Ergastolo ostativo

Che cos'è l'ergastolo ostativo?

L’ergastolo ostativo: i profili di legittimità costituzionale alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale e della l. 199/2022

 

Le origini storiche dell’ergastolo ostativo e la normativa previgente

L’ergastolo ostativo è un istituto giuridico introdotto appositamente per contrastare reati di particolare gravità, specialmente di stampo mafioso.

La soluzione autoritaria da parte dello Stato per superare questo periodo di grandi sconvolgimenti venne elaborata nel contesto della cd. “legislazione d’emergenza”. In particolare, furono due diverse istanze ad emergere nel discorso politico: da un lato, l’istituzione di un regime detentivo più rigido per i condannati per reati di mafia, terrorismo ed eversione, tale da garantire un efficace deterrente alla commissione di nuovi reati mediante la minaccia della sanzione; dall’altro, l’esigenza di uno strumento che accelerasse il corso delle indagini e superasse l’omertà dei condannati.

Da qui la configurazione dell’ergastolo ostativo, formula coniata dalla dottrina per qualificare il regime detentivo a cui sono assoggettati i condannati alla pena dell’ergastolo per uno dei reati di cui all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Nel dettaglio, il comma 1 della norma in esame delinea una presunzione assoluta di pericolosità sociale che trova applicazione nell’ipotesi in cui i soggetti indicati in precedenza abbiano deciso di non collaborare con la giustizia.

Proprio quest’ultimo elemento costituisce il nocciolo duro della disciplina: infatti, nell’ottica del legislatore, solo l’esternazione di uno spirito collaborativo ex art. 58 ter ord. pen. può giustificare l’esistenza di un reale ravvedimento da parte del condannato e costituire la prova di un’effettiva dissociazione dal contesto criminale in cui operava. Tale presunzione insuperabile ha degli effetti pratici assai rilevanti, in quanto ostacola l’accesso ai benefici penitenziari e agli istituti di progressione trattamentale disciplinati dall’ordinamento, ad eccezione della liberazione anticipata.

Il rifiuto di collaborare, quindi, viene strettamente equiparato ad una manifestazione di volontà da parte dell’ergastolano di non intraprendere alcun percorso risocializzante, condannandolo così a scontare una pena imperitura. Inoltre, l’elemento della collaborazione emerge anche nelle riflessioni della giurisprudenza della Corte di Cassazione, specialmente con riguardo ai fenomeni associativi di stampo mafioso: è orientamento consolidato che anche il protratto stato detentivo dell’associato non determini automaticamente la cessazione dell’affiliazione. Infatti, la struttura associativa contempla il rischio che i propri aderenti trascorrano periodi di detenzione, vincolo che non preclude la riassunzione di un ruolo attivo una volta scontata la pena. In considerazione di ciò, la collaborazione con la giustizia è considerato un dato fondamentale per verificare la permanenza della partecipazione al sodalizio.

Per tali ragioni, l’ergastolo ostativo è comunemente indicato con l’espressione “fine pena mai”.

Per comprendere al meglio la rigidità e gravosità del regime ostativo occorre operare un raffronto con il cd. ergastolo comune.

Il combinato disposto degli istituti costituisce – nella riflessione della dottrina e della giurisprudenza – il sistema del cd. “doppio binario”. Ai sensi dell’art. 22 c.p., la pena dell’ergastolo è connotata dall’elemento della perpetuità, intesa come privazione assoluta della libertà personale. Tuttavia, la norma subisce un contemperamento in ulteriori disposizioni codicistiche che consentono all’ergastolano di accedere a numerosi benefici penitenziari dopo aver espiato una certa quantità della pena. Tra questi vi rientrano: la libertà condizionale, i permessi premio, il lavoro esterno, la semilibertà e la liberazione anticipata.

L’elemento che accomuna questi istituti, all’apparenza eterogenei tra di loro, è dato dall’ammettere il condannato all’ergastolo in un regime di “esecuzione progressiva” in grado di garantire un bilanciamento costituzionalmente apprezzabile tra la finalità rieducativa della pena e il cd. carcere a vita. Infatti, in questo modo, l’ordinamento consente al reo di maturare un trattamento penitenziario progressivamente più favorevole ed un maggiore contatto con il mondo esterno, sul presupposto che egli abbia perfezionato un’idea di reinserimento sociale.

 

L’intervento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: il caso Viola contro Italia

Come sottolineato in apertura, la disciplina dell’ergastolo ostativo è stata soggetta al vaglio dei giudici della Corte di Strasburgo[1].

Nella sentenza Viola contro Italia del 2019[2], il ricorrente propose ricorso individuale alla Corte EDU, lamentando l’incompatibilità convenzionale dell’art 4 bis ord. pen. rispetto all’idea di risocializzazione contenuta nell’art. 3 CEDU.

In particolare, Viola contestava la fondatezza della presunzione inconfutabile contenuta nella norma, la quale addebita uno status di pericolosità sociale al detenuto basandosi unicamente sul dato oggettivo della tipologia di reato ascritto e sulla sua mancata collaborazione.  Il Governo italiano, invece, nelle sue osservazioni affermava che il nesso causale intercorrente tra la collaborazione con le autorità e l’accesso ai benefici premiali si giustifica sulla base dell’estrema gravità dei reati in questione. Infatti, l’elemento mafioso è caratterizzato da un legame stabile destinato a rafforzarsi col tempo; per questo motivo è necessario che l’esito positivo di un percorso di rieducazione in carcere venga dimostrato tramite la collaborazione con le autorità.

Dal canto suo, la Corte, accogliendo il ricorso, ha condannato l’Italia per violazione del principio di umanità della pena ex art. 3 CEDU.

I giudici di Strasburgo, da un lato, hanno giustificato il regime ostativo sulla base della gravità della cornice di reati in cui si inserisce; dall’altro, essi hanno sottolineato come la lotta alla mafia non posso giustificare deroghe alle norme convenzionali. Inoltre, la Corte ha mosso una critica alla norma italiana che equipara la pericolosità sociale alla mancata collaborazione: quest’ultima non sempre dipende dalla volontà del detenuto di mantenere legami con l’associazione criminale. Come sottolineato dal ricorrente, il suo diniego può dipendere dalla necessità di evitare che sia lui che i suoi affetti più cari possano subire ritorsioni da parte dei suoi ex associati. Per questo motivo, la mancata collaborazione non sempre è da considerare come espressione di una scelta pienamente libera e dettata dalla volontà di mantenere legami associativi. Peraltro, la Corte ha rifiutato l’ulteriore automatismo che vede equiparare la “dissociazione” al sicuro ripudio dei “valori criminali”, in quanto la scelta di collaborare potrebbe essere stata dettata da ragioni di comodo e con l’unica finalità di accedere ai vantaggi detentivi.

Sulla base di quanto affermato, si osservava che la “dissociazione” dall’ambiente mafioso e l’intento risocializzante non devono dipendere esclusivamente da una condotta collaborativa, ma possono esprimersi anche in maniera diversa, come il mantenimento durante l’esecuzione della pena di una buona condotta. Il complesso di questi fattori è già indice di una evoluzione della personalità dell’interessato. In ottemperanza alle considerazioni fin qui illustrate, la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU, invitandola, allo stesso tempo, ad attuare, preferibilmente per via legislativa, una riforma dell’ergastolo ostativo che garantisca la possibilità di un riesame della pena.

 

Il regime ostativo al vaglio della Corte costituzionale

Le pronunce della Corte costituzionale rispecchiano un’evoluzione interpretativa di notevole interesse, sintomatica della progressiva acquisizione di una maggiore sensibilità nei riguardi delle condizioni umanitarie dei condannati.

Nella sentenza n. 135/2003[3] la Corte ha avuto modo di pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art 4 bis ord. pen. in relazione alla possibilità di concedere al detenuto l’accesso alla libertà condizionale. In questa occasione, i giudici hanno sostenuto un orientamento alquanto discutibile: la norma in esame non precluderebbe in modo assoluto o definitivo la libertà condizionale. Infatti, l’accesso a questa misura è frutto di una scelta libera del condannato di collaborare con la giustizia. Questo paradigma si fonda su una pura e semplice valutazione empirica, priva di fondamento razionale: la decisione di non fornire il proprio decisivo apporto alla giustizia non è sussumibile – in maniera assoluta – alla mancanza di progressi verso il reinserimento sociale. Un ragionamento in questi termini non può che essere bollato come incompatibile con il principio costituzionale della rieducazione.

Tuttavia, successivamente la Corte con la sentenza n. 253 del 2019[4] ha mutato il suo orientamento precedente. La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 1 dell’art 4 bis ord. pen., nella parte in cui esclude gli ergastolani ostativi dalla fruizione dei permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia.

In particolare, emerge il rifiuto dell’idea di far dipendere l’accesso al beneficio unicamente dalla collaborazione, ritenendo che questo possa derivare anche da altri elementi probatori tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo di un loro ripristino.  In tale modo, la Corte ha modificato l’originaria presunzione di pericolosità da “assoluta” in “relativa”, superabile fornendo anche elementi ulteriori di dissociazione dal contesto criminale. Tuttavia, è importante rimarcare che questa decisione, nonostante il decisivo approdo a cui è giunta, ha un’efficacia parziale e limitata: essa spiega la sua applicazione esclusivamente alla concessione di permessi premio e, allo stesso tempo, conserva la validità della disciplina previgente per le altre forme di benefici.

L’ultimo intervento[5] del Giudice delle leggi in materia di ergastolo ostativo coincide con l’ordinanza n. 97 del 2021[6]. Utilizzando la stessa modalità operativa del celebre “Caso Cappato”, la Corte ha rinviato all’anno successivo la decisione incostituzionalità dell’art. 4 bis ord. pen. rispetto agli artt. 3, 27 co.3 e 117 Cost., invocando, allo stesso tempo, in ottemperanza al principio di leale collaborazione istituzionale, l’intervento legislatore in una materia così delicata, al fine di garantire la sua conformità ai principi costituzionali.

Nello specifico, la questione di legittimità rimessa alla Consulta dalla Corte di cassazione aveva ad oggetto la compatibilità costituzionale della norma in esame con l’accesso al beneficio della libertà condizionata, ritenuta il principale beneficio a cui un ergastolano possa ambire. La condizionale è l’unica misura in grado di convertire “il fine pena mai” in “fine della pena”.

Evitando di pronunciarsi, ha eluso il rischio che una sentenza puramente “demolitoria” operasse una riforma solo parziale della norma, creando disuguaglianze ed incoerenze. Infatti, se la Corte avesse accolto immediatamente la questione, il condannato sarebbe stato immesso nella facoltà di accedere alla libertà condizionale, ma gli sarebbe stato inibito l’accesso alle altre misure alternative prodromiche al recupero della libertà. Invece, con la tecnica del rinvio ha lasciato terreno fertile per un più ampio processo di positivizzazione, volto a coinvolgere ogni forma di beneficio e progressione trattamentale. Ad ogni modo, la Corte non si è sottratta all’enunciazione di criteri e parametri rivolti a guidare il legislatore nella redazione della novella. In particolare, la Consulta ribadisce che la collaborazione non deve costituire l’unico elemento distintivo tra l’ergastolano ostativo e l’ergastolano comune. È necessario che l’accesso ai benefici non sia subordinato ad uno scambio tra informazioni utili e la possibilità di accedere ad un miglior percorso di trattamento penitenziario, in quanto questa decisione potrebbe portare ad una tragica scelta tra la propria libertà e la sicurezza dei propri cari.

In altri termini, la collaborazione, intesa come strumento di rottura con l’ambiente malavitoso, pur mantenendo il proprio valore positivo, non è compatibile con il dettato costituzionale se risulta l’unica strada possibile per accedere alla libertà condizionale. Di contro, secondo alcuni commentatori potrebbe generarsi il rischio che la collaborazione perda il suo valore originario di pentimento morale e di revisione critica del passato, assumendo, invece, le forme della delazione.

 

La novella legislativa: la legge n.199/2022

Il monito della Corte costituzionale non è rimasto inascoltato.

Di recente il Parlamento ha approvato, in sede di conversione, il decreto-legge n.162/2022 in materia di “divieto di concessioni di benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia”. In linea con quanto fin qui analizzato, si rende necessario verificare la congruità del risultato legislativo rispetto ai criteri e ai principi affermati nell’ordinanza di rinvio. Le innovazioni introdotte dalla novella si inquadrano nella logica di un superamento della presunzione assoluta di pericolosità sociale e delle restrizioni probatorie previgenti, prevedendo, invece, nuovi oneri probatori, diversi dalla collaborazione al fine di beneficiare di un regime detentivo non ostativo[7].

Innanzitutto, la legge ha riscritto il comma 1 bis dell’art. 4 bis ord. pen., delineando una distinzione tra due fasce di reati cd. ostativi.

  • La prima fascia include i “reati associativi” – principalmente delitti di mafia e terrorismo – mentre
  • alla seconda fascia sono sussumibili i “reati non associativi” – principalmente reati gravi contro la PA.

 

Il fattore di differenziazione è dato dagli oneri di allegazione che gravano in capo ai richiedenti, in assenza di collaborazione.

I condannati per i reati associativi possono accedere ai benefici penitenziari esterni purché forniscano la prova di aver adempiuto alle obbligazioni civili e agli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna, o l’assoluta impossibilità di tale adempimento. Inoltre, il giudice è tenuto ad accertare la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa. Infine, è richiesta anche l’allegazione di “elementi che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva o con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il rispristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”.

La nuova formula precisa anche che gli elementi specifici di cui si chiede l’allegazione siano diversi dalla regolare condotta carceraria, dalla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e dalla semplice dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione a cui è affiliato. Quest’ultimo passaggio fissa un onere della prova in negativo, fondata sul presupposto che i legami e la logica associativa siano perduranti. Per superare tale presunzione relativa è necessario fornire elementi ulteriori rispetto al buon contegno che ci si aspetterebbe da un detenuto.

Sul punto gli studiosi hanno sollevato le prime perplessità. In primo luogo, risulta alquanto difficile per il detenuto acquisire prove che non concernono ciò che avviene all’interno delle mura del carcere. In secondo luogo, ancora più arduo è comprendere come il condannato possa fornire la prova in negativo dell’insussistenza del pericolo di un ripristino dei contatti con il sodalizio: l’obbligo esplicativo, stando ad un’interpretazione testuale, consisterebbe nel dimostrare un fatto – il pericolo – naturalisticamente inesistente.

In considerazione di ciò, la prova in capo al richiedente sarebbe a tal punto complicata e gravosa che alcuni commentatori non hanno tardato a riconoscervi i caratteri di una vera prova diabolica.

Invece, per i condannati per i reati non associativi, data l’assenza del legame con l’organizzazione criminosa, l’onere è limitato all’allegazione di elementi specifici che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con il contesto nel quale il reato è stato commesso.

Da ultimo, la legge in esame consente al detenuto non collaborante di indicare i motivi sottesi al rifiuto. Questo è non solo una garanzia importante per il richiedente, ma è anche un significativo ausilio per il giudice di sorveglianza, in quanto, qualora il primo intenda fornire le ragioni giustificatrici della mancata collaborazione, esse dovranno essere valutate congiuntamente agli altri elementi sovra esaminati. In questo modo il magistrato potrebbe concedere l’accesso ai benefici penitenziari anche al detenuto non cooperante che abbia prestato valide giustificazioni, come la necessità di salvare i propri familiari.

 

Conclusioni

Dall’esame fin qui condotto risulta arduo esprimere un giudizio di conformità del nuovo modello di ergastolo ostativo rispetto ai principi costituzionali e convenzionali. Nonostante la nuova linea legislativa si ispiri a logiche prettamente garantiste, i dubbi circa la lealtà del legislatore al dogma della perpetuità permangono.

Infatti, anche il rivisitato art. 4 bis, anteponendo la possibilità di una risocializzazione ad un dovere probatorio così intricato da renderlo impossibile, si dimostra ancorato ad una presunzione, ormai così diffusa nella collettività, di irrecuperabilità del mafioso. Questa teoria nasce dall’indubbia solidità del vincolo di sangue che unisce l’affiliato all’organizzazione mafiosa; ciò, tuttavia, non deve giustificare una valutazione aprioristica fondata unicamente sulla funzione neutralizzante della pena. Vivere in uno Stato di diritto regolato dai supremi ideali costituzionali significa credere che nessuna persona sia irrecuperabile.

La rigida scelta che si impone al condannato muove dall’assunto che il carcere possa costituire un valido persuasore alla collaborazione con la giustizia. In realtà, è proprio la previsione di una legislazione premiale ad incentivare la collaborazione, non la paura di una reclusione a vita. Come ammoniva Alessandro Margara “è […] un nodo critico fondamentale pensare che il carcere come il luogo dove si incapacita un uomo (per pericoloso che possa essere, negandogli che possa mantenere relazioni di vita) e supporre, poi, che altri uomini possano ritrovare in esso occasioni di riabilitazione.”.

Allo stesso modo, è indubbio che il fenomeno mafioso abbia conosciuto una diffusione capillare in Italia più che in altri Stati, ma ciò non giustifica un inasprimento della risposta sanzionatoria dello Stato o un appannamento delle garanzie nella lotta alla criminalità: il rispetto della dignità umana e dei diritti inviolabili della persona costituiscono le colonne d’Ercole oltre le quali uno stato democratico non può spingersi[8].

Informazioni

“Esiste ancora l’ergastolo ostativo?” di M. Merlino in Questione giustizia.

“Qualche considerazione sulla recente pronuncia della Corte costituzionale in materia di “ergastolo ostativo” di H J Woodcock in Questione giustizia.

“La sconfitta della ragione. Leonardo Sciascia e la giustizia penale” di E. Amodio, E.M. Catalano, G. Puglisi, Sellerio editore.

Sent. Corte Cost. 306/1993.

Sentenza corte cost 153/2003.

Sentenza corte cost 253/2019.

Ordinanza corte cost 97/2021.

Sentenza CEDU Viola c. Italia.

[1] Cfr. CASAVECCHIA, “L’ergastolo ostativo nella giurisprudenza CEDU”, disponibile qui: https://www.dirittoconsenso.it/2020/02/28/ergastolo-ostativo-cedu/

[2] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ricorso n. 77633/2019, disponibile qui: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.page?facetNode_1=1_2%282019%29&contentId=SDU198705&previsiousPage=mg_1_20

[3] Corte cost sentenza 135 del 2003, disponibile qui: https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do

[4] Corte cost. sentenza n. 253 del 2019, disponibile qui:  https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do

[5] Cfr. DE LUCIA, “Ergastolo ostativo, possibile illegittimità?”, disponibile qui: https://www.dirittoconsenso.it/2021/07/12/ergastolo-ostativo-possibile-illegittimita/

[6] WOODCOCK, “Qualche considerazione sulla recente pronuncia della Corte costituzionale in materia di “ergastolo ostativo”, maggio 2021, disponibile qui: https://www.questionegiustizia.it/articolo/qualche-considerazione-sulla-recente-pronuncia-della-corte-costituzionale-in-materia-di-ergastolo-ostativo

[7] MERLINO, “Esiste ancora l’ergastolo ostativo?”, gennaio 2023, disponibile qui:

https://www.questionegiustizia.it/articolo/ergastolo-ostativo

[8] AMODIO, CATALANO, PUGLISI “La sconfitta della ragione. Leonardo Sciascia e la giustizia penale”, edizione 2022.


Obbligo vaccinale

La legittimità dell'obbligo vaccinale

L’obbligo vaccinale: i profili di legittimità costituzionale alla luce dell’interpretazione ermeneutica della Corte Costituzionale e la tutela indennitaria

 

Introduzione al concetto di obbligo vaccinale e la procedura di commercializzazione europea dei vaccini

L’attuale crisi sanitaria causata dalla pandemia di Covid-19 ha costretto gli Stati ad adottare stringenti misure di contenimento per la prevenzione della diffusione del virus.

Sin dal primo momento in cui i governi nazionali hanno avuto la possibilità di intraprendere campagne di vaccinazione di massa della popolazione, tutti i cittadini hanno cominciato ad interrogarsi circa la legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale. La soluzione della questione, ormai da mesi al centro del dibattito pubblico, ha portato ad una spaccatura del tessuto sociale, in virtù delle contrapposte posizioni adottate al riguardo. Il presente elaborato si propone l’obiettivo di dimostrare che la legittimità di un obbligo vaccinale sia in realtà un concetto radicato all’interno del nostro assetto costituzionale e assiduamente affermato dalla giurisprudenza dalla Corte Costituzionale.

Nello stadio iniziale della pandemia, il legislatore italiano ha scelto la linea della sensibilizzazione, confidando sull’effetto persuasivo che una forte campagna propagandistica pro-vaccino potesse suscitare nei riguardi della compagine sociale. La scelta di un tale orientamento e l’esclusione dell’adozione di un’estensione generalizzata di un obbligo vaccinale sono da ricercarsi in diversi ordini di motivi.

Innanzitutto, il primo motivo si ravvisa nell’iniziale scarsa disponibilità materiale delle dosi vaccinali prodotte dalle case farmaceutiche.

Una seconda ragione può ricercarsi nella volontà dei rappresentanti delle istituzioni di preferire l’attuazione dell’obbligo solo in un’ottica di extrema ratio, specialmente in considerazione dell’iniziale generale scettiscismo sull’efficacia dei vaccini nella lotta al virus.

Infine, una terza causa è da individuarsi nelle stringenti regole di commercializzazione dei vaccini dettate in ambito europeo: la normativa vigente prevede che l’adozione di un vaccino deve passare al vaglio dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema), la quale, a seguito di una valutazione circa la sua efficacia, sicurezza e qualità, emette una raccomandazione indirizzata alla Commissione Europea, la quale, a sua volta, si esprime sulla possibilità di autorizzare la commercializzazione sul mercato dell’Ue, previo parere favorevole degli Stati membri. Accanto a questo iter ordinario è prevista una procedura ad hoc, studiata per far fronte ad una situazione di carattere emergenziale come quella attuale: si fa riferimento all’ immissione in commercio fortemente condizionata (Cma), ovvero una modalità, ormai in uso da anni, che consente un’autorizzazione maggiormente semplificata e rapida, ma che garantisce allo stesso tempo una forte attività di monitoraggio tramite l’applicazione di elevati standard qualitativi di controllo e sicurezza.

Pertanto, gli Stati membri hanno concordemente convenuto di applicare la procedura di “immissione in commercio fortemente condizionata” per i vaccini anti-Covid, a discapito dell’introduzione di un vero e proprio obbligo.

 

I profili di costituzionalità dell’obbligo vaccinale

Come preannunciato nell’introduzione, la legittimità dell’esercizio da parte dello Stato del potere di adozione di un obbligo vaccinale discende da un delicato equilibrio di alcuni principi costituzionali fondamentali, per cui già in sede di Assemblea Costituente emersero le prime rilevanti criticità nel trovare un bilanciamento tra:

  • l’obbligatorietà dei trattamenti sanitari sancita dall’art. 32.2 Cost.,
  • il dovere di solidarietà sociale ex art. 2 Cost. e
  • la libertà del singolo.

 

In particolare, una delle questioni più rilevanti attiene la natura della riserva di legge disposta dall’art. 32 comma 2 Cost.

Sulla questione, autorevole dottrina[1] ha osservato che l’analisi della norma in esame impone la necessità di distinguere tra due ipotesi entro cui trova attuazione la riserva di legge[2]: infatti, occorre discernere il trattamento coattivo, il quale è soggetto a riserva di legge assoluta e a riserva di giurisdizione – dunque può solo essere disposto dall’autorità giudiziaria nei casi e modi stabiliti dalla legge -, dal trattamento sanitario obbligatorio, il quale è soggetto ad una riserva di legge relativa – dunque può essere imposta anche dalle autorità amministrative e sanitarie. Secondo l’ormai consolidato orientamento costituzionale, le vaccinazioni imposte per legge devono annoverarsi tra i trattamenti sanitari obbligatori, quindi meritevoli di un apposito intervento legislativo. Inoltre, per ragioni di completezza si precisa che secondo un’interpretazione diffusa e recentemente ribadita proprio con riferimento al decreto n. 73 del 2017 «la riserva di cui all’art. 32 Cost. non è, specificamente, di “legge formale” e può, dunque, essere costituzionalmente soddisfatta anche mediante l’adozione di un decreto-legge, fatti salvi i requisiti di «straordinaria necessità ed urgenza» dettati dall’art. 77 Cost., oltreché i limiti imposti dall’art. 32 Cost. ai trattamenti sanitari obbligatori[3].

Tale indirizzo deriva dalla constatazione che il diritto alla salute tutelato dall’art. 32 Cost., primo comma, è qualificato dal possesso di una natura polivalente, in quanto la salute è da intendersi non soltanto come un diritto dell’individuo, ma anche come un interesse della collettività.

Al riguardo, la stessa Consulta, nelle sentenze aventi ad oggetto la vaccinazione antipoliomielitica e la vaccinazione contro l’epatite B, ha enucleato i requisiti che garantiscono la compatibilità dell’obbligo vaccinale con la norma costituzionale in esame, valorizzando, in particolar modo, questo carattere bifronte della salute.

In primo luogo, è necessario che “il trattamento sia diretto non solo a migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri”, poiché è proprio questa ulteriore finalità di tutela dell’interesse collettivo a legittimare la compressione della libertà di autodeterminazione del singolo nel decidere se avvalersi o meno dell’inoculazione del vaccino. In secondo luogo, occorre che vi sia “la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili”. Infine, l’ultimo parametro è integrato “se – nell’ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio – sia prevista la corresponsione di un’equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria.”.

Peraltro, il giudice delle leggi ha di recente avvalorato l’importanza “collettiva” e la conformità dell’obbligo vaccinale al diritto alla salute in presenza dei presupposti sopra descritti. La questione atteneva il ricorso presentato dalla Regione Veneto, la quale lamentava l’incostituzionalità degli obblighi vaccinali disposti con il decreto legge n.73/2017[4].

Nel merito, la Consulta nella sentenza n.5/2018[5] ha chiaramente riconosciuto una piena potestà legislativa statale in materia di determinazione dell’obbligo, escludendo così la potestà regionale di modificare l’obbligo introdotto a livello nazionale e, di conseguenza, assegnando alle Regioni una mera competenza sussidiaria da realizzare nel rispetto delle previsioni contenute nella normativa statale.

La presa di posizione garantista della Corte ha il pregio di impedire che futuri interventi legislativi rivolti all’introduzione di un obbligo vaccinale possano essere in concreto dismesso da posizioni locali totalmente divergenti sulla questione.

 

Il d.l. 44/2021 e il d.l. 1/2022: l’introduzione dell’obbligo per determinate categorie

Attualmente, il legislatore italiano  ha imposto l’obbligo vaccinale anti-Covid19 solo per determinate categorie di persone: inizialmente, l’art. 4 del d.l. 44/2021 ha unicamente disposto l’introduzione del provvedimento nei riguardi degli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario; successivamente, il d.l. 1/2022 ha introdotto l’art. 4 quater con il quale il legislatore ha esteso l’obbligo vaccinale a tutti coloro che abbiano compiuto il cinquantesimo anno di età.

La legittimità costituzionale di tali disposizioni risiede nell’art. 32 Cost. che costituisce il fondamento del dovere del legislatore di tutelare l’interesse della collettività di fronte al rischio che scelte individuali del singolo possano nuocere all’integrità della salute dell’intera popolazione. Tuttavia, l’intervento così descritto presenta due precisi limiti di carattere generale che sono da rinvenirsi nei principi di proporzionalità e di ragionevolezza delle conseguenze.

Ne consegue che l’eventuale licenziamento del lavoratore per non avere ottemperato all’adempimento dell’obbligo sarebbe una misura sproporzionata in eccesso rispetto alla consistenza della violazione dei doveri su di lui incombenti; all’opposto, non sarebbe irragionevole la sanzione pur grave della sospensione dell’erogazione delle retribuzioni, nel caso del personale sanitario. In ultimo, ulteriori ragioni di legittimazione dei provvedimenti in esame per il personale sanitario possono ravvisarsi nella particolare delicatezza delle mansioni svolte e del costante e ravvicinato contatto che questi hanno con pazienti in condizione di fragilità.

Per tutti gli individui non rientranti nelle categorie suddette rimane fermo, in assenza di un’apposita legge, il diritto di autodeterminarsi circa la scelta di vaccinarsi, in quanto per essi permane solo un vincolo civico e morale.

 

Gli indennizzi in caso di danno dal vaccino 

Un ulteriore presupposto di legittimità per l’introduzione di un obbligo vaccinale si rinviene nella necessaria predisposizione di una tutela indennitaria a favore di coloro che subiscono intollerabili danni alla salute, causati dall’avvenuta somministrazione del farmaco. Questa guarentigia è stata ribadita dalla Consulta[6] attraverso l’individuazione dei parametri, elencati in precedenza, finalizzati ad attestare la compatibilità dell’obbligo con l’art. 32 Cost. In questa sede, rileva specificamente l’ultimo presupposto, il quale sancisce la necessità che la legge, nel disciplinare l’obbligo vaccinale, debba prevedere la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, oltre alla tutela risarcitoria, la quale è svincolata dalla previsione di un indennizzo[7].

Quanto sostenuto trova pieno conforto nell’art. 1 della L. 25/02/1992, n. 210, in base al quale “chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge”.

Ora, se ci si affidasse unicamente ad una mera interpretazione letterale del precetto, la conseguenza sarebbe che gli eventuali indennizzi potrebbero essere erogati solo nelle ipotesi in cui il vaccino avesse una natura obbligatoria, con la conseguenza che rimarrebbero privi di copertura indennitaria sia i casi in cui le menomazioni fossero solamente temporanee, sia i casi in cui i vaccini fossero meramente consigliati e non imposti dalle autorità. In realtà, la Corte è intervenuta sul punto e ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, stabilendo l’ingiustificata e irragionevole differenziazione di trattamento a seconda che il vaccino sia obbligatorio o fortemente consigliato.

Venendo alla problematica attuale, è opportuno chiarire la natura del vaccino anti Covid19. È innegabile che la l. 210/1992 trovi piena attuazione per quelle categorie su cui grava l’obbligo vaccinale; al contrario, la questione è di non immediata risolvibilità per le altre ipotesi a cui non si rivolge l’onere. Infatti, si è reso nuovamente necessario un intervento della Consulta (sentenza 23 giugno 2020, n. 118), la quale ha proclamato l’assoluta equivalenza qualitativa tra obbligo e raccomandazione, in ragione del fatto che il fondamento della scelta di adesione ad una delle due modalità risiede in valutazioni squisitamente politiche e discrezionali del legislatore. In special modo, lo strumento della raccomandazione garantisce una più ampia libertà di autodeterminazione al singolo, lasciando a quest’ultimo la decisione di vaccinarsi per salvaguardare l’interesse collettivo della comunità. Per siffatte ragioni, è compito dello Stato farsi carico delle eventuali conseguenze negative sull’integrità psico-fisica della persona, garantendo il diritto dei soggetti passivi ad avere accesso alle procedure indennitarie, in modo che non siano unicamente questi ultimi a sopportare il costo di un beneficio anche collettivo.

In definitiva, è innegabile che le numerose campagne di sensibilizzazione alla vaccinazione abbiano ingenerato nella collettività un legittimo affidamento sulla natura “fortemente raccomandata” posseduta dal vaccino antiCovid19. Pertanto, non riconoscere un indennizzo nei casi di menomazioni comporterebbe una lesione degli artt. 2, 3 e 32 Cost., sebbene la Corte abbia precisato che il giudice a quo non può automaticamente estendere l’applicazione della l. 210/1992 ai danni derivanti da un vaccino fortemente raccomandato, occorrendo al riguardo una pronuncia di incostituzionalità della legge oppure un intervento legislativo ad hoc teso ad estendere il diritto all’indennizzo anche a favore di chi si sottoponga al vaccino antiCovid19.

Informazioni

Patanè A. “La costituzionalità dell’obbligo vaccinale all’interno del difficile equilibrio tra tutele e vincoli nello svolgimento dell’attività lavorativa”, in Lavoro Diritto Europa.

https://www.questionegiustizia.it/data/doc/2980/romboli.pdf

https://www.altalex.com/documents/news/2022/01/21/danni-da-vaccino-anti-covid-19-chi-risarcisce-e-a-quali-condizioni

[1] CARTABIA, La giurisprudenza costituzionale relativa all’art. 32, secondo comma, della Costituzione italiana, in Quaderni Costituzionali, Fasc. 2, 2012

[2] Su cosa sia la riserva di legge invito a leggere l’articolo di Diletta Fiore per DirittoConsenso disponibile a questo link: La riserva di legge: forma di garanzia dello Stato di diritto – DirittoConsenso

[3] PIZZETTI, Vaccini obbligatori: Le questioni aperte, in Rivista di BioDiritto n.2, 2017

[4] In particolare, il decreto Lorenzin ha introdotto l’obbligatorietà della somministrazione di 12 vaccini rivolto ai minori fino ai 16 anni di età come requisito per l’iscrizione ai corsi scolastici

[5] Nello specifico, la questione che la Corte era chiamata a risolvere atteneva, da un lato, alle modalità di ripartizione delle competenze tra lo Stato e le Regioni in materia di salute pubblica e, dall’altro, alla legittimità del riconoscimento alle Regioni del potere di intervenire attivamente per limitare o sospendere gli obblighi prescritti dallo Stato

[6] Sentenze n. 5 del 18 gennaio 2018, n. 258 del 23 giugno 1994 e n. 307 del 22 giugno 1990

[7] Le due differenti ipotesi richiamate si differenziano sulla base di alcuni fattori: nello specifico, il risarcimento si configura nel momento in cui è fornita la prova dell’esistenza del nesso causale tra il fatto illecito dell’autore (doloso o colposo) ed il danno cagionato, mentre il diritto soggettivo a ricevere l’indennizzo nasce a seguito della prova che le lesioni permanenti all’integrità psico-fisica siano una conseguenza diretta della vaccinazione