Le legislazioni spaziali nazionali: la normativa di Stati Uniti e Lussemburgo
Nell’ultimo decennio Stati Uniti e Lussemburgo hanno adottato legislazioni spaziali nazionali per lo sfruttamento delle risorse minerarie della Luna e dei Corpi Celesti. Di che si tratta?
Lo sviluppo delle legislazioni spaziali nazionali
L’avvento delle entità private nello spazio e il conseguente sviluppo di progetti per lo sfruttamento e l’estrazione delle risorse minerarie presenti sulla Luna e sui Corpi Celesti[1] hanno sollevato numerosi interrogativi in merito alla potenziale conflittualità con l’attuale quadro di diritto internazionale dello spazio. Esso disciplina infatti la condotta degli Stati (e, solo indirettamente, delle entità private) anche con riguardo allo sfruttamento delle risorse spaziali.
Nello specifico, le interpretazioni dottrinarie contrastanti delle disposizioni del Trattato sullo spazio extra-atmosferico rispetto al principio di non appropriazione e la pressione esercitata dalle società private a favore della possibilità di sfruttare ed estrarre risorse minerarie sta contribuendo a profondi cambiamenti nella configurazione futura delle attività economiche nello spazio extra-atmosferico. Al contempo, si aprono nuove sfide per il diritto internazionale[2].
Il quadro giuridico spaziale internazionale, di fatto, sembra difficilmente adattarsi all’evoluzione delle attività minerarie spaziali private. Si prospetta dunque un rischio di frammentazione per l’assenza di un’interpretazione ufficiale e comunemente condivisa dell’estensione delle libertà e dei divieti contenuti nel Trattato sullo spazio extra-atmosferico[3] anche alle società private. In questo contesto, l’avanzamento delle attività private nello spazio e l’assenza di norme internazionali esplicite hanno contribuito alla presa di posizione dei singoli Stati in merito alla possibilità di estrarre risorse naturali nello spazio extra-atmosferico.
Di fatto, si è giunti all’elaborazione di specifiche legislazioni spaziali nazionali[4], alimentando così un potenziale rischio di frammentazione nell’interpretazione delle norme principali in materia contenute nel corpus iuris spatialis internazionale.
La legislazione nazionale degli Stati Uniti per l’estrazione di risorse spaziali
Con riguardo allo sviluppo di legislazioni spaziali nazionali per lo sfruttamento di risorse sulla Luna e sui Corpi Celesti, la recente prassi degli Stati Uniti – che dispone di gran lunga del più esteso corpus legislativo nazionale in ambito spaziale – rappresenta un esempio interessante.
La rilevanza della commercializzazione dello spazio per gli Stati Uniti era già stata riconosciuta nel 2010 quando la National Space Policy formulata durante la prima amministrazione Obama sottolineava che “promuovere e sostenere un settore spaziale commerciale statunitense è considerato vitale per […] il continuo progresso nello spazio“[5]. In questa prospettiva, nel 2014, sotto la stessa Amministrazione, è stato proposto un disegno di legge, il cosiddetto Asteroids Act[6]. Tale atto normativo fu volto a promuovere il diritto degli enti commerciali privati americani di esplorare e utilizzare le risorse estratte dagli asteroidi nello spazio, in accordo con gli obblighi internazionali vigenti.
Dopo un controverso processo legislativo, una versione rivista dell’Asteroids Act successivamente presentata nel 2015 sotto l’etichetta di Space Resource Exploration and Utilization Act intendeva promuovere il diritto per le imprese private di esplorare e utilizzare le risorse minerarie spaziali rimuovendo le barriere governative esistenti allo sviluppo di un’industria considerata altamente redditizia. In particolare, pur non essendo mai stata tradotta in legge, l’atto normativo ha confermato la possibilità per i soggetti privati di acquisire diritti di proprietà sulle risorse estratte dagli asteroidi, nonché di trasferire, vendere e utilizzare tali risorse per scopi commerciali – a condizione che queste siano state estratte in conformità con le leggi applicabili e gli obblighi internazionali degli Stati Uniti[7].
Di analoga importanza è lo US Commercial Space Launch Competitiveness Act, approvato dal Congresso nel 2015 con l’obiettivo di ampliare la regolamentazione esistente dell’attività spaziale commerciale. Sorprendentemente, il titolo IV della suddetta legge riconosce il diritto di “[un] cittadino degli Stati Uniti impegnato nel recupero commerciale di una risorsa di asteroidi o di una risorsa spaziale […] di possedere, trasportare, utilizzare e vendere la risorsa spaziale ottenuta in conformità con la legge applicabile, inclusi gli obblighi internazionali degli Stati Uniti”[8].
La conformità della legislazione spaziale statunitense con il diritto internazionale
Ad una prima lettura, ciò che emerge è la questione della compatibilità dell’US Commercial Space Launch Competitiveness Act con le disposizioni contenute nel Trattato sullo spazio extra-atmosferico (Outer Space Treaty).
Più precisamente, la conformità dell’atto agli obblighi codificati nel suddetto Trattato dipende fortemente dal fatto che il divieto di appropriazione dei corpi celesti si estenda o meno anche alle risorse ivi estratte. Nondimeno, va osservato che la legge si riferisce espressamente al rispetto degli obblighi degli Stati Uniti ai sensi del diritto internazionale, sottolineando che la legge non “afferma la sovranità [degli Stati Uniti] o i diritti sovrani o esclusivi o la giurisdizione su, o la proprietà di, qualsiasi corpo celeste”[9], ponendosi così in conformità con l’art. II dell’Outer Space Treaty. Pertanto, attraverso l’emanazione del Commercial Space Launch Competitiveness Act, gli Stati Uniti hanno riaffermato l’interpretazione nazionale del principio di non appropriazione come non in contraddizione con la possibilità di concedere diritti di proprietà sulle risorse estratte dalla Luna e da altri Corpi Celesti, che sono infatti considerate res communis omnium come previsto dal Trattato sullo spazio extra-atmosferico[10]. Peraltro questo orientamento è ulteriormente confermato dal fatto che gli Stati Uniti non risultano tra gli Stati che hanno ratificato il Moon Agreement, l’Accordo sulla Luna che prevede l’istituzione di una specifica autorità volta a disciplinare lo sfruttamento delle risorse spaziali[11].
Gli atti normativi spaziali dell’Amministrazione Trump
Quando il successore di Obama, Donald Trump, è entrato in carica alla Casa Bianca nel 2017 si è verificata un’analoga ricerca di deregolamentazione dello spazio per il bene della massimizzazione del profitto.
Di fatto, l’adozione dell’American Space Commerce Free Enterprise Act ha chiaramente affermato la libertà delle società private e degli individui statunitensi di esplorare e utilizzare lo spazio, comprese le risorse in esso contenute, senza condizioni né limitazioni[12]. Tale libertà può essere limitata solo in caso di necessità per garantire la protezione degli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, nonché il rispetto degli obblighi internazionali del Paese ai sensi del Trattato sullo spazio extra-atmosferico.
Inoltre, l’ex presidente Donald Trump ha ulteriormente emanato l’ordine esecutivo 13914 del 6 aprile 2020 “Encouraging international support for the recovery and use of Space Resources“, che introduce nuove regole relative all’esplorazione scientifica a lungo termine della Luna, del pianeta Marte e di altri corpi celesti in collaborazione con enti commerciali privati, con l’obiettivo di estrarre e successivamente utilizzare le risorse spaziali[13].
Un mese dopo, la NASA annunciò formalmente gli Accordi di Artemis, originariamente concepiti come una serie di accordi bilaterali con le agenzie spaziali nazionali di altre potenze spaziali che intendevano partecipare al Programma Artemis della NASA[14]. In particolare, in conformità con gli obiettivi strategici del Programma, gli Accordi incarnano i principi critici che dovrebbero governare l’esplorazione e l’utilizzo delle risorse della Luna e di Marte e pertanto una nuova era delle attività spaziali, che riporterà l’uomo e la prima donna sulla Luna.
La legislazione spaziale del Lussemburgo
Allo stato attuale, il Granducato del Lussemburgo risulta essere il primo e unico Stato membro dell’Unione Europea ad aver adottato una legislazione spaziale nazionale relativa alle attività spaziali del settore privato.
A differenza della reazione di altre potenze spaziali come la Federazione Russa e il Brasile, che contestavano la validità dell’approccio statunitense sulla base di motivazioni politiche, nel 2017 il Lussemburgo ha seguito la strada di Washington emanando la Loi sur l’exploration et l’utilisation des ressources de l’espace[15], che prevede diritti di proprietà privata sulle risorse spaziali estratte dai corpi celesti.
Con l’obiettivo di stabilire un quadro normativo attraente per le società private che intendono estrarre risorse spaziali, la legge lussemburghese trae origine dalla Space Resources Initiative del 2016[16]. Tale iniziativa, in particolare, aveva il più ampio scopo di creare un “quadro legale e normativo che confermi la certezza sulla futura proprietà di minerali estratti nello spazio” è stato posto al centro delle attività del Lussemburgo nel settore spaziale.
In particolare, l’atto legislativo del 2017 delinea un quadro normativo completo per le attività minerarie spaziali delle società private, sulla base del presupposto che le risorse spaziali sono soggette alla proprietà privata – a condizione che le società nazionali o europee con sede legale in Lussemburgo abbiano precedentemente ottenuto specifica autorizzazione dello Stato. La suddetta autorizzazione si configura come strettamente personale e non cedibile. Pertanto nessun’altra società può svolgere l’incarico per mezzo o in sostituzione di quella autorizzata.
Tra gli elementi che il governo lussemburghese dovrà valutare nel processo di esame dei requisiti di ammissibilità di una società appaiono fondamentali la solidità finanziaria, tecnica e giuridica, nonché l’ammissibilità del sistema di gestione interno. Così, in caso di operazioni spaziali effettuate senza la preventiva autorizzazione dello Stato, sono previste sanzioni penali e pecuniarie.
Nel complesso, la legislazione spaziale nazionale lussemburghese presenta un approccio più aperto e completo all’uso commerciale dello spazio rispetto alle rispettive leggi adottate negli Stati Uniti, riflettendo così l’aspirazione del Paese ad affermarsi come hub per l’esplorazione e l’uso delle risorse spaziali in Europa.
Informazioni
Inserisci qui la bibliografia
[1] V.Chabert, L’avvento delle entità private nello spazio. Diritto Consenso, 23 gennaio 2023. Disponibile al link: L’avvento delle entità private nello spazio – DirittoConsenso.
[2] V.Chabert, Lo sfruttamento delle risorse spaziali nel diritto internazionale: lo space mining. Diritto Consenso, 28 febbraio 2023. Disponibile al link: Lo sfruttamento delle risorse spaziali nel diritto internazionale: lo space mining – DirittoConsenso.
[3] United Nations, Treaty on Principles Governing the Activities of States in the Exploration and Use of Outer Space, including the Moon and Other Celestial Bodies, 1967. Disponibile al link: https://www.unoosa.org/oosa/en/ourwork/spacelaw/treaties/outerspacetreaty.html.
[4] Private sector navigates outer space ahead of international law, Financial Times, 14 gennaio 2020. Disponibile al link: https://www.ft.com/content/73145372-1b74-11ea-81f0-0c253907d3e0.
[5] National Space Policy of the United States of America, 2010. Disponibile al link: https://obamawhitehouse.archives.gov/sites/default/files/national_space_policy_6-28-10.pdf.
[6] American Space Technology for Exploring Resource Opportunities In Deep Space Act (Asteroids Act), H.R.5063, 2014.
[7] Space Resource Exploration and Utilization Act, H.R. 1508, 2015.
[8] Commercial Space Launch Competitiveness Act, H.R. 2262, Titolo IV, 2015.
[9] Ivi, sez. 403.
[10] Frans G. Von der Dunk, Private Property Rights and the Public Interest in Exploration of Outer Space, Space, Cyber And Telecommunications Law Program Faculty Publications, 95, 2018, p. 3.
[11] General Assembly Resolution A/RES/34/68, Agreement Governing the Activities of States on the Moon and Other Celestial Bodies, 18 dicembre 1979. Disponibile al link: https://www.unoosa.org/oosa/en/ourwork/spacelaw/treaties/moon-agreement.html.
[12] American Space Commerce Free Enterprise Act, H.R.2809, 2017.
[13] National Archives Of The United States Of America, Federal Register, Executive Order 13914 of 6 April 2020, Encouraging International Support for the Recovery and Use of Space Resources. Disponibile al link: https://www.federalregister.gov/documents/2020/04/10/2020-07800/encouraging-international-support-for-the-recovery-and-use-of-space-resources.
[14] Principles For Cooperation In The Civil Exploration And Use Of The Moon, Mars, Comets, And Asteroids For Peaceful Purposes (Accordi di Artemis), 13 October 2020.
[15] Journal officiel du Grand-Duché de Luxembourg, Loi du 20 juillet 2017 sur l’exploration et l’utilisation des resources de l’espace, 2017. Disponibile al link: https://legilux.public.lu/eli/etat/leg/loi/2017/07/20/a674/jo.
[16] Luxembourg Space Agency, Space Resources Initiative, 2016. https://space-agency.public.lu/en/space-resources.html.
Lo sfruttamento delle risorse spaziali nel diritto internazionale: lo space mining
I nuovi progetti per lo sfruttamento delle risorse spaziali da parte di imprese private pongono nuove sfide al diritto internazionale
I progetti privati per lo sfruttamento delle risorse spaziali
Dopo più di mezzo secolo dall’avvio delle attività di esplorazione dello spazio, gli Stati si trovano a confrontarsi con un profondo cambiamento geopolitico dovuto in larga misura alla ridefinizione globale degli equilibri di potere, a cui si affianca l’ascesa di nuovi attori privati nella catena di approvvigionamento dell’industria spaziale o newspace economy[1]. Di fatto, pur essendo lo spazio tradizionalmente un campo di mera azione governativa, gli ultimi due decenni hanno visto un coinvolgimento sempre più consolidato di soggetti privati, i cui ricavi dalla nuova economia spaziale hanno raggiunto la cifra di 424 miliardi di dollari solo nel 2019[2].
Tale cambio di paradigma è stato indubbiamente favorito da un’ampia serie di progressi in ambito tecnologico e, analogamente, dall’evoluzione delle applicazioni dell’intelligenza artificiale, che hanno consentito lo sviluppo di nuove attività economiche spesso slegate dai primi investimenti in infrastrutture, nonché da il coinvolgimento di soggetti privati (seppur inizialmente sotto il controllo della NASA e dell’Agenzia Spaziale Europea) nella progettazione di velivoli di lancio in grado di ridurre sensibilmente tempi e costi di produzione[3]. Ne è un esempio il lancio del primo razzo parzialmente riutilizzabile Falcon Heavy dell’azienda Space X il 6 febbraio 2018 dal Cape Canaveral Launch Complex 39 in Florida, prova del successo del “giga-capitalista” Elon Musk nell’integrazione di più componenti riutilizzabili e nella fornitura di capacità di sollevamento significativamente più elevate rispetto ai più potenti razzi attualmente in servizio, tra cui il Delta IV Heavy della United Launch Alliance[4].
Emerge pertanto come un nuovo gruppo di società private guidate da imprenditori carismatici che agiscono come agenti di trasformazione stia aprendo la strada a un nuovo assetto politico ed economico nello spazio ed in particolare sui corpi celesti, recentemente divenuti oggetto di progetti privati di sfruttamento delle risorse spaziali, inclusi metalli e terre rare che generalmente sono presenti sulla Terra con una concentrazione molto ridotta[5].
La compatibilità con il diritto internazionale dello spazio
Se l’avvento dei capitalisti spaziali nasconde un evidente obiettivo strategico di acquisizione di vantaggi competitivi attraverso il posizionamento in una nicchia di mercato molto promettente in termini di profitto, i piani di sfruttamento delle risorse spaziali (seppur ancora puramente ipotetici ma di non lontana realizzazione) al vaglio di imprese private – le statunitensi Deep Space Industries e Planetary Resources Inc. in primis – presentano inevitabili ripercussioni anche nell’ambito del diritto internazionale dello spazio[6].
Ciò apre inevitabilmente alla questione della possibilità che la commercializzazione dello spazio e l’estrazione di risorse minerarie dalla Luna e dai corpi celesti da parte di imprese private possa essere ritenuta compatibile con le attuali disposizioni dei principali trattati vigenti in materia.
Precisamente, il riferimento è al divieto di appropriazione e di rivendicazione di sovranità sancito dall’art. II del Trattato sullo spazio extra-atmosferico del 1967 (Outer Space Treaty).
L’art. II dell’Outer Space Treaty
Il già menzionato art. II del Trattato sullo spazio extra-atmosferico proibisce espressamente l’appropriazione nazionale mediante “rivendicazioni di sovranità, uso o occupazione, o con qualsiasi altro mezzo”[7]. Qualsiasi rivendicazione nazionale di proprietà o sovranità è dunque da considerarsi nulla dal punto di vista giuridico, in virtù dell’assenza di sovranità territoriale nello spazio, così come sulla Luna e altri corpi celesti.
Lette in combinazione con l’art. I del medesimo Trattato, che disciplina il libero uso e accesso allo spazio, le norme codificate nell’art. II sottolineano il carattere di res communis omnium dello spazio, che gli Stati fin dall’inizio hanno deciso di considerare insuscettibile di rivendicazioni di appropriazione e sovranità per il più ampio obiettivo di assicurare uno svolgimento sicuro, pacifico e ordinato delle attività spaziali.
Peraltro, la migliore dottrina[8] ha riconosciuto che i principi di non appropriazione e di libertà di fruizione dello spazio extra-atmosferico a beneficio di tutta l’umanità equivalgono a regole strutturali del diritto internazionale, in quanto poste a fondamento dell’intera architettura del diritto spaziale sin dall’inizio delle negoziazioni. Il principio di non appropriazione costituisce il fondamento del principio di libera esplorazione, poiché la possibilità di esercitare diritti sovrani esclusivi a favore di alcuni Stati ridurrebbe o ostacolerebbe del tutto il godimento della stessa libertà a discapito di altre nazioni[9].
In generale, vale quindi la pena notare che per il momento l’Outer Space Treaty non consente che lo spazio extra-atmosferico e i corpi celesti diventino oggetto di appropriazione nazionale da parte degli Stati. Tuttavia, a causa della mancanza di un divieto esplicito, non è chiaro se le stesse disposizioni valgano anche per le società private, che svolgono indubbiamente un ruolo di primo piano nel settore spaziale e, come indicato, hanno al vaglio piani per lo sfruttamento delle risorse spaziali ed in particolare della Luna.
L’Outer Space Treaty e le entità private
Nessun riferimento all'”uso commerciale” né allo “sfruttamento delle risorse spaziali” sembra essere presente nel testo del Trattato sullo spazio extra-atmosferico, che tuttavia contiene solo un riferimento indiretto alle società private includendole tra gli “attori non statali” menzionati all’articolo VI[10]. Nello specifico, il linguaggio dell’articolo VI postula che gli Stati parte debbano assumersi la responsabilità internazionale per le attività svolte nello spazio da agenzie nazionali governative e non governative. Inoltre, l’articolo VI richiede esplicitamente l’autorizzazione dello Stato e la supervisione continua delle attività degli attori non governativi, al fine di garantire che tali attività siano svolte in conformità con le disposizioni del Trattato.
Di particolare rilevanza è il fatto che gli Stati parte sono tenuti per legge ad assumersi la responsabilità internazionale per le attività svolte nello spazio da entità private costituite secondo le proprie legislazioni nazionali, fattispecie piuttosto rara nel diritto internazionale in quanto ciò richiede normalmente l’esistenza di un forte legame tra il governo e l’ente privato (ad esempio, l’esercizio di un controllo effettivo sull’attività dell’impresa)[11]. Allo stesso tempo, va considerato che, all’epoca dei negoziati, lo stesso scopo del Trattato sullo spazio extra-atmosferico era limitato alla creazione di una base normativa a partire dalla quale sarebbe stato poi possibile elaborare regole più specifiche, quando la materia gradualmente avrebbe iniziato ad evolversi. In questo contesto, al momento della stesura del Trattato non si fece dunque menzione dello sfruttamento commerciale delle risorse spaziali: ciò è probabilmente attribuibile anche alla posizione inflessibile dell’Unione Sovietica, che, in linea con l’ideologia politica comunista, si è a più riprese espressa contro il coinvolgimento di attori commerciali privati nello spazio[12].
Il Moon Treaty e le risorse lunari
Con la Risoluzione 34/68 del 12 maggio 1979, l’Assemblea Generale ha adottato l’Accordo che disciplina le attività degli Stati sulla Luna e altri corpi celesti (Moon Treaty). Elaborato nell’ambito del Sottocomitato Legale del COPUOS, ha iniziato ufficialmente a produrre effetti legali nel giugno 1984 con la ratifica dell’Austria.
L’Accordo ribadisce essenzialmente molte delle disposizioni sancite nel Trattato sullo spazio extra-atmosferico precedentemente adottato, sebbene consideri specificamente la loro applicazione alla Luna e ad altri corpi celesti[13].
Per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse spaziali sulla Luna e sui corpi celesti, in continuità con le disposizioni dell’Outer Space Treaty, l’articolo 11(2) del Moon Treaty afferma che:
“la Luna non è soggetta ad appropriazione nazionale da qualsiasi rivendicazione di sovranità, mediante uso o occupazione, o con qualsiasi altro mezzo”, ribadendo nel paragrafo successivo che “né la superficie né il sottosuolo della luna, né alcuna parte di essa o le risorse naturali esistenti, diventeranno proprietà di qualsiasi Stato, organizzazione internazionale intergovernativa o non governativa, organizzazione nazionale o entità non governativa o di qualsiasi persona fisica”[14].
Tuttavia, la formulazione “risorse naturali in loco” solleva la questione della possibilità che la proprietà delle stesse risorse possa essere consentita dal momento in cui queste saranno estratte previa opportuna autorizzazione e vigilanza da parte di uno Stato parte.
Una risposta adeguata a questa domanda richiederebbe tuttavia la considerazione che, a differenza degli altri Trattati che regolano le attività umane nello spazio, l’Accordo sulla Luna non è riuscito a raccogliere il sostegno degli Stati membri delle Nazioni Unite. Infatti, al mese di gennaio 2023 solo 18 Paesi hanno ratificato l’Accordo, con l’esclusione delle principali potenze spaziali di Stati Uniti, Federazione Russa e Cina.
Il motivo più evidente alla base dell’esitazione manifestata dalla maggior parte degli Stati vi sia la qualificazione giuridica della Luna e degli altri corpi celesti come patrimonio comune dell’umanità, che differisce profondamente dal regime giuridico del res communis omnium codificato nell’ Outer Space Treaty. Più precisamente, l’art. 11(1) del Moon Agreement afferma che “la Luna e le sue risorse naturali sono patrimonio comune dell’umanità”, caratterizzando così il loro utilizzo a beneficio dell’intera umanità e attraverso la creazione di un’apposita organizzazione internazionale incaricata di amministrare le risorse per conto dell’intera comunità internazionale, la cui piena istituzione è stata tuttavia rinviata a un momento futuro in cui lo sfruttamento in questione sarebbe divenuto fattibile.
Verso un nuovo regime per lo sfruttamento delle risorse spaziali?
Le interpretazioni dottrinarie contrastanti delle disposizioni dell’ Outer Space Treaty rispetto al principio di non appropriazione e la pressione esercitata dalle società private a favore della possibilità di sfruttare ed estrarre risorse minerarie dalla Luna e da altri corpi celesti pongono in luce una difficoltà del diritto internazionale dello spazio nell’adattamento all’evoluzione delle attività private di space mining, aprendo così al rischio di frammentazione per l’assenza di un’interpretazione ufficiale e comunemente condivisa dell’estensione delle libertà e dei divieti contenuti nel Trattato sullo spazio extra-atmosferico anche alle società private.
A questo proposito, per fronteggiare il diffondersi di interpretazioni unilaterali attraverso l’emanazione di singole legislazioni nazionali che regolano lo sfruttamento privato delle risorse minerarie spaziali, lo scorso dicembre 2014 è stato costituito all’Aia lo Space Resources Governance Working Group[15], con il compito di affrontare le attuali incertezze giuridiche in materia di sfruttamento delle risorse spaziali. Composto da singoli esperti, rappresentanti di aziende private, istituzioni e governi nazionali in qualità di osservatori, il Gruppo si riunisce al fine di valutare se sia attualmente necessario un quadro normativo per le attività relative alle risorse spaziali e, in caso di risposta positiva, individuare gli elementi fondamentali di un quadro giuridico internazionale comune.
In questa prospettiva, a tre anni dall’inizio delle consultazioni, il gruppo di lavoro ha potuto presentare una bozza di documento contenente una serie di principi per lo sviluppo delle risorse nello spazio, accettata per la pubblicazione nel 2019 con l’etichetta di Building Blocks for the Development of an International Framework for the Governance of Space Resource Activities[16].
Al contempo, nel 2016 il sottocomitato legale COPUOS ha incluso lo sfruttamento delle risorse spaziali come argomento di discussione all’interno della propria agenda, e nel quinquennio successivo è stato istituito un gruppo di lavoro dedicato all’investigazione degli aspetti legali delle attività di sfruttamento delle risorse spaziali, contribuendo così a progressi significativi verso una comprensione comune e ampiamente condivisa di uno degli argomenti più controversi nello spazio[17].
Se un nuovo regime giuridico internazionale si svilupperà negli anni a venire, ciò che sembra essere plausibile sarà una crescente considerazione delle iniziative dei singoli Stati per la regolamentazione dell’estrazione di risorse minerarie nello spazio.
In questa direzione, l’adozione di un approccio “dal basso” per l’individuazione di un futuro regime normativo dovrebbe senza dubbio tenere conto degli atti legislativi recentemente emanati da Stati Uniti e Lussemburgo, nonché dei piani degli Emirati Arabi Uniti per un’ampia legislazione nazionale che favorisce un ambiente commerciale competitivo per le società private alla ricerca di risorse spaziali.
Informazioni
Inserisci qui la bibliografia
[1] Valentina Chabert, Il capitalismo nello spazio. Le entità private come nuova potenza spaziale, Diplomacy. Strategic Approach To Global Affairs, 1, 2022.
[2] ISPI, The Evolution of Space Economy: The Role of the Private Sector and the Challenges for Europe, 2020. Disponibile al link: https://www.ispionline.it/en/pubblicazione/evolution-space-economy-role-private-sector-and-challenges-europe-28604
[3] Scott W. Anderson et. al., The development of natural resources in outer space, Journal Of Energy & Natural Resources Law, 2018.
[4] Space X, Falcon Heavy (2018). Disponibile al link: https://www.spacex.com/vehicles/falcon-heavy/.
[5] Valentina Chabert, L’avvento delle entità private nello spazio. DirittoConsenso, 23 gennaio 2023. Disponibile al link:https://www.dirittoconsenso.it/2023/01/23/lavvento-delle-entita-private-nello-spazio/.
[6] Fabio Tronchetti, The exploitation of Natural Resources of the Moon and other celestial bodies: a proposal for a legal regime, Studies in Space Law, 2009.
[7] Outer Space Treaty, art. II.
[8] Frans G. Von der Dunk, Private Property Rights and the Public Interest in Exploration of Outer Space, Space, Cyber And Telecommunications Law Program Faculty Publications, 2018.
[9] Grazia Sanna, New space economy, ambiente, sviluppo sostenibile. Premesse al Diritto Aerospaziale dell’Economia. G. Giappichelli Editore, 2021.
[10] Outer Space Treaty, art VI.
[11] Sergio Marchisio, The Law Of Outer Space Activities, Edizioni Nuova Cultura, 2022, p. 89.
[12] Paul G. Dembling, Daniel M. Arons, The evolution of the Outer Space Treaty, Journal Of Air Law And Commerce, 1967, pp. 419-456.
[13] Valentina Chabert, Il Moon Treaty. DirittoConsenso, 15 dicembre 2022. Disponibile al link: https://www.dirittoconsenso.it/2022/12/15/il-moon-treaty/.
[14] Moon Agreement, art. 11.
[15] International Institutte of Air and Space Law, The Hague International Space Resources Governance Working Group, 2014. https://www.universiteitleiden.nl/en/law/institute-of-public-law/institute-of-air-space-law/the-hague-space-resources-governance-working-group
[16] The Hague Space Resources Governance Working Group, Building Blocks for the Development of an International Framework for the Governance of Space Resource Activities, 2019. Disponibile al link: https://www.universiteitleiden.nl/binaries/content/assets/rechtsgeleerdheid/instituut-voor-publiekrecht/lucht–en-ruimterecht/space-resources/bb-thissrwg–cover.pdf.
[17] UNOOSA, Working Group on Legal Aspects of Space Resource Activities, 2021.Disponibile al link: https://www.unoosa.org/oosa/en/ourwork/copuos/lsc/space-resources/index.html.
L'avvento delle entità private nello spazio
La fine della competizione bipolare ha contribuito ad una presenza sempre più consolidata delle entità private nello spazio
Le entità private nello spazio
Era il 20 luglio 1969 quando, in diretta mondovisione, Neil Armstrong mosse i primi passi sul suolo lunare, segnando l’apice della contesa spaziale tra Stati Uniti ed Unione Sovietica iniziata quasi un decennio prima. Un’impresa destinata a rimanere nella storia dell’umanità, ma che potrebbe presto essere replicata dal successo della cooperazione fra le potenze spaziali nell’ambito del programma Artemis, che – entro il 2025 – mira a riportare l’uomo e la prima donna sulla superficie lunare[1].
Dopo più di cinquant’anni, tuttavia, gli Stati non si confrontano unicamente con un profondo mutamento geopolitico causa di una ridefinizione degli equilibri di potere nell’ambito dell’esplorazione spaziale, bensì anche con l’emergere di nuove entità private nello spazio, tradizionalmente ambito di azione meramente governativa. Un cambio di paradigma favorito anzitutto dai progressi in campo tecnologico e dall’evoluzione delle applicazioni dell’intelligenza artificiale[2], che ha permesso lo sviluppo di nuove attività economiche spesso svincolate dagli investimenti iniziali in infrastrutture, così come dal coinvolgimento dei privati – seppur sotto il controllo della NASA e dell’Agenzia Spaziale Europea – nella progettazione di velivoli di lancio in grado di abbattere notevolmente le tempistiche e i costi di produzione[3].
Le entità private come attori non statali nel diritto internazionale
Se lo spazio è tradizionalmente considerato un ambito ad esclusivo appannaggio degli Stati sin dal lancio del primo satellite artificiale Sputnik I da parte dell’Unione Sovietica negli anni della guerra Fredda, le entità private nello spazio pongono numerose sfide al dominio statale e, al contempo, alle norme facenti parte del diritto internazionale dello spazio.
Le disposizioni dei cinque trattati principali che compongono il cosiddetto “corpus iuris spatialis” sono infatti indirizzate agli Stati[4] e non alle entità private, che ai sensi del diritto internazionale pubblico si configurano come attori non statali. Ciononostante, la privatizzazione dello spazio non si traduce immediatamente con la scomparsa della competizione statale, ancora strettamente dipendente dagli assetti geopolitici terrestri e soprattutto dalla spiccata concorrenza tra Cina e Stati Uniti.
Tuttavia, la velocità e l’efficienza delle nuove società commerciali guidate dalla classe capitalista proveniente dalla Silicon Valley – Elon Musk, Jeff Bezos e Richard Branson per citarne alcuni – sta esercitando una forza trasformativa non indifferente sulle attività spaziali, con un’importante infiltrazione di capitali e know-how a cui gli Stati difficilmente potranno rinunciare[5].
I vantaggi economici per i privati
L’ingresso delle entità private nello spazio nasconde un fine strategico ben definito, mosso dalla volontà di acquisire un vantaggio competitivo a livello economico attraverso il posizionamento in un mercato di nicchia altamente promettente in termini di profitto.
Non è dunque remota la possibilità che l’esplorazione spaziale e lo sfruttamento commerciale della Luna e dei corpi celesti da parte degli attori privati possa offrire ingenti possibilità di profitto per tali società. Complice lo svincolo dalle dinamiche operative unicamente legate alla logica diplomatica e militare della competizione geopolitica della Guerra Fredda, lo spazio extra-atmosferico potrebbe pertanto divenire il nuovo terreno sul quale si consumerà l’espansione della logica capitalista guidata dalle imprese private, attive non solo nello sviluppo e produzione di materiale per l’esplorazione spaziale, bensì anche nello studio della fattibilità economica di un’ eventuale commercializzazione dello spazio[6].
Una commercializzazione che, allo stato attuale, risulta ancora fortemente dipendente dall’autorità governativa delle singole potenze spaziali, alle quali – come ricordato – sono indirizzate le norme del diritto internazionale dello spazio e in particolare dell’Outer Space Treaty, il quadro giuridico di riferimento in materia di esplorazione della Luna e dei corpi celesti[7].
Lo sfruttamento commerciale dello spazio
Prova dell’intensificarsi delle attività commerciali è la particolare attenzione con cui le entità private nello spazio guardano alle risorse naturali e minerarie presenti sulla superficie della Luna, negli asteroidi e nei corpi celesti[8]. Sebbene lo sfruttamento e l’estrazione di giacimenti extra-terrestri siano ancora puramente ipotetici e al varco dello studio di Stati ed entità private, l’intenso dibattito ha sollevato non poche questioni giuridiche in merito alla possibilità di una concreta attuazione dei progetti in esame. I principi fondamentali del diritto spaziale enunciati agli art. I e II del già menzionato Outer Space Treaty codificano infatti il diritto al libero accesso, uso ed esplorazione dello spazio negli interessi di tutti gli Stati, a prescindere dal grado di sviluppo economico e scientifico, e condizionano ogni tipo di attività al divieto di rivendicazione di sovranità nazionale, così come di appropriazione.
In quanto res communis omnium, le risorse spaziali non sarebbero dunque suscettibili di estrazione. Ciononostante, la dottrina giuridica risulta nettamente divisa in merito: da un lato, non è chiara l’applicabilità del principio di non-appropriazione alle società commerciali private, in quanto non esplicitamente menzionate nell’Outer Space Treaty[9]. Secondo tale orientamento, il divieto non riguarderebbe i privati, in quanto il diritto spaziale si rivolge agli Stati in via esclusiva. Dall’altro lato, la maggior parte degli studiosi considera l’estensione implicita di tale principio anche alle imprese, in considerazione del fatto che se una specifica attività è vietata agli Stati, essa sia di conseguenza proibita anche agli attori che operano sotto la sua sovranità.
Resta tuttavia aperta l’interpretazione dell’Accordo che Regola le Attività sulla Luna e sugli altri Corpi Celesti (o Moon Treaty) del 1979[10], che all’art. 11 sembrerebbe autorizzare lo sfruttamento delle risorse spaziali previa delineazione di un regime internazionale ad hoc per assicurare un’equa condivisione dei beni tra tutti gli Stati. Ciononostante, l’applicabilità di tale disposizione non è chiara, poiché il Trattato sulla Luna è stato ratificato da soli 18 Stati, tra i quali non figurano le principali potenze spaziali[11].
Le entità private e le legislazioni nazionali
L’assenza di norme internazionali esplicitamente indirizzate alle entità private nello spazio ha contribuito alla presa di posizione degli Stati in merito alla possibilità di estrarre risorse naturali nello spazio extra-atmosferico attraverso l’elaborazione di specifiche legislazioni nazionali.
Anche in questo campo si è affermato il ruolo pionieristico degli Stati Uniti, che già nel 2010 sotto la Presidenza Obama hanno definito la propria politica spaziale nazionale in ottica commerciale, poi confermata cinque anni dopo con l’entrata in vigore dello U.S. Commercial Space Launch Competitiveness Act[12]. Fu proprio questo atto normativo ad aprire il dibattito sulla legittimità dello sfruttamento delle risorse minerarie presenti sulla Luna e nei corpi celesti, poiché per la prima volta è stato affermato il diritto dei cittadini e delle imprese statunitensi a detenere, possedere, trasportare, utilizzare e vendere i materiali estratti dallo spazio “in accordo con le norme applicabili e gli obblighi internazionali degli Stati Uniti.”.
Accanto agli Stati Uniti, il Lussemburgo è il primo Stato membro dell’Unione Europea a legiferare in materia, affermando la possibilità per le società lussemburghesi o europee con sede legale nel Paese di appropriarsi delle risorse naturali e minerarie estratte nello spazio previa autorizzazione dello Stato[13].
Seppur si tratti di un fenomeno legislativo piuttosto circoscritto, l’adozione di quadri giuridici nazionali per la regolazione delle attività di estrazione mineraria ad opera di società commerciali private apre all’importante considerazione dell’adeguatezza del diritto internazionale dello spazio, che – pur presentando caratteri di innovazione – dovrà inevitabilmente adattarsi tanto all’entrata di nuovi attori nel dominio spaziale, quanto alla presenza di nuove fattispecie che necessitano di una regolazione giuridica nel breve termine.
Informazioni
Inserisci qui la bibliografia
[1] NASA, Artemis Programme. Disponibile al link:https://www.nasa.gov/specials/artemis/.
[2] ISPI, The Evolution of Space Economy: The Role of the Private Sector and the Challenges for Europe, 2020. Disponibile al link: https://www.ispionline.it/en/pubblicazione/evolution-space-economy-role-private-sector-and-challenges-europe-28604.
[3] A. Aresu, R. Mauro, I cancelli del cielo. Economia e politica della grande corsa allo spazio, 1950-2050. Luiss University Press, 2022, p.53.
[4] V. Chabert, Il diritto internazionale dello spazio: genesi ed evoluzione. Diritto Consenso, 3 ottobre 2022. Disponibile al link: https://www.dirittoconsenso.it/2022/10/03/il-diritto-internazionale-dello-spazio-genesi-ed-evoluzione/.
[5] B. Dobos, Tortoise the Titan: Private Entities as Geoeconomic Tools in Outer Space, Space Policy (60), 2022. Disponibile al link:https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0265964622000133.
[6] Ibid.
[7] V. Chabert, Le fonti del diritto internazionale dello spazio. Diritto Consenso, 27 ottobre 2022. Disponibile al link: https://www.dirittoconsenso.it/2022/10/27/le-fonti-del-diritto-internazionale-dello-spazio/.
[8] F. Tronchetti, The Exploitation of Natural Resources of the Moon and Other Celestial Bodies. A Proposal for a Legal Regime. Studies in Space Law (4), 2009, p. 5-6.
[9] G. Sanna, New space economy, ambiente, sviluppo sostenibile. Premesse al Diritto Aerospaziale dell’Economia. G. Giappichelli Editore, 2021.
[10] UNOOSA, Agreement Governing the Activities of States on the Moon and Other Celestial Bodies, 1979. Disponibile al link: https://www.unoosa.org/oosa/en/ourwork/spacelaw/treaties/intromoon-agreement.html .
[11] V. Chabert, Il Moon Treaty. Diritto Consenso, 15 dicembre 2022. Disponibile al link: https://www.dirittoconsenso.it/2022/12/15/il-moon-treaty/.
[12] U.S. Commercial Space Launch Competitiveness Act, Public Law 114–90, 2015. Disponibile al link:https://www.congress.gov/114/plaws/publ90/PLAW-114publ90.pdf.
[13] Journal officiel du Grand-Duché de Luxembourg, Loi du 20 juillet 2017 sur l’exploration et l’utilisation des resources de l’espace, 2017, art. 2-4. Disponibile al link: https://legilux.public.lu/eli/etat/leg/loi/2017/07/20/a674/jo .
Il Moon Treaty
Entrato in vigore nel 1984, il Moon Treaty regola le attività di esplorazione della Luna di Stati e organizzazioni internazionali
L’adozione del Moon Treaty
Elaborato dalla sottocommissione legale a partire dal 1972, con la risoluzione 34/68[1] del 1979 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato l’Accordo Regolante le Attività degli Stati sulla Luna e gli altri Corpi Celesti (Moon Treaty)[2]. Tale trattato riafferma l’applicazione alla superficie selenica di numerose disposizioni del precedente Trattato sui Principi che Governano le Attività degli Stati nell’Esplorazione e nell’Uso dello Spazio Extra-atmosferico, Compresi la Luna e gli altri corpi Celesti (Outer Space Treaty) aperto alla firma il 27 gennaio 1967 ed entrato in vigore nell’ottobre del medesimo anno[3].
In particolare, il Moon Treaty ribadisce la norma consuetudinaria relativa all’uso esclusivo dei corpi celesti per scopi pacifici e prevede che le risorse naturali e minerarie presenti sulla Luna siano da considerarsi patrimonio comune dell’umanità[4]. A tal proposito, dalle norme contenute nell’Accordo è possibile evincere un auspicio all’elaborazione di un regime internazionale volto a governare lo sfruttamento di tali risorse, nell’eventualità in cui ciò divenisse possibile negli anni a venire[5]. Pertanto, ai sensi del Moon Treaty l’ambiente lunare non dovrebbe essere alterato, e le Nazioni Unite dovrebbero essere informate tanto dell’ubicazione quanto dello scopo di qualsiasi stazione stabilita sulla Luna.
Entrato in vigore nel mese di luglio del 1984 a seguito della ratifica dell’Austria, quinta necessaria affinché il Trattato possa produrre effetti vincolanti, il Moon Treaty presenta tuttavia numerose criticità. Di fatto, benché sia annoverato tra le fonti del diritto internazionale dello spazio ed in particolare tra i cinque trattati principali che compongono il corpus iuris spatialis, il quadro regolatorio è stato ratificato da un numero esigui di Stati – 18 al mese di dicembre 2022 – tra cui non figurano le principali potenze spaziali di Stati Uniti, Russia e, più recentemente, Cina[6].
I lavori preparatori e lo status dello spazio
A ragione delle diverse posizioni dei due blocchi di Paesi che hanno preso parte alle negoziazioni del Moon Treaty in seno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, tale accordo è generalmente considerato fallimentare per via della concezione dello spazio come “patrimonio comune dell’umanità”, locuzione non presente nel precedente Outer Space Treaty e non condivisa, all’epoca, dall’Unione Sovietica[7].
L’art. I dell’Outer Space Treaty contiene infatti una definizione di spazio come “appannaggio dell’umanità”, la quale corrisponde ad un concetto giuridicamente differente rispetto alla nozione di “patrimonio comune”. In questo senso, nonostante gli Stati Uniti considerassero le due espressioni equivalenti ed intercambiabili a livello sostanziale, presupponendo che il concetto di “patrimonio comune” costituisse un’interpretazione estensiva dell’idea di res communis omnium implicante l’impossibilità di appropriazione del corpo celeste da parte degli Stati, l’Unione Sovietica di contro rifiutava la definizione dello spazio e dei corpi celesti come “patrimonio comune” a causa del carattere borghese e dell’origine dell’espressione dal diritto romano.[8]
La concezione di “patrimonio comune” si inserisce poi nel contesto politico internazionale della decolonizzazione, processo tramite il quale a partire dagli anni 50 del Novecento i Paesi in via di sviluppo posero dinanzi alla comunità degli Stati le proprie rivendicazioni a favore di una ridefinizione delle relazioni internazionali che includessero elementi di solidarietà nei propri confronti, in modo particolare in riferimento allo sfruttamento delle risorse naturali. Nello specifico, per i Paesi in via di sviluppo emerse la necessità di rivendicare la propria sovranità sulle risorse naturali presenti sul proprio territorio e, con riguardo alle aree ricche di materie prime ancora al di fuori della giurisdizione dei singoli Stati, l’invito ad un utilizzo inclusivo, cooperativo e a beneficio di tutti i Paesi, con particolare attenzione a quelli sottosviluppati[9]. Ciononostante, sebbene i Paesi in via di sviluppo si siano serviti del concetto di patrimonio comune dell’umanità come strumento di correzione dei disequilibri di potere dell’epoca coloniale attraverso forti pressioni per l’inclusione di tale principio giuridico all’interno dell’art.11 dell’Accordo sulla Luna, le potenze del Nord del mondo e l’Unione Sovietica hanno posto un freno alla pratica realizzazione di tale Trattato, non provvedendo alla ratifica e proteggendo dunque i propri interessi economici.
Le disposizioni
Con un richiamo al Trattato sui Principi che Regolano le attività degli Stati nell’Esplorazione ed Utilizzo dello Spazio Extra-atmosferico compresi la Luna e gli altri Corpi Celesti e alle quattro precedenti Convenzioni cardine del diritto internazionale dello spazio, il preambolo dell’Accordo sulla Luna ribadisce l’importanza della cooperazione fra gli Stati nell’esplorazione della superficie selenica e degli altri corpi celesti. Tale cooperazione dovrà avvenire per soli scopi pacifici, al fine di evitare che la Luna possa divenire un’area di conflitti internazionali[10]. Il divieto del ricorso alla minaccia o all’uso della forza è successivamente ribadito all’art. 3 dell’Accordo, in cui viene esplicitamente proibita anche la messa in orbita intorno alla luna di oggetti che trasportino armi nucleari e/o di distruzione di massa. Allo stesso tempo, qualsiasi stabilimento o installazione di basi militari e l’esperimento di ogni tipo di arma al di fuori dell’esplorazione pacifica della Luna risultano altresì vietati[11]. L’utilizzo della Luna e dei corpi celesti dovrà inoltre avvenire a beneficio e nell’interesse di tutti i Paesi, indipendentemente dal grado del loro sviluppo economico-scientifico, tenendo in considerazione tanto gli interessi delle generazioni presenti, quanto di quelle future[12].
Gli articoli successivi – ed in particolare l’art.7 – pongono particolare attenzione al tema della sostenibilità ambientale della superficie lunare. Nello specifico, nell’esplorazione ed utilizzo della Luna gli Stati sono tenuti ad adottare misure che non arrechino danno o turbamento all’esistente equilibrio ambientale in termini di contaminazione e introduzione di materia esterna[13].
Allo stesso modo, l’art. 10 tutela la salvaguardia della vita e della salute degli esseri umani sulla Luna. Tale disposizione è da leggersi in congiunzione all’Accordo sul salvataggio e il ritorno degli astronauti e la restituzione di oggetti lanciati nello spazio extra-atmosferico, adottato precedentemente al Moon Treaty per regolare la materia.
Lo sfruttamento delle risorse lunari
Ai sensi dell’art.11 dell’Accordo sulla Luna, le risorse naturali presenti sulla superficie selenica costituiscono patrimonio comune dell’umanità.
La Luna, inoltre, non può essere oggetto di appropriazione nazionale tramite proclamazioni di sovranità, né per mezzo di utilizzo, né di occupazione. Di conseguenza, la superficie, il sottosuolo e le risorse in essi non potranno divenire di proprietà di nessuno Stato, organizzazione intergovernativa o non governativa, persone fisiche.
L’esplorazione è tuttavia permessa senza discriminazioni e su basi di uguaglianza in conformità con il diritto internazionale.
Alla luce del presente articolo, appare chiaro che sebbene lo status della Luna e degli altri corpi celesti sia sufficientemente chiaro, quello delle risorse presenti in essi rimane tuttavia incerto. A tal proposito, il Moon Treaty statuisce che le risorse naturali potranno divenire proprietà degli Stati parte (qualora ciò divenisse praticabile) a dipendere da un futuro regime internazionale, i cui scopi dovranno necessariamente comprendere:
- lo sviluppo metodico e sicuro delle risorse naturali della Luna;
- la gestione razionale di tali risorse;
- lo sviluppo delle possibilità di utilizzo delle risorse;
- un’equa ripartizione tra tutti gli Stati dei benefici che ne derivano, con attenzione particolare agli interessi e ai bisogni dei Paesi in via di sviluppo, così come agli sforzi degli Stati che hanno contribuito direttamente o indirettamente all’esplorazione della Luna[14].
Informazioni
Inserisci qui la bibliografia
[1] General Assembly Resolution A/RES/34/68, Agreement Governing the Activities of States on the Moon and Other Celestial Bodies, 18 dicembre 1979. Disponibile al link: https://www.unoosa.org/oosa/en/ourwork/spacelaw/treaties/moon-agreement.html.
[2] United Nations, Agreement Governing the Activities of States on the Moon and Other Celestial Bodies, 18 dicembre 1979. Disponibile al link: https://www.unoosa.org/pdf/gares/ARES_34_68E.pdf
[3] United Nations, Treaty on Principles Governing the Activities of States in the Exploration and Use of Outer Space, including the Moon and Other Celestial Bodies, 1967. Disponibile al link: https://www.unoosa.org/oosa/en/ourwork/spacelaw/treaties/outerspacetreaty.html.
[4] V. Chabert, Le fonti del diritto internazionale dello spazio. DirittoConsenso, 27 ottobre 2022. Disponibile al link: https://www.dirittoconsenso.it/2022/10/27/le-fonti-del-diritto-internazionale-dello-spazio/.
[5] United Nations, Agreement Governing the Activities of States on the Moon and Other Celestial Bodies, 1979. Disponibile al link: https://www.unoosa.org/oosa/en/ourwork/spacelaw/treaties/intromoon-agreement.html.
[6] UNOOSA, Status of International Agreements relating to Activities in Outer Space. Disponibile al link: https://www.unoosa.org/oosa/en/ourwork/spacelaw/treaties/status/index.html.
[7] G. Sanna, New Space Economy, ambiente, sviluppo sostenibile. Premesse al diritto aerospaziale dell’economia. G. Giappichelli editore, 2021, p. 43.
[8] R. Dekanozov, Judicial Nature of Outer Space, Including the Moon and Other Celestial Bodies. In: Proceedings of the 17th IISL Colloquium on the Law of Outer Space, New York, 1974, pp. 200-201.
[9] G. Sanna, op.cit., pp.44-45.
[10] Agreement Governing the Activities of States on the Moon and Other Celestial Bodies, op.cit., preambolo.
[11] Ivi, art. 3
[12] Ivi, art. 4; 6.
[13] Ivi, art. 7.
[14] Ivi, art. 11.
Le fonti del diritto internazionale dello spazio
Le fonti del diritto internazionale dello spazio includono trattati e consuetudini internazionali elaborate a partire dalle Risoluzioni dell’Assemblea Generale
Le Risoluzioni ONU come fonti del diritto internazionale dello spazio
In contemporanea all’inizio delle attività di esplorazione spaziale nel contesto della Guerra Fredda, le preoccupazioni di un’escalation nucleare nello spazio extra-atmosferico così come di una militarizzazione dell’area indussero la comunità internazionale ad immaginare un quadro giuridico vincolante sotto l’ombrello di una serie di principi guida fondamentali volti ad orientare la condotta delle superpotenze oltre la superficie terrestre. A tal proposito, i primi tentativi di natura non vincolante di porre un argine alle attività statali nello spazio presero il via in seno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite verso la fine della decade Cinquanta[1].
Nello specifico, la Risoluzione 1148 (XII) del 14 novembre 1957 ha stabilito che l’invio di oggetti nello spazio dovesse avvenire solo a scopi pacifici[2], mentre la Risoluzione 1348 (XIII) adottata l’anno successivo ha introdotto il principio della necessaria collaborazione tra gli Stati nell’ambito dell’esplorazione ed utilizzo dello spazio[3]. A svolgere un ruolo fondamentale nell’elaborazione delle fonti del diritto internazionale dello spazio fu tuttavia il COPUOS[4], che negli anni successivi divenne la sede di negoziato dei cinque trattati fondamentali che compongono il corpus iuris spatialis e dei successivi atti rilevanti in materia[5].
Di altrettanta importanza la Risoluzione 1721 E (XVI) del 20 dicembre 1961, che ha fissato il principio della libera esplorazione e uso dello spazio da parte di tutti gli Stati, così come del divieto di appropriazione nazionale.
Le norme consuetudinarie
Sulla scia delle risoluzioni Onu degli anni Cinquanta e Sessanta, le fonti del diritto internazionale dello spazio – fino a quel momento non vincolanti – si sono arricchite di una serie di norme consuetudinarie poi cristallizzate all’interno dei successivi cinque trattati internazionali alla base del diritto spaziale e riflesse in numerose dichiarazioni politiche che hanno contribuito a creare il quadro normativo per l’azione statale nell’atmosfera[6].
In primo luogo, la convinzione che lo spazio è soggetto alla libera esplorazione da parte di tutta la comunità internazionale corrisponde a norma consuetudinaria. Tale principio fu in seguito codificato nel Trattato sui principi che governano le attività degli Stati in materia di esplorazione ed utilizzazione dello spazio extra-atmosferico compresa la Luna e gli altri corpi celesti (Outer Space Treaty), in cui trova bilanciamento nelle disposizioni che prevedono obbligazioni positive e negative in capo agli Stati al fine di prevenire azioni dannose per l’ambiente spaziale[7]. Allo stesso modo, l’utilizzo dello spazio per meri scopi pacifici è annoverato tra consuetudini internazionali e incluso nei principali trattati che governano lo spazio extra-atmosferico. Da ultimo, risulta diritto consuetudinario anche la responsabilità internazionale degli Stati per attività compiute nello spazio dai propri organi, organizzazioni governative e non-governative aventi la nazionalità dello Stato stesso[8]. Tuttavia, la materia è regolata in maniera più dettagliata dalla Convenzione sulla Responsabilità internazionale per danni causati da oggetti spaziali del 1972[9].
L’Outer Space Treaty
Il Trattato sui principi che governano le attività degli Stati in materia di esplorazione ed utilizzazione dello spazio extra-atmosferico compresa la Luna e gli altri corpi celesti (meglio noto come Outer Space Treaty, OST) è il primo fondamentale testo normativo in materia spaziale che sistematizza gli elementi elaborati nelle precedenti risoluzioni dell’Assemblea Generale ONU e, al contempo, introduce nuovi ed importanti principi di diritto internazionale dello spazio.
Aperto alla firma il 27 gennaio 1967 ed entrato in vigore nel mese di ottobre dello stesso anno, l’OST figura tra le prime fonti di diritto internazionale dello spazio a definire lo status giuridico dell’area oltre la superficie terrestre. Ciononostante, l’assenza di definizioni dettagliate della terminologia impiegata nelle disposizioni ha dato luogo a diverse dispute sul valore giuridico attribuibile ad esse[10]. In merito, è necessario tenere in considerazione che lo scopo primario del Trattato era sin dall’inizio limitato all’elaborazione di una base giuridica dalla quale mettere a punto, in un secondo momento, regole più specifiche di pari passo all’evoluzione della materia.
Le norme contenute nell’OST appaiono piuttosto generiche, benché costituiscano il primo esempio di regole condivise dalla comunità internazionale in ambito spaziale. Nello specifico, nei primi due articoli sono contenute le norme fondamentali del diritto internazionale dello spazio, ovvero:
- l’esplorazione e l’utilizzo dello spazio, della Luna e dei corpi celesti a beneficio e nell’interesse di tutti i Paesi, a prescindere dal loro grado di sviluppo economico o scientifico (art. I);
- il diritto di libero accesso, libero uso e libera esplorazione dello spazio (art. I);
- il divieto di appropriazione nazionale dello spazio attraverso proclamazioni di sovranità o mediante utilizzazione od occupazione o con qualsiasi altro mezzo (art. II).
Ai sensi dell’Outer Space Treaty, dunque, la lettura dell’art. II in combinazione con l’art. I sottolinea il carattere dello spazio come res communis omnium, a dimostrazione del fatto che gli Stati volessero garantirne la non suscettibilità di appropriazione al fine di assicurarne la pace. Tale configurazione costituisce inoltre la base del principio di libera esplorazione, poiché qualora fosse possibile esercitare diritti di sovranità esclusiva sullo spazio, il diritto in esame risulterebbe ridotto o annullato a danno di un altro Stato.
I trattati del corpus iuris spatialis
I successivi trattati delle Nazioni Unite annoverati tra le fonti del diritto internazionale dello spazio furono elaborati a partire dai principi codificati nell’OST e si occuparono di sviluppare un quadro giuridico vincolante relativo a specifiche problematiche. Tra questi, l’Accordo sul Salvataggio e Ritorno degli Astronauti e sulla Restituzione di Oggetti Lanciati nello Spazio del 1968 si occupa, nella prima parte, della cooperazione tra gli Stati per il recupero, l’assistenza e la restituzione dell’equipaggio, con particolare attenzione alle tematiche del luogo di recupero e della riconsegna allo Stato di lancio[11]. In secondo luogo, il Trattato regola il recupero di un oggetto spaziale e la conseguente informazione dello Stato di lancio, al fine di evitare il verificarsi, sulla Terra, di danni causati da elementi pericolosi.[12] Tuttavia, l’assenza della definizione dello status giuridico dell’astronauta è considerato il principale elemento di debolezza del Trattato.
Tra le fonti più rilevanti in materia spaziale figura inoltre la Convenzione sulla Responsabilità Internazionale per i Danni Causati da Oggetti Spaziali del 29 marzo 1972, la quale prevede un doppio regime di responsabilità oggettiva assoluta per danni sulla superficie terrestre o nell’atmosfera ad aeromobili in volo (art. II) e di responsabilità per colpa (art. III) per danni causati nello spazio extra-atmosferico su oggetti spaziali o persone, che prevede l’attribuzione della responsabilità allo Stato di lancio o di nazionalità degli individui che hanno causato l’illecito[13]. La Convenzione definisce inoltre i soggetti responsabili e passivi, così come le procedure – diplomazia o via giudiziaria – per la risoluzione di controversie connesse a danni causati da oggetti spaziali.
Infine, la Convenzione sull’Immatricolazione di oggetti spaziali del 1975 fornisce una definizione dello Stato di lancio e istituisce i registri nazionali ed internazionali a cui è necessario comunicare specifiche informazioni per l’iscrizione di oggetti spaziali. Tale Convenzione è di particolare importanza per la determinazione dello Stato che ha giurisdizione, controllo ed eventualmente responsabilità dell’oggetto spaziale in volo. Tuttavia, sono assenti obblighi di informazione sulle misure preventive e di mitigazione dell’inquinamento spaziale causato da tali oggetti, così come sulla loro successiva vita o inattività[14].
L’Accordo sulla Luna
Con la Risoluzione 34/68 del 1979, l’Assemblea Generale ha adottato l’Accordo relativo all’attività degli Stati sulla Luna e gli altri Corpi Celesti[15], il quale rielabora numerose disposizioni dell’Outer Space Treaty con specifica applicazione alla superficie selenica e riafferma l’uso esclusivo dei corpi celesti a scopi pacifici.
In aggiunta, l’Accordo prevede che la Luna e le risorse naturali e minerarie presenti in essa siano da considerarsi patrimonio comune dell’umanità, e auspica l’elaborazione di un regime internazionale per governare lo sfruttamento di tali risorse nel caso l’estrazione diventi fattibile negli anni a venire. Sebbene l’Accordo figuri tra le fonti del diritto internazionale dello spazio, la maggior parte della dottrina concorda con la generale convinzione della debolezza di tale quadro regolatorio: di fatto, al mese di ottobre 2022 solo 18 Stati hanno ratificato l’accordo, e tra essi non sono incluse le principali potenze spaziali di Russia, Cina e Stati Uniti.
Le dichiarazioni multilaterali non vincolanti
Accanto alle fonti primarie, il diritto internazionale dello spazio conta una serie di dichiarazioni bi- e multilaterali non vincolanti che contribuiscono alla definizione delle regole secondo cui gli Stati operano fuori dalla Terra. Particolarmente interessanti risultano le Linee Guida per la sostenibilità a lungo termine delle attività nello spazio extra-atmosferico, elaborate nel 2016 dal COPUOS[16].
Di carattere volontario, le linee guida postulano che lo spazio debba rimanere stabile, sicuro ed aperto alla cooperazione e all’esplorazione a soli scopi pacifici, nell’interesse delle generazioni presenti e future di tutti gli Stati. L’accordo sulle prime 12 linee guida è stato raggiunto nel 2018, a cui è seguita l’adozione formale nel 2019. Esse sono dirette tanto agli Stati, agli organi politici e agli operatori spaziali; si basano sulla condivisione di buone pratiche e sono volte alla sicurezza delle operazioni spaziali, al rafforzamento di capacità e consapevolezza (capacity-building e awareness) e allo sviluppo della ricerca tecnico-scientifica in senso sostenibile[17]. Nonostante ciò, le Linee guida incontrano il limite della volontarietà, e, di conseguenza, la loro violazione o inosservanza non determina l’insorgenza della responsabilità degli Stati, delle organizzazioni (inter)governative o degli attori privati che operano nello spazio.
Verso la negoziazione di un nuovo trattato sullo spazio?
Nonostante la ricchezza del corpus iuris spatialis, negli ultimi decenni sono emerse numerose problematiche nuove a cui l’attuale quadro giuridico non è in grado di fornire una risposta completamente soddisfacente. In particolare, la materia spaziale coinvolge oggi numerosi settori tra cui la comunicazione, le operazioni finanziarie, l’agricoltura e le previsioni atmosferiche, così come la sorveglianza, la navigazione e il monitoraggio ambientale. Lo spazio inoltre riveste un’importanza fondamentale per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, e sono già realtà i fenomeni del turismo spaziale e dello sfruttamento delle risorse dell’atmosfera a fini commerciali. Pertanto, sia le Nazioni Unite sia la dottrina giuridica hanno sottolineato l’esigenza di “adottare nuovi approcci regolatori per soddisfare i bisogni di nuovi attori e beneficiari tra le nazioni spaziali”[18].
La negoziazione di un nuovo trattato sullo spazio, benché necessaria, sembra tuttavia ancora lontana.
Informazioni
Inserisci qui la bibliografia
[1] V. Chabert, Il diritto internazionale dello spazio: genesi ed evoluzione. Diritto Consenso, 3 ottobre 2022. Disponibile al link: https://www.dirittoconsenso.it/2022/10/03/il-diritto-internazionale-dello-spazio-genesi-ed-evoluzione/.
[2] A/RES/1148 (XII), Regulation, limitation and balanced redution of all armed forces and all armaments; conclusion of an international convention (treaty) on the reduction of armaments and the prohibition of atomic, hydrogen and other weapons of mass destruction, 14 novembre 1957. Disponibile al link: https://www.un.org/disarmament/wp-content/uploads/2017/02/A-RES-1148.pdf.
[3] A/RES/1348 (XIII), Question of the peaceful use of Outer Space, 13 dicembre 1958. Disponibile al link: https://www.unoosa.org/pdf/gares/ARES_13_1348E.pdf.
[4] United Nations Office for Outer Space Affairs (UNOOSA), Committee on the Peaceful Uses of Outer Space. Disponibile al link: https://www.unoosa.org/oosa/en/ourwork/copuos/index.html.
[5] G. Sanna, New Space Economy, ambiente, sviluppo sostenibile. Premesse al diritto aerospaziale dell’economia. G. Giappichelli editore, 2021, p. 14.
[6] C.D. Johnson, Handbook for New Actors in Space, Secure World Foundation, 2021, p. 3.
[7] UNOOSA, Treaty on Principles Governing the Activities of States in the Exploration and Use of Outer Space, including the Moon and Other Celestial Bodies, 1967. Disponibile al link :https://www.unoosa.org/oosa/en/ourwork/spacelaw/treaties/introouterspacetreaty.html.
[8] C.D. Johnson, op.cit., pp. 9-10.
[9] Convenzione sulla responsabilità internazionale per danni cagionati da oggetti spaziali, 1972. La traduzione italiana è disponibile al link: https://fedlex.data.admin.ch/filestore/fedlex.data.admin.ch/eli/cc/1974/784_784_784/20200805/it/pdf-a/fedlex-data-admin-ch-eli-cc-1974-784_784_784-20200805-it-pdf-a.pdf.
[10] G. Sanna, op. cit., p. 28.
[11] Accordo sul Salvataggio e Ritorno degli Astronauti e sulla Restituzione di Oggetti Lanciati nello Spazio, 1968, art. I – IV.
[12] Ivi, art. 5 e ss.
[13] Convenzione sulla Responsabilità Internazionale per i Danni Causati da Oggetti Spaziali, 29 marzo 1972, art. II – III.
[14] Convenzione sull’Immatricolazione di oggetti spaziali, 1975, art. II – IV.
[15] A/RES/34/68, Agreement Governing the Activities of States on the Moon and Other Celestial Bodies, 5 dicembre 1979. Disponibile al link: https://www.unoosa.org/pdf/gares/ARES_34_68E.pdf.
[16] COPUOS, Guidelines for the Long-term Sustainability of Outer Space Activities, 27 giugno 2018.
[17] G. Sanna, op. cit., pp. 116-117.
[18] United Nations, 10th UN Workshop on Space Law, Contribution of Space Law and Policy to Space Governance and Space Security in the 21st century, Vienna International Centre, 5-8 settembre 2016. Disponibile al link: https://www.unoosa.org/documents/pdf/spacelaw/workshops/2016/2016-SLW-draft-programme_29-June-2016.pdf.
Il diritto internazionale dello spazio: genesi ed evoluzione
Dagli anni Sessanta, il diritto internazionale dello spazio si è evoluto sulla base delle dichiarazioni non vincolanti dell’Assemblea Generale ONU
L’origine del diritto internazionale dello spazio
La genesi del diritto internazionale dello spazio, così come dei prototipi normativi volti alla sua regolamentazione, risale all’epoca che precede il primo conflitto mondiale[1].
Sebbene gli Stati esclusero a lungo una netta definizione delle proprie posizioni e l’assunzione di impegni vincolanti, a partire dal XX secolo il regime giuridico dello spazio aereo divenne oggetto di studi approfonditi a livello teorico. Fu tuttavia il sorvolo della Manica compiuto nel luglio del 1909 dall’aviatore Louis Bleriot[2] a far emergere la questione della normazione giuridica dello spazio aereo sul piano internazionale, a fronte dell’assenza di un quadro vincolante in materia. Pertanto, dietro proposta francese, l’anno successivo Parigi ospitò i rappresentanti di 18 Stati che, ai tavoli negoziali dell’International Air Navigation Conference, discussero a proposito dello status giuridico dello spazio aereo, domandandosi in particolare se vi potessero essere estese considerazioni simili a quelle in vigore per l’alto mare[3]. Disaccordi concernenti il diritto di sorvolo da parte di velivoli stranieri prevennero tuttavia l’adozione di una convenzione internazionale, e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale interruppe il processo di cooperazione iniziato nei decenni precedenti.
Fu perciò solo la fine del conflitto a contribuire alla ripresa del dialogo tra le potenze europee in materia di regolazione aerospaziale: di fatto, poco dopo la Conferenza di pace di Versailles che segnò la fine delle ostilità, fu aperta alla firma la Convenzione di Parigi per la Regolamentazione della Navigazione Aerea, il primo strumento legislativo internazionale in ambito aerospaziale[4]. Tale strumento istituì anche la Commissione Internazionale per la Navigazione Aerea (ICAN), a cui venne assegnato il compito di armonizzare le norme nazionali sulla navigazione aerea[5]. Allo stato attuale, la Convenzione di Parigi non è più in vigore, ed è stata sostituita dalla Convenzione di Chicago del 1944.
Lo status dello spazio extra-atmosferico
Il diritto internazionale dello spazio ed in particolare la regolazione dello spazio extra-atmosferico si possono ricondurre al diritto aerospaziale, il quale comprende tanto disposizioni applicabili alla navigazione aerea, quanto alle attività spaziali[6]. Tuttavia, tali norme si configurano come appartenenti a due rami distinti del diritto:
- la navigazione aerea è infatti regolata da un sistema di norme nazionali, internazionali, pubbliche e private applicabili alle attività dello spazio aereo, mentre
- le attività degli Stati (e, più recentemente, delle entità private) nello spazio extra-atmosferico sono disciplinate da norme prevalentemente internazionali, codificate a partire dagli anni Sessanta del Novecento.
Ulteriore elemento di differenza è lo status dello spazio extra-atmosferico, che, a differenza dello spazio aereo soggetto alla sovranità statale, è aperto a tutti gli Stati e non è suscettibile di rivendicazioni di sovranità[7].
Alla luce di tale premessa, allo stato attuale non è possibile rinvenire una definizione tecnico-giuridica concorde del confine che sussiste tra lo spazio aereo e quello extra-atmosferico, nonché dello stesso spazio extra-atmosferico. Di conseguenza, la questione giuridica del termine dell’applicabilità del diritto dello Stato sovrano e il subentro del diritto internazionale dello spazio rimangono ad oggi irrisolte.
Pertanto, la dottrina è impegnata nella definizione dei confini del diritto spaziale passando al vaglio i diversi criteri impiegati per una sua possibile delimitazione, inclusi, a titolo di esempio, la determinazione spaziale e il criterio funzionale[8]. Nell’attesa di una definizione condivisa e omogenea tra gli Stati che compongono la comunità internazionale, si considera a livello convenzionale ed informale la distanza di 100 km dal livello del mare (il criterio “Von Karman”)[9].
L’evoluzione normativa dopo la Seconda Guerra Mondiale
L’inizio delle attività delle potenze spaziali oltre lo spazio aereo prese avvio nei decenni successivi al secondo conflitto mondale, come parte della competizione geopolitica che vedeva contrapposte le ideologie di comunismo e capitalismo nell’era del bipolarismo. Furono il lancio dello Sputnik I da parte dell’Unione Sovietica il 4 ottobre 1957 e l’Explorer I della NASA l’anno successivo a segnare l’inizio dell’era spaziale vera e propria. Al contempo, tali attività diedero avvio al diritto internazionale dello spazio per come si configura oggi, in quanto la necessità di impedire una militarizzazione dell’atmosfera con l’utilizzo dell’arma atomica e gli imperativi di sicurezza hanno richiesto l’adozione di leggi e regole internazionali applicabili alle attività degli Stati sotto la guida del principio fondamentale dell’uso dello spazio a fini pacifici[10].
Se la corsa allo spazio continuò ugualmente a caratterizzarsi come scontro tra potenze, essa assunse tuttavia una natura di confronto tecnico-scientifico e politico-propagandistico, lasciando pertanto in disparte l’elemento militare.
Le Risoluzioni dell’Assemblea Generale ONU
La prima risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in materia spaziale risale al 1957, attraverso cui la comunità internazionale stabiliva che l’invio di oggetti nello spazio dovesse esclusivamente perseguire finalità pacifiche[11].
Fecero seguito le risoluzioni 1348 (XIII) e 1472 (XIV) rispettivamente del 1958 e del 1959, che introdussero il principio della necessaria collaborazione fra gli Stati in materia di esplorazione pacifica dello spazio.
In tale contesto venne altresì istituito il COPUOS[12], che da quel momento svolse un ruolo fondamentale nell’elaborazione del diritto internazionale dello spazio e divenne la sede di negoziato dei cinque trattati principali che compongono il corpus iuris spatialis. Dal 1994 il COPUOS ha assunto il carattere di comitato permanente, con l’incarico di mettere a punto bozze di risoluzioni o trattati che verranno in un secondo momento sottoposti all’Assemblea Generale.
Di altrettanta importanza, la Risoluzione 1721 (XVI) del 20 dicembre 1961 ha stabilito che lo spazio e i corpi celesti dovessero rimanere aperti all’esplorazione e all’uso di tutti gli Stati, compresi coloro che non hanno ancora raggiunto lo status di potenza spaziale, e che fosse proibita qualsiasi rivendicazione di sovranità, così come di appropriazione nazionale[13].
I cinque trattati del corpus iuris spatialis
Tra le fonti principali che compongono il diritto internazionale dello spazio figurano cinque trattati che raccolgono in maniera sistematica i principi sanciti dalle precedenti risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. In particolare, lo strumento giuridico primario a cui si fa riferimento è il già citato Outer Space Treaty (OST), aperto alla firma il 27 gennaio 1967 ed entrato in vigore nel mese di ottobre dello stesso anno. Ai sensi del trattato, l’esplorazione e l’uso dello spazio extra-atmosferico sono aperti a tutti gli Stati e dovranno avvenire a beneficio e nell’interesse dell’intera umanità. Similmente, la Luna e i corpi celesti non sono suscettibili di appropriazione nazionale, e dovranno essere impiegati per soli scopi pacifici. Gli Stati sono inoltre ritenuti responsabili per le attività poste in essere nello spazio da organizzazioni governative e non, le quali dovranno essere autorizzate e supervisionate dal proprio Stato di appartenenza.
All’Outer Space Treaty hanno fatto seguito quattro trattati regolanti specifici aspetti dell’azione statale nello spazio, in particolare:
- L’Accordo sul salvataggio e il ritorno degli astronauti e sulla restituzione di oggetti lanciati nello spazio del 1968;
- La Convenzione sulla responsabilità internazionale per danni causati da oggetti spaziali del 1972;
- La Convenzione sull’immatricolazione di oggetti spaziali del 1975;
- L’Accordo relativo all’attività degli Stati sulla Luna e sugli altri corpi celesti del 1979.
All’infuori dei Trattati, una pluralità di accordi bi- e multilaterali, norme consuetudinarie e fonti secondarie non vincolanti contribuiscono ad arricchire lo spettro del diritto internazionale dello spazio. Ciononostante, l’emergere delle entità private quali nuovi attori del teatro spaziale e le nuove sfide che vanno oltre al tradizionale uso dello spazio da parte degli Stati pongono nuove problematiche a cui l’assetto normativo sopra descritto sembra non rispondere in maniera totalmente compiuta.
Le analogie con il diritto del mare
Il regime giuridico che governa l’alto mare – la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS)[14] in primis – presenta numerose analogie con le modalità attraverso cui è regolato lo spazio extra-atmosferico. Di fatto, anche allo spazio sono estese le libertà che tradizionalmente risultano in capo agli Stati nell’alto mare, ovvero il diritto di esplorazione anche dei Paesi che non hanno costa, l’impossibilità di avanzare rivendicazioni di sovranità e il compimento di attività a scopi esclusivamente pacifici.
Tuttavia, le possibili operazioni future di sfruttamento dello spazio extra-atmosferico hanno sollevato numerose questioni a livello giuridico: analogamente al regime delle acque internazionali, che prevede la libertà di pesca e di esplorazione ed estrazione di noduli solfurei e poli-metallici sui fondali marini internazionali previa conclusione di specifici contratti con l’Autorità Internazionale dei Fondali Marini[15], si è sostenuto che sarebbe altrettanto lecito appropriarsi delle risorse minerarie presenti sul suolo spaziale. Ciononostante, il quadro normativo del diritto internazionale dello spazio in riferimento allo sfruttamento delle risorse spaziali risulta particolarmente vago, anche a causa del moltiplicarsi della promulgazione di legislazioni nazionali in materia di estrazione[16].
Informazioni
Inserisci qui la bibliografia
[1] G.Sanna, New Space Economy, ambiente, sviluppo sostenibile. Premesse al diritto aerospaziale dell’economia. G.Giappichelli editore, Torino, 2021, p. 1.
[2] Portale storico della Presidenza della Repubblica, 25 luglio 1909 – Bleriot trasvola la Manica. Disponibile al link: https://archivio.quirinale.it/aspr/gianni-bisiach/AV-002-000346/25-luglio-1909-bleriot-trasvola-manica#:~:text=25%20luglio%201909%2C%20Louis%20Bleriot,compito%20di%20indicargli%20la%20rotta.
[3] J.Cobb Cooper, The International Air Navigation Conference, Paris 1910. Journal of Air Law and Commerce, 1952, vol 19, n. 2. Disponibile al link: https://scholar.smu.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=3551&context=jalc.
[4] Convention Relating to the Regulation of Aerial Navigation, Parigi, 13 ottobre 1919.
[5] G.Sanna, op.cit., p. 3.
[6] Ivi, p. 7.
[7] United Nations Office for Outer Space Affairs (UNOOSA), Trattato sui Principi che regolano le Attività degli Stati nell’Esplorazione e nell’Uso dello Spazio Extra-atmosferico ivi compresi la Luna e gli Altri Corpi Celesti (Outer Space Treaty), 1967, art. I e II. Disponibile al link: https://www.unoosa.org/oosa/en/ourwork/spacelaw/treaties/introouterspacetreaty.html.
[8] Si veda S.B. Rosenfeld, Where air space ends and outer space begins. Journal of Space Law, vol.7, 1979; G.Oduntan, The never ending dispute: legal theories on the spatial demarcation boundary plane between airspace and outer space. Hertfordshire Law Journal, vol.1, n.2, 2003.
[9] Supra (1) p. 10.
[10] V. Mariani, La nuova corsa allo spazio. Una riflessione sulle attuali dinamiche di competizione in campo spaziale e sull’adeguatezza dell’attuale corpus iuris spatialis. Rivista elettronica di Diritto, 2021.
[11] A/RES/1148 (XII), Regulation, limitation and balanced redution of all armed forces and all armaments; conclusion of an international convention (treaty) on the reduction of armaments and the prohibition of atomic, hydrogen and other weapons of mass destruction, 14 novembre 1957. Disponibile al link: https://www.un.org/disarmament/wp-content/uploads/2017/02/A-RES-1148.pdf.
[12] Committee on the Peaceful Uses of Outer Space (COPUOS). Disponibile al link: https://www.unoosa.org/oosa/en/ourwork/copuos/index.html.
[13] A/RES/1721 (XVI), International Cooperation in the peaceful uses of outer space, 20 dicembre 1961. Disponibile al link: https://www.unoosa.org/oosa/en/ourwork/spacelaw/treaties/resolutions/res_16_1721.html.
[14] United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS), 1982. Disponibile al link: https://www.un.org/depts/los/convention_agreements/texts/unclos/unclos_e.pdf.
[15] V. Chabert, L’Autorità Internazionale dei Fondali Marini tra diritto ambientale e contrattualizzazione, Diritto Consenso, 1 settembre 2022. Disponibile al link: https://www.dirittoconsenso.it/2022/09/01/autorita-internazionale-dei-fondali-marini-tra-diritto-ambientale-e-contrattualizzazione/.
[16] Supra (1).
L'Autorità Internazionale dei Fondali Marini: tra diritto ambientale e contrattualizzazione
I contratti conclusi con l’Autorità Internazionale dei Fondali Marini rappresentano un esempio di contrattualizzazione dei codici di condotta per la protezione dell’ambiente
Contrattualizzare i codici di condotta: il ruolo dell’Autorità Internazionale dei Fondali Marini
A fronte della difficoltà di rendere legalmente vincolanti i codici di condotta elaborati a livello intergovernativo, regionale, delle imprese private e delle associazioni di categoria alle quali esse appartengono[1], negli ultimi anni è emersa la tendenza a trasformare gli standard che incorporano la responsabilità sociale ed ambientale in obbligazioni legali attraverso l’inclusione di tali impegni volontari all’interno di contratti, suscettibili di caratterizzare la loro osservazione come obbligatoria[2]. Nello specifico, gli effetti legali dei codici volontari per la protezione dell’ambiente andrebbero a derivare direttamente dalla loro formalizzazione in clausole contrattuali, e – di conseguenza – un contratto potrebbe eventualmente essere terminato su richiesta di una delle parti a causa di presunte o effettive violazioni delle disposizioni riguardanti la responsabilità sociale d’impresa[3].
In via generale, tale pratica appare in linea con l’interpretazione delle Nazioni Unite, ed in particolare con il principio 15 delle Norme delle Nazioni Unite sulla Responsabilità delle Imprese Transnazionali e altre Imprese in tema di Diritti Umani, secondo cui “ogni società transnazionale o impresa commerciale darà attuazione e incorporerà le presenti Norme nei contratti o negli altri regolamenti o accordi con ditte appaltatrici o sub-appaltatrici, fornitori, concessionari, distributori o con ogni altra persona fisica o giuridica con cui le società transnazionali e le altre imprese commerciali stipulano negozi, al fine di assicurare il rispetto e l’applicazione delle presenti Norme”[4].
Allo stato attuale, è possibile rilevare esempi della cosiddetta “contrattualizzazione dei codici di condotta” specificatamente in materia di standard di tutela dei diritti umani. Di fatto, la trasformazione di codici di condotta sui diritti umani in clausole contrattuali vincolanti amplifica la possibilità di una maggiore uniformità in un sistema internazionale di Stati il cui livello di protezione dei diritti umani è notevolmente distinto. Allo stesso tempo, la contrattualizzazione impegnerebbe le imprese – specialmente multinazionali e transnazionali – a rispettare i diritti umani sul territorio di Paesi che non hanno ratificato specifici trattati o convenzioni in materia[5]: in effetti, in alcuni casi tale pratica potrebbe verosimilmente garantire un grado più elevato di tutela dei diritti umani fondamentali rispetto al livello assicurato dallo Stato in cui opera l’impresa multinazionale.
A tal proposito, ulteriori aspetti meritano un’adeguata considerazione. In particolare, alla luce del ricorso ad arbitrato come metodo più comune per la risoluzione delle controversie nella comunità degli affari, l’eventuale risoluzione di un contratto a seguito di una violazione degli standard sui diritti umani incorporati in clausole vincolanti sarebbe suscettibile di trasformare in maniera innovativa l’arbitrato in un “foro nuovo e inaspettato per contenziosi in materia di diritti umani in un contesto business to business (tra imprese)[6].
Ciononostante, ai sensi di tale approccio le vittime di violazioni dei diritti umani e soggetti terzi come le Organizzazioni Non Governative (ONG) non troverebbero spazio nel contenzioso se non come testimoni dei presunti illeciti alla base della risoluzione del contratto e della conseguente controversia. Inoltre, sebbene possa verificarsi una violazione delle clausole contrattuali in esame, motivazioni economiche potrebbero indurre le imprese a non terminare il contratto.[7]
In materia di tutela ambientale, un esempio rilevante della contrattualizzazione di standard per la protezione dell’ecosistema interessa la stipulazione di contratti per l’esplorazione e lo sfruttamento delle risorse nei fondali marini conclusi con l’Autorità Internazionale dei Fondali Marini[8].
I contratti di esplorazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS)
La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS)[9] – e precisamente la parte XI e l’allegato III – prevede la possibilità per operatori pubblici o privati di esplorare e sfruttare noduli polimetallici e fondali marini internazionali ricchi di solfuri in seguito alla conclusione di specifici accordi con l’Autorità Internazionale dei Fondali Marini[10]. In particolare, al fine di accedere alle risorse minerarie dei fondali internazionali, l’art. 153 della Convenzione prevede la possibilità per “le persone fisiche o giuridiche che possiedono la cittadinanza di Stati Parte o sono effettivamente controllate da questi o da loro cittadini, quando patrocinate da tali Stati” di stipulare contratti con l’Autorità Internazionale dei Fondali Marini per la durata di 15 anni (rinnovabili per altri 5 anni). Inoltre, il modello contrattuale è predefinito a livello internazionale e le norme sancite dalla Convenzione UNCLOS fanno parte della normativa applicabile. Eventualmente, qualsiasi potenziale violazione degli obblighi contrattuali può essere sollevata dinanzi alla Seabed Dispute Chamber del Tribunale internazionale per il diritto del mare (ITLOS)[11].
La regolazione delle attività internazionali di esplorazione dei fondali marini risale all’entrata in vigore dell’UNCLOS nel 1982. Da quel momento, i contratti di esplorazione sono stati conclusi da agenzie nazionali e, più recentemente, da imprese private mosse da interessi economici nel campo dell’estrazione di noduli polimetallici. In tale contesto, l’Autorità Internazionale dei Fondali Marini svolge un ruolo peculiare nell’organizzazione e nel controllo delle operazioni che interessano le risorse minerarie, al fine di preservare l’ambiente marino e simultaneamente prevenire il verificarsi di disastri ambientali derivanti dallo sfruttamento internazionale dei fondali marini[12]. In particolare, secondo l’UNCLOS, le risorse minerarie ubicate nell’area dei fondali internazionali[13] sono da considerarsi patrimonio comune dell’umanità[14]: di conseguenza, tutte le attività intraprese in quell’area devono essere svolte esclusivamente secondo il più ampio interesse dell’umanità nel suo insieme, e, al tempo stesso, nessuno Stato può rivendicare la sovranità su tale porzione di territorio e sulle proprie risorse[15]. Per queste ragioni, l’Autorità Internazionale dei Fondali Marini si occupa dell’amministrazione delle risorse del territorio, e soprattutto dell’istituzione di un assetto efficiente e non discriminatorio per consentire un’equa distribuzione dei benefici economici derivanti dalle attività di sfruttamento[16].
La protezione dell’ambiente tra le clausole contrattuali
Per quanto riguarda la conclusione dei contratti di esplorazione e successivamente di estrazione di risorse, gli appaltatori sono tenuti a presentare un piano dettagliato riguardante sia il progetto che si intende realizzare nell’area, sia le possibili azioni in caso di eventi pericolosi durante l’attività mineraria. Allo stesso tempo, è richiesto un programma di formazione.
Tra le clausole dei contratti stipulati con l’Autorità Internazionale per i Fondali Marini sono inoltre incluse specifiche norme di tutela ambientale: gli Stati contraenti, così come le società private, sono infatti giuridicamente vincolate a conformarsi al principio di precauzione sancito nell’art. 15 della Dichiarazione di Rio, e ad adottare specificatamente tutte le misure necessarie per prevenire, ridurre o mitigare il rischio di danni ambientali durante lo svolgimento di attività di esplorazione e estrazione mineraria in fondali marittimi internazionali[17]. È interessante notare che tali obblighi sono stati presi in considerazione dalla Commissione Legale e Tecnica dell’Autorità Internazionale dei Fondali Marini nelle Raccomandazioni del 2001 per la guida degli appaltatori per la valutazione dei possibili impatti ambientali derivanti dall’esplorazione di noduli polimetallici nell’Area,[18] che prevedono la realizzazione di un valutazione da parte degli appaltatori per il successivo monitoraggio degli impatti delle loro operazioni sull’ambiente marino.
Inoltre, le parti contraenti (Stati o imprese) si impegnano a redigere una relazione sullo stato di avanzamento delle attività, sulle tecnologie impiegate ed infine sugli impatti sull’ambiente da sottoporre all’Autorità Internazionale dei Fondali Marini entro novanta giorni dalla conclusione di ogni anno in cui il contratto è valido. Analogamente, le parti sono tenute ad informare immediatamente l’Autorità in caso di gravi rischi o danni all’ambiente, al fine di consentire una tempestiva adozione dei necessari provvedimenti di emergenza ed eventualmente l’interruzione dei progetti.
Infine, nel mese di marzo del 2020 è stata emessa dalla Commissione Legale e Tecnica dell’Autorità Internazionale dei Fondali Marini una versione più recente delle raccomandazioni per gli appaltatori in materia ambientale, nella quale – tra l’altro – sono descritte le procedure specifiche da seguire per la supervisione e il monitoraggio di potenziali attività dannose.
Conclusioni
Nel complesso, pur essendo uno strumento per l’evoluzione dei codici di condotta da soft law a obblighi di legge, la contrattualizzazione degli standard di tutela dei diritti umani e dell’ambiente presenta ancora numerose limitazioni: la presenza di meri obblighi contrattuali non è infatti da considerarsi come una sostituzione significativa ed efficiente di leggi e regolamenti provenienti dagli Stati, e similmente esistono ulteriori carenze in termini di trasparenza. Tuttavia, si può affermare che il caso dei contratti stipulati con l’Autorità Internazionale dei Fondali Marini è un esempio emblematico di un impegno concreto delle multinazionali nella tutela dell’ambiente, beneficiando al contempo dei vantaggi economici derivanti dallo sfruttamento delle risorse naturali.
Pertanto, ad oggi l’Autorità Internazionale dei Fondali Marini è parte di 22 contratti di esplorazione di noduli polimetallici e solfuri stipulati per lo più con imprese private, le quali sono legalmente vincolate dalle clausole contrattuali già descritte alla tutela dell’ambiente marino durante la realizzazione dei loro progetti.
Informazioni
A. BONFANTI, Imprese multinazionali, diritti umani e ambiente. Profili di diritto internazionale pubblico e privato, Milano, Giuffré Editore, 2012.
F. MARRELLA, Protection internationale des droits de l’homme et activités des sociétés transnationales, Recueil des cours de l’Académie de Droit International de la Haye, vol.385, Leiden-Boston, Massachussets (USA), Brill/Nijhoff, 2017.
Fondali internazionali, disponibile al link:: https://www.isa.org.jm/media/image/450.
International Seabed Authority, disponibile al link: https://www.isa.org.jm/.
International Seabed Authority, Exploration Contracts. Disponibile al link: https://isa.org.jm/exploration-contracts.
International Seabed Authority, Legal and Technical Commission, Recommendations for the guidance of the contractors for the assessment of the possible environmental impacts arising from exploration for polymetallic nodules in the Area. ISBA/7/LTC/Rev.1,10 aprile 2001. Disponibile al link: https://digitallibrary.un.org/record/439782.
International Tribunal for the Law of the Sea. Disponibile al link: https://www.itlos.org/en/.
J. A. ZERK, Multinationals and Corporate Social Responsibility. Limitations and Opportunities in International Law, Cambridge, Cambridge University Press, 2006.
M. YAN, D. ZHANG, M. YAN, D. ZHANG, From Corporate Responsibility to Corporate Accountability, Hastings Business Law Journal, Vol.16, No.1, 2020.
Rio Declaration on Environment and Development, A/CONF.151/26 (Vol. I), 13 giugno 1992, Disponibile al link: https://www.un.org/en/development/desa/population/migration/generalassembly/docs/globalcompact/A_CONF.151_26_Vol.I_Declaration.pdf.
United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS), 10 dicembre 1982. Disponibile al link: https://www.un.org/depts/los/convention_agreements/texts/unclos/unclos_e.pdf.
United Nations Sub-Commission for the Promotion and Protection of Human Rights, Norms on the Responsibilities of Transnational Corporations and Other Business Enterprises with regard to Human Rights, E/CN.4/Sub.2/2003/12/Rev.2, 26th August 2003. Disponibile al link: https://undocs.org/en/E/CN.4/Sub.2/2003/12/Rev.2.
V. CHABERT La responsabilità d’impresa nei paesi OCSE. DirittoConsenso. Disponibile al link: https://www.dirittoconsenso.it/2022/06/27/responsabilita-dimpresa-nei-paesi-ocse/ .
W. BENDEK, K. DE FEYTER, F. MARRELLA, Economic Globalization and Human Rights, Cambridge, Cambridge University Press, 2007.
[1] V. Chabert, La responsabilità d’impresa nei paesi OCSE. DirittoConsenso. Disponibile al link: https://www.dirittoconsenso.it/2022/06/27/responsabilita-dimpresa-nei-paesi-ocse/ .
[2] M. YAN, D. ZHANG, M. YAN, D. ZHANG, From Corporate Responsibility to Corporate Accountability, Hastings Business Law Journal, Vol.16, No.1, 2020, pp. 53-54. Si veda anche: J. A. ZERK, Multinationals and Corporate Social Responsibility. Limitations and Opportunities in International Law, Cambridge, Cambridge University Press, 2006, p. 35; F. MARRELLA, Protection internationale des droits de l’homme et activités des sociétés transnationales, Recueil des cours de l’Académie de Droit International de la Haye, vol.385, Leiden-Boston, Massachussets (USA), Brill/Nijhoff, 2017, p. 267.
[3] W. BENDEK, K. DE FEYTER, F. MARRELLA, Economic Globalization and Human Rights, Cambridge, Cambridge University Press, 2007, p. 302.
[4] United Nations Sub-Commission for the Promotion and Protection of Human Rights, Norms on the Responsibilities of Transnational Corporations and Other Business Enterprises with regard to Human Rights, E/CN.4/Sub.2/2003/12/Rev.2, 26th August 2003, Principio 15. Disponibile al link https://undocs.org/en/E/CN.4/Sub.2/2003/12/Rev.2.
[5] W. BENDEK, K. DE FEYTER, F. MARRELLA, op. cit., p. 305.
[6] Ivi, p. 307.
[7] Ibid.
[8] A. BONFANTI, Imprese multinazionali, diritti umani e ambiente. Profili di diritto internazionale pubblico e privato, Milano, Giuffré Editore, 2012.
[9] United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS), 10 dicembre 1982. Disponibile al link: https://www.un.org/depts/los/convention_agreements/texts/unclos/unclos_e.pdf.
[10] L’Autorità Internazionale dei Fondali Marini, con sede a Kingston, Jamaica, fu create nel 1994 e divenne un’organizzazione internazionale autonoma due anni dopo. Conta 168 Stati membri (inclusa l’Unione Europea). Maggiori informazioni sono disponibili al link: https://www.isa.org.jm/.
[11] International Tribunal for the Law of the Sea. Disponibile al link: https://www.itlos.org/en/.
[12] International Seabed Authority, Exploration Contracts. Disponibile al link: https://isa.org.jm/exploration-contracts.
[13] Una mappatura più precisa dell’area dei fondali marini è disponibile al link: https://www.isa.org.jm/media/image/450.
[14] United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS), 10 dicembre 1982, art. 136. Disponibile al link: https://www.un.org/depts/los/convention_agreements/texts/unclos/unclos_e.pdf.
[15] A. BONFANTI, op. cit., p. 255.
[16] United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS), 10 dicembre 1982, art. 140. Disponibile al link: https://www.un.org/depts/los/convention_agreements/texts/unclos/unclos_e.pdf.
[17] Rio Declaration on Environment and Development, A/CONF.151/26 (Vol. I), 13 giugno 1992, art. 15. Disponibile al link: https://www.un.org/en/development/desa/population/migration/generalassembly/docs/globalcompact/A_CONF.151_26_Vol.I_Declaration.pdf.
[18] International Seabed Authority, Legal and Technical Commission, Recommendations for the guidance of the contractors for the assessment of the possible environmental impacts arising from exploration for polymetallic nodules in the Area. ISBA/7/LTC/Rev.1,10 aprile 2001. Disponibile al link: https://digitallibrary.un.org/record/439782.
I codici di condotta della comunità degli affari: la responsabilità ambientale d’impresa “dal basso”
Le iniziative per la responsabilità sociale elaborate dalle imprese e associazioni di categoria definiscono i codici di condotta della comunità degli affari
I codici di condotta della comunità degli affari: le iniziative individuali
Alla presenza di iniziative non vincolanti elaborate a livello intergovernativo e regionale, si accompagna la recente redazione di codici di condotta della comunità degli affari, sviluppati direttamente a livello delle imprese stesse e delle relative associazioni di categoria – le cosiddette iniziative individuali e collettive incorporanti la responsabilità sociale d’impresa.
I codici di condotta della comunità degli affari formulati a livello individuale da una singola impresa rappresentano iniziative di autoregolamentazione attraverso cui l’azienda integra nello svolgimento delle proprie attività considerazioni di responsabilità sociale ed esprime il proprio impegno al rispetto di standards condivisi per la tutela dell’ambiente e dei diritti umani fondamentali, la protezione dei consumatori e il rispetto dei diritti dei lavoratori[1]. A questo proposito, di uso comune è la pubblicazione periodica da parte delle maggiori imprese multinazionali di report e dati quantitativi a conferma della propria condotta socialmente virtuosa, generalmente accertata in seguito ad una valutazione della conformità ai propri codici di condotta unilaterali avvenuta esclusivamente a livello interno[2].
L’elaborazione di codici di condotta individuali risale agli anni Novanta del secolo scorso, ed in particolare dalla necessità delle imprese multinazionali di placare le accuse derivanti dai numerosi scandali sociali e ambientali in cui risultarono coinvolte. Pertanto, la formulazione di codici di condotta della comunità degli affari e a livello interno ha assunto la funzione di indicatore per il mercato, gli investitori e più in generale per l’opinione pubblica di un certo grado di attenzione dell’impresa per il rispetto di imperativi sociali ed ambientali[3]. Di particolare interesse, sin dalla loro formulazione originaria i codici di condotta individuali sono stati intesi come applicabili tanto alla società madre, come pure alle sussidiarie e alle filiali operanti in paesi terzi[4].
Ciononostante, i codici di condotta adottati dalle singole imprese differiscono significativamente in termini di rilevanza ed efficacia: di fatto, gli aspetti sociali ed ambientali regolati dalle specifiche iniziative individuali variano a seconda del settore in cui operano le aziende, e, allo stesso tempo, delle principali difficoltà a cui esse devono fare fronte. Parimenti, i codici di condotta della comunità degli affari differiscono ulteriormente in merito ai sistemi di monitoraggio: possono infatti essere previsti controlli sia interni che esterni, questi ultimi principalmente volti a garantire un maggior grado di trasparenza e garanzia del rispetto degli standard sanciti dai codici[5].
I codici di condotta individuali: un’alternativa efficace?
Un numero consistente di iniziative di responsabilità sociale d’impresa elaborate a livello aziendale richiamano e fanno un preciso riferimento ai codici di condotta per la responsabilità delle imprese sviluppati in ambito intergovernativo e regionale[6]: ne fornisce un chiaro esempio l’iniziativa individuale del colosso petrolifero Total, il cui codice di condotta aziendale ha incluso tra le fonti alla base della propria responsabilità d’impresa il Global Compact delle Nazioni Unite e le Linee Guida dell’OCSE[7].
In tal senso, sembra possibile affermare che l’evocazione di esperienze intergovernative pregresse come il Global Compact delle Nazioni Unite e le Linee Guida OCSE possa contribuire con ogni probabilità al consolidamento del valore e ad una maggiore accettazione di tali strumenti, malgrado la propria natura non vincolante e volontaria. Allo stesso tempo, tale tendenza appare esprimere la creazione, all’interno della comunità degli affari, di un certo grado di consenso a proposito della necessità di rispettare standards ambientali e sociali nella realizzazione delle proprie attività aziendali e, successivamente, di includere tali considerazioni all’interno dei propri processi decisionali, benché nella maggior parte dei casi tale attitudine sia avvalorata per mere motivazioni economiche e di marketing.
Tuttavia, sorgono importanti interrogativi in merito alla natura vincolante dei codici di condotta della comunità degli affari nei rapporti business – to – business: più precisamente, è emersa una diffusa incertezza sulla possibilità di attribuire valore giuridico ad un codice di condotta individuale senza che quest’ultimo venga esplicitamente incorporato all’interno di un contratto.[8] Inoltre, gli standards di responsabilità sociale elaborati dalle singole imprese soffrono ulteriormente della mancanza di sistemi sanzionatori e di monitoraggio efficaci e trasparenti, poiché i casi in cui le società decidono di affidare la valutazione della conformità ai propri codici di condotta interni ad un organismo indipendente ed esterno risultano piuttosto esigui[9].
Nel complesso, il proliferare di codici di condotta per l’autoregolamentazione delle imprese a livello individuale riflette il rifiuto di ogni iniziativa giuridicamente vincolante da parte del mondo imprenditoriale; allo stesso tempo, allo stato attuale i codici di condotta della comunità degli affari sembrano essere il metodo più efficace per fronteggiare le lacune normative e la debole attuazione degli standard sociali e ambientali negli Stati ospitanti, in cui la maggior parte delle attività delle società globali è delocalizzata[10].
I Principi Sullivan
Considerati il punto di partenza per lo sviluppo dei codici di condotta individuali, i Principi Sullivan vennero elaborati nel 1977 per iniziativa del reverendo Leon H. Sullivan, membro del consiglio direttivo di General Motors, al fine di indurre le imprese con sede negli Stati Uniti che svolgevano operazioni in Sud Africa ad adottare una serie di codici volti a promuovere politiche contro l’apartheid e la discriminazione sul posto di lavoro, trascendendo le politiche nazionali dell’epoca; fornire pari opportunità di lavoro e pratiche eque ai lavoratori; migliorare le condizioni delle comunità locali, con particolare attenzione alla condizione infantile[11].
Originariamente un insieme di sei principi, dopo un primo allargamento nel 1978 le aziende aderenti ai principi si sono volontariamente impegnate a:
- promuovere i diritti umani universali, in particolare quelli dei dipendenti, delle comunità in cui operano e delle parti con cui intrattengono rapporti commerciali;
- favorire pari opportunità per i dipendenti a tutti i livelli dell’azienda, indipendentemente dal colore della pelle, dalla razza, dal genere, dall’età, dall’etnia o dalle convinzioni religiose, e ad operare evitando lo sfruttamento dei bambini, punizioni fisiche per i lavoratori, abusi sulle donne, schiavitù involontaria e altre forme di abuso;
- rispettare la libertà di associazione volontaria dei dipendenti;
- garantire un’equa remunerazione ai dipendenti per consentire loro di soddisfare i loro bisogni di base e fornire loro l’opportunità di migliorare le proprie opportunità sociali ed economiche;
- fornire un luogo di lavoro sicuro e sano; proteggere la salute umana e l’ambiente; promuovere lo sviluppo sostenibile;
- promuovere una concorrenza leale, compreso il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale e di altro tipo;
- collaborare con il governo e le comunità in cui operano per migliorare la qualità della vita di tali comunità, il loro benessere educativo, culturale, economico e sociale, e fornire opportunità ai lavoratori provenienti da contesti svantaggiati;
- promuovere l’applicazione di tali principi da parte di coloro con i quali intrattengono rapporti d’affari[12].
I Principi Sullivan citano direttamente la tutela della salute umana e dell’ambiente come un aspetto fondamentale di cui le imprese devono tenere conto nello svolgimento delle proprie attività. In particolare, il principio dello sviluppo sostenibile si inserisce come obiettivo da raggiungere anche con l’ausilio delle imprese, che analogamente sono tenute a considerare gli effetti delle proprie attività sulle comunità locali anche dal punto di vista educativo, culturale, economico e sociale. Inoltre, i Sullivan Principles prevedono la valutazione della conformità delle imprese da parte di revisori esterni, al fine di garantire una verifica il più possibile trasparente e indipendente[13].
Applicazione dei Principi Sullivan: a che punto siamo?
Dal 1999, i Principi Sullivan sono stati rielaborati con l’appellativo di Principi Sullivan Globali per la Responsabilità Sociale d’Impresa, e sono stati aperti all’adesione di un’ampia gamma di imprese di qualsiasi dimensione ed operanti in ogni settore o area del mondo.
Allo stato attuale, un numero consistente di imprese multinazionali ha espresso il loro impegno all’attuazione dei Principi Sullivan, incluse società commerciali del settore petrolifero e minerario come Shell, Freeport McMoran Cooper & Gold, Chevron Texaco, Unocal e General Motor[14]. Complessivamente, pur essendo uno strumento di soft law privo di forza giuridica vincolante, i Principi Sullivan hanno offerto un contributo ineguagliabile alla considerazione del ruolo delle imprese nel miglioramento delle condizioni sociali, come pure nel campo dei diritti dei lavoratori, e – seppur in modo limitato rispetto ad altre iniziative – dei diritti umani e della tutela dell’ambiente.
In maniera analoga, lo sviluppo dei principi da parte del reverendo Sullivan ha contribuito all’apertura del dibattito sulla misura in cui le imprese transnazionali dovrebbero rispondere delle conseguenze delle loro operazioni sulla società, così come ha fornito un modello per l’elaborazione di successivi codici di condotta individuali formulati a livello di specifiche società operanti in Stati stranieri[15].
I codici di condotta della comunità degli affari: le iniziative collettive
Fra i codici di condotta della comunità degli affari, accanto alle iniziative di autodisciplina elaborate dalle singole imprese, sono stati analogamente formulati standard di regolamentazione da parte delle associazioni di categoria operanti in specifici settori.
In tale contesto, la singola impresa è tenuta al rispetto di uno specifico codice elaborato nell’ambito dell’associazione di categoria a cui appartiene[16]: di fatto, a seguito dell’adozione di codici di condotta collettivi da parte di determinate associazioni di categoria, tutte le imprese associate sono tenute al rispetto di tali norme; inoltre, aderendo allo statuto dell’associazione di categoria, le aziende non solo si impegnano ad adottare i modelli contrattuali predisposti dall’ente, bensì anche a rispettare gli standard di responsabilità sociale e ambientale d’impresa elaborati all’interno dell’associazione.
In tal senso, i codici di condotta collettivi sono suscettibili di acquisire forza vincolante anche se esclusivamente per le imprese appartenenti ad una determinata associazione di settore[17]. In pratica, è nell’ambito dei codici di condotta collettivi che è possibile misurare la massima adesione delle imprese alle iniziative di responsabilità sociale d’impresa: i codici di condotta elaborati all’interno dei settori economici e industriali acquisiscono così lo status di standard di diligenza professionale, incoraggiando così il mondo imprenditoriale a conformare le proprie azioni a tale forma di etica aziendale[18].
Responsible Care e la responsabilità sociale nell’industria chimica
Esistono diversi esempi di codici di condotta originati nell’ambito delle associazioni imprenditoriali del settore privato che affrontano il tema della responsabilità sociale d’impresa, ed in particolare della tutela ambientale; tra questi, Responsible Care è una delle iniziative di punta nel campo dell’industria chimica[19]. Lanciato nel 1985 dall’associazione nazionale canadese dell’industria chimica e successivamente approvato da aziende di tutto il mondo, il codice sancisce l’impegno delle imprese operanti nel suddetto settore a conformare il proprio comportamento ad una serie di standard, che includono:
- il miglioramento delle conoscenze e delle prestazioni in materia di ambiente, salute, sicurezza e protezione delle tecnologie, al fine di evitare danni agli individui e all’ambiente;
- l’utilizzo delle risorse in maniera più efficiente e volto a ridurre al minimo gli sprechi;
- l’immediata segnalazione di possibili carenze ed inadempimenti;
- la cooperazione con governi ed organizzazioni nello sviluppo e nell’attuazione di standard efficaci di regolazione;
- la fornitura di aiuti e consulenze per la promozione della gestione responsabile delle sostanze chimiche[20].
Responsible Care è un esempio vivente di cooperazione tra aziende all’interno dell’industria chimica globale per il continuo miglioramento delle proprie prestazioni in merito alla tutela dell’ambiente e della salute e, più in generale, per apportare un pratico contributo al progresso delle comunità locali potenzialmente interessate dalla loro condotta. Tuttavia, sebbene il codice sia teoricamente applicabile in maniera analoga a tutte le aziende aderenti, indipendentemente dal Paese in cui sono ubicate, secondo l’associazione chimica nazionale sono da rimarcare diversi gradi di accuratezza in fase di monitoraggio[21].
Gli Equator Principles per le istituzioni finanziarie
Un secondo esempio di codici di condotta della comunità degli affari elaborati a livello collettivo concerne gli Equator Principles[22], un’iniziativa quadro lanciata negli Stati Uniti nel luglio 2003 nell’ambito delle istituzioni finanziarie, al fine di fornire un approccio comune nella considerazione del rischio sociale e ambientale tanto nei processi decisionali, quanto nello svolgimento delle proprie operazioni.
Più precisamente, a partire dall’ultima revisione del luglio 2020, le imprese aderenti e attive nel settore finanziario si impegnano a rispettare i seguenti principi:
- revisione e categorizzazione;
- valutazione ambientale e sociale;
- elaborazione di un piano d’azione per la gestione ambientale e sociale;
- coinvolgimento degli stakeholder;
- creazione di un meccanismo di reclamo;
- revisione indipendente;
- monitoraggio e rendicontazione indipendenti;
- rendicontazione e trasparenza[23].
Attualmente, i principi si applicano su scala globale, ed in particolare a 118 istituzioni finanziarie in 37 paesi[24], abbracciando dunque la maggior parte dei progetti internazionali relativi al settore della finanza, compreso il finanziamento del debito nei paesi in via di sviluppo.
In particolare, il potenziale impatto ambientale di specifici progetti è al centro degli Equator Principles, i quali prevedono una serie di misure da intraprendere previamente alla decisione di finanziare una particolare iniziativa, ovvero la consultazione con le comunità interessate, la dovuta considerazione degli standard lavorativi e dei diritti delle comunità indigene, e, in definitiva, l’armonizzazione con gli standard sociali e ambientali validi a livello locale. Tuttavia, in materia di applicabilità gli Equator Principles si caratterizzano ancora come iniziative non vincolanti e volontarie, non generando pertanto obblighi di legge in capo alle imprese in caso di adesione[25].
I codici di condotta collettivi: una valutazione
Per quanto concerne la valutazione dell’efficacia dei codici di condotta della comunità degli affari collettivi e di settore, è possibile affermare che le associazioni di categoria adottino specifici codici di condotta sociale e ambientale al fine di ridurre la possibilità di danni reputazionali a causa del boicottaggio dei consumatori in reazione alla scarsa considerazione di standard di comportamento incorporanti la responsabilità sociale da parte di specifiche aziende.
Vi è inoltre una crescente tendenza delle associazioni di categoria del settore industriale ad evitare la divulgazione pubblica di informazioni sulla responsabilità delle società inadempienti, elemento che mina ulteriormente l’efficacia dei codici di condotta collettivi nel campo della responsabilità pubblica.
Nel complesso, emergono preoccupazioni in merito alla possibilità di monitorare le prestazioni reali delle imprese multinazionali attraverso la loro mera adesione a codici di condotta settoriali, poiché tali codici sono gestiti principalmente dalle stesse società e associazioni di categoria da cui sono stati elaborati: è pertanto ancora assente una valutazione esterna e indipendente della conformità da parte della comunità imprenditoriale[26].
Informazioni
W. BENDEK, K. DE FEYTER, F. MARRELLA, Economic Globalization and Human Rights, Cambridge, Cambridge University Press, 2007.
A. BONFANTI, Imprese multinazionali, diritti umani e ambiente. Profili di diritto internazionale pubblico e privato, Milano, Giuffré Editore, 2012.
V. CHABERT, I codici di Condotta delle Nazioni Unite per la responsabilità delle multinazionali. Diritto Consenso, 18 maggio 2022. Disponibile al link: https://www.dirittoconsenso.it/2022/05/18/i-codici-di-condotta-delle-nazioni-unite-per-la-responsabilita-delle-multinazionali/.
A. DE JONGE, Transnational Corporations and International law. Accountability in the Global Business Environment, Cheltenham, UK, Northampton, MA, USA, Edward Elgar Publishing, 2011.
Equator Principles Association Members & Reporting. Disponibile al link: https://equator-principles.com/members-reporting/.
H. KELLER, Corporate Codes of Conduct and their Implementation: The question of Legitimacy. In R. Wolfrum, V. Röben, Legitimacy in International law, Berlin, Heidelberg, Springer, 2008.
M. KOENIG-ARCHIBUGI, Transnational Corporations and Public Accountability, Government and Opposition, Vol.39, No.2, 2004.
F. MARRELLA, Protection internationale des droits de l’homme et activités des sociétés transnationales, Recueil des cours de l’Académie de Droit International de la Haye, vol.385, Leiden-Boston, Massachussets (USA), Brill/Nijhoff, 2017.
F. MARRELLA, Regolazione internazionale e imprese multinazionali. In L’Impresa Responsabile. Diritti sociali e Corporate Social Responsibility, Milano, Halley, 2007.
S. R. RATNER, Corporations and Human Rights: a Theory of Legal Responsibility, The Yale Law Journal, Vol. 111, No. 3, 2001.
Responsible Care. Disponibile al link: https://cefic.org/responsible-care/ .
The Equator Principles. Disponibile al link: https://equator-principles.com/.
The Global Sullivan Principles. Disponibile al link: http://hrlibrary.umn.edu/links/sullivanprinciples.html#:~:text=The%20objectives%20of%20the%20Global,and%20boar.
TOTAL, Code of conduct: our values in practice, Dicembre 2018. Disponibile al link: https://www.totalenergies.com/sites/g/files/nytnzq111/files/atoms/files/total_code_of_conduct_va_0.pdf.
[1] W. BENDEK, K. DE FEYTER, F. MARRELLA, Economic Globalization and Human Rights, Cambridge, Cambridge University Press, 2007, p. 267.
[2] M. KOENIG-ARCHIBUGI, Transnational Corporations and Public Accountability, Government and Opposition, Vol.39, No.2, 2004, p. 251.
[3] S. R. RATNER, Corporations and Human Rights: a Theory of Legal Responsibility, The Yale Law Journal, Vol. 111, No. 3, 2001, p. 531.
[4] F. MARRELLA, Protection internationale des droits de l’homme et activités des sociétés transnationales, Recueil des cours de l’Académie de Droit International de la Haye, vol.385, Leiden-Boston, Massachussets (USA), Brill/Nijhoff, 2017, p. 243.
[5] A. BONFANTI, Imprese multinazionali, diritti umani e ambiente. Profili di diritto internazionale pubblico e privato, Milano, Giuffré Editore, 2012, p. 217.
[6] V. CHABERT, I codici di Condotta delle Nazioni Unite per la responsabilità delle multinazionali. Diritto Consenso, 18 maggio 2022. Disponibile al link: https://www.dirittoconsenso.it/2022/05/18/i-codici-di-condotta-delle-nazioni-unite-per-la-responsabilita-delle-multinazionali/.
[7] TOTAL, Code of conduct: our values in practice, Dicembre 2018. Disponibile al link: https://www.totalenergies.com/sites/g/files/nytnzq111/files/atoms/files/total_code_of_conduct_va_0.pdf
[8] F. MARRELLA, Regolazione internazionale e imprese multinazionali. In L’Impresa Responsabile. Diritti sociali e Corporate Social Responsibility, Milano, Halley, 2007, pp. 50-51.
[9] M. KOENIG-ARCHIBUGI, op. cit., p. 257.
[10] H. KELLER, Corporate Codes of Conduct and their Implementation: The question of Legitimacy. In R. Wolfrum, V. Röben, Legitimacy in International law, Berlin, Heidelberg, Springer, 2008, p. 12.
[11] The Global Sullivan Principles. Disponibile al link: http://hrlibrary.umn.edu/links/sullivanprinciples.html#:~:text=The%20objectives%20of%20the%20Global,and%20boar.
[12] Ibid.
[13] W. BENDEK, K. DE FEYTER, F. MARRELLA, op. cit., p. 294.
[14] A. BONFANTI, op. cit., p. 221.
[15] H. KELLER, op. cit., p. 8.
[16] F. MARRELLA, Regolazione internazionale e imprese multinazionali. In L’Impresa Responsabile. Diritti sociali e Corporate Social Responsibility, Milano, Halley, 2007, p. 51.
[17] W. BENDEK, K. DE FEYTER, F. MARRELLA, op. cit., p. 296.
[18] F. MARRELLA, Protection internationale des droits de l’homme et activités des sociétés transnationales, Recueil des cours de l’Académie de Droit International de la Haye, vol.385, Leiden-Boston, Massachussets (USA), Brill/Nijhoff, 2017, p. 241.
[19] Responsible Care. Disponibile al link: https://cefic.org/responsible-care/ .
[20] Ibid.
[21] H. KELLER, op. cit., p. 26.
[22] The Equator Principles. Disponibile al link: https://equator-principles.com/.
[23] Ibid.
[24] Equator Principles Association Members & Reporting. Disponibile al link: https://equator-principles.com/members-reporting/.
[25] A. DE JONGE, Transnational Corporations and International law. Accountability in the Global Business Environment, Cheltenham, UK, Northampton, MA, USA, Edward Elgar Publishing, 2011, p. 25.
[26] M. KOENIG-ARCHIBUGI, op. cit., p. 252.
Il pacchetto Repower EU
Lo scorso maggio, la Commissione Europea ha presentato il piano di investimenti Repower EU per la transizione verde in Europa
Cosa prevede Repower EU?
Vale 300 miliardi – 225 in finanziamenti e sovvenzioni, 75 come prestiti – il piano Repower EU[1], presentato dalla Commissione Europea nella giornata del 18 maggio scorso in risposta alle tensioni nel mercato energetico globale, esacerbate dall’invasione Russa dell’Ucraina lo scorso febbraio[2].
L’iniziativa prende le mosse dalla doppia urgenza di trasformare il sistema energetico europeo:
- da un lato, porre fine entro 5 anni alla dipendenza dell’Unione dai combustibili fossili di Mosca, utilizzati come arma politica ed economica dagli albori delle tensioni geopolitiche tra i due attori;
- dall’altro, affrontare la crisi climatica accelerando la transizione verde attraverso un più incisivo risparmio energetico, la diversificazione degli approvvigionamenti e un’accelerata introduzione delle energie rinnovabili per sostituire gas, petrolio e carbone nelle abitazioni, nell’industria e nella produzione di energia[3].
Secondo la Commissione, la trasformazione verde sarà in grado di rafforzare la crescita economica, la sicurezza e l’azione per il clima sul continente europeo. Per queste ragioni, il Recovery and Resilience Facility (RRF)[4] a sostegno della pianificazione e il finanziamento coordinato delle infrastrutture nazionali e transfrontaliere costituirà il fulcro del pacchetto Repower EU. Di fatto, lo scorso maggio la Commissione ha avanzato la proposta di modifiche al suddetto regolamento, al fine di integrare capitoli dedicati nei Piani di Ripresa e Resilienza degli Stati membri che possano tener conto delle nuove iniziative del piano Repower[5].
Gli incentivi per il risparmio di energia
Attualmente, il risparmio energetico sembra essere il modo più rapido ed economico per affrontare l’attuale crisi del mercato dei combustibili fossili. A tal proposito, Repower EU propone di rafforzare le misure di efficienza energetica a lungo termine, con un aumento dal 9 al 13% dell’Energy Efficiency Target[6] in seno al pacchetto “Fit for 55” del Green Deal Europeo[7].
Di fatto, dal punto di vista strategico il risparmio di energia aiuterà l’Unione a prepararsi alle sfide che potrebbero sorgere durante il prossimo inverno. In questo senso andrà letta la Comunicazione dell’UE[8] sul risparmio energetico pubblicata congiuntamente al piano Repower, che descrive nel dettaglio i cambiamenti comportamentali a breve termine da adottare per ridurre del 5% la domanda di gas e petrolio, delegando agli Stati membri la creazione di specifiche campagne comunicative rivolte alle famiglie e al settore industriale. I Paesi dell’Unione sono inoltre incoraggiati ad implementare misure fiscali per stimolare il risparmio energetico – incluse aliquote IVA ridotte sui sistemi di riscaldamento energicamente efficienti ed isolamento degli edifici[9].
La diversificazione dell’approvvigionamento energetico
In seno al pacchetto Repower EU, la Commissione ha stabilito potenziali misure di emergenza da intraprendere in caso di grave interruzione dell’approvvigionamento energetico. Nello specifico, Bruxelles emetterà precisi orientamenti sui criteri di definizione delle priorità per i clienti e faciliterà un piano coordinato di riduzione della domanda dell’UE.
Da diversi mesi l’UE collabora infatti con numerosi partner internazionali per diversificare le forniture, assicurandosi così livelli record di importazione di gas sia in forma liquida, sia attraverso gasdotti[10]. Una nuova piattaforma energetica dell’UE[11], supportata da task force regionali, consentirà pertanto acquisti collettivi di gas e idrogeno, mettendo in comune la domanda e ottimizzando l’uso delle infrastrutture. Successivamente, replicando l’ambizione del programma comune di acquisto di vaccini, la Commissione valuterà lo sviluppo di un meccanismo di acquisto congiunto che permetterà la negoziazione e l’acquisto di gas per conto degli Stati membri partecipanti.
Si esploreranno poi ulteriori misure legislative per richiedere una diversificazione dell’approvvigionamento di gas da parte degli Stati membri nel tempo[12]. A lungo termine, la strategia energetica esterna dell’UE[13] faciliterà la creazione di partenariati con i fornitori – compresa una cooperazione sull’idrogeno e altre tecnologie verdi.
Repower EU sostiene la transizione verde
In linea con il Global Gateway[14], la strategia dell’Unione per le sfide globali più urgenti come la lotta ai cambiamenti climatici, il miglioramento dei sistemi sanitari e il rafforzamento della competitività e della sicurezza delle catene di approvvigionamento globali, Repower EU pone al centro l’impegno dei Ventisette per una transizione energetica globale, verde e giusta, volta ad accrescere il risparmio energetico per ridurre la pressione sui prezzi, incentivando tuttavia lo sviluppo delle energie rinnovabili e dell’idrogeno anche tramite una nuova diplomazia energetica.
A questo proposito, nel Mediterraneo e nel Mare del Nord saranno sviluppati importanti corridoi dell’idrogeno, e, a fronte dell’aggressione russa, l’Unione si adopererà per sostenere l’Ucraina, la Moldova, i Balcani occidentali e i Paesi del partenariato orientale, con l’obiettivo di garantire la continuità di un settore energetico funzionante ed efficiente[15].
L’impulso alle energie rinnovabili
Un’accelerazione delle energie rinnovabili stimolerà infine la transizione verde e ridurrà, nel tempo, i costi delle forniture energetiche.
Con un aumento dal 40 al 45% dell’obiettivo per le rinnovabili entro il 2030, la Commissione creerà il quadro per nuove iniziative che comprenderanno, tra le altre, una strategia solare per raddoppiare la capacità fotovoltaica entro il 2025, con l’installazione di 600GW nei prossimi 8 anni; l’obbligo legale graduale di installare pannelli solari su nuovi edifici pubblici, commerciali e residenziali; il raddoppiamento del tasso di diffusione delle pompe di calore e misure per integrare l’energia geotermica e solare nei sistemi di riscaldamento.[16]
Su questa linea, la Commissione ha altresì pubblicato una raccomandazione[17] in materia di progetti per le rinnovabili al fine di ridurre la complessità delle procedure di autorizzazione e la lentezza della realizzazione di nuovi impianti, così come una proposta di modifica della direttiva sulle energie rinnovabili[18], affinché queste ultime vengano riconosciute come interesse pubblico prevalente[19]. Alla luce di ciò, i Paesi membri dovranno individuare specifiche zone di riferimento per le rinnovabili e adottare procedure abbreviate o semplificate per l’autorizzazione di nuovi progetti. La Commissione fornirà il proprio supporto attraverso la condivisione di dati sulle zone sensibili a maggiori rischi ambientali, raccolti nell’ambito del proprio strumento di mappatura digitale dei dati geografici[20].
Informazioni
Commissione Europea, Commission Recommendation on speeding up permit-granting procedures for renewable energy projects and facilitating Power Purchase Agreements, C/2022/3219 final,18 maggio 2022. Disponibile al link: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=PI_COM%3AC%282022%293219&qid=1653033569832.
Commissione Europea, Communication From The Commission To The European Parliament, The European Council, The Council, The European Economic And Social Committee And The Committee Of The Regions Repowereu Plan, EUR-Lex – 52022DC0230, 18 maggio 2022.
Commissione Europea, Communication From The Commission To The European Parliament, The Council, The European Economic And Social Committee And The Committee Of The Regions EU ‘Save Energy‘, COM/2022/240 final, 18 maggio 2022. Disponibile al link: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=COM%3A2022%3A240%3AFIN&qid=1653033053936.
Commissione Europea, Energy Efficiency Targets. Disponibile al link. https://energy.ec.europa.eu/topics/energy-efficiency/energy-efficiency-targets-directive-and-rules/energy-efficiency-targets_en.
Commissione Europea, Energy Security: Commission hosts first meeting of EU Energy Purchase Platform to secure supply of gas, LNG and hydrogen, 8 aprile 2022. Disponibile al link: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/IP_22_2387.
Commissione Europea, Global Gateway. Disponibile al link: https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/stronger-europe-world/global-gateway_it.
Commissione Europea, Joint Communication To The European Parliament, The Council, The European Economic And Social Committee And The Committee Of The Regions EU external energy engagement in a changing world, JOIN/2022/23 final, 18 maggio 2022.
Commissione Europea, Proposal for a Directive Of The European Parliament And Of The Council amending Directive (EU) 2018/2001 on the promotion of the use of energy from renewable sources, Directive 2010/31/EU on the energy performance of buildings and Directive 2012/27/EU on energy efficiency, COM/2022/222 final, 18 maggio 2022.
Commissione Europea, REPowerEU: un piano per ridurre rapidamente la dipendenza dai combustibili fossili russi e accelerare la transizione verde, 18 maggio 2022. Disponibile al link: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/IP_22_3131.
Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council amending Regulation (EU) 2021/241 as regards REPowerEU chapters in recovery and resilience plans and amending Regulation 2021/1060, 2021/2115, 2003/87/EC and Decision 2015/1814. Disponibile al link: https://ec.europa.eu/info/files/proposal-regulation-european-parliament-and-council-amending-regulation-eu-2021-241-regards-repowereu-chapters-recovery-and-resilience-plans-and-amending-regulation-2021-1060-2021-2115-2003-87-ec-2015-1814_it.
Regolamento (UE) 2021/241 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021 che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza, EUR-Lex – 32021R0241.
Francesca Scaini, Green Deal europeo: per un’Europa sostenibile entro il 2050. Diritto Consenso, 25 giugno 2020. Disponibile al link: https://www.dirittoconsenso.it/2020/06/25/green-deal-europeo-europa-sostenibile-entro-2050/.
Tetto al gas, rinnovabili, idrogeno e fondi: cosa c’è nel piano RePowerEU sull’energia, Startmagazine, 21 maggio 2022. Disponibile al link: https://www.startmag.it/energia/repowereu-brief/.
[1] Commissione Europea, Communication From The Commission To The European Parliament, The European Council, The Council, The European Economic And Social Committee And The Committee Of The Regions Repowereu Plan, EUR-Lex – 52022DC0230, 18 maggio 2022.
[2] Tetto al gas, rinnovabili, idrogeno e fondi: cosa c’è nel piano RePowerEU sull’energia, Startmagazine, 21 maggio 2022. Disponibile al link: https://www.startmag.it/energia/repowereu-brief/.
[3] Commissione Europea, REPowerEU: un piano per ridurre rapidamente la dipendenza dai combustibili fossili russi e accelerare la transizione verde, 18 maggio 2022. Disponibile al link: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/IP_22_3131.
[4] Regolamento (UE) 2021/241 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021 che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza, EUR-Lex – 32021R0241.
[5] Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council amending Regulation (EU) 2021/241 as regards REPowerEU chapters in recovery and resilience plans and amending Regulation 2021/1060, 2021/2115, 2003/87/EC and Decision 2015/1814. Disponibile al link: https://ec.europa.eu/info/files/proposal-regulation-european-parliament-and-council-amending-regulation-eu-2021-241-regards-repowereu-chapters-recovery-and-resilience-plans-and-amending-regulation-2021-1060-2021-2115-2003-87-ec-2015-1814_it.
[6] Commissione Europea, Energy Efficiency Targets. Disponibile al link. https://energy.ec.europa.eu/topics/energy-efficiency/energy-efficiency-targets-directive-and-rules/energy-efficiency-targets_en.
[7] Francesca Scaini, Green Deal europeo: per un’Europa sostenibile entro il 2050, Diritto Consenso, 25 giugno 2020. Disponibile al link: https://www.dirittoconsenso.it/2020/06/25/green-deal-europeo-europa-sostenibile-entro-2050/.
[8] Commissione Europea, Communication From The Commission To The European Parliament, The Council, The European Economic And Social Committee And The Committee Of The Regions EU ‘Save Energy’,COM/2022/240 final, 18 maggio 2022. Disponibile al link: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=COM%3A2022%3A240%3AFIN&qid=1653033053936.
[9] Supra (3).
[10] Ibid.
[11] Commissione Europea, Energy Security: Commission hosts first meeting of EU Energy Purchase Platform to secure supply of gas, LNG and hydrogen, 8 aprile 2022. Disponibile al link: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/IP_22_2387.
[12] Supra (3)
[13] Commissione Europea, Joint Communication To The European Parliament, The Council, The European Economic And Social Committee And The Committee Of The Regions EU external energy engagement in a changing world, JOIN/2022/23 final, 18 maggio 2022.
[14] Commissione Europea, Global Gateway. Disponibile al link: https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/stronger-europe-world/global-gateway_it.
[15] Supra (3).
[16] Ibid.
[17] Commissione Europea, Commission Recommendation on speeding up permit-granting procedures for renewable energy projects and facilitating Power Purchase Agreements, C/2022/3219 final,18 maggio 2022. Disponibile al link: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=PI_COM%3AC%282022%293219&qid=1653033569832.
[18] Commissione Europea, Proposal for a Directive Of The European Parliament And Of The Council amending Directive (EU) 2018/2001 on the promotion of the use of energy from renewable sources, Directive 2010/31/EU on the energy performance of buildings and Directive 2012/27/EU on energy efficiency, COM/2022/222 final, 18 maggio 2022.
[19] Supra (3).
[20] Ibid.
La responsabilità d'impresa nei paesi OCSE
Le Linee Guida e il sistema di monitoraggio dei Punti di Contatto Nazionali garantiscono la responsabilità d’impresa nei Paesi OCSE
La responsabilità d’impresa nei Paesi OCSE: le Linee Guida per le imprese multinazionali
Tra le iniziative elaborate a livello intergovernativo, le Linee Guida per le imprese multinazionali rappresentano il principale strumento volto a garantire la responsabilità d’impresa nei Paesi OCSE.
Adottate originariamente nel 1976 come allegato alla Dichiarazione sugli investimenti internazionali e le imprese multinazionali[1] allo scopo di rafforzare la collaborazione tra i paesi dell’OCSE in un contesto di investimenti esteri, le Linee guida dell’OCSE rappresentano l’iniziativa più considerevole per la regolamentazione della condotta delle imprese aventi sede legale nei territori degli Stati membri dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ed operanti sia in tali paesi che in Stati ospitanti. Le linee guida si configurano come un insieme di raccomandazioni non vincolanti rivolte direttamente alle imprese; esse identificano principi volontari per una condotta aziendale responsabile, coerente con la legge applicabile e gli standard riconosciuti a livello internazionale[2].
A tal proposito, come nel caso dei codici di condotta delle Nazioni Unite[3], anche la responsabilità d’impresa nei Paesi OCSE si caratterizza per l’assenza di vincolatezza ed imperatività delle disposizioni previste dalle Linee Guida, le quali rimangono pertanto un mero strumento di diritto internazionale soft[4]. Ciononostante, sebbene affrontino in primo luogo la protezione dell’ambiente e il rispetto dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori, le Linee Guida forniscono standard di comportamento prendendo in esame un più vasto ambito d’azione delle imprese multinazionali, tra cui la divulgazione di informazioni, l’anticorruzione e la tutela dei consumatori, con l’obiettivo di favorire il contributo positivo delle imprese in un’ottica più ampia rispetto alla sola sfera sociale, economica ed ambientale.
In particolare, le Linee Guida dell’OCSE si occupano di regolare la condotta delle multinazionali all’interno delle seguenti aree:
- divulgazione di informazioni;
- diritti umani;
- occupazione e relazioni industriali;
- ambiente;
- lotta alla corruzione e all’estorsione;
- tutela degli interessi dei consumatori;
- scienza e tecnologia;
- concorrenza;
- tassazione.
Pur essendo un mero strumento regionale di diritto internazionale non vincolante per la responsabilità d’impresa nei Paesi OCSE, le Linee Guida risultano altresì applicabili ad una serie di Stati terzi che hanno approvato l’iniziativa, tra cui Argentina, Brasile, Egitto, Lettonia, Lituania, Marocco, Perù e Romania[5].
Di fatto, a fronte della maggiore globalizzazione delle attività delle imprese multinazionali, gli Stati membri dell’OCSE sono profondamente incoraggiati a cooperare allineando i propri approcci operativi, al fine di superare le lacune normative ad ostacolo di un’efficace regolamentazione delle società commerciali. In quest’ottica, il tema della cooperazione – preminente lungo tutto il testo delle Linee Guida – si estende a “tutti i paesi”[6].
Un esempio virtuoso per la responsabilità d’impresa?
Nonostante la mancanza di vincolatezza giuridica, le Linee Guida veicolano un marcato impegno politico collettivo degli Stati membri dell’OCSE: tale coinvolgimento riflette le aspettative di una condotta aziendale responsabile nei confronti delle imprese che operano a partire da o nei propri territori, consci della propria posizione di fonte principale della maggior parte dei flussi di investimenti diretti globali[7].
Inoltre, a differenza dell’elevata adesione degli Stati alle Nazioni Unite, il numero più limitato di paesi membri dell’OCSE ha positivamente contribuito all’adozione delle Linee guida, definite in seguito come “la strategia dei paesi sviluppati per la creazione del proprio quadro regolatorio per le attività delle multinazionali“[8].
In tal senso, la presa di coscienza degli Stati membri dell’OCSE a proposito degli evidenti squilibri di potere fra governi da un lato e multinazionali dall’altro ha svolto un ruolo fondamentale nell’approvazione delle Linee Guida: di fatto, durante le negoziazioni notevoli preoccupazioni furono sollevate in merito all’effetto destabilizzante per i governi dei paesi ospitanti del crescente potere globale delle società commerciali, elemento che, al contrario, non fu debitamente considerato nel contesto delle Nazioni Unite, contribuendo pertanto al fallimento dei primi tentativi di redazione di un Codice di Condotta alla fine degli anni Settanta[9].
A partire dal 1976, le Linee Guida per la responsabilità d’impresa nei Paesi OCSE hanno attraversato numerose fasi di revisione: in particolare, rispetto alla versione originaria sono stati introdotti rilevanti elementi di innovazione nelle formulazioni aggiornate adottate rispettivamente nel 2000 e nel 2011.
Dal punto di vista procedurale, maggiore attenzione è stata dedicata alle obbligazioni di dovuta diligenza e al coinvolgimento degli azionisti nei processi decisionali con riferimento alle operazioni aziendali con potenziali impatti negativi sulle comunità locali vulnerabili; allo stesso modo, un focus sugli standard ambientali si è posto l’obiettivo di migliorare le prestazioni delle imprese e ridurne l’impatto sugli ecosistemi naturali[10].
É stata inoltre inserita un’intera sezione dedicata ai diritti umani, ispirata alla precedente esperienza dei Principi Guida delle Nazioni Unite su Imprese e Diritti Umani del 2011[11].
Le linee guida OCSE e la tutela ambientale
Precisi riferimenti alla necessità che le imprese multinazionali adottino una condotta rispettosa nei confronti dell’ambiente sono presenti in varie sezioni delle Linee Guida. In particolare, la Prefazione ribadisce l’obiettivo di rafforzare il contributo delle società commerciali allo sviluppo sostenibile e migliorare l’apporto positivo delle imprese in ambito sociale, economico ed ambientale. Tuttavia, una specifica attenzione all’ambiente è dedicata all’interno della sezione VI, inserita nel testo delle Linee Guida solo in occasione della revisione del 1991[12]. Fu però l’aggiornamento del 2000 a rappresentare un vero spartiacque per responsabilità d’impresa nei Paesi OCSE in campo ambientale, in quanto le Linee Guida incorporarono i principi ambientali sanciti dalla Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo Sviluppo e dall’Agenda 21 del 1992, così come precisi riferimenti allo sviluppo sostenibile, ai diritti umani e alla divulgazione di informazioni ambientali alla società civile[13].
Attualmente, il Capitolo VI delinea un quadro in cui le imprese globali sono tenute a rispettare una serie di standard relativi alla salute, alla sicurezza e alla protezione ambientale nello svolgimento delle loro operazioni. Inoltre, le Linee Guida prevedono alcune disposizioni in materia di responsabilità ambientale aziendale che includono un preciso sistema di gestione ambientale, il coinvolgimento e la comunicazione con gli stakeholder, l’attuazione di una valutazione di impatto ambientale ed un’efficiente prevenzione e mitigazione dei rischi derivanti dalle attività dell’impresa[14].
Complessivamente, in accordo con il Principio 4 della Dichiarazione di Rio che implica l’integrazione della protezione dell’ambiente nei processi di sviluppo, il Capitolo VI delle Linee Guida afferma il dovere generale di includere nei processi decisionali delle imprese le potenziali implicazioni negative nei confronti dell’ambiente delle proprie attività. Nonostante ciò, non è possibile ritrovare alcun riferimento alla responsabilità giuridica delle multinazionali per danni ambientali. Sono tuttavia presenti riferimenti sia al principio di precauzione che al principio di prevenzione: di fatto, in assenza di precise prove scientifiche riguardanti i potenziali rischi ambientali legati a specifiche attività, le imprese sono tenute ad agire in modo tale da ridurre al minimo gli eventuali danni agli ecosistemi naturali.
Le Linee Guida suggeriscono poi il mantenimento di piani di emergenza per prevenire, mitigare e controllare i gravi danni all’ambiente e alla salute derivanti dalle loro operazioni, e meccanismi di immediata segnalazione alle autorità competenti[15].
Infine, al fine di ridurre al minimo le conseguenze negative di potenziali danni ambientali, le imprese sono tenute a fornire ai cittadini e alle comunità locali interessate informazioni sulle attività aziendali e sui materiali potenzialmente pericolosi impiegati nei processi produttivi. Al riguardo, le Linee Guida hanno contribuito alla costruzione di un sistema più trasparente in cui le società vengono messe nelle condizioni di comunicare informazioni rilevanti direttamente alle comunità interessate, con l’obiettivo di garantire l’inclusione della società in un quadro multi-partecipativo[16].
Implementazione e monitoraggio: i Punti di Contatto Nazionali
Al fine di garantire un’efficace implementazione e monitoraggio delle Linee Guida, la revisione del 2000 ha previsto la creazione di un sistema di Punti di Contatto Nazionali con l’obiettivo di fornire un foro per la gestione delle richieste di indagine e la risoluzione di potenziali controversie derivanti dal mancato rispetto delle Linee Guida.
Più precisamente, i Paesi aderenti sono tenuti ad istituire appositi uffici con il compito di promuovere la corretta applicazione delle Linee Guida sul proprio territorio e chiarire ogni possibile incertezza in merito all’attuazione.
Conformemente ai principi di accessibilità e trasparenza, l’assetto istituzionale dei Punti di Contatto Nazionali dovrebbe includere un’ampia varietà di attori per garantirne il funzionamento in modo imparziale: tra questi, la comunità imprenditoriale, le ONG, le comunità interessate e le organizzazioni dei lavoratori svolgono un ruolo di primo piano nell’ effettiva applicazione delle Linee Guida[17].
I Punti di Contatto Nazionali sono divenuti inoltre una concreta piattaforma di conciliazione per la risoluzione di controversie derivanti da accuse contro società potenzialmente non conformi: a tal proposito, gli Stati membri dell’OCSE, le organizzazioni, i gruppi interessati e le associazioni dei lavoratori possono sporgere denuncia contro una specifica impresa, alla quale seguirà una prima valutazione del caso volta a verificare la necessità di un esame più approfondito della situazione in essere. Successivamente, in caso di risposta affermativa seguiranno consultazioni con terze parti e con il Comitato per gli Investimenti dell’OCSE (CIME), il quale fornirà chiarimenti sulle modalità di applicazione delle Linee Guida in riferimento al caso in esame. Ciononostante, l’obiettivo di tale consultazione è puramente informativo, poiché il CIME non entrerà nel merito della valutazione delle accuse mosse alle società[18].
Infine, in accordo con le parti coinvolte nella controversia, i Punti di Contatto Nazionali agiscono come mediatori attraverso la redazione di un rapporto in cui sono fornite informazioni in merito alla controversia e alle procedure impiegate per promuoverne la risoluzione; tuttavia, il contenuto dell’accordo non viene divulgato, in modo da preservare la riservatezza delle informazioni commerciali. Al contrario, una semplice dichiarazione viene rilasciata nell’eventualità in cui le parti non raggiungano un accordo o scelgano di non collaborare alla procedura di risoluzione della controversia. In ogni caso, tali raccomandazioni non hanno forza vincolante, pertanto dalla procedura non emergeranno sanzioni né alcuna forma di responsabilità della società[19].
La garanzia di un’effettiva responsabilità d’impresa nei Paesi OCSE?
Allo stato attuale, circa 50 governi hanno istituito Punti di Contatto Nazionali sul proprio territorio per sovrintendere all’attuazione delle Linee Guida, tra cui Argentina, Colombia, Messico, Stati Uniti e Giordania. Inoltre, tra il 2000 e il 2018 tali agenzie hanno trattato oltre 420 casi di presunte violazioni delle Linee Guida.
A tal proposito, è interessante notare che i Punti di Contatto Nazionali istituiti negli Stati in cui ha sede la società madre hanno la competenza a considerare casi di presunte inosservanze delle Linee Guida anche in riferimento alle società controllate operanti in paesi terzi, spesso in via di sviluppo: di fatto, ai sensi della possibilità di ricondurre le attività delle sussidiarie alle rispettive controllanti, i Punti di Contatto inglesi, canadesi e olandesi sono stati coinvolti nella verifica della conformità rispetto ad attività di imprese multinazionali in Myanmar, Congo e India[20].
Tuttavia, benché fondamentale nella verifica della conformità dei paesi OCSE alle Linee Guida, il sistema dei Punti di Contatto Nazionali presenta rilevanti criticità. In particolare, le procedure dei Punti di Contatto non hanno natura giudiziaria o quasi-giudiziaria. Di conseguenza, non vi è alcuna possibilità di obbligare le società multinazionali a collaborare ai fini di un’appropriata risoluzione della controversia, così come non verrà imposta alcuna sanzione nei confronti dell’impresa inadempiente[21]. Ciononostante, la natura non vincolante delle raccomandazioni dei Punti di Contatto Nazionali non si traduce automaticamente in una mancata efficacia dell’intero meccanismo: di fatto, una multinazionale la cui condotta è ritenuta non conforme alle Linee Guida potrebbe essere soggetta a gravi danni reputazionali, che indubbiamente incideranno sull’impresa in termini di pubblicità negativa nel caso in cui il nome dell’impresa che avrebbe agito in violazione dei principi sanciti nelle Linee Guida venga divulgato all’opinione pubblica.
Il fatto che i paesi che non aderiscono alle Linee guida dell’OCSE non siano tenuti a istituire un Punto di Contatto Nazionali nonostante ospitino multinazionali la cui società madre abbia sede in un paese aderente rappresenta un ulteriore importante svantaggio per la fase di monitoraggio della conformità di Stati ed imprese. Per questo motivo, il rafforzamento del dialogo e della cooperazione con i paesi terzi appare più che necessario per promuovere un’applicazione universale delle Linee guida dell’OSCE[22].
Violazioni delle Linee Guida e Punti di Contatto Nazionali: il caso del Cile
In riferimento a presunte violazioni delle disposizioni a tutela dell’ambiente contenute nelle Linee Guida, il caso del Punto di Contatto Nazionale cileno appare particolarmente interessante.
Nello specifico, nel 2002 l’ONG olandese Milieudefensie ed Ecocéanos Cile hanno sporto denuncia contro la società Marine Harvest Chile S.A., filiale cilena della multinazionale olandese Nutreco, asserendo al mancato rispetto dei principi ambientali contemplati dalle Linee Guida dell’OCSE.
Dal momento che il Cile ha approvato le Linee Guida nel 2000 e, di conseguenza, ha istituito sia il proprio Punto di Contatto Nazionale, sia il proprio Comitato per gli investimenti internazionali (CIME), il Punto di Contatto Nazionale cileno è risultato competente ad offrire i propri buoni uffici per risolvere la controversia tra le parti attraverso la redazione di una serie di raccomandazioni[23].
Più precisamente, le accuse sollevate dalle due ONG riguardavano la destinazione di parte della riserva naturale del litorale nazionale ad attività di acquacoltura, le quali avrebbero eventualmente determinato notevoli impatti ambientali a causa della condotta della multinazionale Marine Harvest. In particolare, l’impresa non avrebbe rispettato il principio di precauzione sancito al punto 5.4 delle Linee Guida, in quanto a seguito delle proprie attività è stata registrata una spropositata proliferazione di alghe tossiche, risultata poi dannosa per l’ambiente marino locale. Allo stesso modo, secondo le ONG la società avrebbe ulteriormente violato il punto 5.3 delle Linee Guida in riferimento alla valutazione d’impatto ambientale, in quanto lo studio condotto sarebbe apparso inadeguato alle attività svolte successivamente.
D’altra parte, l’azienda ha presentato solide evidenze scientifiche per dimostrare che l’origine della fioritura di alghe in questione non fosse associata alle operazioni di acquacoltura, e ha tentato inoltre di dimostrare il proprio impegno a considerare attivamente l’impatto ambientale delle proprie attività tramite continue attività di monitoraggio e mitigazione. In maniera inaspettata, entrambe le parti collaborarono attivamente alla risoluzione della controversia, fornendo informazioni pertinenti ed assistenza tecnica per facilitare l’operato del Punto di Contatto Nazionale: per questo motivo, l’istanza considerata dal Punto di Contatto Nazionale cileno è stata ritenuta vincente nel risolvere la disputa in modo costruttivo per le parti.
Di fatto, nonostante non venne identificata una precisa correlazione scientifica tra le attività di acquacoltura e la proliferazione di alghe nell’area, il Punto di Contatto Cileno ha invitato la multinazionale ad intraprendere una precisa strategia per minimizzare il proprio impatto ambientale, raccomandando inoltre il perseguimento dello sviluppo sostenibile e l’attuazione del principio di precauzione nello svolgimento del proprio operato[24].
Conclusioni
In conclusione, è possibile affermare che le Linee Guida rappresentano un fondamentale strumento per garantire la responsabilità d’impresa nei Paesi OCSE. Tuttavia, sebbene presentino numerosi elementi di novità come la copertura di un più ampio ambito d’azione delle imprese multinazionali e la possibile estensione a paesi terzi non appartenenti all’OCSE, le Linee Guida si configurano come diritto internazionale non vincolante, in quanto non prevedono l’imposizione di obblighi in capo agli Stati, né tantomeno alle società operanti in e da tali paesi.
Con riferimento al monitoraggio e alla verifica della conformità, il sistema dei Punti di Contatto Nazionali risulta essere un fondamentale foro di dialogo per la risoluzione di controversie relative alla corretta applicazione delle Linee Guida; ciononostante, le raccomandazioni finali non assumono forza vincolante, e non risulta possibile imporre ad un’impresa riluttante di cooperare alla risoluzione della disputa in essere.
Informazioni
A.BONFANTI, Imprese multinazionali, diritti umani e ambiente. Profili di diritto internazionale pubblico e privato, Milano, Giuffré Editore, 2012.
V. CHABERT, I codici di condotta delle Nazioni Unite per la responsabilità delle multinazionali, DirittoConsenso, 18 maggio 2022 . Link: I codici di condotta delle Nazioni Unite per la responsabilità delle multinazionali – DirittoConsenso
A. DE JONGE, Transnational Corporations and International law. Accountability in the Global Business Environment, Cheltenham, UK, Northampton, MA, USA, Edward Elgar Publishing, 2011.
O. DE SHUTTER, Transnational Corporations and Human Rights, Portland, Hart Publishing, 2006.
D. IGLESIAS MARQUEZ, The scope of codes of conduct for corporate environmental responsibility, Revista Catalana de Dret Ambiental, Vol.6, No 2, 2015.
H. KELLER, Corporate Codes of Conduct and their Implementation: The question of Legitimacy. In R. Wolfrum, V. Röben, Legitimacy in International law, Berlin, Heidelberg, Springer, 2008.
E. MORGERA, Corporate environmental accountability in International law, 2nd edition, Oxford, Oxford University Press, 2020.
E. MORGERA, From Corporate Social Responsibility to Accountability Mechanisms: the Role of the Convention on Biological Diversity. In P-M Dupuy & JE Viñuales, Harnessing Foreign Investment to Promote Environmental Protection: Incentives and Safeguards, Cambridge University Press, 2013.
OCSE, Declaration on International Investment and Multinational Enterprises, 1976. Disponibile al link:https://www.oecd.org/investment/investment-policy/oecddeclarationoninternationalinvestmentandmultinationalenterprises.htm.
OCSE, National Contact Points for the OECD Guidelines for Multinational Enterprises. Disponibile al link: https://www.oecd.org/investment/mne/ncps.htm.
OCSE, OECD Guidelines for Multinational Enterprises, 2011. Disponibile al link: https://www.oecd.org/corporate/mne/1922428.pdf.
OCSE National Contact Points for Responsible Business Conduct: http://mneguidelines.oecd.org/ncps/.
S. R. RATNER, Corporations and Human Rights: a Theory of Legal Responsibility, The Yale Law Journal, Vol. 111, No. 3, 2001,
OCSE, Report of the National Contact Point of Chile on the Case of the Multinational Company Marine Harvest Chile S. A., 6 November 2003, p. 1. Disponibile al link: https://www.subrei.gob.cl/docs/default-source/punto-nacional-de-contacto/instancias/report-of-ncp-of-chile-marine.pdf?sfvrsn=5753de62_2.
UNITED NATIONS, UN Guiding Principles on Business and Human Rights, HR/PUB/11/04, 2011. Disponibile al link: https://www.ohchr.org/documents/publications/guidingprinciplesbusinesshr_en.pdf.
[1] OCSE, Declaration on International Investment and Multinational Enterprises, 1976. Disponibile al link:https://www.oecd.org/investment/investment-policy/oecddeclarationoninternationalinvestmentandmultinationalenterprises.htm.
[2] OCSE, OECD Guidelines for Multinational Enterpirses, 2011, Part. 1, Concepts and Principles, p. 17. Disponibile al link: https://www.oecd.org/corporate/mne/1922428.pdf.
[3] Per maggiori informazioni invito a consultare: I codici di condotta delle Nazioni Unite per la responsabilità delle multinazionali – DirittoConsenso
[4] H. KELLER, Corporate Codes of Conduct and their Implementation: The question of Legitimacy. In R. Wolfrum, V. Röben, Legitimacy in International law, Berlin, Heidelberg, Springer, 2008, p. 11.
[5] OCSE, OECD Guidelines for Multinational Enterpirses, op.cit., 2011, p. 7, note 1, “Adhering countries”. Disponibile al link: https://www.oecd.org/corporate/mne/1922428.pdf.
[6] A.BONFANTI, Imprese multinazionali, diritti umani e ambiente. Profili di diritto internazionale pubblico e privato, Milano, Giuffré Editore, 2012, p. 99-100.
[7] S. R. RATNER, Corporations and Human Rights: a Theory of Legal Responsibility, The Yale Law Journal, Vol. 111, No. 3, 2001, pp. 487-488.
[8] E. MORGERA, Corporate environmental accountability in International law, 2nd edition, Oxford, Oxford University Press, 2020, p. 120.
[9] Ivi, p. 85.
[10] E. MORGERA, From Corporate Social Responsibility to Accountability Mechanisms: the Role of the Convention on Biological Diversity. In P-M Dupuy & JE Viñuales, Harnessing Foreign Investment to Promote Environmental Protection: Incentives and Safeguards, Cambridge University Press, 2013, p. 5.
[11] UNITED NATIONS, UN Guiding Principles on Business and Human Rights, HR/PUB/11/04, 2011. Disponibile al link: https://www.ohchr.org/documents/publications/guidingprinciplesbusinesshr_en.pdf.
[12] OCSE, OECD Guidelines for Multinational Enterprises, 2011, Preface, para 1, 6. & Chapter VI. Disponibile al link: https://www.oecd.org/corporate/mne/1922428.pdf.
[13] E. MORGERA, op. cit., p. 125.
[14] OCSE, OECD Guidelines for Multinational Enterprises, 2011, Chapter VI, p. 42. Disponibile al link: https://www.oecd.org/corporate/mne/1922428.pdf
[15] Ivi, p. 43.
[16] D. IGLESIAS MARQUEZ, The scope of codes of conduct for corporate environmental responsibility, Revista Catalana de Dret Ambiental, Vol.6, No 2, 2015, p.9.
[17] OCSE, National Contact Points for the OECD Guidelines for Multinational Enterprises. Disponibile al link: https://www.oecd.org/investment/mne/ncps.htm.
[18] A.DE JONGE, Transnational Corporations and International law. Accountability in the Global Business Environment, Cheltenham, UK, Northampton, MA, USA, Edward Elgar Publishing, 2011,p. 42.
[19] OCSE, OECD Guidelines For Multinational Enterprises, 2011, Procedural Guidance, p. 73. Disponibile al link: https://www.oecd.org/daf/inv/mne/48004323.pdf .
[20] OCSE, OECD National Contact Points for Responsible Business Conduct: http://mneguidelines.oecd.org/ncps/.
[21] O. DE SHUTTER, Transnational Corporations and Human Rights, Portland, Hart Publishing, 2006, pp. 8-9.
[22] A. BONFANTI, op. cit., p. 199.
[23] OCSE, Report of the National Contact Point of Chile on the Case of the Multinational Company Marine Harvest Chile S. A., 6 November 2003, p. 1. Disponibile al link: https://www.subrei.gob.cl/docs/default-source/punto-nacional-de-contacto/instancias/report-of-ncp-of-chile-marine.pdf?sfvrsn=5753de62_2.
[24] Ibid.