE) e del principio di libera prestazione dei servizi (artt. 56-62 TFUE).
Va segnalata, comunque, la possibilità che l’Antitrust decida di passare dalle parole ai fatti e agisca in giudizio contro le amministrazioni comunali (come previsto dall’art. 21-bis della legge 287/1990), aggiungendo un altro capitolo alla nascente querelle giudiziaria sulla sospensione del 5G che finora ha visto protagonisti i comuni e gli operatori telefonici.[18]
Conflitti di attribuzione sulle delibere
Il principio di precauzione, come visto, può essere applicato qualora si ritenga opportuno evitare l’insorgere di potenziali rischi per la salute delle persone, e, infatti, questa è la motivazione di fondo che accomuna la gran parte delle ordinanze di sospensione del 5G.
Tuttavia, a proposito di ciò, la legge 22 febbraio 2001, n. 36 è chiara nel definire le competenze spettanti allo Stato, alle regioni ed alle amministrazioni. Innanzitutto, è lo Stato ad esercitare le funzioni relative:
“a) alla determinazione dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità […];
b) alla promozione di attività di ricerca e di sperimentazione tecnico-scientifica, nonché al coordinamento dell’attività di raccolta, di elaborazione e di diffusione dei dati […] ;
f) alla realizzazione di accordi di programma al fine di promuovere tecnologie e tecniche di costruzione degli impianti che consentano di minimizzare le emissioni nell’ambiente e di tutelare il paesaggio.” [19]
Sempre secondo la legge Quadro, la competenza sull’individuazione dei siti di trasmissione e degli impianti appartiene alle regioni, che stabiliscono anche le modalità per il rilascio delle autorizzazioni alla installazione degli stessi, in conformità a criteri di semplificazione amministrativa, tenendo conto dei campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici preesistenti[20].
Per quanto riguarda le competenze dei comuni in materia, questi possono semplicemente “adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici”[21].
Questa ripartizione delle competenze è stata ulteriormente ribadita dal recente Decreto Semplificazioni in cui si chiarisce che:
“i comuni possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici con riferimento a siti sensibili individuati in modo specifico”,
ma sottolinea che è esclusa la
“possibilità di introdurre limitazioni alla localizzazione in aree generalizzate del territorio di stazioni radio base per reti di comunicazioni elettroniche di qualsiasi tipologia” e “di incidere, anche in via indiretta o mediante provvedimenti contingibili e urgenti, sui limiti di esposizione a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, sui valori di attenzione e sugli obiettivi di qualità, riservati allo Stato ai sensi dell’articolo 4”.
D’altra parte, la Corte Costituzionale, con le sentenze nn. 331/2003 e 307/2003 ha precisato che gli interventi delle amministrazioni comunali volti alla riduzione dell’esposizione ai campi elettromagnetici sono illegittimi in quanto la tutela della salute pubblica non rientra tra le attribuzioni degli enti locali, ma appartiene alla competenza dello Stato centrale.
Conclusioni sulla sospensione del 5G
La quantità di studi finora condotti e la concordanza delle risultanze scientifiche da parte di organi pubblici sia nazionali che internazionali non sembrano giustificare il ricorso al principio di precauzione per la sospensione del 5G, anche (e soprattutto) tenendo conto dei requisiti individuati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea di cui si è dato precedentemente conto. L’applicazione del principio di precauzione, come visto, comporta il sacrificio di diritti economici costituzionalmente ed internazionalmente tutelati (la libertà di stabilimento, la tutela della libera concorrenza), e pertanto va maneggiato con estrema cautela, utilizzato solo laddove vi sia un reale rischio per la salute umana, suffragato da studi scientifici seri e attendibili (come stabilito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea).
La gestione spensierata delle questioni di diritto da parte degli organismi politici ha portato nel passato ad un (evitabile) incremento delle liti giudiziali tra le amministrazioni e i privati, spesso con grande nocumento per le casse dello Stato in seguito alle pronunce sfavorevoli dei tribunali. L’auspicio è che le amministrazioni comunali, anche alla luce della presa di posizione del Governo nel d.l. Semplificazioni, evitino di ingaggiare una battaglia legale sull’attribuzione dei poteri che coinvolgerebbe di conseguenza la Corte Costituzionale, dal momento che ciò comporterebbe gravi ritardi al già accidentato cammino verso l’ammodernamento delle infrastrutture italiane.
Informazioni
BRANCATI, B., Il bilanciamento tra diritti sociali e libertà economiche in Europa, Corte Costituzionale, Servizio studi, 2015
COMANDÉ G., La responsabilità civile per danno da prodotto difettoso… assunta con “precauzione”, in Danno e responsabilità, 2013, fasc. I, p. 107-112
GIURICKOVIC DATO, A., Il bilanciamento tra principi costituzionali e la nuova dialettica tra interessi alla luce della riforma Madia. Riflessioni in margine al ‘caso Ilva’, in Federalismi.it, 2019, fasc. 12
INTERNATIONAL AGENCY FOR RESEARCH ON CANCER (IARC), IARC Monographs Questions and Answers, 2015: https://www.iarc.fr/wp-content/uploads/2018/07/Monographs-QA.pdf
IPPOLITI MARTINI, C., Gestione del servizio idrico e responsabilità civile della P.A. tra precauzione, prevenzione e risarcimento, in Contratto e Impresa, 2016, fasc. 3, p. 663-674
MONTINARO, R., Dubbio scientifico, precauzione e danno da prodotto, in La Responsabilità civile, 2012, fasc. 11, p. 725-738
PAMELIN. D., Il difficile bilanciamento tra diritto alla salute e libertà economiche: i casi ILVA e TEXACO-CHEVRON, in Costituzionalismo.it, 2017, fasc. 2
PARLAMENTO EUROPEO, Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi, [online], PE, https://www.europarl.europa.eu/ftu/pdf/it/FTU_2.1.4.pdf
POLICHETTI, A., Emissioni elettromagnetiche del 5g e rischi per la salute, Centro Nazionale per la Protezione dalle Radiazioni e Fisica Computazionale, Istituto Superiore di Sanità, Roma, 2020.
[1] Ordinanza sindacale n. 3 del 07/02/2020
[2] Ordinanza contingibile ed urgente n. 3173 del 04/05/2020
[3] Ordinanza sindacale n. 133 del 27/04/2020
[4] Ordinanza sindacale n. 390 del 16/05/2020
[5] Ordinanze del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania, nn. 549/2020, 551/2020, 566/2020
[6] “Al fine di proteggere l’ambiente, gli Stati applicheranno largamente, secondo le loro capacità, il Principio di precauzione. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di certezza scientifica assoluta non deve servire da pretesto per differire l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale”
[7] “La tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché al principio «chi inquina paga» che, ai sensi dell’articolo 174, comma 2, del Trattato delle unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale.”
[8] Corte Costituzionale sentenza n. 85/2013
[9] Sulla tutela della vita e della dignità nella Costituzione italiana: http://www.dirittoconsenso.it/2020/08/04/diritto-alla-vita-e-tutela-della-dignita/
[10] CGUE 9 settembre 2013 (causa C-236/01)
[11] CGUE 1 aprile 2004 (causa C-286/02)
[12] https://www.iarc.fr/wp-content/uploads/2018/07/Monographs-QA.pdf
[13] A. Polichetti, Emissioni elettromagnetiche del 5g e rischi per la salute, Centro Nazionale per la Protezione dalle Radiazioni e Fisica Computazionale, Istituto Superiore di Sanità, Roma, 2020. Le stesse conclusioni sono state riportate in un’audizione presso la IX Commissione permanente (Trasporti, poste e telecomunicazioni) della Camera dei Deputati in data 26 febbraio 2019.
[14] L. 22 febbraio 2001, n. 36, Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, in G.U. del 7 marzo 2001, n. 55
[15] A. Polichetti, Emissioni elettromagnetiche del 5g e rischi per la salute, Centro Nazionale per la Protezione dalle Radiazioni e Fisica Computazionale, Istituto Superiore di Sanità, Roma, 2020: http://old.iss.it/binary/elet/cont/5G_e_rischi_per_la_salute.pdf
[16] AS1691 – Ostacoli all’installazione di impianti di telecomunicazione in tecnologia wireless 5G, in Bollettino n. 33/2020
[17] D.Lgs. 1° agosto 2003, n. 259, Codice delle comunicazioni elettroniche, in G.U del 15 settembre 2003, n. 214
[18] Sui poteri dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato: http://www.dirittoconsenso.it/2018/11/08/antitrust-cosa-fa/
[19] Art. 4 della l. 22 febbraio 2001, n. 36, Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, in G.U. del 7 marzo 2001, n. 55
[20] Art. 8 (commi 1-5) della l. 22 febbraio 2001, n. 36, Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, in G.U. del 7 marzo 2001, n. 55
[21] Art. 8 (comma 6) della l. 22 febbraio 2001, n. 36, Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, in G.U. del 7 marzo 2001, n. 55
La politica dell'Antitrust ai tempi del Covid-19
Come si approccerà l’Antitrust alle novità del mondo dell’impresa e della produzione derivanti dalla pandemia del Covid-19?
Economia, pandemia e Antitrust
Il Covid-19 ha messo in ginocchio l’economia mondiale, questo è risaputo, tanto da determinare una contrazione del PIL mondiale pari al 3% secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale. Il lockdown ha comportato il blocco di intere filiere produttive, con effetti a cascata che coinvolgono i produttori di beni e i loro fornitori, gli intermediari commerciali e i rivenditori[1]. Da qui nasce l’esigenza, da parte degli organismi di governo nazionali ed internazionali, come l’Antitrust italiano, di fornire risposte alla crisi delle imprese, sia in funzione di tutela dell’economia e dei posti di lavoro, sia in funzione di garantire l’approvvigionamento di prodotti di cui è esponenzialmente cresciuta la domanda in questi mesi, come i dispositivi di protezione individuale[2].
La comunicazione del 24 aprile 2020
Le imprese, dunque, per fronteggiare questo improvviso e forzato stravolgimento del sistema produttivo, in alcuni casi hanno optato per una collaborazione più stretta, al fine di garantire la continuità della produzione.
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, presa coscienza di queste intese tra le imprese, in data 24 aprile 2020 ha diramato una comunicazione[3] tramite cui riconosce, da un lato, la straordinarietà della situazione venutasi a creare a seguito della pandemia, e dell’altro la necessità per le imprese di cooperare al fine di garantire la fornitura di beni e servizi in molti casi indispensabili per la collettività. Di conseguenza comunica l’intenzione di non intervenire nei confronti di “misure necessarie, temporanee e proporzionate, adottate per scongiurare la scarsità delle forniture”, in linea con l’analoga comunicazione precedente della Commissione Europea.
In via generale alcune fattispecie di collaborazione tra imprese potrebbero violare le disposizioni dell’art. 2 della legge 10 ottobre 1990 N. 287, che vieta le intese restrittive della libertà di concorrenza.
Le imprese, infatti, non sono libere, ad esempio, di fissare i prezzi d’acquisto dei beni o ripartire tra loro i mercati e le fonti di approvvigionamento per mezzo di accordi; ciò costituirebbe evidentemente una artificiosa modificazione del gioco libera concorrenza in un mercato nazionale o internazionale. La norma in questione riproduce il disposto dell’art. 101 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, che è la fonte giuridica di riferimento di tutte le discipline nazionali in tema di concorrenza e libero mercato.
Nello stesso articolo, però, al paragrafo 3 si ritrova la possibilità di deroga a tali disposizioni per le intese “che contribuiscano a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico”, sempre nei limiti del raggiungimento di tali finalità (come riporta anche la comunicazione dell’antitrust nazionale).
In merito alla possibilità di deroga contenuta nel paragrafo 3 dell’art. 101 TFUE, l’art. 4 della legge 287/1990 è ancora più esaustivo, ed allarga la derogabilità anche ai miglioramenti delle condizioni di mercato in grado di fornire un beneficio ai consumatori, di garantire una migliore concorrenza nel mercato internazionale, o di veicolare un potenziamento in termini quantitativi e qualitativi della produzione di beni.
In questo preciso momento, ad esempio, le imprese del settore medico-sanitario si trovano nella condizione di dover fronteggiare una domanda di beni, come mascherine ed altri dispositivi medici, che si è accresciuta in maniera esponenziale; ciò ha messo in seria difficoltà i diversi produttori che hanno messo in comuni i loro sforzi per riuscire a mantenere un livello di produzione e fornitura adeguato alla domanda attuale.
L’altro problema rilevante che potrebbe nascere dalla collaborazione tra le imprese riguarda la comunicazione e lo scambio di informazioni protette. Il trattamento dei dati sensibili[4] di un’impresa coinvolge numerose discipline normative: dalla protezione dei dati in senso stretto (a norma del nuovo GDPR), alla tutela dei brevetti e dell’originalità dei processi produttivi delle aziende.
Vista l’elevata delicatezza della materia dei dati, soprattutto se rapportata al mondo dell’impresa, e vista la facilità delle occasioni in cui si potrebbe incorrere nella violazione di tali norme, l’AGCM nella sua comunicazione mostra l’intenzione di valutare situazioni problematiche di scambio d’informazioni in maniera più flessibile, a condizione che sia effettivamente necessario, proporzionale al suo fine e circoscritto nel tempo.
Le comfort letters
Di notevole interesse, poi, è il riferimento alle comfort letters, che l’Agenzia si riserva di utilizzare per le comunicazioni da rivolgere alle imprese per dare il proprio responso sulle singole fattispecie di intese.
Ai sensi dell’art. 13 della legge 287/1990 “le imprese possono comunicare all’Autorità le intese intercorse. Se l’Autorità non avvia l’istruttoria di cui all’art. 14 entro centoventi giorni dalla comunicazione non può più procedere a detta istruttoria, fatto il caso di comunicazioni incomplete e non veritiere”.
Dalla lettura della norma risulta subito evidente che il legislatore incoraggia lo scambio di comunicazioni tra autority ed imprese, in un’ottica di prevenzione di situazioni illegittime per le imprese, e con lo scopo ulteriore di comporre eventuali conflitti con la normativa vigente in una fase pre-giudiziale.
A tale fine spesso l’Agenzia si serve delle cosiddette comfort letters amministrative. Si tratta di uno strumento piuttosto recente, mutuato dal mondo degli affari e dell’impresa privata; nel nostro ordinamento ha trovato ampio margine di utilizzo dapprima in sede europea e poi anche dalle autorità nazionali. Sostanzialmente le comfort letters sono delle comunicazioni che l’Antitrust indirizza alle imprese che ne richiedono il parere, per mezzo della procedura di cui all’art. 13 della legge sulla concorrenza. Non sono propriamente degli atti formali, né tanto meno possiedono i crismi della pubblicità e della trasparenza che dovrebbero essere propri di qualsiasi atto amministrativo, ivi compresi quelli che originano dalle autorità amministrative indipendenti.
D’altra parte, sono strumenti molto utilizzati nella prassi per via della loro rapidità e della loro flessibilità nel procedimento di emanazione. Bisogna considerare, infatti, il peculiare ambito d’applicazione delle letters of comfort, che assolvono ad una forma di comunicazione diretta alla singola situazione presentata all’autority, per mezzo delle quali viene dato un responso non ufficiale alla domanda dell’impresa. Tanto è vero che queste non possono vincolare i giudici nell’esercizio del potere giurisdizionale, sebbene spesso fungano da fattore (quasi) determinante nel processo logico di libero convincimento del giudice.
È bene precisare, però, che l’Antitrust circoscrive l’utilizzo delle comfort letters alla sola applicazione della normativa italiana antitrust (definita come detto nella legge N. 287/1990), per rispondere a situazioni che richiedono un particolare carattere di tempestività nella decisione in questo frangente storico. L’utilizzo di questa forma di comunicazione leggera e celere richiede una sufficiente definizione del quadro presentato dalle imprese, ed in ogni caso deriverà da una valutazione discrezionale dell’Autorità per i soli casi che presentino questi requisiti.
Informazioni
Diritto Antitrust dell’Unione Europea, S. Bastianon, Giuffrè Editore
Diritto Commerciale, G.F. Campobasso, Utet Giuridica, 2017
Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea
Legge 10 ottobre 1990 N. 287
[1] Il carattere globale della pandemia ha reso ancora una volta più evidente l’interconnessione tra le economie di tutti i Paesi del mondo, rivelando come le catene produttive che portano ai prodotti finali coinvolgo una numerosa gamma di players commerciali operanti in tutto il mondo, che forniscono al produttore finale i componenti per l’assemblaggio finale
[2] http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/24/i-dpi-alla-luce-dellemergenza-coronavirus/
[3] https://www.agcm.it/media/dettaglio-notizia?id=2b88e620-408b-4444-b8be-a45fa78f78b2&parent=News&parentUrl=/media/news
[4] http://www.dirittoconsenso.it/2018/01/07/la-privacy-e-il-trattamento-dei-dati-personali/
La scriminante dell'uso legittimo delle armi
Considerazioni sull’uso legittimo delle armi da parte delle forze dell’ordine nel codice penale e nella giurisprudenza di cassazione
L’istituto nel codice penale
L’uso legittimo delle armi è disciplinato nel codice penale all’art. 53, con una scelta non casuale da parte dei codificatori di collocarlo subito dopo l’adempimento di un dovere (art. 51 cp) e la legittima difesa (art. 52 cp), viste le tante somiglianze tra questi istituti.
Il codice penale suddivide l’uso legittimo delle armi in tre distinte fattispecie:
- nel primo comma sono ricomprese le ipotesi di uso di armi “per respingere una violenza o vincere una resistenza all’autorità” e
- per “impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona”;
- il terzo comma, poi, funge da norma di chiusura, ricomprendendo gli altri casi previsti da leggi speciali.
Attualmente, per esempio, sono previste ipotesi di legittimo utilizzo delle armi per la repressione del contrabbando[1].
Per quanto riguarda l’ambito di applicazione soggettivo della norma, questo istituto si riferisce ai soli pubblici ufficiali tra i cui doveri istituzionali rientra l’uso della coercizione fisica, ovvero gli ufficiali e gli agenti di forza pubblica: agenti della Polizia di Stato, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza; vengono esclusi, invece, gli agenti di Polizia Municipale e le guardie giurate. Tuttavia, ai sensi del comma 2 dell’art. 53 “la stessa disposizione si applica a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale gli presti assistenza”.
La ratio dell’uso legittimo delle armi
Quanto alla ratio dell’istituto valgono simili considerazioni rispetto alla legittima difesa[2].
Si tratta, infatti, di una vistosa deroga alle norme del diritto penale, dal momento che si consente ad un soggetto di usare armi ed altri mezzi di coazione fisica, di conseguenza accettando la possibilità che l’agente compia atti penalmente rilevanti, quali possono essere l’omicidio o le lesioni. In diritto si parla a questo proposito di cause di giustificazione (o scriminanti) per definire delle situazioni in cui l’ordinamento, al ricorrere di specifiche circostanze indicate dalla legge, ammette come legittima la commissione di un atto individuato dalla legge penale come reato.
Le circostanze che la legge richiede perché si configuri un uso legittimo delle armi richiamano in parte quelle già indicate per la legittima difesa.
In merito ai presupposti di legittimità è utile richiamare la distinzione tra le due fattispecie di uso legittimo di armi contenute nel primo comma dell’art. 53. Sono richiesti, quindi, per il primo caso la necessità, la proporzione ed una situazione di violenza o resistenza all’autorità; per il secondo caso parimenti ci dovranno essere necessità e proporzione, ma implicitamente il dato letterale della norma richiede anche una situazione che configuri gli estremi del tentativo di uno dei delitti menzionati dalla norma (strage, naufragio, disastro aviario ecc.). Allo stesso modo qualora il comportamento dell’agente ecceda i limiti posti dalla legge, questi ne risponde a titolo di eccesso colposo ai sensi dell’art. 55 cp, sempre che il fatto costituisca reato[3].
Come si diceva in apertura, e come si evince dal ragionamento esposto circa i presupposti di legittimità, esiste una rilevante somiglianza tra la scriminante dell’uso legittimo delle armi, da un lato, e la legittima difesa e l’adempimento di un dovere dall’altro. Così l’uso legittimo delle armi finisce per avere un ambito d’applicazione autonomo molto ristretto.
Pensiamo al caso in cui un agente della forza pubblica subisca un’aggressione mentre esegue un’importante operazione di ricerca di un latitante; se l’agente risponderà al pericolo con l’arma di ordinanza il suo comportamento sarà certamente riconducibile all’ambito applicativo oggettivo dell’uso legittimo di armi, ma la fattispecie ricade nell’altra scriminante della legittima difesa in quanto si è configurata un’aggressione ai danni di un soggetto che ha legittimamente reagito.
Alcuni casi giurisprudenziali
Un’analisi solo dottrinaria e dogmatica dell’istituto non permetterebbe di cogliere a pieno la portata e il significato di tale istituto, né risulterebbe intellegibile un criterio di distinzione tra questa scriminante e le altre. Pertanto un’esposizione della casistica giurisprudenziale può risolvere qualche dubbio e rendere più interessante la trattazione del tema.
Per quanto riguarda la presenza dei presupposti la Corte di Cassazione si è pronunciata in modo inequivocabile circa la necessaria presenza tanto della necessità dell’utilizzo dell’arma, quanto della proporzione tra l’evento e la reazione.
Con la sentenza n. 41038/2014, infatti, i giudici di Cassazione censuravano la lettura dell’art. 53 data dalla Corte d’Appello di Palermo. Quest’ultima, infatti, aveva ritenuto presente la situazione di necessità in un caso in cui un maresciallo dei Carabinieri aveva sparato con un fucile da tiro a volo verso tre ragazzi su un motorino, che, ignorando l’alt intimato dalla volante, si lanciavano in una folle fuga per le strade di Palermo mettendo in pericolo i passanti e gli altri veicoli. Questa situazione di pericolo per l’incolumità pubblica, secondo i giudici palermitani, poteva evocare il requisito della necessità di un intervento da parte del carabiniere imputato. Correttamente la Cassazione rileva, al contrario, che “per il riconoscimento della scriminante deve sussistere il presupposto oggettivo costituito dalla necessità di respingere una violenza, vincere una resistenza o impedire la commissione di determinati delitti”. E di seguito si aggiunge che l’uso delle armi “deve costituire extrema ratio nella scelta dei metodi necessari”: diventa cioè legittimo solo qualora non vi sia altro mezzo con minore capacità offensiva possibilmente ed utilmente utilizzabile.
Quindi nella stessa decisione i giudici di Piazza Cavour ricostruiscono in maniera più ampia e generale i presupposti per il legittimo uso delle armi, precisando che, affianco al già menzionato requisito della necessità, pari importanza riveste il requisito della proporzione inteso come “espressione dell’esigenza di una gradualità nell’uso dei mezzi di coazione (tra più mezzi di coazione ugualmente efficaci, occorrerà scegliere allora quello meno lesivo)”.
Le peculiarità dell’istituto dell’uso legittimo delle armi e il proprio ambito d’applicazione specifico si possono cogliere in un’altra importante sentenza della Cassazione penale, la numero 6719/2014.
Il fatto concreto parte da una rapina ai danni di un ufficio postale da parte di tre malviventi, che avevano costretto la direttrice a ritardarne l’apertura asserragliandosi all’interno con numerosi ostaggi. La circostanza del ritardo nell’apertura aveva insospettito i Carabinieri, che decidevano quindi di appostarsi in prossimità dell’ingresso dell’ufficio postale a bordo di un’auto di copertura. La vicenda assume tratti cinematografici quando i rapinatori escono con la refurtiva e prendono con sé due ostaggi; nello stesso momento un quarto rapinatore esce all’improvviso da un furgone parcheggiato davanti alla volante aprendo il fuoco sui Carabinieri. Ne nasce un conflitto a fuoco in cui resta ucciso il malvivente che aveva attaccato gli agenti, un altro si arrende e gli altri due si danno alla fuga. Nel corso dell’inseguimento la colluttazione con gli agenti continua finché i due non tentano di impossessarsi armi in pugno di un furgone che transitava in quell’area. Il tentativo fallisce a causa del rifiuto del conducente e delle condizioni del traffico, e allora i rapinatori continuano la loro fuga a piedi. Gli agenti del comando dei Carabinieri tentano di bloccare la fuga dei ladri esplodendo diversi colpi d’arma da fuoco; a causa di un’accidentale deviazione uno di questi colpisce il conducente del veicolo che i ladri avevano tentato di rubare, il quale morirà in seguito per le ferite riportate.
Da questa drammatica vicenda nasce un processo che vede assolto in primo grado e in appello l’agente che aveva sparato, considerando decisiva proprio la presenza della scriminante dell’art. 53.
La Cassazione, quindi, si pronuncia sulla legittima applicazione delle norme in tema di uso legittimo delle armi da parte della Corte d’Appello di Cagliari, chiarendo i contorni dell’istituto e rimarcando un orientamento consolidato dalla stessa giurisprudenza di cassazione.
Innanzitutto viene tracciata una particolarità di questa scriminante riguardante la sua ratio legis, la quale rispecchia una “vocazione autoritaria dell’ordinamento, connessa all’esigenza di assicurare il corretto adempimento dei doveri funzionali e dei compiti di tutela della sicurezza collettiva da parte della forza pubblica”; tanto è vero che, come ricordato nella sentenza, si richiedono requisiti applicativi meno rigorosi rispetto a quelli delle altre e più tradizionali cause di giustificazione. Ad esempio non sono richieste a chi si avvale di questa causa di giustificazione, nel corso dell’adempimento di un dovere, le opzioni di rinuncia o di commodus discessus[4].
E tuttavia c’è da considerare che la legittimità dell’uso delle armi richiede, sempre e comunque, una rigorosa valutazione del principio di necessità. Inoltre, secondo la dottrina, sarebbe implicitamente richiesto l principio di proporzione come requisito di tutte le scriminanti.
Passando all’analisi del caso concreto, la Cassazione rileva una situazione di estrema violenza anche al momento della fuga dei rapitori, e dunque ritiene che i giudici di merito e di appello abbiano correttamente misurato la necessità di un intervento armato da parte dei carabinieri.
Anche per quanto riguarda la proporzione, appare ragionevole il bilanciamento considerato dai giudici tra l’azione degli agenti ed il comportamento dei fuggiaschi, che peraltro stavano mettendo in pericolo la vita dei tre ostaggi.
Inoltre, nell’ottica dei giudici di cassazione la concitazione del momento della sparatoria e del tentativo di fuga aveva reso impossibile operare distinzioni sulla circostanza che l’evento più grave (l’uso delle armi) venisse a colpire gli stessi autori dell’illecito o anche terzi coinvolti nel teatro del sinistro.
E quindi con queste motivazioni la Corte di Cassazione respinge i ricorsi presentati contro la decisione della Corte d’Appello di Cagliari, confermando la non punibilità dell’agente dei Carabinieri, che aveva agito in presenza della causa di giustificazione di cui si è trattato.
Informazioni
Art. 53 codice penale
“Manuale di Diritto Penale” di G. Marinucci, E. Dolcini, G. Gatta, Giuffrè editore, 2019
Cassazione penale sez. V 16 giugno 2014 n. 41038
Cassazione penale sez. IV 22 maggio 2014 n. 6719
[1] L. 4 marzo 1958, n.100
[2] Sul merito della ratio di tali istituti: http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/10/la-legittima-difesa-nella-cronaca-e-nel-codice/
[3] Per una più approfondita analisi dei presupposti nelle scriminanti e dell’eccesso colposo: http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/10/la-legittima-difesa-nella-cronaca-e-nel-codice/
[4] Per la nozione di commodus discessus: http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/10/la-legittima-difesa-nella-cronaca-e-nel-codice/
La legittima difesa nella cronaca e nel codice
Qualche considerazione sulla legittima difesa, istituto cardine del diritto penale, che è spesso protagonista nella cronaca e che è stato oggetto di alcune riforme legislative
Con un recente fatto di cronaca si riapre il tema della legittima difesa
Di recente è balzata agli onori della cronaca la tragica uccisione di un 15enne avvenuta a Napoli durante un tentativo di rapina. Secondo quanto emerso dalle prime ricostruzioni, il ragazzo, di nome Ugo Russo, è rimasto ucciso mentre tentava di rubare l’orologio di un carabiniere in abiti civili. Quest’ultimo, quindi, avrebbe usato l’arma di ordinanza per difendere sé stesso e la propria ragazza dopo che l’aggressore, a volto coperto, li aveva minacciati puntando una pistola alla tempia del militare. Il carabiniere, di fronte alla minaccia, si sarebbe identificato come militare, ed in seguito avrebbe usato l’arma d’ordinanza esplodendo tre colpi verso il ragazzo ferendolo gravemente. Il decesso a seguito delle ferite riportate è avvenuto più tardi nel pronto soccorso dell’ospedale Pellegrini, dove, appresa la notizia, una folla di parenti e amici ha distrutto le attrezzature della struttura medica. A seguito di ciò il carabiniere è stato indagato, in un primo momento, per eccesso colposo in legittima difesa; al momento il capo di imputazione è, invece, quello di omicidio volontario.
Si tratta dell’ennesimo caso che solleva critiche e dubbi su un istituto importante ed antico del diritto penale: la legittima difesa.
La legittima difesa nel codice penale
La legittima difesa, dal punto di vista dogmatico, è una delle cause di giustificazione (o scriminanti) previste dal codice penale. L’importanza delle cause di giustificazione, e della legittima difesa in particolare, risiede nella possibilità di non punire chi ha posto in essere una condotta vietata da una norma penale, se il fatto è stato compiuto in situazioni tali per cui diviene legittimo, o addirittura doveroso, il ricorso ad un comportamento penalmente rilevante.
La ratio di tale istituto va ricercata nell’esigenza di dare tutela giuridica a quei casi eccezionali in cui il soggetto debba tutelarsi da solo da un’imminente minaccia ai propri diritti e lo Stato non sia in grado di garantire un intervento tempestivo ed efficace attraverso gli organi di polizia.
Per circoscrivere l’uso della forza privata a questa limitata serie di casi, il legislatore del 1930 ha contornato l’istituto di presupposti e requisiti specifici. Innanzitutto, perché possa ricorrere la legittima difesa sono necessari due presupposti: la situazione di pericolo e l’offesa ingiusta.
Per quanto riguarda la situazione di pericolo, questa viene valutata dal giudice con un giudizio ex ante a base totale. Significa che il giudice dovrà riportarsi idealmente al momento in cui il soggetto agisce a tutela del proprio diritto e valutare se, alla luce di tutte le condizioni del caso concreto, egli stesse realmente correndo un pericolo.
La nozione di “pericolo”
Ma la nozione di pericolo richiesta, affinché la difesa sia legittima, è più restrittiva in quanto richiede che il pericolo sia “attuale”. Infatti, se il pericolo è ormai passato, per evitare l’offesa non è più richiesta un’azione individuale del soggetto minacciato. Molto spesso chi viene minacciato reagisce quando l’aggressore si è già dato alla fuga o in qualche modo risulta inerme e quindi non più nella condizione di cagionare un pericolo all’aggredito: è il caso classico di chi sorprende un ladro in casa e spara nonostante l’aggressore si sia già dato alla fuga. Con questa dinamica, secondo la dottrina e la giurisprudenza, non si tutela più un proprio diritto, bensì si esercita una forma di giustizia personale e vendicativa ritenuta inammissibile in uno stato di diritto. Parimenti si ritiene illegittima la reazione della vittima ad un pericolo futuro: come chi si senta costretto ad agire nei confronti di un soggetto che gli ha appena rivolto una minaccia.
Il pericolo quindi deve essere imminente, od anche perdurante. Senza dubbio agirà in stato di legittima difesa colui che si difende mentre sta per essere aggredito, ma allo stesso tempo l’ordinamento dà la possibilità di agire in ogni momento a colui che si trovi in una situazione di pericolo che perdura nel tempo (ad esempio un soggetto che viene tenuto sotto sequestro vivrà una situazione di pericolo perdurante e potrà agire per legittima difesa in ogni istante del sequestro).
Dall’altra parte l’ordinamento richiede che vi sia un’offesa ingiusta, cioè un’offesa ad un diritto proprio o altrui che venga posta in essere contra legem. Non rientrano in tale categoria, pertanto, le azioni offensive compiute nell’adempimento di un dovere.
Legittimamente potrebbe sorgere il dubbio che l’ipotesi di legittima difesa del carabiniere sia insussistente fin dall’inizio, dal momento che, essendo minacciato con una pistola giocattolo, non è mai incorso in un pericolo reale. In realtà non è così, e l’art. 59 comma 4 del codice penale (che riguarda tutte le cause di giustificazione) è preciso al riguardo, e applicato alle disposizioni dell’art. 52 configura la cosiddetta legittima difesa putativa. Secondo tale norma “se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui”, a meno che l’errore non sia causato da colpa. Nel caso di specie, quindi, se effettivamente non c’era modo per il carabiniere di capire che non si trattava di una pistola vera, allora tale situazione sarà valutata in suo favore tramite una finzione giuridica secondo cui il carabiniere ha agito per scongiurare un pericolo reale ed imminente.
I requisiti
Ancora più importanti sono i requisiti affinché l’azione dell’aggredito venga considerata legittima difesa: la necessità dell’azione e la proporzione tra difesa e offesa. Nell’intenzione del legislatore il soggetto che agisce per legittima difesa deve essere costretto a porre in essere una condotta penalmente rilevante.
Questo richiamo generico alla necessità viene riempito di contenuto dalla giurisprudenza: secondo orientamenti pacifici della Cassazione è costretto dalla necessità di difendersi chi non abbia potuto optare per una soluzione alternativa meno lesiva o che non fosse penalmente rilevante, e soprattutto chi potesse disporre del cosiddetto commodus discessus (la facile via d’uscita). Quindi, non agirà in stato di legittima difesa chi abbia aperto il fuoco verso un aggressore disarmato quando avrebbe potuto servirsi della propria possanza fisica per eliminare il pericolo; e non agirà in stato di legittima difesa chi decida di percuotere l’offensore pur avendo la possibilità di allontanarsi in sicurezza dal luogo dell’aggressione.
Spesso nella casistica giurisprudenziale risulta altresì decisiva la valutazione dell’altro requisito: la proporzione tra difesa e offesa. Secondo i giudici per valutare la proporzione è necessario e doveroso fare un bilanciamento tra i beni giuridici del difensore e dell’offensore, e vi sarà proporzione quando tra i due beni giuridici in gioco non vi sia un divario eccessivo, secondo una valutazione etico-sociale costituzionalmente orientata. Nell’operare questo bilanciamento, quindi, il giudice “pesa” i beni considerandoli alla luce dell’importanza che gli viene comunemente data dalla società in un determinato periodo, e che viene plasticamente riprodotta nella Carta Costituzionale.
È un’interpretazione molto precisa e puntuale, ma che spesso viene equivocata: è ben possibile, secondo questa valutazione, che il bene del difensore sia di valore minore rispetto al bene dell’offensore e resista tuttavia la legittima difesa. Ciò che nega la presenza di una legittima difesa è l’eccessivo scarto tra i due beni in questione. In concreto non risulta evidentemente condannabile il sequestrato che trovi il modo per uccidere il sequestratore: in questo caso i valori in gioco sono la libertà personale (del difensore) e la vita (dell’offensore), e tra questi due beni non c’è un gap eccessivo tale da risultare sproporzionata l’azione del difensore rispetto all’offesa. Diverso è il caso, molto d’impatto a livello mediatico, del difensore che spara e uccide il ladro che si è introdotto nella sua proprietà per rubare: in questo caso i beni oggetto di valutazione sono il bene patrimonio (del difensore) ed il bene vita (dell’offensore), e pertanto risulta evidente la sproporzione tra i beni in questione, in quanto la vita è considerato un bene giuridico di gran lunga più importante del patrimonio.
Cos’è l’eccesso colposo di legittima difesa?
Si è detto che in un primo momento il carabiniere era stato accusato di eccesso colposo in legittima difesa; vale la pena quindi approfondire tale fattispecie delittuosa.
La norma di riferimento è l’art. 55 del codice penale, che così recita: “Quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.” Applicato alla legittima difesa ciò comporta che, qualora risulti un eccesso determinato da colpa dei limiti di proporzionalità tra difesa e offesa visti precedentemente, l’agente risponde del fatto penalmente rilevante compiuto per difendersi.
In merito si segnala che la riforma della legittima difesa del 2019 si estende anche alle disposizioni dell’art. 55, e prevede che la punibilità sia esclusa se chi ha commesso il fatto ha agito in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo. La modifica, però, circoscrive gli effetti estensivi alle sole ipotesi previste dai commi 2, 3 e 4 dell’art. 52, ovvero violazione di domicilio e violazione di domicilio aggravata.
Le riforme alla norma della legittima difesa
Sulla disciplina della legittima difesa fin qui tracciata, però, si inseriscono le modifiche che il legislatore ha apportato prima nel 2006 e poi nel 2019.
Tecnicamente il legislatore ha agito aggiungendo all’articolo 52 del codice penale altri tre commi. Ai sensi del comma secondo, qualora vi sia violazione di domicilio secondo le modalità previste dall’art. 614 cp (introduzione clandestina, con l’inganno, contro la volontà del titolare), “sussiste sempre il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o la altrui incolumità; b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione”.
È una modifica di grande rilievo in quanto il legislatore si arroga la valutazione ex lege del requisito della proporzione tra difesa e offesa, sostituendosi al giudice che conosce le modalità del fatto concreto. Si tratta quindi di una vera e propria presunzione assoluta. Una ricostruzione siffatta del principio di proporzione presta inevitabilmente il fianco a possibili censure della Corte Costituzionale, dal momento che la presunzione assoluta si potrebbe discostare nei casi concreti da una corretta valutazione costituzionalmente orientata dei beni in gioco.
Ma le novità più dirompenti sono previste al comma quarto dell’art. 52, introdotto con la legge n. 36/2019. Secondo la norma, nei casi in cui la violazione di domicilio sia aggravata dal carattere violento, vige una presunzione assoluta di legittima difesa, non solo della proporzione tra difesa e offesa. Il giudice verrebbe così sollevato dal dovere di valutare anche la necessità della difesa, oltre che la proporzione. A dire il vero l’intento è quello di evitare per il difensore un processo davanti al giudice, presentando un meccanismo di attivazione automatico della legittima difesa, chiaramente contrario alla ratio originale della norma ed ai principi dell’ordinamento. Se si considera, poi, che il bene vita riceve una protezione assoluta anche a livello sovranazionale, come si evince dall’art. 2 co. 2 della CEDU, i dubbi sulla legittimità costituzionale della novella aumentano.
Il comma terzo, infine, si limita ad estendere le disposizioni dei commi secondo e quarto anche ai luoghi ove si eserciti attività commerciale, imprenditoriale o professionale. L’intento del legislatore è, evidentemente, quello di estendere le novità anche ai tentativi di rapina in esercizi commerciali e fabbriche.
Informazioni
“Ugo Russo, il 15enne ucciso a Napoli aveva fatto un altro colpo. Indagato il carabiniere”, su Corriere.it del 2 marzo 2020 https://www.corriere.it/cronache/20_marzo_02/napoli-carabiniere-indagato-l-omicidio-rapinatore-15-enne-che-aveva-fatto-altro-colpo-ebf99d5c-5ca0-11ea-9c1d-20936483b2e0.shtml
“Quindicenne ucciso a Napoli: il carabiniere è accusato di omicidio volontario”, su Agi.it del 2 marzo 2020 https://www.agi.it/cronaca/news/2020-03-02/carabiniere-quindicenne-ucciso-omicidio-volontario-7290186/
“Tenta rapina, ucciso 16enne a Napoli. Pronto soccorso devastato dai parenti, raid contro Comando carabinieri”, su Ansa.it del 2 marzo 2020 http://www.ansa.it/campania/notizie/2020/03/01/tenta-rapina-a-cc-muore-15enne-a-napoli_8c719939-c6f2-4dfa-9fb9-781c25423613.html
“Verso la “legittima offesa”? Brevi considerazioni sulla riforma in itinere della legittima difesa” di Roberto Bartoli in Diritto Penale Contemporaneo 1/2019
“Manuale di Diritto Penale” di G. Marinucci, E. Dolcini, G. Gatta, Giuffrè editore, 2019.
Cass. Sez. VI n. 17770/2018
Cass. Sez. V n. 9164/2017; Cass. Sez. I n. 4890/2008; Cass. Sez. I n. 5697/2003
Cass. Sez. I n. 45407/2004
Sulle scriminanti nel codice penale si legga: http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/31/la-scriminante-delluso-legittimo-delle-armi/
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La responsabilità medica
In materia di trattamenti sanitari e clinico-assistenziali la disciplina sulla responsabilità medica è stata aggiornata con la legge Gelli-Bianco. La disciplina attuale contiene sia elementi civilistici in relazione alla responsabilità civile degli operatori sanitari e del risarcimento del danno biologico non patrimoniale, sia disposizioni in merito alla responsabilità penale del medico
Introduzione alla responsabilità medica
La responsabilità medica è un istituto giuridico con cui ci relazioniamo molto più spesso di quanto pensiamo. Andare dal medico, o recarsi al pronto soccorso, sono azioni che all’apparenza hanno poco a che fare col mondo del diritto; ed invece nel momento in cui si subisce un’operazione chirurgica o ci si sottopone a visite specialistiche, ecco attivarsi una serie di istituti giuridici attraverso i quali l’ordinamento non solo tutela il diritto alla salute del paziente, ma rende possibile una gestione certa del rischio connesso all’attività del medico. Ma cos’è esattamente la responsabilità medica?
Il nostro sistema giuridico nazionale incardina la materia sul consenso del paziente a ricevere cure nel suo interesse personale e della collettività, tramite l’articolo 32 della Costituzione e la ricezione della Convenzione di Oviedo del 1997, e sulla responsabilità civile e penale del medico e della struttura ospedaliera, la cui disciplina è stata recentemente modificata dalla legge 8 marzo 2017, n.24.
Il diritto costituzionale alla salute
Non solo la legge, ma anche la Costituzione si occupa direttamente della salute dei cittadini, configurandola come un diritto primario della persona e direttamente tutelato dall’ordinamento. Cominciando l’analisi degli aspetti giuridici è subito opportuno rilevare l’importanza che la Costituzione dedica al diritto alla salute.
L’articolo 32, infatti, lo definisce un “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Da ciò la Corte Costituzionale ha potuto desumere che la salute è un valore costituzionale primario ed un diritto umano inviolabile, e come tale non può tollerare alcuna limitazione, imponendosi all’ordinamento tutela piena ed esaustiva.
Nei confronti specificatamente dello Stato, poi, l’articolo 32 si pone come una norma programmatica, che vincola l’ordinamento a predisporre gli strumenti necessari affinché ogni cittadino possa usufruire delle prestazioni sanitarie necessarie.
Lo stesso articolo 32, però, subordina il trattamento sanitario al consenso del paziente.
Nel secondo comma della norma costituzionale, infatti, si legge: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Questa norma, da un lato sancisce un diritto individuale del paziente ad accettare o rifiutare un trattamento sanitario, e dall’altro pone in capo al medico l’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente. In particolare il paziente deve disporre di informazioni complete ed esaustive riguardo tutti gli esiti dell’intervento ragionevolmente prevedibili, sia positivi che negativi, e deve altresì ricevere informazioni riguardo trattamenti alternativi. Ciò viene disposto affinché il paziente possa esprimere una libera e consapevole scelta riguardo le cure che riceverà e i rischi connessi alle stesse.
Quanto emerge dal disposto costituzionale è stato confermato dalla sentenza n. 438 del 2008 della Corte Costituzionale, che richiama anche numerose norme internazionali, tra cui l’art. 5 della Convenzione di Oviedo del 1997 e l’art. 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza del 2000).
La responsabilità civile della struttura ospedaliera e del medico
Il riconoscimento del diritto alla salute come diritto primario della persona è rintracciabile anche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione.
Secondo i giudici della Corte il diritto alla salute è direttamente azionabile di fronte ad un tribunale e la sua lesione obbliga il responsabile ad una specifica forma di risarcimento: il risarcimento per danno biologico.
L’inquadramento da parte dei giudici costituzionali e di Cassazione di una specifica fattispecie risarcitoria, individuata sulla base dell’art. 32 della Costituzione e dell’art. 2043 del Codice Civile, ci permette di attraversare il ponte che nel diritto unisce la teoria alla pratica. In questo senso la norma chiave è l’articolo 2043, il quale stabilisce che “Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
È un’evoluzione di non poco conto nel nostro sistema giuridico: si afferma esplicitamente che il paziente che abbia patito danni (patrimoniali e non) a seguito di un trattamento sanitario incorretto, ha diritto ad un risarcimento economico, a carico dell’ospedale o del medico le cui responsabilità in merito al danno biologico siano accertate dal giudice. Nello specifico il giudice deve accertare che tra il danno lamentato dal paziente ricorrente e il trattamento sanitario ci sia un nesso di causalità diretto: il danno deve essere immediatamente riconducibile alla prestazione sanitaria.
Il danno per cui viene chiesto il risarcimento è, come si è detto, un danno biologico non patrimoniale. Allora la natura non patrimoniale del danno, cioè la mancata lesione di interessi meramente economici e patrimoniali, fa venire in rilievo nella nostra trattazione un’altra importante disposizione del codice civile: l’articolo 2059.
Secondo questa norma “il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”; nel nostro caso la legge di riferimento è la legge 24/2017. Da ciò si evince che il danno non patrimoniale è un danno cosiddetto tipico, cioè predeterminato dal legislatore, a differenza della più ampia nozione di danno ingiusto dell’art. 2043, che è invece una fattispecie atipica.
La tipicità del danno non patrimoniale ex art. 2059 è stata confermata e ribadita dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con le storiche sentenze gemelle del novembre 2008, che hanno riscritto una parte consistente della disciplina giuridica in materia di risarcimento del danno.
Tuttavia i giudici di Cassazione aggiungono un elemento ulteriore ed importantissimo per il riconoscimento della risarcibilità del danno non patrimoniale: anche nel caso in cui il danno non patrimoniale non sia previsto da alcuna precedente legge, il giudice ordinario, sulla base di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059, deve ammettere la risarcibilità del danno qualora siano stati lesi diritti della persona direttamente tutelati dalla Costituzione.
Esercitando la cosiddetta funzione nomofilattica, la Cassazione a Sezioni Unite ha dato un’interpretazione espressa e vincolante della norma contenuta nell’art. 2059, che prevede la risarcibilità del danno patrimoniale, non solo in casi tipici determinati dalla legge, ma anche qualora venga danneggiato un diritto della persona costituzionalmente tutelato.
Nel nostro specifico caso è la lesione del diritto alla salute, di cui all’art. 32 della Costituzione, che costituisce un’ipotesi di per sé risarcibile.
La responsabilità medica e il risarcimento
Trattandosi di responsabilità civile occorre inquadrare la fattispecie come un’obbligazione tra un debitore (l’ospedale e il medico che agisce nelle sue strutture), ed un creditore (il paziente che riceve la prestazione medica), che ha come oggetto una qualunque prestazione sanitaria.
La prestazione oggetto dell’obbligazione tra medico e paziente deve essere eseguita secondo la diligenza qualificata, ovvero uno standard superiore alla diligenza dell’uomo medio, parametrata al settore professionale del debitore e alla difficoltà della prestazione.
Inoltre, secondo quanto stabilito dalla Cassazione con una sentenza del 2018, anche l’inadempimento dell’obbligo di informazione può assumere rilievo a fini risarcitori, anche in assenza di un danno alla salute del paziente. Spetta comunque al paziente dimostrare di fronte ad un giudice che il medico ha agito con negligenza o con imprudenza.
La richiesta di risarcimento in sede civile può essere chiesta sia nei confronti del medico, che nei confronti dell’azienda ospedaliera. Quest’ultima, infatti, ha un obbligo ex lege di stipulare una polizza assicurativa in grado di coprire eventuali richieste di risarcimento. Tuttavia l’azienda ospedaliera può promuovere un’azione di rivalsa nei confronti del proprio medico dipendente, ma nei soli casi di dolo o colpa grave.
La responsabilità penale del medico
Per quanto riguarda la responsabilità penale del medico, l’art. 6 della legge n. 24/2017 ha operato delle modifiche alla precedente disciplina.
Attualmente il medico (o chi esercita una delle professioni sanitarie) risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali se l’evento si è verificato per colpa grave, determinata da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate. Anche nella fattispecie penale però si tiene conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico.
Proprio per queste particolari ragioni di difficoltà nell’esercizio della professione medica, la nuova normativa conferma l’assenza di responsabilità del medico qualora si rinvenga una colpa lieve dello stesso.
Nel momento in cui il medico viene riconosciuto responsabile della morte del paziente, o dei danni da questo patiti, potrebbe scontare una pena che varia dai 6 mesi ai 5 anni di reclusione in caso di morte, e una pena da 1 a 6 mesi di reclusione in caso di lesioni personali.
È bene sottolineare, infine, che la sanzione penale non esclude il risarcimento del danno biologico in sede civile. Anzi molto spesso i giudici che riconoscono l’esercente la professione sanitaria colpevole sul piano penale, accolgono anche la richiesta di risarcimento presentata in sede civile dal danneggiato.
Nell’ambito della responsabilità penale la nuova legge Gelli-Bianco opera considerevoli cambiamenti rispetto alla precedente disciplina della legge Balduzzi (d.l. 158/2012).
Viene abrogato l’art. 3 del decreto Balduzzi, che prevedeva la non punibilità del medico in presenza del rispetto delle buone pratiche clinico-assistenziali accreditate dalla comunità scientifica, e la non punibilità del medico nei casi responsabilità per culpa levis. Al posto dell’abrogato art. 3, l’art. 6 della legge 24/2017 inserisce la nuova disciplina dell’art. 590-sexies del codice penale.
La nuova legge elimina, come si è visto, il precedente riferimento alla colpa lieve e limita come fattispecie minima sanzionata i casi in cui si rileva colpa per imperizia. Tuttavia, secondo quanto recita il nuovo 590-sexies, “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida”. Al contrario, se la colpa riscontrata è data da negligenza e imprudenza, l’operatore sanitario è punibile anche se ha seguito le raccomandazioni previste dalle linee guida.
Informazioni
Corte Costituzionale, sentt. nn. 226/1987, 51/1991, 455/1990, 992/1988, 88/1979, 184/1986, 38/2002.
Diritto Costituzionale, L. Mezzetti, Giuffrè Editore, 2017
Legge 08/03/2017 n. 24
Tribunale di Napoli, sent. n. 8156/2018
Cassazione civile sez. III, sent. n.20885/2018
La responsabilità medica tra forma e sostanza dopo la legge 8 marzo 2017, n. 24; F. Zecchin, 2018
Cassazione penale sez. IV, sent. n.412/2018
DirittoConsenso ha anche parlato del diritto a morire, in questo articolo.
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Gli ultimi provvedimenti dell'Antitrust
L’Antitrust è un’autorità amministrativa indipendente, che opera in funzione di tutela della concorrenza e del libero mercato, nonché di tutela dei consumatori. Spesso si sente parlare dei provvedimenti dell’Antitrust nei confronti di grandi imprese con cui ogni cittadino ha a che fare quotidianamente. Quali sono gli ultimi provvedimenti?
Il codice del consumo, garanzia di tutela del consumatore
Nei casi che andremo ad analizzare l’Antitrust[1] evidenzia violazioni di norme varie contenute nel Decreto Legislativo 6 settembre 2005, n. 206. Meglio noto come Codice del Consumo, tale decreto disciplina uniformemente i rapporti che intercorrono tra un professionista (colui che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale) ed un consumatore.
Il Codice è particolarmente rilevante nel nostro ordinamento perché contiene una serie di norme giuridiche con cui entriamo a contatto ogni giorno senza saperlo. Infatti, è all’interno del Codice del Consumo che sono disciplinati: i diritti d’informazione del consumatore (Titolo II), le norme che vietano pratiche commerciali scorrette e pubblicità ingannevoli (Titolo III), le norme sulla disciplina generale dei contratti tra un professionista e un consumatore (Parte III), nonché gli obblighi del produttore e i diritti dei consumatori in materia di sicurezza dei prodotti (Parte IV).
Successivamente il Decreto è stato più volte modificato, prevedendo anche la possibilità di esperire azioni di classe da parte delle associazioni di consumatori, riproponendo il modello americano della class action.
L’Antitrust nei confronti di Alitalia e Alberta Ferretti
In questi giorni, tra i tanti provvedimenti dell’antitrust, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha avviato un’istruttoria che vede coinvolti soggetti notissimi al grande pubblico, come Alitalia, Alberta Ferretti ed alcuni “influencer” non specificatamente identificati.
L’istruttoria, nata da un’azione dell’Unione Nazionale Consumatori, indaga su possibili violazioni della normativa vigente in materia di pubblicità indiretta. L’Antitrust avrebbe individuato delle irregolarità in merito a questa pratica commerciale nella misura in cui al consumatore non è stato fatto capire esplicitamente la forma di messaggio promozionale dei post condivisi sui social network (come stabilito nella Parte II del Codice del Consumo). Nei casi degli influencer marketing, infatti, viene utilizzata la propria immagine e la propria notorietà a fini commerciali per orientare i gusti del proprio pubblico, favorendo determinate aziende in cambio di un compenso. La pratica in questione costituisce una forma di illegittima pubblicità indiretta nel momento in cui non venga reso esplicito il fine promozionale del post, e non venga indicato esattamente quale prodotto si sta promuovendo.
Queste forme di pubblicità indiretta sarebbero state veicolate attraverso i profili social di grandi influencer come Chiara Ferragni e Alessia Marcuzzi (direttamente coinvolte nel caso sotto indagine dell’Antitrust), che senza indicare esplicitamente la sponsorizzazione da parte di Alitalia, hanno condiviso post su Instagram in cui indossavano felpe e magliette del brand Alberta Ferretti con il logo della compagnia aerea in evidenza.
Sarà interessante osservare come la prossima decisione dell’Antitrust (a seguito dell’istruttoria appena iniziata) in materia di pubblicità sui social media, porterà una prima disciplina giuridica in un settore nuovo e sfuggente come quello dei social media. Si auspica che queste prime forme di intervento da parte delle autorità normative, possano fare da apripista per un intervento forte del legislatore in un campo che ormai fa parte del vivere quotidiano della quasi totalità degli italiani.
Gli ultimi provvedimenti antitrust per SKY e DAZN
Tra gli ultimi provvedimenti dell’antitrust, sul finire dell’estate del 2018, ha avuto molta eco la decisione da parte dell’Antitrust di avviare un’istruttoria nei confronti delle emittenti SKY e DAZN. L’istruttoria è stata avviata ai sensi dell’articolo 6, comma 2, del Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di pubblicità ingannevole e comparativa, pratiche commerciali scorrette, violazione dei diritti dei consumatori nei contratti, violazione del divieto di discriminazioni e clausole vessatorie.
Per quanto riguarda il procedimento avviato nei confronti di SKY Italia srl, secondo l’authority la società avrebbe posto in essere due condotte in violazione del Codice del Consumo nella fase di promozione dell’offerta del pacchetto calcio per la stagione 2018/19 e nella fase di gestione del contratto, ed è per questo che è ricaduta tra gli ultimi provvedimenti dell’antitrust.
Nella fase di promozione dell’offerta, SKY avrebbe posto in essere una forma di pubblicità ingannevole nella misura in cui non avrebbe informato adeguatamente il consumatore sui limiti dell’offerta relativa alla trasmissione e fruizione delle partite di serie A, in particolare, con riferimento alle fasce orarie. Nella fase di gestione del contratto con i propri clienti, l’emittente televisiva avrebbe fatto credere che l’offerta relativa alla stagione calcistica 2018/2019 avesse gli stessi contenuti visibili del pacchetto relativo alla stagione 2017/2018, violando le disposizioni dell’art. 21 co. 1 lett. b del Codice del Consumo.
Ritenuto in fatto che il panchetto 2018/19 non disponesse della totalità delle partite di Serie A, come invece era avvenuto nelle precedenti stagioni, SKY non ha correttamente informato il consumatore sulla diversa entità della nuova offerta e ha fatto credere che il rinnovo automatico dell’offerta fosse predisposto alle stesse condizioni degli anni precedenti. Inoltre la società non avrebbe informato i propri clienti della possibilità di recedere dal contratto senza alcuna penale, a fronte di una sostanziale modifica unilaterale delle condizioni del contratto. Questi comportamenti da parte del professionista SKY costituirebbero, secondo l’Autorità, una violazione degli articoli 24 e 25 del Codice del Consumo nella misura in cui sarebbe stata limitata la libertà di scelta del consumatore in relazione al rinnovo automatico dell’offerta, e dell’articolo 65 dello stesso Codice che pone l’obbligo per il professionista di ottenere l’espresso consenso del consumatore.
E’ finita tra gli ultimi provvedimenti anche a DAZN, denominazione commerciale del gruppo inglese Perform Investment, alla quale sono state contestate dall’authority pratiche commerciali scorrette sia nella fase di promozione del prodotto che nella fase di gestione del contratto col consumatore.
Sul primo punto si accusa la società di aver condotto una pratica di pubblicità ingannevole, dal momento che, sia negli spot televisivi che sul web, questa ha enfatizzato che il consumatore possa fruire del servizio ovunque si trovi, senza alcun riferimento alle numerose limitazioni tecniche che potrebbero, invece, renderne difficoltosa o addirittura impedirne la fruizione. Anche in questo caso le pratiche commerciali dell’emittente sono sotto la lente dell’Antitrust per possibili violazioni dell’articolo 21 del Codice del Consumo, in quanto sono state fornite al consumatore informazioni non corrispondenti al vero che lo hanno indotto a scegliere un servizio che altrimenti non avrebbe scelto.
In materia di gestione del contratto, invece, DAZN avrebbero utilizzato modalità informative di presentazione dell’offerta potenzialmente ingannevoli in quanto contenenti messaggi volti a far credere di poter fruire di un “mese gratuito” di offerta del servizio senza contratto. Al contrario, il cliente che usufruisce del mese gratuito stipula un contratto efficace a tutti gli effetti di legge; ed anzi tale contratto vincola il cliente al pagamento mensile del servizio nei mesi successivi, in virtù di un rinnovo automatico: tale pratica, di fatti, proroga solamente l’obbligazione di pagamento da parte del consumatore. Inoltre il consumatore, creando l’account avrebbe dato inconsapevolmente il proprio consenso all’abbonamento al servizio, dovendosi, pertanto, attivare per esercitare il recesso al fine di evitare gli addebiti automatici per i mesi successivi. Anche per questa fattispecie ricorrono le possibili violazioni degli articoli 24 e 25 del Codice del Consumo, laddove si pone in essere un indebito condizionamento da parte del professionista nei confronti del consumatore. Si attenderebbero quindi dei provvedimenti dell’Antitrust di tipo sanzionatorio.
I provvedimenti dell’Antitrust nei confronti di Ryanair
L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in data 7 novembre 2018, ha disposto una sanzione nei confronti della compagnia aerea low cost Ryanair. Alla compagnia, infatti, viene contestata la violazione dell’art. 27 comma 12 del Codice del Consumo, in quanto la stessa si è rifiutata di ottemperare ai provvedimenti amministrativi disposti dall’Autorità in data 31 ottobre 2018.
In questo contesto è opportuno ricordare che la sanzione deriva da un atto amministrativo disposto dall’authority in merito alla nota vicenda della modifica delle condizioni di trasporto dei bagagli. In quell’occasione l’Antitrust contestava a Ryanair sia che lo scorporo del costo per imbarcare un trolley dal biglietto standard comportasse una “falsa rappresentazione del reale costo del biglietto aereo”, che di conseguenza avrebbe potuto indurre “in errore il consumatore medio circa il prezzo del servizio”, violando così le disposizioni normative degli articoli 20-22 del Codice del Consumo; sia la decisione di ridurre “di oltre il 60 per cento lo spazio disponibile per il trasporto del bagaglio a mano”.
Quindi, a queste rilevazioni faceva seguito un provvedimento con cui l’Autorità garante disponeva che la società Ryanair DAC provvedesse a sospendere provvisoriamente ogni attività diretta a richiedere un supplemento di prezzo rispetto alla tariffa standard per il trasporto del “bagaglio a mano grande”, mettendo gratuitamente a disposizione dei consumatori uno spazio equivalente a quello predisposto per il trasporto dei bagagli a mano nell’aeromobile.
Ora, Ryanair non solo non ha rispettato la scadenza di 5 giorni per realizzare le disposizioni comunicate da parte dell’authority, ma ha comunicato alla stessa il proprio rifiuto ad adempiere, sostenendo che la disposizione fosse carente di chiarezza circa l’ambito di applicabilità. L’Autorità, quindi, prendendo atto del rifiuto di osservare le disposizioni contenute nel provvedimento del 31 ottobre 2018, ha irrogato una sanzione nei confronti della compagnia, che può variare da un minimo di €10.000 ad un massimo di €5.000.000, da determinare in base all’ultimo bilancio d’esercizio del Professionista.
Informazioni
Antitrust, istruttoria su Alitalia e influencer: “Possibile pubblicità occulta sui social”, su Repubblica.it del 11 dicembre 2018
Procedura “PS11232 – SKY pacchetti calcio SERIE A” in Bollettino Settimanale Anno 2018 – n. 38 dell’AGCM
Procedura “IP308 – RYANAIR modifica policy bagagli”, in Bollettino Settimanale Anno 2018 – n. 42 dell’AGCM
[1] Ho parlato dell’Antitrust in questo articolo: http://www.dirittoconsenso.it/2018/11/08/l-antitrust/
Antitrust: come funziona e cosa fa?
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, comunemente nota come Antitrust, è un’autorità amministrativa indipendente, che opera in funzione di tutela della concorrenza e del libero mercato, nonché di tutela dei consumatori. Negli ultimi tempi si sente parlare sempre più spesso dell’Antitrust per i provvedimenti presi nei confronti di grandi imprese e pubbliche amministrazioni, e che hanno effetti direttamente sulla vita quotidiana delle persone; da ultimo le procedure contro Ryanair e Wizzair relativamente alla modifica delle condizioni di viaggio, e contro i colossi high tech Samsung ed Apple riguardo l’obsolescenza programmata dei dispositivi. Vale la pena, quindi, approfondire gli aspetti giuridici di un organo così rilevante nella nostra quotidianità
Storia
La nascita di autorità indipendenti, come l’Antitrust, non è assolutamente un fenomeno di genesi nazionale. Le prime forme di autorità indipendenti dal potere politico risalgono alla fine del ‘800. Furono create per la prima volta negli Stati Uniti con l’esigenza di attuare una forma di controllo da parte del potere pubblico sul rapidissimo sviluppo dell’economia provocato da una massiccia urbanizzazione, da una prima rivoluzione tecnologica dei mezzi di produzione e dalle nuove possibilità di commercio offerte dall’innovazione dei mezzi di trasporto.
Le grandi imprese che riuscirono ad agganciarsi alla carovana del progresso si unirono tra loro con l’obiettivo di creare grandi gruppi di interesse economico, creando posizioni di monopolio. Ciò impediva la crescita della piccola impresa, e una vera concorrenza funzionale all’abbassamento dei prezzi delle merci in vendita. È in questo contesto storico che nel 1890 il Congresso vota lo Sherman Act: una legge che impedisce l’alterazione del rapporto tra venditore ed acquirente derivante da intese tra imprese produttrici.
In Europa il fenomeno delle autorità indipendenti ha radici più recenti. Queste si sono sviluppate dapprima in Francia, con l’obiettivo di protezione dei diritti dei cittadini nei confronti di nuovi attori economici sempre più forti e strutturati, ed in Gran Bretagna, dove hanno svolto compiti amministrativi e normativi talora in sostituzione dei giudici (coerentemente al complessivo sistema di common law).
Ma le cause che hanno portato alla nascita di autorità indipendenti agenti nel settore dell’economia sono da ricondurre alla graduale uscita dello Stato dal processo economico ed alla crescente privatizzazione dell’economia. P
osto che la creazione di nuove opportunità per i privati (conseguente all’arretramento dello Stato interventista) si è accompagnata ad una crescente deregulation, il legislatore ha sentito, ad un certo punto, l’esigenza di rientrare sulla scena economica, questa volta con la funzione di garante di una salutare concorrenza economica tra imprese e di tutela il consumatore.
Dal momento che la globalizzazione, l’applicazione di politiche liberiste, la crescente competitività tra imprese ed il processo di armonizzazione del diritto europeo sono elementi comuni a tutti gli ordinamenti statali appartenenti all’allora Comunità Europea, si spiega facilmente la rapida proliferazione in tutti gli ordinamenti europei di autorità indipendenti con specifiche competenze tecniche su vari settori dell’economia.
Le fonti normative
In Italia l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato è stata istituita con la legge 10 ottobre 1990, n. 287. Tale legge sembra essere l’unica fonte normativa che giustifica la presenza di autorità indipendenti in generale. Tuttavia la presenza di tali organi non infrange alcuna norma costituzionale, né potrebbe creare un’ipotetica alterazione dell’equilibrio costituzionale dei poteri come concepito dal costituente; tali autorità sono appunto indipendenti, e traggono fondamento giuridico direttamente dalla legge.
È opportuno ricordare, del resto, che l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato svolge funzioni particolari e specifiche di tutela del consumatore, tutela del risparmio (art. 47 Cost.), tutela della concorrenza. E, dunque, l’Antitrust (insieme alle altre autorità indipendenti) trova giustificazione legale non tanto come organo in sé, quanto come struttura funzionale alla tutela ed al perseguimento di valori riconosciuti dalla Costituzione.
In quest’ottica è l’articolo 41 della Costituzione la chiave di volta del ragionamento attorno alla base costituzionale dell’Autorità garante.
Il 1° comma sancisce che “l’iniziativa economica è libera”, e questo è presupposto imprescindibile per una riflessione attorno alla funzione di tutela della concorrenza e del mercato da parte di un’autorità che si qualifica come indipendente dal potere politico. Se, infatti, l’ecosistema in cui opera l’Antitrust non fosse caratterizzato dal principio di libertà economica, allora il problema di garantire libera concorrenza tra imprese non si porrebbe nemmeno, a fronte dell’ingombrante presenza di uno Stato dirigista che non lascia spazio all’iniziativa economica dei privati.
Con l’analisi del 2° comma, poi, ci si addentra ancora di più in una riflessione sul progetto del costituente di realizzare uno spazio economico, sì libero, ma a patto che non sia in contrasto con l’utilità sociale, che non rechi danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Sembra quasi che sia la stessa norma ad invocare una qualche forma di tutela della libertà economica, in funzione di tutelare valori primari della Costituzione, come sicurezza, libertà e dignità.
Ed infatti ciò che è implicito nel 2° comma, diviene esplicito nel 3° comma dell’art. 41 Cost., che attua una riserva di legge affinché il legislatore provveda a determinare “i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
Infine la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 223 del 1982, precisa che “La libertà di concorrenza tra imprese ha, com’è noto, una duplice finalità: da un lato, integra la libertà di iniziativa economica che spetta nella stessa misura a tutti gli imprenditori e, dall’altro, è diretta alla protezione della collettività, in quanto l’esistenza di una pluralità di imprenditori, in concorrenza tra loro, giova a migliorare la qualità dei prodotti e a contenerne i prezzi”.
Ancora, nella sentenza n. 14 del 2004, la stessa Consulta evidenzia come “proprio l’aver accorpato, nel medesimo titolo di competenza, la moneta, la tutela del risparmio e dei mercati finanziari, il sistema valutario, i sistemi tributario e contabile dello Stato, la perequazione delle risorse finanziarie e, appunto, la tutela della concorrenza, rende palese che quest’ultima costituisce una delle leve della politica economica statale”.
Il riferimento che si è fatto nella parte iniziale riguardo la diffusione delle autorità indipendenti in tutto il continente europeo, trova conferma proprio nella disciplina normativa comunitaria.
La normativa europea in materia di antitrust risale addirittura al Trattato di Roma del 25 marzo 1957, che ha istituito la Comunità Economica Europea. Qui, all’articolo 85, vengono dichiarati nulli di pieno diritto tutti quegli accordi tra imprese tesi a pregiudicare il commercio tra gli Stati membri, o alterare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune. Riferimento di simile portata teleologica si ritrova, inoltre, nel Trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, agli articoli 65 e 66. Oggi i riferimenti alla libera concorrenza ed alla tutela del mercato libero contenuti nei Trattati istitutivi delle prime comunità europee, sono diventati parte integrante del diritto comune europeo, attraverso un’articolata disciplina che ha come fonte principale gli artt. 101 e 102 Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), ed è immediatamente applicabile negli Stati membri.
Alla luce di questi dati, in Italia c’è stata un’applicazione fin troppo tardiva delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, considerando la posizione dell’Italia come membro fondatore della CEE, e considerando il riferimento normativo di rango costituzionale.
Composizione dell’Antitrust
L’Autorità garante della concorrenza e del mercato è un organo collegiale costituito, ex lege, dal presidente e da altri quattro membri. Tuttavia, con un decreto legge risalente al 2011, il legislatore ha determinato la riduzione da 5 a 3 membri (compreso il Presidente).
I membri dell’Autorità sono nominati d’intesa tra il Presidente della Camera dei Deputati e dal Presidente del Senato, con mandato settennale non rinnovabile. Il profilo dei componenti di questa importante authority deve rispecchiare quei valori di indipendenza e professionalità propri del ruolo a cui sono chiamati; per questo motivo essi vengono scelti tra magistrati del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti o della Corte di Cassazione, tra professori ordinari di materie economiche o giuridiche, tra personalità provenienti dal mondo dell’economia di alta e riconosciuta professionalità. L’authority è stata composta dal Presidente Giovanni Pitruzzella, e dai componenti Gabriella Muscolo e Michele Ainis; tuttavia il Presidente ha lasciato l’incarico il 1° ottobre e la carica è vacante al momento.
Un ruolo particolarmente importante è quello del Segretario Generale, che oggi è Filippo Arena. Egli ha il compito di sovrintendere al funzionamento degli uffici ed è il responsabile della struttura. Viene nominato dal Ministro dello Sviluppo Economico, su indicazione del Presidente dell’Autorità.
Poteri dell’Antitrust
L’Autorità garante della concorrenza e del mercato si qualifica giuridicamente come un ente amministrativo a tutti gli effetti, con i relativi poteri di indagine e di sanzione. Il procedimento con cui opera l’antitrust è disciplinato dalla stessa legge 287/1990 che l’ha istituita.
L’authority agisce inizialmente con una fase pre-istruttoria, che precede la fase istruttoria propriamente detta. Ai sensi della norma all’Autorità è consentito assumere elementi rilevanti su determinate pratiche potenzialmente scorrette, di propria sponte o su informazione da parte di pubbliche amministrazioni o di chiunque ne abbia interesse (come le associazioni di consumatori). La procedura, assunti elementi sufficienti, può essere attivata o d’ufficio o su richiesta del Ministro dello sviluppo economico.
In questa fase non è semplice bilanciare la facoltà di assumere elementi determinanti con i limiti dell’attività di acquisizione istruttoria, e su questo punto è intervenuto il Consiglio di Stato con la sentenza n. 652 del 2001. Il Consiglio ha precisato che la fase di valutazione di cui all’art. 12 della l. 10 ottobre 1990, n. 287 non può prescindere da una minima e sommaria istruttoria volta alla verifica delle segnalazioni pervenute; in caso contrario sarebbe necessario comunicare formalmente l’avvio di una procedura d’istruttoria al verificarsi di qualsiasi segnalazione o denuncia, prestando il fianco ad un uso pretestuoso della segnalazione all’Autorità.
Una volta assunti elementi che confermino il fumus di un’infrazione della legge, il Garante notifica formalmente l’apertura dell’istruttoria. Durante la fase istruttoria alle parti incriminate è concesso di presentare deduzioni e pareri, e di essere sentiti più volte prima della chiusura dell’istruttoria. Le imprese, inoltre, possono impegnarsi con l’Autorità al fine di evitare i profili anticoncorrenziali individuati nell’istruttoria, e l’Autorità, valutata l’idoneità degli impegni assunti dall’impresa, può renderli obbligatori e chiudere il procedimento senza l’accertamento dell’infrazione. Viene comunque fatta salva la possibilità per l’authority di riaprire d’ufficio il procedimento qualora l’impresa venga meno agli impegni assunti, e di irrorare una sanzione amministrativa fino al 10% del fatturato dell’impresa qualora l’impresa non rispetti gli impegni presi.
Come detto precedentemente, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha il potere di infiggere diffide e sanzioni, e questo potere deriva direttamente dalla norma istitutiva, agli artt. 15 (in casi di intese restrittive della concorrenza e di abuso di posizione dominante) e 19 (in casi di concentrazione). Qualora l’Autorità ravvisi infrazioni durante l’istruttoria, può fissare termini per l’eliminazione di queste da parte delle imprese colpevoli, e, nei casi particolarmente gravi, disporre una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10% del fatturato realizzato dall’impresa.
I provvedimenti dell’Antitrust non colpiscono solo soggetti di diritto privato (come imprese, banche, assicurazioni etc.), ma anche le pubbliche amministrazioni. I poteri del Garante della concorrenza e del mercato nei confronti della pubblica amministrazione, però, sono oggetto di una particolare disciplina regolata dall’art. 21bis della L. 287/1990. In questo caso l’Autorità, dove ritenga che gli atti amministrativi siano lesivi delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, emette un parere motivato nel quale indica gli specifici profili di illegittimità; se la pubblica amministrazione non si conforma al parere dell’authority, questa può presentare ricorso tramite l’Avvocatura dello Stato.
L’Antitrust, poi, ha poteri di conoscitivi e consultivi nei confronti del Parlamento, del Governo e delle pubbliche amministrazioni. Questa norma va incontro alla necessità di garantire una tutela organica e preventiva della libera concorrenza, e permette all’authority di segnalare effetti potenzialmente distorsivi del principio di libera concorrenza risultanti dalle norme del Parlamento e del Governo, nonché dagli atti della pubblica amministrazione. Pareri consultivi dell’Autorità possono essere richiesti dal Presidente del Consiglio su determinati provvedimenti legislativi che possano in qualche modo alterare le dinamiche di concorrenza e libertà nel quadro economico su cui le norme andranno ad agire.
L’indipendenza
Nel caso delle authorities, come l’Autorità Garante del Mercato e della Concorrenza, l’indipendenza è il principio cardine nello svolgimento dell’intera attività, ed è il principio su cui si fonda la stessa organizzazione strutturale dell’authority. L’indipendenza viene espressamente richiamata come criterio per la scelta del Presidente e dei componenti, al fine di garantire che l’attività svolta dall’Autorità sia imparziale ed al riparo da possibili conflitti d’interesse che coinvolgano personalmente i soggetti chiamati a decidere.
Per questo motivo, inoltre, è fatto esplicito divieto per i membri di esercitare attività professionali o di consulenza, di essere dipendenti ed amministratori di enti pubblici e privati, o di ricoprire incarichi pubblici di qualsiasi natura. L’indipendenza esterna dell’Autorità è funzionale al corretto svolgimento del ruolo di garante e di arbitro che le è proprio.
Se questa indipendenza non fosse garantita da opportuni strumenti di legge, l’authority diverrebbe un organo in balia delle contingenze e degli interessi economici degli enti su cui dovrebbe vigilare. Verrebbe sovvertito l’ordine funzionale dell’Autorità permettendo il controllo del controllato sul controllore.
Non sarebbe tutelato, poi, il sommo principio dell’eguaglianza formale di cui all’articolo 3 della Costituzione: a parità di condizioni si richiede parità di trattamenti. Uguali trattamenti possono derivare solo da un organismo del tutto indipendente ed autonomo, sia da interessi privatistici, che da interessi pubblici (relativamente agli atti delle pubbliche amministrazioni). In seconda analisi si osserva che, a monte di una indipendenza esterna, è necessaria una forma di indipendenza interna.
Ecco perché è l’Autorità stessa che delibera le norme concernenti la propria organizzazione ed il proprio funzionamento.
Il principio d’indipendenza interna si riflette su aspetti delicati della vita; pertanto anche il trattamento giuridico ed economico del personale e l’ordinamento delle carriere vengono disciplinati autonomamente dall’Antitrust. L’indipendenza interna si traduce, certamente, anche in autonomia di spesa, per cui l’Autorità provvede autonomamente alla rendicontazione delle proprie spese di gestione attraverso la presentazione di un bilancio annuale di previsione.
Informazioni
Le autorità amministrative indipendenti (G. Cirillo, R. Chieppa)
15 U.S. Code, Chapter 1 – Monopolies and combinations in restraint of trade
Manuale di Diritto Costituzionale (L. Mezzetti)
Diritto privato (F. Galgano)
10 ottobre 1990, n. 287 – Norme per la tutela della concorrenza e del mercato
Artt. 41 – 47 Cost.
Art. 117, co. 2, lett. e Cost.
Sent. N. 223/1982 della Corte Costituzionale
Sent. N. 14/2004 della Corte Costituzionale
Trattato di Roma del 25 marzo 1957 – Trattato che istituisce la Comunità economica europea
Trattato di Parigi del 18 aprile 1951 – Trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio
Le decisioni del giudice amministrativo sulla legge antitrust nell’anno 2001 (G. Amorelli)
Sent. N. 4053/2001 del Consiglio di Stato
Sent. N. 652/2001 del Consiglio di Stato
Giuseppe Nicolino ha approfondito qualche provvedimento in questo articolo.
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