Come dottrina e giurisprudenza chiariscono le difficoltà interpretative legate all’idoneità e univocità degli atti per la configurazione del tentativo
Introduzione
Il tentativo è una delle figure di diritto penale che pone ai giuristi non poche difficoltà riguardo i presupposti della sua configurazione. Lo scopo che mi prefiggo con questo articolo è quello di fornire quanto più possibile i rudimenti relativi alla figura del delitto tentato.
Le teorie più importanti sul tentativo
Il concetto moderno di tentativo[1] è stato indicato per la prima volta dai giureconsulti italiani del medioevo che ravvisarono nella figura incriminatrice in esame il concetto latino “cogitare, agere, sed non perficere”.
Tale concezione è stata riportata nel nostro codice penale nel primo comma dell’art. 56 c.p. secondo cui:
“Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica”.
Occorre precisare che nella sua struttura, il tentativo si presenta in maniera completa sotto il profilo dell’ elemento soggettivo, il quale ha come presupposto il dolo[2], e in maniera incompleta sotto il profilo oggettivo, in quanto l’ipotesi delittuosa delineata dal legislatore si è verificata solo in parte.
Secondo un’autorevole dottrina[3], il tentativo può manifestarsi sotto un duplice aspetto:
- Tentativo incompiuto: il caso in cui il ladro, sorpreso mentre sta scassinando la porta, fugge via.
- Tentativo compiuto: si pensi al caso in cui il soggetto attivo spara un colpo di pistola che va a vuoto contro il soggetto passivo.
In sintesi, nel primo caso il tentativo è incompiuto perché il ladro non ha acquisito l’impossessamento del bene ai fini della configurazione del furto. Nella seconda ipotesi invece non si è verificato l’evento morte in seguito all’azione dolosa commessa dall’agente. Occorre altresì precisare che queste due forme di tentativo le ritroviamo nell’art. 56 c.p. nella parte in cui recita “se l’azione non si compie o l’evento non si verifica”.
Pertanto, le sottese difficoltà anticipate in fase introduttiva le si rinviene nei due requisiti aggiuntivi per la sua configurabilità enunciate dall’art. 56 c.p :
- Gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto
- L’idoneità degli atti.
Prima di esaminare questi due requisiti, è necessario affrontare preliminarmente la ratio sottesa alla punizione del tentativo nonostante la sua parziale oggettività.
Perché il tentativo è punibile?
Un’autorevole dottrina[4], ha ritenuto che ciò che giustifica la punizione del reato tentato è la violazione volontaria di un precetto penale.
Secondo un altro Autore[5] invece il tentativo non è soltanto intenzione, ma intenzione manifestata; esso è un proponimento tradotto in un’azione che opera nel campo esteriore e come tale rilevante per il diritto che, per giunta, rivela un’individualità capace di ribellarsi alla legge.
Queste due enunciazioni si basano solo sul manifesto carattere antigiuridico del tentativo.
Per un terzo Autore[6], queste due posizioni dottrinali non sono sufficienti a fornire una spiegazione approfondita sulla ratio della punibilità del tentativo.
A modo di vedere di quest’ultima teoria, il presupposto dell’incriminazione del tentativo è da ravvisarsi non in un concetto generale della figura giuridica in esame bensì nell’analisi comparativa di ogni singolo reato che si manifesta nel caso di specie.
Occorre altresì precisare che la fattispecie di cui all’art. 56 c.p è un reato a sé stante che opera sempre affiancando un altro reato, precisamente un delitto. Nel tentato omicidio, per esempio, opera il combinato disposto di cui all’art 56 e 575 c.p.
Avendo chiaro questo concetto risulta di facile comprensione la teoria in esame, dalla quale si desume che la nozione di punizione del tentativo si può capire in base al modo in cui il legislatore ha creduto di configurare l’ipotesi astratta del singolo reato.
In sintesi riguardo la punibilità del tentativo che viene disciplinata dai commi successivi al primo nell’art. 56 c.p, vi sono svariate teorie, ma ciò che accomuna le diverse interpretazioni sta nel fatto che il tentativo è punibile sulla base del presupposto che in esso vi sono tutti caratteri antisociali anzidetti con l’aggiunta dei presupposti dell’idoneità e dell’univocità.
Univocità ed idoneità degli atti: quando sussistono
Sotto il profilo dell’univocità, la difficoltà sta nel rispondere al quesito “quando un atto può essere considerato diretto in modo non equivoco a commettere un delitto?”
Un noto Autore[7] è stato indotto ad interpretare il requisito dell’univocità sulla base dell’intenzione criminosa, consistente in un mero fatto psichico che non può essere accertato direttamente ma desunto principalmente dal comportamento esteriorizzato dal soggetto.
Per contro, un autorevole dottrina[8] ha ritenuto non accoglibile questa soluzione trattandosi di un mero dato soggettivo “se il legislatore l’avesse ritenuta sufficiente avrebbe usato l’espressione: atti diretti a commettere un delitto.”
Le parole del codice pronunciate nella disposizione “atti diretti in modo non equivoco” hanno invece un evidente carattere oggettivo dell’azione. Pertanto, secondo questa teoria, se l’univocità consiste in una condotta oggettiva del reo è necessario che sia posta in essere un’azione che, secondo l’id quod plerumque accidit, non viene compiuta se non per commettere quel dato fatto criminoso”[9].
Il requisito dell’univocità oggettiva importa che l’azione abbia avuto determinate condizioni:
- La chiara evidenza del fine a cui tende l’azione
- L’esclusione di un’apprezzabile probabilità che il reo desista dal condurla a termine
Sotto il profilo dell’idoneità degli atti, va precisato che, secondo l’Antolisei, il tentativo è punibile perché alla sua base vi è la radice di una forte probabilità di pericolo.
Di conseguenza il requisito dell’idoneità, tassativamente richiesto dal codice, deve considerarsi sussistente in tutti quei casi in cui il soggetto attivo ha agito con un piano criminoso che esteriormente presentava buone probabilità di successo.
Secondo un processo induttivo, l’Autore ha ritenuto quindi che il giudizio sull’idoneità non debba essere formulato ex post, alla stregua delle singole circostanze esistenti nel caso di specie, ma per mezzo di un giudizio ex ante.
“Il magistrato in altre parole, deve riportarsi al momento in cui l’azione è stata posta in essere, ed esprimere il giudizio tenendo conto delle circostanze che in quel momento potevano essere conosciute. Egli riterrà idonea l’azione quando, sulla base di tali elementi, si presenta adeguata rispetto al risultato a cui era diretta: la riterrà inidonea negli altri casi.”
È interessante notare inoltre come questa teoria abbia trovato forma nella recente sentenza della Cassazione, secondo cui:
“In tema di delitto tentato, l’accertamento della idoneità degli atti deve essere compiuto dal giudice di merito secondo il criterio di prognosi postuma, con riferimento alla situazione che si presentava all’imputato al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni prevedibili del caso”[10].
Qualora manchi il requisito dell’idoneità dell’azione si ha la figura giuridica di cui all’art. 49 c.p, definita “reato impossibile”.
Nel secondo comma il codice recita:
“la punibilità è altresì esclusa quando, per l’inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”.
Il classico esempio di scuola del reato impossibile è la condotta del soggetto attivo volta ad uccidere il soggetto passivo mediante la somministrazione di acqua e zucchero invece che di veleno.
Occorre altresì precisare che il terzo comma dell’art. 49 c.p prevede che se nonostante il tentativo non sia configurabile per i motivi suesposti, concorrono nel fatto gli elementi costitutivi di un reato diverso, si applica la pena stabilità per il reato effettivamente commesso.
Orientamento giurisprudenziale
Alla luce di quanto espresso sin ora, a parere di chi scrive, è necessario estrapolare a questo punto due fattori:
- La forte probabilità del pericolo scaturente dalla condotta
- Il giudizio ex ante operato dal giudice per la valutazione dell’univocità degli atti.
A mio modo di vedere, questi due elementi, inglobati dagli autori nel vasto oceano della dottrina, rappresentano i punti cardine su cui la giurisprudenza ha orientato la sua posizione. Infatti è possibile notare come in una recente pronuncia la Cassazione ha enunciato che:
“nell’ottica dell’art 56, gli atti non possono essere in astratto distinti e classificati in atti preparatori ed atti esecutivi, poichè ciò che assume significato è l’idoneità causale degli atti compiuti per il conseguimento dell’obiettivo delittuoso nonchè la univocità della loro destinazione, da apprezzarsi con valutazione ex ante in rapporto alle circostanze di fatto ed alle modalità della condotta“[11].
In questo contesto la Cassazione supera la distinzione tra atti preparatori ed esecutivi poiché ciò che veramente rileva è l’idoneità e l’univocità da valutarsi con giudizio ex ante in base alle circostanze del caso di specie.
Sempre nella stessa sentenza, la Cassazione continua “ai fini del delitto tentato, rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, potendosi cioè affermare che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili, ed indipendenti dalla volontà del reo.”
Risulta evidente come la seconda condizione sulla probabilità del pericolo ricavata dalla dottrina si faccia strada in questa massima. La quale, insistendo nel superamento della bipartizione tra atti preparatori ed esecutivi, pone in rilievo il fattore che la condotta criminosa possa essere presa in considerazione ai fini della configurabilità del tentativo, dal momento in cui sia iniziata la sua attuazione con la significativa probabilità di conseguire lo scopo criminoso.
Pertanto a conferma di questa analisi risultano innumerevoli le recenti sentenze che seguono questo orientamento giurisprudenziale.
Conclusioni: la giurisprudenza può esistere senza la dottrina?
In conclusione, consapevoli delle difficoltà interpretative inerenti al delitto tentato siamo partiti dalla struttura normativa, abbiamo affrontato l’analisi relativa alla ratio della punibilità del tentativo per poi soffermare l’attenzione sulla dottrina.
Gli Autori ci hanno indicato la strada e i principi su cui la Cassazione ha soffermato il proprio orientamento giurisprudenziale che ha fornito infine la chiave di volta.
Alla luce di quanto appena esposto mi preme sottolineare una mia posizione che ritiene la dottrina essere anticipatrice alla giurisprudenza, anche nel mondo dei pratici i quali lamentano costantemente che nei libri dei giuristi non si trova mai niente.
Giungo al termine di questo mio breve scritto facendo mie le parole del Siniscalco il quale recita “nessuna luce per la risoluzione dell’ardua questione può trarsi dalla giurisprudenza, la quale, priva di un chiaro indirizzo, è quanto mai incerta ed oscillante”.
Informazioni
Cavallo, Il delitto tentato, p. 58
Antolisei, Manuale di diritto penale, p. 487
Manzini, Trattato, vol II, p. 537
Maggiore, Diritto penale, p. 414
Carrara, Programma, p. 358
Scarano, Il tentativo, p.7
http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/16/il-dolo-dimpeto-brevi-cenni/
Cass. pen. Sez II, 12/07/2019. n 36311
Cass. pen. Sez V, 20/05/2019. n 33497
[1] Cavallo, il delitto tentato, p. 58
[2] Per approfondimenti sul dolo si consiglia: http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/16/il-dolo-dimpeto-brevi-cenni/
[3] Antolisei, Manuale di diritto penale, p. 487
[4] Manzini, Trattato, vol. II, p. 537
[5] Maggiore, Diritto penale, p. 414
[6] Antolisei, Manuale diritto penale, p. 500
[7] Carrara, Programma, p. 358
[8] Scarano, il tentativo, p. 7
[9] Cavallo, il delitto tentato, p. 58,
[10] Cass. pen. Sez II, 12/07/2019. n 36311
[11] Cass. pen. Sez V, 20/05/2019. n 33497

Francesco Altieri
Ciao, sono Francesco. Laureato in Giurisprudenza all’Università Lumsa di Roma con la tesi in diritto costituzionale “Criteri che disciplinano i rapporti tra le fonti del diritto italiano e i modi di soluzione dell’antinomie. La crisi del principio gerarchico” (Relatore Prof. Guido Letta), mi occupo di diritto d’impresa in ambito penale, amministrativo e ambientale. Lavoro per uno studio legale e sono consulente dell’ufficio legale A.N.C.S.A. (Associazione Nazionale Centri Soccorso Autoveicoli). Inoltre nutro un forte interesse per l’equine law, ramo del diritto di matrice anglosassone relativo a tutte le questioni legali attinenti al mondo dei cavalli sportivi.
Ho fatto parte di DirittoConsenso da aprile 2020 a gennaio 2021.