Il rito del lavoro: cos'è?
Il rito del lavoro è un rito speciale a cognizione piena avente delle caratteristiche peculiari rispetto al rito ordinario. Tuttavia, è afflitto dalle stesse problematiche di cui il sistema processuale italiano soffre da anni
Il rito del lavoro: un rito speciale a cognizione piena
Quando si parla di “rito lavoro” si ha l’idea di essere di fronte ad un tertium genus – una terza categoria di processo rispetto a quello civile e penale. In realtà esso si innesta all’interno della grande famiglia dei processi a cognizione piena di matrice civilistica, anche se è caratterizzato dalla specialità del rito. Per questo, alla domanda “cos’è il rito lavoro?” bisogna rispondere “un rito speciale a cognizione piena”.
Infatti, la peculiarità dei diritti soggettivi che sorgono nell’ambito laburistico necessita di una tutela “speciale”, attuabile attraverso la costruzione di un modello procedimentale parzialmente differenziato rispetto a quello tradizionale caratterizzante il processo di ordinaria cognizione (artt. 163-408 c.p.c.).
Da ciò si ricava che la specialità rispetto al processo ordinario, è data dalla differenziazione del rito e cioè delle regole procedimentali, e non dall’appartenenza ad una diversa categoria procedimentale.
La cognizione piena del rito, invece, sta ad indicare la capacità dei provvedimenti emanati dal giudice a formare giudicato sostanziale[1].
Nel corso del tempo il legislatore credendo di migliorare l’efficienza e la rapidità delle decisioni, ha emanato innumerevoli leggi speciali contenenti riti speciali di ogni natura, ottenendo al contrario, un aumento considerevole delle regole procedimentali e di conseguenza un’eccessiva frammentarietà processuale[2]. Proprio al fine di limitare le conseguenze della proliferazione di riti speciali con il d.lgs. n. 150 del 2011[3], il legislatore ha previsto che tutti i riti speciali introdotti nel corso degli anni dovessero essere ricondotti ai tre modelli processuali previsti dal Codice di procedura civile e cioè:
- rito ordinario,
- rito del lavoro e
- rito sommario di cognizione.
Tale decisione ha inevitabilmente comportato una notevole estensione dei casi in cui si applica il rito lavoro[4], come ad esempio le controversie in materia di contratti agrari e i procedimenti di impugnazione dei provvedimenti in materia di registro dei protesti.
Le caratteristiche principali del rito lavoro
Il rito lavoro è sempre stato disciplinato nel Codice di procedura civile dagli articoli 409 a 447, tuttavia la disciplina del codice del 1940 è stata modificata con la legge dell’11 agosto 1973 n.533[5].[6] Questa riforma ha introdotto le tre caratteristiche fondamentali del rito lavoro:
- organo monocratico: le controversie previste dall’art.409 c.p.c. sono demandate, in primo grado, alla competenza di un giudice monocratico, a prescindere dal valore e dall’oggetto delle stesse, alimentando la specializzazione nella materia lavoristica e previdenziale dei giudici demandati alla trattazione di queste cause;
- processo ispirato ai principi dell’oralità, dell’immediatezza e della concentrazione: tali principi sono finalizzati a garantire la certezza dl diritto e una tutela quanto più immediata in virtù della particolare delicatezza dei diritti in gioco;
- sistema rigido di preclusioni: al fine di permettere al giudice di decidere subito dopo il contatto diretto con le parti e l’acquisizione dei mezzi di prova.
Perciò, trattandosi di un rito speciale a cognizione piena, si applicano le norme contenute nel primo libro del Codice di procedura civile per tutto quanto non espressamente previsto dal Titolo IV, Libro II dedicato alle controversie in materia di lavoro.
Tali caratteristiche investono tutte le fasi del rito lavoro, il quale si differenzia dal rito ordinario per diversi aspetti:
- fase introduttiva: l’atto introduttivo è rappresentato dal ricorso[7] e non dall’atto di citazione, in modo da permettere al giudice e non all’attore di fissare l’udienza di discussione. L’attore, all’atto di deposito, si costituisce in giudizio, per cui non potrà mai essere contumace. In seguito, il codice prevede che il tribunale fissi con decreto l’udienza di discussione nonché il termine entro il quale il ricorrente deve notificare il ricorso e il decreto al convenuto. Quest’ultimo dovrà costituirsi entro 10 giorni[8] dalla data in cui è fissata l’udienza con memoria difensiva, la quale dovrà contenere le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni;
- fase di trattazione ed istruttoria: l’art. 420 c.p.c. prevede un’unitaria udienza di discussione che, in virtù del divieto di disporre di udienze di mero rinvio, potrebbe portare alla trattazione e decisione in poche udienze Durante tale udienza, dopo lo svolgimento dell’interrogatorio libero e dell’eventuale tentativo di conciliazione, le parti possono modificare le domande qualora sussistano gravi motivi e se il giudice vi consenta. Il giudice poi, ammette i mezzi di prova richiesti dalle parti nella fase introduttiva ed è proprio in tema di prove che risiede la peculiarità di tale fase. Infatti, ai sensi dell’art.421 c.p.c. il giudice può disporre d’ufficio in qualsiasi momento, l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche al di fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché della richiesta di informazioni e osservazioni sia scritte che orali alle associazioni sindacali indicate dalle parti. Ciò ovviamente non significa che il giudice possa ricercare autonomamente le prove, in quanto l’onere di allegazione[9] delle parti è un principio generale che governa il processo civile e anche il rito lavoro. Secondo la giurisprudenza il potere istruttorio d’ufficio nel rito del lavoro non è meramente discrezionale ma costituisce un potere-dovere da esercitare contemperando il principio dispositivo con quello della ricerca della verità[10]:
- fase della decisione: ai sensi dell’art.420, 4° comma il giudice perviene alla decisione della causa quando sorgono questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali, ovvero quando ritiene la causa matura per la decisione.[11] Il giudice decide con sentenza dando lettura del dispositivo in udienza, mentre la motivazione deve essere depositata entro 15 gg. dalla pronuncia;
- appello: si applica in quanto non espressamente derogato la disciplina sulle impugnazioni. Deve essere proposto con ricorso davanti alla corte d’appello territorialmente competente in funzione del giudice del lavoro, ai sensi dell’art.440 c.p.c sono inappellabili le sentenze che hanno un valore di 25,82 euro.
Conclusioni
Nonostante la peculiarità dei diritti in gioco e un certo favor che il legislatore nutre nei confronti dei lavoratori la realtà processuale risulta essere molto differente da quanto previsto dalla legge.
Per gli operatori del diritto che lavorano in tale ambito i principi di Chiovendana memoria[12] cui si ispira il rito del lavoro rappresentano una chimera. L’oralità che implica una presenza attiva delle parti nelle aule di tribunale è progressivamente erosa dalla telematicità processuale, pratica che sta riducendo il processo a un mero fatto burocratico. L’immediatezza e la concentrazione sono principi utopici non solo nel rito del lavoro ma in tutto il sistema processuale italiano. Nessun processo, nella storia del diritto si è concluso in una o poche udienze, ma c’è sempre stato bisogno di tempo per far sì che una causa fosse matura.
L’ingolfamento del sistema processuale è sicuramente figlio di una carenza notevole di organico e dal numero davvero irrisorio di giudici che si trovano a dover decidere un numero spropositato di cause. Orbene, lungi dal volere prospettare soluzione, è necessario comunque sottolineare le problematiche del sistema processuale italiano, di cui il rito lavoro ne è immagine fedele. I tempi processuali devono essere proporzionati all’importanza dei diritti in gioco, così come i magistrati dovrebbero dedicare il giusto tempo ad ogni causa, senza farne una questione di quantità ma ti qualità. Non a caso l’art. 111 Cost. custodisce il principio di ragionevole durata del processo, il quale potrà essere attuato solo nel momento in cui si riuscirà a trovare un equilibrio tra efficienza e giustizia[13].
Bisogna ricordare che dietro i fascicoli che affollano le aule di tribunale c’è la vita e i diritti di milioni di persone e non semplicemente un numero di ruolo da smaltire.
Informazioni
ARIETE G., DE SANTIS F., & MONTESANO L. (2018). Corso base di diritto processuale civile. CEDAM.
DE LUCA M. ( 2013). Diritti dei lavoratori: strumentalità del processo versus declino della tutela giurisdizionale effettiva ( a quarant’anni dalla fondazione del nuovo processo del lavoro). Rivista italiana di diritto del lavoro, 271 ss.
Della Piazza S. (2021). La riforma Cartabia del processo penale e del processo civile. Dirittoconsenso. Link: La riforma Cartabia del processo penale e del processo civile – DirittoConsenso
PISANI C. (2011). Processo del lavoro, allegazione tardiva dei fatti e limiti al potere istruttorio del giudice. Rivista italiana del diritto del lavoro, 207 ss.
Cass. n. 23039/2017 consultabile su https://www.tcnotiziario.it/Articolo/Index?settings=dWp1UjZUQ0F1c1Y1eGFVZHdDSXl5cHZET1Zhd2tUL1AvVjl3dGorUkNXRElFOXI4L2ZhU1Ezcy8ySmNUNXFRRnZaa1NyN0l2aXpOMStyQkNQMVVYd2cwWi9QanJQZkRnMU9YTlpvcEd4Q1hFMUd4RXd6UHY3cWQxbW5vVFFJTEk=
D.lgs. n. 150 del 2011 consultabile qui: DECRETO LEGISLATIVO 1 settembre 2011, n. 150 – Normattiva
Legge dell’11 agosto 1973 n.533 consultabile qui: LEGGE 11 agosto 1973, n. 533 – Normattiva
[1] A differenza dei procedimenti a cognizione sommaria, disciplinati dal libro IV° del codice di procedura civile, i quali, pur essendo speciali, basandosi su una cognizione sommaria inidonea alla formazione del giudicato sostanziale.
[2] In tal senso ARIETE G., DE SANTIS F., MONTESANO L., Corso base di Diritto Processuale Civile, a cura di Ariete G., De Santis F., VII° ed., p.656.
[3] Consultabile su https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:2011-09-01;150~art6 .
[4] Vedi art. 6 ss. d.lgs.150/2011.
[5] Consultabile su https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1973-08-11;533!vig= .
[6] Per un’analisi critica della riforma del rito lavoro vd. De Luca M. “DIRITTI DEI LAVORATORI: STRUMENTALITÀ DEL PROCESSO VERSUS DECLINO DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE EFFETTIVA (A QUARANT’ANNI DALLA FONDAZIONE DEL NUOVO PROCESSO DEL LAVORO)” in Riv. it. dir. lav., fasc.2, 2013, pag. 271.
[7] Il ricorso deve contenere: indicazione del giudice adito, generalità delle parti, oggetto domanda, esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda, conclusioni, indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti.
[8] Nel rito ordinario il convenuto ai sensi dell’art.166 c.p.c. deve costituirsi entro 20 gg. dalla data in cui è fissata l’udienza di comparizione nell’atto di citazione notificato.
[9] Per approfondire vd. Pisani C. “PROCESSO DEL LAVORO, ALLEGAZIONE TARDIVA DEI FATTI E LIMITI AL POTERE ISTRUTTORIO DEL GIUDICE” in Riv. it. dir. lav., fasc.2, 2011, pag. 207
[10] Cass. n. 23039/2017 consultabile su https://www.tcnotiziario.it/Articolo/Index?settings=dWp1UjZUQ0F1c1Y1eGFVZHdDSXl5cHZET1Zhd2tUL1AvVjl3dGorUkNXRElFOXI4L2ZhU1Ezcy8ySmNUNXFRRnZaa1NyN0l2aXpOMStyQkNQMVVYd2cwWi9QanJQZkRnMU9YTlpvcEd4Q1hFMUd4RXd6UHY3cWQxbW5vVFFJTEk= .
[11] Con d.lgs. n.40 del 2006 è stato introdotto l’art. 420-bis. La presente norma disciplina l’ipotesi in cui, per decidere una delle controversie individuali di lavoro elencate all’art. 409 del c.p.c., si renda necessario risolvere preliminarmente (in via pregiudiziale) una questione relativa ad efficacia, validità o interpretazione di clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale. La possibilità di tale accertamento pregiudiziale non rappresenta una novità per l’ordinamento italiano, in quanto costituisce, in un certo senso, la generalizzazione dell’art. 64 del D.Lgs. 30.3.2001, n. 165, norma che, limitatamente al settore pubblico, aveva introdotto una particolare forma di accertamento preventivo sulla validità, efficacia ed interpretazione dei contratti collettivi nazionali, prevedendo l’emanazione di una sentenza non definitiva da parte del giudice di merito, impugnabile solo con ricorso immediato per cassazione (proponibile anche dall’Aran), con automatica sospensione del giudizio di merito.
[12] Ci si riferisce alle idee di Giuseppe Chiovenda. Per approfondire la sua figura vd. https://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-chiovenda_%28Dizionario-Biografico%29/ ove si può leggere: “Il C. vedeva nella organizzazione del processo “l’intero problema del rapporto fra lo Stato e il cittadino”; problema da risolvere facendo sì “che il giudice, come organo dello Stato. non debba assistere passivamente alla lite … ma debba partecipare alla lite come forza viva e attiva”, non già in quanto dotato di poteri equitativi, ma in quanto investito della direzione del processo (dei suoi tempi, delle modalità, delle attività probatorie) e della iniziativa e dell’impulso processuale. l C. propugnava un codice processuale civile completamente nuovo ed imperniato non sui principi del processo liberale napoleonico, bensì su quelli del processo austriaco del Klein. Poiché negli anni immediatamente precedenti la guerra l’interesse per il processo austriaco e la sua adozione come modello si verificarono anche in Germania, occorre ricordare quanto segue. Il momento politico del C. si verificò nel 1918, quando fu istituita la Commissione per il dopo guerra, nel cui ambito egli venne chiamato a presiedere il gruppo per gli studi processuali; in pochi mesi preparò un progetto di riforma del procedimento civile, in duecentoquattro articoli raggruppati in cinque’titoli, ed una dotta relazione. Il modello ispiratore era: il processo austriaco. La riforma progettata dal C. non fu attuata”; per sintetizzare le idee processuali di Chiovenda vd. Chiovenda G. in ISTITUZIONI DI DIRITTO PROCESSUALE CIVILE, p.42 ove si legge: “Il processo deve dare, per quanto è possibile, praticamente a chi ha un diritto, tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire”.
[13] Per approfondire vd. Della Piazza S., “La riforma Cartabia del processo penale e del processo civile” in La riforma Cartabia del processo penale e del processo civile – DirittoConsenso
Le origini del mobbing
Il mobbing nasce come un fenomeno sociale patologico all’interno dei luoghi di lavori, per questo, pur non avendo una configurazione normativa, la giurisprudenza ha cercato di regolare la fattispecie
Il mobbing: un fenomeno socio-normativo
Il termine mobbing deriva dal verbo inglese to mob[1] «assalire in massa» «circondare», anche se l’etimo risalirebbe al latino mobile vulgus, per indicare la «sommossa di popolo senza capi». Tuttavia, se inizialmente l’espressione era riferita ad un fenomeno collettivo e di gruppo, ad oggi è ricollegata ad un profilo individuale dell’azione, mettendo in luce una vera e propria metamorfosi rispetto al pensiero originario[2]. Dall’etimologia della parola appare chiaro che si tratta di un fenomeno sociale, il quale ha conservato la sua natura lessicale anche nella trasposizione giuridica.
I primi studi in merito risalgono agli anni ’80 quando lo psicologo del lavoro Heinz Leymann aveva intuito l’esistenza di una nuova patologia che interessava gli operai e gli impiegati, generata da una serie di traumi psicologici subiti sul lavoro. Leymann definiva tale malattia come mobbing e cioè “terrore psicologico sul posto di lavoro” il quale “consiste in una comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da più persone principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa, e qui costretto a restare da continue attività ostili. Queste azioni sono effettuate con un’alta frequenza (definizione statica: almeno una volta alla settimana) e per un lungo periodo di tempo (definizione statica: per almeno sei mesi). A causa dell’alta frequenza e della lunga durata, il comportamento ostile dà luogo a seri disagi psicologici, psicosomatici e sociali)”[3].
La diffusione di questi studi innovativi in Italia si ha alla fine degli anni ’90, grazie allo psicologo del lavoro e ricercatore Harald Ege il quale ha riadattato al contesto italiano il modello di mobbing teorizzato da Leymann. Ege definisce il mobbing come “una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisica permanente”[4].
La natura fortemente psico-sociologica del fenomeno rende difficoltosa la creazione di una nozione giuridica di mobbing, anche se sono stati effettuati diversi tentativi dal nostro legislatore[5]. L’assenza di una nozione giuridica acuisce il ruolo dell’interprete, il quale si confronta con una realtà mutevole che sfugge ad ogni tentativo di tipizzazione.
La ricostruzione giuridica del mobbing
La fenomenologia sociale del mobbing ha impedito una cristallizzazione legislativa della materia, ma allo stesso tempo ha invaso le aule di tribunale, dando al c.d. diritto vivente l’arduo compito di plasmarne un’immagine chiara. Infatti, il mobbing fa il suo primo ingresso nel panorama giurisprudenziale con la storica sentenza del 16 novembre 1999 redatta dalla sezione lavoro del tribunale di Torino[6].
A 23 anni[7] dalla pubblicazione di questa sentenza il legislatore non si è ancora pronunciato; tuttavia, i capisaldi normativi a cui attingere rimangono pressoché invariati. Il giudice richiamò, al fine di giustificare risarcimento del danno psichico subito dal dipendente rimasto vittima di pratiche di mobbing messe in atto dal capoturno[8], l’art. 32 Cost. e l’art. 2094 c.c., due norme presenti nel nostro ordinamento giuridico molto prima della scoperta del mobbing, la cui genericità e pregnanza valoriale hanno permesso la tutela di una nuova fattispecie.
La novità di questa pronuncia risiede nel fatto che è stata effettuata una valutazione unitaria di comportamenti leciti messi in atto, reiteratamente, dal datore di lavoro (nel caso di specie) ma finalizzati alla realizzazione di uno scopo illecito e antigiuridico.
A condire ulteriormente le caratteristiche del fenomeno ci ha pensato la Corte Costituzionale con una pronuncia del 2003[9], la quale, nell’intento di evitare che le regioni potessero disciplinare a proprio piacimento la materia, ha chiarito che:
“Il termine mobbing designa, in campo etologico e sociologico, un fenomeno articolato consistente in una serie di atti e comportamenti vessatori, di tipo commissivo od omissivo – magari in sé leciti o da soli giuridicamente insignificanti, ma elementi rilevanti in una ottica complessiva – protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore, destinatario e vittima, da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui egli è inserito o del suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione. Posto che, allo stato delle attuali esperienze, il fenomeno del mobbing provoca l’insorgere nel destinatario di disturbi eventualmente anche a sfondo psicotico, ovvero reazioni alle persecuzioni ed emarginazioni a carattere perfino illecito che possono condurre alle dimissioni o al licenziamento, un’ipotizzabile regolamentazione in materia può riguardare un triplice oggetto la prevenzione e repressione dei comportamenti dei soggetti attivi del fenomeno, le misure di sostegno psicologico della vittima e, se del caso, le procedure di accesso alle necessarie terapie sanitarie, il regime delle condotte poste in essere per reazione dalla stessa vittima. Premesso che, in carenza di specifica normativa statale, la giurisprudenza prevalente riconduce le fattispecie di mobbing entro la previsione dell’art. 2087, cod.civ., concernente le misure che, a pena di responsabilità, l’imprenditore deve adottare a tutela dell’integrità fisica e morale del prestatore, la materia riguardata dal fenomeno, valutato nella sua complessità anche alla luce degli atti normativi interni e comunitari, è riconducibile, sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro, all’ordinamento civile di cui all’art. 117, comma 2, lett. l), Cost., nonché, comunque, all’esigenza di salvaguardia della dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore, a mente degli artt. 2 e 3, Cost., mentre, per gli aspetti incidenti sulla salute fisio-psichica del lavoratore, rientra, ai sensi dell’art. 117, comma 3, nella tutela e sicurezza del lavoro ed in quella della salute, cui la prima tutela si collega.”.
Ulteriore aspetto decisivo in ordine alla diffusione del mobbing fu la risoluzione adottata dal Parlamento Europeo nel settembre del 2001[10]. Mediante tale risoluzione l’Europa cercò di fornire risposta adeguata al dilagante fenomeno del mobbing che secondo le statistiche interessava quasi 12 milioni di persone in tutta Europa, evidenziando l’ambito di sviluppo dello stesso e indicando i principi[11] idonei alla sua limitazione. A seguito del detto provvedimento alcune Regioni iniziarono a legiferare, con alterne sorti, in materia di mobbing[12].
Questa mobilitazione europea, nazionale e regionale, ha dato vita all’inizio di un grosso lavoro da parte della dottrina e della giurisprudenza finalizzato ad incentivare quanto più possibile l’emersione del fenomeno, scoraggiando a livello sociale l’attuazione di pratiche mobbizzanti.
Ad oggi, sulla scorta delle tappe giurisprudenziali che hanno dato al fenomeno contorni giuridici, la Cassazione è abbastanza uniforme nello stabilire che ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere:
- una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
- l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
- il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
- l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi[13].
Osservazioni conclusive
Alla luce di quanto sopra esposto è inevitabile osservare come i principi base per la regolamentazione del mobbing sono già presenti da tempo immemore nel nostro ordinamento. Tuttavia, è bene ricordare in questa sede anche l’art. 4 della nostra Costituzione, ai sensi del quale:
“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”.
Ebbene il progresso materiale e spirituale della società, e quindi anche del singolo che la compone, non può non passare attraverso la creazione di condizioni lavorative, da parte della Repubblica, che mettano il lavoratore nelle condizioni di continuare ad essere un essere umano, e non una macchina scevra da sentimenti ed emozioni. Non può scindersi il lavoratore dalla persona, perché entrambi sono la stessa cosa, e i diritti umani non possono essere ignorati sui luoghi di lavoro, dato che il lavoro è un principio fondante della nostra Repubblica[14].
Pertanto, al fine di tutelare quanto più possibile un diritto di tale levatura risulta essere necessaria la creazione di un apparato normativo tale da rafforzare i diritti dei lavoratori in quanto persone e punite, non semplicemente scoraggiare le condotte che vanno contro dei principi costituzionalmente garantiti.
Informazioni
Amato e Lazzeroni. (2002). Individuazione della nozione. In Amato, Casciano, Lazzeroni, Loffredo, Il mobbing. Aspetti lavoristivi: nozione, responsabilità, tutele (p. 13 ss.). Milano.
Cerbero M. (2015). voce mobbing. Annali, VIII.
Colantonio R. (2021, marzo 31). Vent’anni dopo: rileggere la prima sentenza italiana sul Mobbing. il sole 24 ore.
Di Giulio T. (s.d.). Brevi cenni sulla normativa in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. dirittoconsenso. Tratto da http://www.dirittoconsenso.it/2021/05/28/salute-e-sicurezza-nei-luoghi-di-lavoro-caso-amazon/
Ege H. (2002). La valutazione peritale del danno da mobbing. Milano: Giuffrè.
M.B. (2005). Mobbing e responsabilità contrattuale del datore di lavoro. Responsabilità Civile e Previdenza, 224 ss.
Mazzamuto S. (2004). Il mobbing. Milano.
Tribunale Torino Sez. lavoro, 16/11/1999 in Danno e Resp., 2000, 4, 403;
Corte cost., 19/12/2003, n. 359 in Ragiusan, 2004, 239/240, 269;
Cassazione Civile, Sez. Lav., 27 aprile 2018, n. 10285, in il Lavoro nella giurisprudenza 4/2019;
Cass., Sez. lav., 6 agosto 2014, n. 17698
Cass., Sez. lav. 21 maggio 2011, n. 12048
Cass., Sez. lav., 26 marzo 2010, n. 7382
Pedrazzoli M. (2007). Tutela drella persona e aggressioni alla sfera psichica del lalvoratore. In Pedrazzoli M., Vessazioni e angherie sul lavoro (p. 3). Bologna.
Vorano M. (2010). voce mobbing. Digesto.
[1] Trib. Torino 16 novembre 1999, in Riv. It. Dir. Lav., 2000, II, pag. 102. Nel 1999 il Tribunale di Torino ha osservato che il termine «proviene dalla lingua inglese e dal verbo “to mob”(attaccare, assalire) e mediato dall’etologia […] si riferisce al comportamento di alcune specie animali, solite circondare minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo»; trasfuso nei rapporti di lavoro, si realizza quando «il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in sé stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio».
[2] Per approfondire vedi Mazzamuto S., Il mobbing, Milano, 2004, 1; Pedrazzoli M., Tutela della persona e aggressioni alla sfera psichica del lavoratore, in Vessazione e angherie sul lavoro, Bologna, 2007,3.
[3] M.B., Mobbing e responsabilità contrattuale del datore di lavoro, in Responsabilità Civile e Previdenza, 2005, p.224.
[4] H. Ege, La valutazione peritale del danno da mobbing, Giuffré Milano 2002, pag. 39.
[5] Per la ricostruzione delle più importanti proposte definitorie v. Amato e Lazzeroni, Individuazione della nozione, in Amato, Casciano, Lazzeroni e Loffredo, Il mobbing. Aspetti lavoristici: nozione, responsabilità, tutele; Milano, 2002, 13 ss.
[6] Tribunale Torino Sez. lavoro, 16/11/1999 in Danno e Resp., 2000, 4, 403; vedi anche nota 1.
[7] Interessante sul punto è l’articolo di Roberto Colantonio, Vent’anni dopo: rileggere la prima sentenza italiana sul Mobbing, pubblicata il 31 marzo 2021 su “il sole 24 ore” e fruibile su https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/vent-anni-dopo-rileggere-prima-sentenza-italiana-mobbing-ADLQ3RUB .
[8] Nel caso di specie, è stato ritenuto fonte di responsabilità del datore di lavoro il comportamento del diretto superiore della vittima, che aveva molestato sessualmente la stessa, le rivolgeva frasi offensive e incivili, l’aveva confinata in una postazione di lavoro angusta e chiusa tra cassoni di lavorazione, e le aveva impedito qualsiasi contatto con gli altri colleghi di lavoro
[9] Corte cost., 19/12/2003, n. 359 in Ragiusan, 2004, 239/240, 269.
[10] Risoluzione del Parlamento europeo sul mobbing sul posto di lavoro 2001/2339, consultabile su https://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+TA+P5-TA-2001-0478+0+DOC+XML+V0//IT.
[11] Tali principi sono: 1) lotta alla precarietà 2) le gravi conseguenze derivanti dal mobbing 3) la circostanza per la quale vittima del mobbing sian molto spesso le donne 4) le false accuse di mobbing si trasformano a loro volta in condotte mobbizzanti 5) la posizione preminente nell’adozione delle misure di prevenzione del mobbing 6) l’invito ad inserire nei propri ordinamenti l’istituto del mobbing e se possibile ad uniformarne i caratteri a livello europeo.
[12] Per approfondire vedi voce mobbing, in Digesto, I agg., 2010, di Vorano M.; cfr. voce mobbing, in Annali, VIII, 2015, di Cerbero M.
[13] Cassazione Civile, Sez. Lav., 27 aprile 2018, n. 10285, in il Lavoro nella giurisprudenza 4/2019; cfr. Cass., Sez. lav., 6 agosto 2014, n. 17698; Cass., Sez. lav. 21 maggio 2011, n. 12048; Cass., Sez. lav., 26 marzo 2010, n. 7382.
[14] Per approfondire ulteriormente il punto, vedi Di Giulio T., Brevi cenni sulla normativa in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, in http://www.dirittoconsenso.it/2021/05/28/salute-e-sicurezza-nei-luoghi-di-lavoro-caso-amazon/ .
La violenza economica
Alla violenza economica, forma di discriminazione di difficile emersione sociale, ci sono varie forme di tutela sul piano civilistico e penalistico
Cos’è la violenza economica?
La violenza economica è configurabile come una delle forme più subdole di violenza domestica. Infatti, le donne che generalmente subiscono questa discriminazione non si rendono conto che il controllo economico da parte dell’uomo configuri già di per sé una violenza, la quale può o meno accompagnarsi alla violenza fisica.
Si tratta di una vera e propria forma di discriminazione che consiste in “atti di controllo e monitoraggio del comportamento di una donna in termini di uso e distribuzione del denaro, con la costante minaccia di negare risorse economiche, ovvero attraverso un’esposizione debitoria, o ancora impedendole di avere un lavoro e un’entrata finanziaria personale e di utilizzare le proprie risorse secondo la sua volontà”[1].
Sono individuabili tre livelli di violenza economica:
- la donna viene esclusa dalla gestione finanziaria;
- l’uomo non concede denaro alla donna
- l’uomo costringere la donna ad erodere il suo patrimonio o a firmare inconsapevolmente documenti finanziari.
Proprio in virtù della poca informazione e della difficile emersione del problema, non ci sono delle statistiche ufficiali in grado di monitorare il fenomeno. Queste ultime sarebbero utile al fine di prevenire e contrastare questo tipo di violenza. Tuttavia, nel 2019 sono stati presentati dati rilevanti al Festival dello Sviluppo Sostenibile da parte del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro). In base a tale analisi, in Italia tre donne su dieci non hanno un conto corrente e non possono gestire in autonomia i propri guadagni[2]. Altro lavoro di monitoraggio utile è quello effettuato dall’associazione D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza), dove è emerso che il 34% delle donne che si rivolge alla struttura denuncia episodi di violenza economica[3].
Il denaro diventa di conseguenza strumento di ricatto e di sottomissione della donna.
Inquadramento normativo
Il legislatore ha parlato per la prima volta di violenza economica nell’art. 3 del decreto 93/2013 convertito dalla legge 119/2013[4], il quale prevede delle misure di prevenzione per le condotte di violenza domestica. Tuttavia, una definizione più ampia è ricavabile dall’art. 3[5] della c.d. Convenzione d’Istanbul, in base al quale la violenza economica viene inquadrata come “una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne”; inoltre l’art.12 della medesima Convenzione prevede che “le Parti adottano le misure necessarie per promuovere i cambiamenti nei comportamenti socioculturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull’idea dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini”.
Disposizioni del codice civile e del codice penale
In Italia anche se la fattispecie non gode di una normativa specifica, può ricevere tutela sia da un punto di vista civilistico che penalistico. Infatti, ai casi di violenza economica si possono applicare gli ordini di protezione contro gli abusi familiari ai sensi dell’art. 342 bis[6] e dell’art. 342 ter[7] del codice civile.
Da un punto di vista penalistico, la condotta può rientrare in varie fattispecie criminose già tipizzate:
- maltrattamenti in famiglia (art. 572 del codice penale)
- violenza privata (art. 610 del codice penale);
- riduzione e mantenimento in schiavitù (art. 600 del codice penale);
- violazione degli obblighi di assistenza familiare (art.570 c.p., nonché art. 12 sexies della legge 898 del 1970 e art. 3 della legge 154 del 2006).
Tuttavia, è l’art. 572 c.p.[8] la norma cui la giurisprudenza riconduce, sovente, la violenza economica. Ciò è confermato anche dalla Corte di Cassazione, la quale nel 2016 ha statuito che: “la privazione di disponibilità economiche costituisce una delle numerose modalità di maltrattamento poste in essere”[9].
Riflessioni conclusive e attuali
Nonostante siano molteplici le soluzioni giuridiche applicabili a questo tipo di violenza, il problema è a monte, cioè nell’emersione del fenomeno.
Se le donne faticano a denunciare casi gravi di violenza fisica e sessuale, come potrebbero avvertire la minaccia in un dominio di tipo economico da parte dell’uomo? È la mentalità della società che deve subire un mutamento radicale, in quanto le regole non scritte del patriarcato non devono più prevalere sul principio di eguaglianza sostanziale e sulla libertà di autodeterminazione che spetta a ciascuno di noi in quanto esseri umani (e non uomo o donna).
Il diritto e la sua interpretazione riflettono l’andamento della società, per questo è necessario fare dei suddetti principi un manifesto culturale che porti le nuove e le vecchie generazioni a realizzare in concreto il progetto di eguaglianza nella giustizia sociale[10] voluto dai padri costituenti.
Il periodo pandemico ha acuito vertiginosamente il problema della violenza di genere in ogni sua forma, portando il legislatore a rifinanziare, con 3 milioni di euro il “Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità” istituito già nel 2006[11]. Inoltre, nel dicembre 2020 è stato approvato un emendamento alla legge di Bilancio 2021, con il quale si è deciso di stanziare 10 milioni di euro al suddetto Fondo. Questo importante investimento ha proprio il fine di aiutare le donne che si trovano in condizione di forte vulnerabilità, attraverso percorsi volti all’indipendenza economica, all’ autonomia e all’emancipazione delle donne vittime di violenza in condizione di povertà.
Di sicuro si apprezza lo sforzo del legislatore, anche se non è abbastanza e non potrà mai esserlo fino a quando non sarà la società a cambiare.
Informazioni
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2013/08/16/13G00141/sg
http://www.dirittoconsenso.it/2021/03/17/maltrattamenti-sui-minori/
P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale
https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legge:2006-07-04;223!vig https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/05/19/20G00052/sg.
[1] Tale definizione è presente in https://www.lenius.it/ .
[2] Per approfondire https://www.lastampa.it/cultura/2019/06/04/news/quelle-italiane-senza-conto-corrente-e-senza-autonomia-1.36538558.
[3] Per approfondire https://www.direcontrolaviolenza.it/d-i-re-incremento-11-nuovi-accessi-ai-centri-antiviolenza-nel-2018/.
[4] Per approfondire vedi https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2013/08/16/13G00141/sg.
[5] Il quale alla lett.a) recita: con l’espressione “violenza nei confronti delle donne” si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata.
[6] Il quale recita: Quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice, [qualora il fatto non costituisca reato perseguibile d’ufficio], su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all’articolo 342 ter.
[7] Il quale recita: Con il decreto di cui all’articolo 342 bis il giudice ordina al coniuge o convivente, che ha tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione della stessa condotta e dispone l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante, ed in particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d’origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia, salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro.
Il giudice può disporre, altresì, ove occorra l’intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati; il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui al primo comma, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante.
Con il medesimo decreto il giudice, nei casi di cui ai precedenti commi, stabilisce la durata dell’ordine di protezione, che decorre dal giorno dell’avvenuta esecuzione dello stesso. Questa non può essere superiore a sei mesi e può essere prorogata, su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi per il tempo strettamente necessario.
Con il medesimo decreto il giudice determina le modalità di attuazione. Ove sorgano difficoltà o contestazioni in ordine all’esecuzione, lo stesso giudice provvede con decreto ad emanare i provvedimenti più opportuni per l’attuazione, ivi compreso l’ausilio della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario.
[8] Per approfondire http://www.dirittoconsenso.it/2021/03/17/maltrattamenti-sui-minori/.
[9] Cass. Pen., n.18937/2016), in Famiglia e Diritto, 2016
[10] P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale, V, p.169 ss.
[11] Il Fondo è stato istituito con il d.l. n.223 del 4 luglio 2006, consultabile in https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legge:2006-07-04;223!vig e rifinanziato con il d.l. n. 34 del 19 maggio 2020 ( c.d. decreto Rilancio), consultabile in https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/05/19/20G00052/sg.
Il contratto telematico
Il contratto telematico è la principale forma di negoziazione all’interno del commercio elettronico. In un mondo sempre più globale è necessario approfondirne la disciplina, avendo particolare riguardo alla tutela del consumatore
Informatica e contratto
Il progresso tecnologico ha inciso profondamente sulla vita dell’uomo, diventando un fenomeno socio-culturale[1] capace di creare una nuova tipologia di mercato unico e di travolgere, di conseguenza, il mondo giuridico[2], in particolar modo il diritto dei contratti. Si parla infatti di mercato virtuale (o digitale) all’interno del quale si svolge il commercio elettronico (c.d. e-commerce)[3], cioè un insieme di operazioni commerciali preordinate all’acquisizione di beni o servizi attraverso il World Wide Web[4]. L’influenza dell’informatica sulle modalità di conclusione del contratto ha generato, già alla fine degli anni ‘70[5], la creazione di una categoria contrattuale specifica, i cc.dd. contratti informatici o dell’informatica. Tuttavia, tale classificazione ha un rilievo puramente descrittivo[6], in quanto i contratti sorti per mezzo dell’informatica sono molteplici e variegati, sfuggenti a qualsiasi tentativo di tipizzazione. Ciò dipende dal ruolo che l’elemento informatico svolge nella contrattazione, il quale può incidere ad esempio, sulla conclusione dell’accordo, sull’esecuzione della prestazione, o sull’oggetto del contratto. In tale prospettiva il contratto telematico non va ad indentificare un nuovo schema negoziale, bensì una modalità di negoziazione caratterizzata dall’elemento informatico[7].
La disciplina del contratto telematico
Sotto la dizione “contratto telematico” si raggruppano tutti gli accordi che vengono stipulati attraverso la rete internet, a prescindere dall’oggetto e dalla modalità di esecuzione[8]. Può avere ad oggetto qualsiasi bene mobile materiale, perfezionandosi on-line ma avere esecuzione off-line[9]; può avere ad oggetto un prodotto o un servizio erogato attraverso il web e in tal caso il contratto sarà concluso ed eseguito in via telematica. Da tali considerazioni si deduce che il contratto telematico è caratterizzato dalla trasmissione di dati informatizzati tra due computers connessi, ossia tra soggetti che sono fisicamente assenti e che si interfacciano attraverso lo strumento informatico utilizzato[10].
Si tende a contrappore la categoria dei contratti telematici a quella dei contratti informatici[11] e automatici[12], nonché agli innumerevoli schemi contrattuali[13] sorti in ragione dell’esponenziale incremento dell’informatizzazione nelle varie realtà lavorative, soprattutto aziendali.
Una delle problematiche più rilevanti relative al commercio elettronico e al contratto telematico riguarda la disciplina da applicare, in virtù della peculiare modalità di conclusione dello stesso nonché della transnazionalità degli scambi. Infatti, la “metaterritorialità” della Rete internet ha portato alcuni autori a sostenere la necessaria creazione di una regolamentazione specifica, sganciata dal sistema normativo vigente[14]. Tuttavia, gli accordi telematici non possono sfuggire alle regole del mercato tradizionale, in quanto sono inevitabilmente attratti dalla disciplina radicata nei singoli Stati, adeguata alle peculiari esigenze telematiche[15]. Tale ragionamento è frutto di un metodo ermeneutico[16] che, scevro da preconcetti dogmatici, consente di individuare la disciplina più adatta ad ogni singola fattispecie[17].
Per tali ragioni il Titolo II del libro IV del codice civile è la prima normativa cui far riferimento per la regolamentazione del contratto. Di conseguenza al contratto telematico si applicheranno i vari modi di formazione e conclusione del contratto previsti dal codice[18]. Tale disciplina va sistematicamente lette con il d.lgs. 7 aprile 2003, n.70[19] (attuativo della c.d. direttiva sul commercio elettronico 2000/31/CE), nonché con il codice del consumo (d.lg. 6 settembre 2005, n.206)[20]. Fondamentale è anche la legislazione a tutela del consumatore, tra cui si annovera il d.lgs. 21 febbraio 2014, n.21[21] (recettivo della dir. sui diritti dei consumatori 2011/83/UE)[22], il quale va ad aggiungersi al d.lgs. n. 70/2003. Da ultimo si annovera la recente disciplina europea in materia di vendite, sviluppata in due distinti atti: la direttiva 2019/771/UE[23] «sui contratti di vendita di beni» e la direttiva 2019/770/UE[24] sui «contratti di fornitura di contenuto e di servizi digitali»[25]. Tali norme hanno il comune obiettivo di «…armonizzare determinati aspetti concernenti i contratti di fornitura di contenuto digitale o di servizi digitali, prendendo come riferimento un livello elevato di protezione dei consumatori, al fine di instaurare un autentico mercato unico digitale, accrescere la certezza giuridica e ridurre i costi di transazione, in particolare per le piccole e medie imprese»[26].
Il quadro normativo delineato fa emergere la frammentarietà della disciplina del contratto telematico, nonché lo sforzo del legislatore europeo di intensificare la tutela del contraente debole. Ed è proprio quest’ultimo aspetto che merita un approfondimento.
La posizione del contraente debole
L’attenzione apprestata dal legislatore europeo al consumatore[27] (rectius, contraente debole) telematico si è intensificata con il passare del tempo, al punto da diventare una vera e proprio priorità.
Ed è in tale prospettiva che è stato formulato il cons. 5 della direttiva 2019/771/UE, il quale recita: «Il progresso tecnologico ha contribuito all’espansione del mercato dei beni che incorporano contenuti digitali o servizi digitali o sono interconnessi ad essi. Alla luce del numero crescente di tali dispositivi e della loro diffusione in rapido aumento tra i consumatori, occorre un’azione a livello dell’Unione per garantire che sussista un livello elevato di protezione dei consumatori e per aumentare la certezza giuridica per quanto riguarda le norme applicabili ai contratti di vendita di tali prodotti. Una maggiore certezza del diritto contribuirebbe a rafforzare la fiducia dei consumatori e dei venditori»[28].
Le novità più importanti che riguardano il contraente debole possono essere così schematizzate:
- Nel cons.17 dir. 2019/770[29], viene esplicitata la volontà di ampliare la definizione di consumatore, intorno alla quale è da tempo acceso un dibattito dottrinale[30]. Inoltre, l’art. 2 n.6 prevede una nuova definizione di consumatore: «qualsiasi persona fisica che, in relazione ai contratti oggetto della presente direttiva, agisca per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale».
- Per quanto riguarda la disciplina rimediale accordata all’acquirente nel caso in cui il prodotto sia difettoso. Quest’ultimo, in base all’art.13, dir 2019/771, ha diritto al ripristino della conformità del bene, o a ricevere una riduzione proporzionale del prezzo, o alla risoluzione del contratto[31]. Al fine di rafforzare la tutela del contraente on line, l’art. 16 della direttiva 2019/771/UE e l’art.15 dir. 2019/770/UE, hanno previsto una nuova ipotesi di risoluzione ex re, in base alla quale per risolvere il contratto sarà bastevole una dichiarazione al venditore in cui il consumatore esprime la sua volontà di sciogliere il vincolo negoziale, senza il bisogno dunque di rivolgersi all’autorità giudiziaria.
- L’art.5 dir. 2019/770/UE prevede che l’onere della prova relativo alla fornitura di contenuti o servizi digitali sia posto in capo all’operatore economico, il quale dovrà dimostrare di aver adempiuto ai suoi obbligo nei confronti del consumatore.
Sicuramente è apprezzabile lo sforzo del legislatore europeo di incrementare la tutela del consumatore, tuttavia è doveroso rilevare che non è ancora abbastanza. La specificità della normativa comporta dei vuoti di tutele, all’interno dei quali ricadono tutti i soggetti che pur trovandosi in uno stato di debolezza contrattuale[32], non hanno le caratteristiche soggettive sopra richieste. Sembra infatti del tutto illogico che nei rapporti tra le imprese non possa essere applicata la tutela consumeristica, solo perché l’imprenditore non rientra nella definizione di consumatore. Se si adottasse un metodo interpretativo di tipo sistematico, assiologico e teleologico[33], nonché di tipo induttivo[34], volta alla costruzione dell’eguaglianza nella giustizia sociale[35] (ex art. 2 e 3 Cost.), sarebbe del tutto irragionevole escludere aprioristicamente l’applicazione della normativa ai professionisti e agli imprenditori. Tuttavia, sarà comunque necessario un accertamento caso per caso, al fine di valutare la concreta condizione di debolezza del soggetto non consumatore[36].
Tale prospettiva sembra essere stata parzialmente accolta anche da una recente decisione della Corte di Giustizia[37], il che fa sperare in un’inversione di tendenza, finalizzata ad un’analisi concreta e sostanziale dei rapporti contrattuali, a prescindere da sterili definizioni.
Informazioni
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Corte Giust. 4 ottobre 2018, c. 105/17 in dirittogiustizia.it.
[1] F. LAZZARELLI, l’equilibrio contrattuale nelle forniture di sistemi informatici, ESI, 2010; per approfondire l’impatto che le intelligenze artificiali possono avere sulla vita dell’uomo vedi: G. BRIGHINA, Intelligenza artificiale: uno sguardo alla regolamentazione europea, in http://www.dirittoconsenso.it/2021/06/16/intelligenza-artificiale-uno-sguardo-alla-regolamentazione-europea/.
[2] Per approfondire l’iter storico dell’informatica giuridica vedi: G. TADDEI ELMI, G. PERUGINELLI, Dall’informatica giuridica al diritto dell’internet, in Diritto dell’internet, n.2/2006, p.113 ss.
[3] Per approfondire vedi G. PERLINGIERI, F. LAZZARELLI, il contratto telematico, in AA.VV., Manuale di diritto dell’informatica, ESI, 2016, p. 270 ss., dove vengono analizzate le molteplici classificazioni dell’e-commerce: commercio elettronico convenzionale, commercio elettronico su internet, commercio elettronico diretto, commercio elettronico indiretto, e.-shop, m-commerce, s-commerce; per un’analisi dettagliata della normativa in materia di e-commerce vedi F. LAZZARELLI, E-commerce e contraente debole (non consumatore). Considerazioni sistematiche a margine dei recenti interventi del legislatore UE e della Corte di Giustizia, in Le Corti Salernitane, Vol. 3. Pag.395-419; cfr. C. ROSSELLO, La nuova disciplina del commercio elettronico. Principi generali e ambito di applicazione, in Dir. comm. internaz., fasc.1,2004, pag.43; M. IASELLI, La normativa applicabile in materia di e-commerce, in https://www.altalex.com/documents/news/2016/04/06/la-normativa-applicabile-in-materia-di-ecommerce; per una lettura tributaristica vd. M.G. ORTOLEVA, La territorialità delle prestazioni di servizi elettronici fra esigenze di semplificazione e neutralità dell’imposta sul valore aggiunto, in dir. prat. trib. internaz., 4/2020, pg.1519 ss., dove viene analizzato il c.d. “e-commerce VAT package”, il quale è parte integrante della strategia per il mercato unico digitale (c.d. Digital Single Market Strategy) elaborata dalla Commissione europea, per gli anni 2014-2019, al fine di garantire il miglior accesso possibile al mondo online alle imprese e ai privati rispettivamente in condizione di concorrenza leale e con un elevato livello di protezione di dati personali. Gli ambiti di intervento dell’e-commerce VAT package, all’interno del quale si annoverano la Direttiva 2017/2455/UE e i Regolamenti 2017/2459/UE e n. 2017/2454/UE, vanno dal regime dei servizi digitali resi ai privati, a quello delle vendite a distanza intracomunitarie di beni, fino ad arrivare a quello relativo alla vendita a distanza di beni importati da territori terzi o paesi terzi.
[4] In tal senso G. PERLINGIERI, F. LAZZARELLI, op.cit., p. 269 ss.; a pag. 10 del documento “Linee di politica industriale per il Commercio Elettronico” emanato dal Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato in data 30 luglio 1998, consultabile sul sito http://www.minindustria.it/, si legge come definizione di commercio elettronico:, si legge che per commercio elettronico si intende lo svolgimento di attività commerciali e di transazioni per via elettronica” e comprende attività diverse quali: la commercializzazione di beni o servizi per via elettronica, la distribuzione online di contenuti digitali, l’effettuazione per via elettronica di operazioni finanziarie e di borsa, appalti pubblici ed altre procedure di tipo transattivo delle Pubbliche Amministrazioni.
[5] V. FRANCESCHIELLI, Appunti sul contratto di utilizzazione del software di un elaborato elettronico, in Riv. dir. ind., 1976, p. 87 ss; G. ALPA, I contratti di utilizzazione del computer, in Giur. it., IV, 1983, p.2 ss.
[6] In tal senso F. LAZZARELLI, op.cit., p. 9.
[7] F. LAZZARELLI, L’equilibrio contrattuale, p.10 ss.; C.M. BIANCA, I contratti digitali, in Studium iuris, 1998, p. 1035: «la novità telematica concerne la forma non la sostanza degli atti»; G. PERLINGIERI; F. LAZZARELLI, Il contratto telematico, p. 277., in particolare: «… è necessario evidenziare che la modalità di conclusione dell’accordo mediante c.dd. automatici, che da vita al contratto c.d. automatico, non va confusa con il perfezionamento della fattispecie attraverso la Rete internet, dal quale deriva il contratto telematico o cybercontratto»; E. MINERVINI, P. BARTOLOMUCCI, La tutela del consumatore telematico, in AA.VV., Manuale di diritto dell’informatica, 2016, p. 347 ss.
[8] G. PERLINGIERI, F. LAZZARELLI, op. cit., p. 272.
[9] In questo caso si parla di e-commerce indiretto.
[10] G. PERLINGIERI, F. LAZZARELLI, op. cit., p. 272.
[11] Per contratti informatici si intende i negozi che pur potendo essere conclusi in modalità off line hanno ad oggetto un bene o un servizio tecnologico.
[12] Sono i contratti conclusi tramite distributori automatici o locali commerciali automatizzati. La direttiva 2011/83/UE, nonché l’art. 47 c. cons., esclude tali contratti dall’ambito di applicazione delle tutele in essa contenute.
[13] Come, ad esempio, i contratti di fornitura informatici o i contratti di fornitura di contenuto digitale. Per approfondire vedi: F. LAZZARELLI, l’equilibrio contrattuale, op.cit., p. 8 ss.; F. LAZZARELLI, Custom-made programs, indisponibilità del codice sorgente ed approfittamento della software house: un ipotesi di abuso del diritto, in Le Corti Salernitane,2012, p. 87 ss.
[14] F. DE LY, Lex mercatoria (new law merchant): globalizzation and international self-regulation, in dir. Comm. Intern., 2000, p. 555 ss.
[15] F. LAZZARELLI, e.commerce e contraente debole non consumatore, op.cit., p. 399 ss.
[16] Per approfondire P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, II, Fonti e interpretazione, Napoli, 2020, IV ed.
[17] In tal senso G. PERLINGIERI, F. LAZZARELLI, Il contratto telematico, op.cit., p. 278 ss.
[18] Per approfondire: G. PERLINGIERI; F. LAZZARELLI, Formazione e conclusione del contratto, in AA.VV. Manuale di diritto dell’informatica, ESI, 2016; per un’analisi dell’applicazione delle tradizionali categorie giuridiche applicate alla negoziazione telematica vedi G. DORE, I doveri di informazione nella rete degli scambi commerciali telematici, in giur. merito, p.2569B, 20013; Contra A.M. BENEDETTI, Autonomia privata procedimentale e formazione del contratto virtuale: annotazioni sull’art.13 del d.lgs. 70/2003, in Dir. internet, 2006, p. 78, secondo il quale la formazione del contratto telematico sia rimessa all’autonomia negoziale, poiché nessuno dei procedimenti previsti dal codice civile è adatto ad essere applicato alla realtà virtuale, in quanto hanno caratteristiche tali da non poter essere ricomprese in alcuno schema codicistico.
[19] Consultabile su https://www.camera.it/parlam/leggi/deleghe/03070dl.htm.
[20] Consultabile su https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:2005-09-06;206.
[21] Consultabile su https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2014/03/11/14G00033/sg.
[22] Tale decreto ha modificato gli artt. 45-67 del codice del consumo al fine di armonizzare a livello europeo la normativa relativa ai contratti conclusi fuori dai locali commerciali e a distanza nel rispetto del consumatore.
[23] Consultabile su https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32019L0771&from=EN.
[24] Consultabile su https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32019L0770&from=DE.
[25] Tali decreti rappresentano il punto di arrivo del progetto intrapreso con la proposta di Regolamento sul diritto comune europeo della vendita COM (2011) 635 (c.d. C.E.S.L., acronimo di Common European Sales Law, reperibile in www.europarl.europa.eu), il quale avrebbe dovuto introdurre una regolamentazione delle vendite uniforme per tutti i Paesi UE.
[26] Così il cons. n.3 di entrambe le direttive.
[27] La definizione di consumatore si rinviene nell’art.3 cod.cons.: «1. Ai fini del presente codice ove non diversamente previsto, si intende per: a) consumatore o utente: la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta»; per approfondire vedi G. ALPA, G. CHINÈ, voce Consumatore (protezione del) nel diritto civile, in Dig. disc. priv., 1997; v C. CERASANI, G. GHIDINI, voce Consumatore, in Enc. dir., V agg, 2001; F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, XIX ed., 2019, p. 73: «Le definizioni legislative di consumatore sono al negativo, nel senso di considerare tale la persona fisica che agisce per scopi non di impresa o di professione»; P. PERLINGIERI, il diritto civile nella legalità costituzionale, vol. IV, p. 133 ss.
[28] Si rimanda alla nota 23.
[29] Il considerando così recita: 1. «La definizione di consumatore dovrebbe includere le persone fisiche che agiscono al di fuori della loro attività commerciale, industriale, artigianale o professionale. Tuttavia, nel caso di contratti con duplice scopo, qualora il contratto sia concluso per fini che rientrano parzialmente nell’ambito delle attività commerciali della persona e parzialmente ne restano al di fuori e laddove lo scopo commerciale sia talmente limitato da non risultare predominante nel contesto generale del contratto, gli Stati membri dovrebbero mantenere la facoltà di determinare se la persona in questione dovrebbe altresì essere considerata un consumatore e a quali condizioni»
[30] P. PERLINGIERI, op. cit., Vol.IV, p.193 ss. il quale critica la rigida costruzione della categoria dei consumatori, preferendo la dizione “contraente debole” in quanto il consumatore non rappresenta uno status ma una posizione contrattuale; M. BARELA, La consapevolezza del consumatore nella costruzione giuridica del mercato (rileggendo la pagina di Tullio Ascarelli), in Riv. dir. ind., 2019, p.171 ss.: «, il consumatore diventa il “terzo che gode”»; per approfondire il dibattito con riferimento anche alla giurisprudenza vedi C. BERTI, La responsabilità del consumatore e la sua soggettività giuridica, in Responsabilità Civile e Previdenza, 2018, p.1684 ss.
[31] F. LAZZARELLI, e-commerce e contraente debole, p. 406, specifica che in passato la direttiva 44/1999 CE prevedeva una strutturazione gerarchica dei rimedi, in base alla quale il consumatore poteva chiedere, alternativamente, la riparazione o la sostituzione del bene, e soltanto successivamente e a specifiche condizioni, la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno.
[32] F. LAZZARELLI, op. cit., p. 408, richiama i contratti squilibrati conclusi tra imprese, la cui disciplina è rimessa all’autoregolamentazione delle parti.
[33] P. PERLINGIERI, op. cit., p. 373 ss.
[34] Dal fatto alla norma e non viceversa: partire dall’analisi del caso concreto al fine di individuare la normativa più adeguata. Per approfondire P. PERLINGIERI, op.cit., Vol. I, p. 65 ss.
[35] P. PERLINGIERI, op.cit., Vol. II p. 278 ss.
[36] F. LAZZARELLI, op.cit., p. 417.
[37] Corte Giust. 4 ottobre 2018, c. 105/17 in dirittogiustizia.it.
Il fenomeno del catcalling
Con il termine catcalling si intendono le molestie verbali a sfondo sessuale perpetrate in strada, di cui si discute la rilevanza giuridica, in particolare se la condotta possa o meno configurare un illecito penale
Profili etimologici: dal pappagallismo al catcalling
Il termine catcalling si è imposto nella società globale e multimediale negli ultimi anni, identificando un fenomeno radicato nella società da tempo immemore, cioè le molestie sessuali perpetrate verbalmente in strada. Tuttavia, il vocabolo anglofono esiste dal 1660 nella forma cat-call, intendendo il verso che i gatti fanno di notte. Il verbo (to) catcall si attesta invece nel 1735, dove veniva usato per indicare i fischi di disappunto emessi a teatro avverso gli artisti. La forma catcalling si afferma infine intorno al 1780 con il significato di “lamentoso”. Soltanto nel 2006 l’Oxford English Dictionary aggiunge tra i significati del verbo quello di “commento sfacciato volto a esprimere attrazione sessuale o apprezzamento, fatto tipicamente da un uomo a una passante donna”[1].
In Italia il termine si afferma tra il 2013/2014, ostracizzando il nostrano “pappagallismo”[2]. Infatti, la nostra lessicografia conosceva già una parola per indicare tale condotta. Con pappagallismo si intende: «Comportamento da “pappagalli della strada”, proprio cioè di chi, in modo insistente e grossolano, importuna le donne per la via»[3]; oppure «Comportamento insistentemente impertinente o scorretto verso passanti di sesso femminile»[4]. Tali definizioni, seppur risalenti al 1960[5], mostrano una specificità deleteria, in quanto marginalizzano il fenomeno al solo rapporto uomo-donna, escludendo altre ipotesi di discriminazioni.
Non è un caso che l’anno in cui si consolida l’utilizzo del termine catcalling[6] sia il 2020, perché in un momento storico in cui è venuta meno la piena libertà di circolazione[7], si è amplificata l’intolleranza che una molestia di questo tipo genera sulle persone, ed in particolare sulle donne. Ciò è testimoniato dal proliferare di gruppi autonomi di attivisti[8] che hanno dato vita a delle manifestazioni pacifiche[9].
Profili giuridici: il reato di molestie ex art. 660 c.p.
La crescente rilevanza assunta dal fenomeno del catcalling ha inevitabilmente travolto anche il mondo del diritto. Si discute, infatti, della rilevanza penale del comportamento perpetrato dai cc.dd. catcaller (molestatori), posto che altre Nazioni hanno già provveduto in tal senso. È il caso della Francia, che nell’Agosto del 2018 ha approvato il disegno di legge contro le “violenze sessiste e sessuali”[10], con il quale si è previsto anche una multa fino a 750 euro per le molestie in strada.
In Italia, non c’è una norma specifica, tuttavia il codice penale prevede, all’articolo 660 c.p., il reato di “Molestia o disturbo della persona”[11], il quale recita:
“Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516”.
L’applicazione della norma alle ipotesi di catcalling è impedita dal bene giuridico[12] che essa tutela, cioè l’ordine pubblico, o meglio la pubblica tranquillità[13]. Parte della dottrina[14] ha scartato l’ipotesi di allargare l’ambito di tutela ai beni della persona, in quanto l’art. 660 c.p. opera a prescindere dalla volontà della vittima. Altri autori[15] e soprattutto la giurisprudenza[16] hanno invece ritenuto che il reato in questione tuteli in via diretta i beni della persona. Inoltre, la giurisprudenza più recente[17], ha anche precisato che il reato in questione non ha natura necessariamente abituale, in quanto è bastevole anche una sola azione.
La condotta del 660 c.p. è caratterizzata da:
- petulanza: definita dalla Cassazione[18] come «un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nella altrui sfera di libertà»;
- biasimevole motivo: «consiste in ogni movente dell’azione riprovevole in sé stesso o in relazione alle qualità o alle condizioni della persona presa di mira, come il motivo di scherno o quello di dispetto»[19];
- molestia: «ogni attività che alteri dolorosamente o fastidiosamente l’equilibrio psico-fisico normale di una persona»[20];
- disturbo: «ciò che interferisce con le condizioni di lavoro o di riposo di una persona normale»[21].
In virtù di ciò la Cassazione già nel 2007[22], ha ritenuto riconducibili alla fattispecie in esame anche la condotta di continuo ed insistente corteggiamento, che risulti non gradito alla persona destinataria, in quanto tale comportamento costituisce una molestia o un disturbo notevole per la trivialità e l’invasione nell’altrui sfera privata[23].
Lo sforzo della giurisprudenza, tuttavia, non basta, poiché questo è l’ennesimo caso in cui si dimostra poco efficace la struttura della parte speciale del codice[24]. A fronte di un malcontento sociale sempre più forte e della presenza di diritti indisponibili fondamentali[25], il legislatore dovrebbe regolamentare la fattispecie in esame, tenendo conto non soltanto delle molestie perpetrate alle donne ma delle varie forme di discriminazioni verbali che si consumano in strada.
Conclusioni: molestie o complimenti?
La questione della rilevanza penale del catcalling è alquanto delicata in virtù dell’extrema ratio che contraddistingue il diritto penale rispetto alle altre branche del diritto. Per tale ragione è necessaria un’attenta valutazione del grado di offensività che la condotta perpetrata deve avere. Una regolamentazione specifica potrà sicuramente essere d’aiuto, ma non potrà di certo cancellare il fenomeno. La vera rivoluzione deve essere di tipo culturale[26]. La società patriarcale tende a sminuire le molestie in strada, definendole complimenti o forme di corteggiamento, ma in realtà in molte circostanze esse diventano dei casi di umiliazione pubblica.
Questa circostanza è stata confermata dall’associazione Hollaback! la quale ha realizzato insieme alla Cornwell University un’indagine su scala internazionale. In Italia risulta che il 79% delle donne ha subito una molestia di strada prima dei 17 anni, e il 69% ha confessato di essere stata seguita da uno o più uomini almeno una volta. Molte hanno dichiarato di aver dovuto cambiare spesso percorso e persino modo di vestire. Tutte hanno affermato di percepire ansia e paura[27]. In questo contesto si acuisce il fenomeno della vittimizzazione secondaria, dove è la vittima a sentirsi in errore e non il colpevole[28].
Così come si è dovuto lottare per avere il Codice Rosso[29], una normativa a tutela delle donne vittime di violenza domestica e di genere, così si dovrà continuare a lottare per ottenere un reale cambiamento sociale. Fino a quando sarà necessario regolamentare con leggi specifiche fenomeni di violenza e discriminazione non potrà mai dirsi compiuto il progetto costituzionale ed europeo dell’eguaglianza sostanziale.
Informazioni
REDAZIONE CORRIERE.IT. (s.d.). Francia, approvata la legge contro le molestie: fino a 750 euro di multa. Tratto da Corriere.it: https://www.corriere.it/esteri/18_agosto_04/francia-approvata-legge-contro-molestie-fino-750-euro-multa-fa8399e8-97f5-11e8-ae28-97e0df16be12.shtml
ACCADEMIA DELLA CRUSCA. (s.d.). voce catcalling. Tratto da accademia della crusca: https://accademiadellacrusca.it/it/parole-nuove/catcalling/18489
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CORRIERE DELLA SERA. (1963). il «pappagallismo» è un reato? Tratto da corriere.it.
CRESTI SIMONA. (2021, Marzo 30). Catcalling: un nome nuovo per una cosa fin troppo vecchia. Tratto da Italiano digitale. La rivista della Crusca in Rete: https://id.accademiadellacrusca.org/articoli/catcalling-un-nome-nuovo-per-una-cosa-fin-troppo-vecchia/3612#
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MARVI SANTAMARIA. (s.d.). Sei modi in cui oggi in Italia si sminuisce il catcalling. Tratto da vice.com: https://www.vice.com/it/article/935qap/catcalling-italia-reazioni
MATTIOLI G. (2020). Basta catcalling: le donne si ribellano alle molestie verbali, anche grazie ai social. Tratto da La Repubblica: https://www.repubblica.it/moda-e-beauty/2020/11/24/news/catcalling_molestia_verbale_social-291297279/
REDAZIONE IL POST. (s.d.). In Francia un uomo è stato multato per molestie sessuali in pubblico. Tratto da ilpost: https://www.ilpost.it/2018/09/26/prima-condanna-molestie-in-strada/
Trib. Reggio Emila sez. gip-gup, 27 gennaio 2021 n. 54 in https://www.ambientediritto.it/giurisprudenza/tribunale-di-reggio-emilia-27-01-2021-sentenza-n-54/.
Cass. pen. Sez. I, 19/01/2006, n. 8198, in CED Cassazione, 2006.
Cass. pen. Sez. VII Ord., 24/01/2006, in Foro It., 2006, 7-8, 2, 435.
Cass. pen. Sez. VI Sent., 23/11/2010, n. 43439, in CED Cassazione, 2010.
Cass. pen. Sez. I, 29/04/2014 n. 23619, in Responsabilita’ Civile e Previdenza 2014, 4, 1373.
Cass. pen. Sez. I, 24/09/2011 n. 6908, in CED Cassazione penale 2011.
Cass. pen. Sez. I, 13/03/2008, n.17308, in CED Cassazione penale 2008.
Cass. pen. Sez. I, 03/02/2004, n.14512, in dejure.it.
Cass. pen. Sez. I Sent., 23/04/2007, n. 19438, in CED Cassazione, 2007.
Cass. pen. Sez. V Sent., 09/12/2020, n. 7993, in CED Cassazione, 2021.
Cass. pen. Sez. III Sent., 15/11/2019, n. 1999, in CED Cassazione, 2020.
[1] Per approfondire: CRESTI S., Catcalling: un nome nuovo per una cosa fin troppo vecchia, in Italiano digitale. La rivista della Crusca in Rete, https://id.accademiadellacrusca.org/articoli/catcalling-un-nome-nuovo-per-una-cosa-fin-troppo-vecchia/3612#, 2021.
[2] Nell’interessante articolo di CRESTI S., op.cit., si legge che il termine pappagallismo è stato utilizzato per la prima volta nel 1956 nella rubrica di Ettore Allodoli dal titolo: Si dice bene? Come si scrive?. La fortuna del termine è scemata con il passare degli anni, specialmente dagli anni ’90 in poi.
[3] Definizione reperibile su https://www.treccani.it/vocabolario/pappagallismo/.
[4] GIACOMO DEVOTO- GIAN CARLO OLI, voce Pappagallismo, in Dizionario della Lingua Italiana, Le Monnier, 2004/2006, p. 1925; per altre definizione vedi Cresti S., op.cit.: «Trova posto nella lessicografia, infatti, anche il concetto di pappagallo come di ‘uomo che molesta le donne in strada’ (GRADIT), di ‘chi assume un comportamento impertinente e molesto con le donne per strada’ (Devoto-Oli 2019), di ‘chi per strada rivolge complimenti alle donne, molestandole’ (Zingarelli 2019), con esempi che ne illustrano l’uso: “un pappagallo l’ha seguita fino a casa”, “quel giovane è un volgare pappagallo”».
[5] CRESTI S., op. cit.: «Sabatini-Coletti, Devoto-Oli, Zingarelli datano pappagallismo 1942, senza però differenziare la stima per accezioni. GRADIT riconduce invece al 1963 la prima occorrenza della parola usata nello specifico significato di cui ci occupiamo. Il GDLI colloca ancora più addietro nel tempo pappagallo inteso nel senso che ci interessa, riportando attestazioni in Luigi Bartolini (“Continuò a fingere di non accorgersi che una persona le era vicino. Né io, per timore di passare per ‘pappagallo’, la molestai altrimenti, Passeggiata con la ragazza, Milano, 1961, p. 269) e Vitaliano Brancati (“E sa… quale titolo avrebbe sui giornali il resoconto di questo piccolo incidente? Pappagallo cinquantenne bastonato da alcuni disoccupati”, Paolo il caldo, Milano 1956, p. 366 [1° ed. 1955); questo ci permette di immaginare che anche pappagallismo fosse usata prima degli anni Sessanta».
[6] Voce catcalling,, in Accademia della Crusca, https://accademiadellacrusca.it/it/parole-nuove/catcalling/18489, riporta i seguenti dati: Diffusione al: 5 dicembre 2020
Google: 28.000 r. per catcalling, 33.000 r. per cat calling/ cat-calling;
“la Repubblica”: 7r. per catcalling, 1r. per cat-calling;
“La Stampa”: 1r. per catcalling;
“Corriere della Sera”: 1r. per catcalling, 1r. per cat-calling.
[7] Per approfondire il tema della differenza tra libertà di circolazione e libertà personale vedi Trib. Reggio Emila sez. gip-gup, 27 gennaio 2021 n. 54, dove viene rilevata l’illegittimità dei DPCM perché: «…stabilendo un divieto generale e assoluto di spostamento al di fuori della propria abitazione, con limitate e specifiche eccezioni, configura un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare. Tuttavia, nel nostro ordinamento giuridico, l’obbligo di permanenza domiciliare consiste in una sanzione penale restrittiva della libertà personale che viene irrogata dal Giudice penale per alcuni reati all’esito del giudizio (ovvero, in via cautelare, in una misura di custodia cautelare disposta dal Giudice, nella ricorrenza dei rigidi presupposti di legge, all’esito di un procedimento disciplinato normativamente), in ogni caso nel rispetto del diritto di difesa. Sicuramente nella giurisprudenza è indiscusso che l’obbligo di permanenza domiciliare costituisca una misura restrittiva della libertà personale. Peraltro, la Corte Costituzionale ha ritenuto configurante una restrizione della libertà personale delle situazioni ben più lievi dell’obbligo di permanenza domiciliare come, ad esempio, il “prelievo ematico” (Sentenza n. 238 del 1996) ovvero l’obbligo di presentazione presso l’Autorità di PG in concomitanza con lo svolgimento delle manifestazioni sportive, in caso di applicazione del DASPO, tanto da richiedere una convalida del Giudice in termini ristrettissimi.».
[8] Questi gruppi sono sorti in diverse città del mondo, infatti si può apprezzare il loro operato ricercando “cattcalls of” seguito dal nome della città. In Italia ci sono gruppi che operano a Milano, Torino, Napoli ecc.
[9] Per approfondire vedi CRESTI S., op. cit.; MATTIOLI G., Basta catcalling: le donne si ribellano alle molestie verbali, anche grazie ai social, in https://www.repubblica.it/moda-e-beauty/2020/11/24/news/catcalling_molestia_verbale_social-291297279/.
[10] Per approfondire vedi: Francia, approvata la legge contro le violenze sessiste. Punite anche le molestie in strada, inclusi i fischi, in: https://www.repubblica.it/esteri/2018/08/02/news/francia_approvata_la_legge_contro_le_violenze_sessiste_punite_anche_le_molestie_in_strada_inclusi_i_fischi-203217193/; Francia, approvata la legge contro le molestie: fino a 750 euro di multa, in https://www.corriere.it/esteri/18_agosto_04/francia-approvata-legge-contro-molestie-fino-750-euro-multa-fa8399e8-97f5-11e8-ae28-97e0df16be12.shtml. La legge è stata applicata già nel settembre 2018 quando un uomo è stato multato per aver molestato una ragazza su un autobus, vedi: https://www.ilpost.it/2018/09/26/prima-condanna-molestie-in-strada/.
[11] L’art. 660 c.p. è sito nel Libro III “delle contravvenzioni in particolari”, Titolo I “delle contravvenzioni di polizia”, Capo I “delle contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica”, §1 “delle contravvenzioni concernenti l’inosservanza dei provvedimenti di polizia e le manifestazioni sediziose e pericolose.
[12] Per approfondire vedi FIANDACA G., MUSCO E., Diritto penale parte generale, VII ed., p.4 ss.
[13] Per approfondire vedi FIORE C., voce Ordine pubblico (dir. pen.), in Enciclopedia del diritto, XXX, Milano, 1980.
[14]ALPA G., GAROFOLI R., Manuale di diritto penale parte speciale, tomo III, IV ed., 2017, p. 401 nota n. 195.
[15] DE VERO G., Inosservanza di provvedimenti di polizia e manifestazioni sediziose e pericolose (Contravvenzioni), in Digesto pen., VII, Torino, 1993, 86; FLICK G.M., Molestia o disturbo alle persone, in Enciclopedia del diritto, XXVI, Milano, 1976, passim.
[16] Cass. pen. Sez. I, 19/01/2006, n. 8198: «Il reato di cui all’art. 660 cod. pen. consiste in qualsiasi condotta oggettivamente idonea a molestare e disturbare terze persone, interferendo nell’altrui vita privata e nell’altrui vita di relazione»; Cass. pen. Sez. VII Ord., 24/01/2006: «Integrano il reato di molestia anche telefonate mute e di pochi secondi, in quanto idonee ad interferire sulla libertà della persona chiamata e tali da ostacolarne il lavoro».
[17] Cass. pen. Sez. VI Sent., 23/11/2010, n. 43439: «Il reato di molestia o disturbo alle persone non ha natura di reato necessariamente abituale, sicché può essere realizzato anche con una sola azione»; Cass. pen. Sez. I, 29/04/2014 n. 23619: «Il reato di molestie non è necessariamente abituale, potendo essere realizzato anche con una sola azione, di tal che la reiterazione delle azioni ben può configurare l’ipotesi della continuazione. Peraltro, ciò non impedisce che la fattispecie concreta possa assumere caratteristiche tali da rendere la condotta abituale ed integrare il reato solo nella globalità delle condotte.»
[18] Cass. pen. Sez. I, 24/09/2011 n. 6908; in senso conforme: Cass. pen. Sez.I, 13/03/2008, n.17308, Cass. pen. Sez. I, 03/02/2004, n.14512. La Cassazione aveva già preso una decisione in tal senso nel 1963, così come si può leggere in un articolo sul Corriere della sera dal titolo: «il pappagallismo è un reato?», in corriere.it.
[19] ALPA G., GAROFOLI R., op. cit., p. 403.
[20] ALPA G., GAROFOLI R., op. cit., p. 402.
[21] ALPA G., GAROFOLI R., op. cit., p.402
[22] Cass. pen. Sez. I Sent., 23/04/2007, n. 19438; in senso conforme: Cass. pen. Sez. V Sent., 09/12/2020, n. 7993; Cass. pen. Sez. III Sent., 15/11/2019, n. 1999.
[23] In tal senso ALPA G., GAROFOLI R., op. cit., p. 404.
[24] In tal senso FLICK G.M., op.cit: «La norma, d’altronde, offre uno spunto non irrilevante a tal fine: essa, in sostanza, propone un raccordo immediato tra il momento individuale e quello collettivo della persona, come testimoniano le oscillazioni della dottrina e della giurisprudenza fra tranquillità personale ed ordine pubblico, in relazione all’oggetto giuridico della contravvenzione».
[25] Artt. 2 e 3 Cost.; ma anche artt. 2 e 3 TUE; artt. 8,10,19 e 157 TFUE; artt. 20,21,23 e 31 Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea; vedi anche Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, c.d. Convenzione d’Istanbul.
[26] COLOMBO S., voce femminismo giuridico, in Digesto, 1992: «Attribuire al diritto il potere di influenzare le percezioni sociali e culturali significa sopravvalutare grandemente la portata del diritto in sé, e con essa il livello generale di conoscenza delle leggi».
[27] MATTIOLI G., op.cit.
[28] Per approfondire vedi MARVI SANTAMARIA, Sei modi in cui ancora oggi in Italia si sminuisce il catcalling, in https://www.vice.com/it/article/935qap/catcalling-italia-reazioni.
[29] Per approfondire GALLETTA FIORELLA, Revenge Porn: il reato nascosto dietro un click, in http://www.dirittoconsenso.it/2020/05/08/revenge-porn/.