Breve riflessione a margine del regime di rigore dettato dall’art 41 bis o.p: istituto fortemente discusso e discutibile
Genesi storica dell’istituto
L’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario fa il suo ingresso all’interno del sistema carcerario italiano con la c.d. riforma Gozzini del 1986[1].
Inizialmente la norma in esame si caratterizzava per un unico comma, il primo, che, in analogia con l’abrogato articolo 90 o.p. andava a delineare un meccanismo volto a contrastare le situazioni di emergenza suscettibili di venire ad esistenza all’interno dei singoli carceri.
È solamente con il d.l. 306/1992, convertito in legge nell’agosto del medesimo anno, che la normativa si colora di un ulteriore comma, il secondo, che delinea il germe della normativa poi nota come “carcere duro”.
Con tale disposizione si va infatti ad introdurre un complesso di previsioni di particolare rigore volte a disciplinare la vita all’interno degli istituti penitenziari per i detenuti condannati per particolari fattispecie criminose riconducibili al contesto mafioso. La necessità di un particolare rigore, sommata all’idea di non cedere neppure di fronte alla più eversiva delle offese alla criminalità[2] sono quindi all’origine di tale istituto.
La fattispecie, tuttavia, almeno nel progetto legislativo originario, doveva esser caratterizzata oltre che dallo spiccato carattere emergenziale anche eccezionale. Infatti l’idea era quella di limitarne l’efficacia ai tre anni successivi all’entrata in vigore della legge di conversione ma, la lotta alla criminalità organizzata determinò una proroga della situazione emergenziale negli anni successivi, inizialmente di tre anni in tre anni, fino alla sua definitiva stabilizzazione con la legge 279/2002.
A tale legge si deve, inoltre:
- un primo intervento riformatore con cui si andò a prevedere un criterio soggettivo per individuare i destinatari del provvedimento che sospende le ordinarie regole di trattamento da affiancarsi al criterio, già presente, di carattere oggettivo. Così che non è più sufficiente il solo richiamo al titolo di reato ma, è anche necessario che vi sia la prova dell’attuale persistenza di collegamenti con le organizzazioni criminali di riferimento al fine di poter sottoporre il condannato al regime del 41 bis.
- un secondo intervento novellatore è stato effettuato, invece, ad opera della l. 94/2009 e si caratterizza per un complesso di misure volte a soddisfare la richiesta di sicurezza, accentuando il sistema del doppio binario penitenziario volto a contrastare la criminalità organizzata di stampo mafioso, nella prospettiva di inasprire il regime e di ampliarne l’ambito operativo per «rendere ancora più difficile ai detenuti la possibilità di mantenere collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza[3]»
Modalità di adozione del regime del 41 bis
Sebbene l’esigenza securitaria connessa specialmente al contesto della criminalità organizzata – area entro cui la normativa trova prevalentemente attuazione – sia l’elemento caratterizzante la normativa in esame, questa necessità ha portato all’introduzione di un regime di particolare rigore a cui sottoporre il detenuto.
Proprio in ragione di ciò, numerosi sono stati gli interrogativi suscettibili di venire in evidenza in relazione, soprattutto, alla tutela di alcuni diritti fondamentali fortemente frustrati dal regime dell’art 41 bis o.p. per la risoluzione dei quali, spesso, è stato necessario l’intervento dei giudici della Consulta.
Fortemente opinabili sono, in prima battuta, le modalità con cui il trattamento in esame viene applicato ai detenuti. Il secondo comma della normativa prevede, infatti, che tale compito spetti al Ministro di Giustizia, di concerto con varie autorità giudiziarie ed organi di polizia variamente coinvolti nel procedimento[4], che dispone la soppressione del trattamento ordinario mediante decreto motivato.
Si tratta, com’è evidente, di un atto avente natura sostanzialmente amministrativa impiegato senza tenere in minima considerazione il fatto che il medesimo incide su una libertà fondamentale, andandola a limitare, in evidente dispregio della previsione dell’art. 13 cost. che riserva la legittimazione ad adottare provvedimenti che incidono sulle libertà fondamentali esclusivamente ad un atto motivato dell’autorità giudiziaria[5] e non, dunque, ad un atto amministrativo.
A ciò si aggiunga poi che il provvedimento ha una durata massima di quattro anni, prorogabile, però, ogni volta per due anni dando vita ad una durata, di fatto, sine die.
Il “cuore” delle restrizioni impartite
Per quanto riguarda, poi, il contenuto delle prescrizioni impartite ai detenuti in attuazione del regime in esame, esso è analiticamente descritto all’interno del comma due quater. Le limitazioni in esso indicate operano a “trecento sessanta gradi” e sono dunque, idonee a coinvolgere ogni aspetto della vita del detenuto.
Anzitutto i detenuti sottoposti al regime del 41 bis o.p. sono ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all’interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto e custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria. Tale restrizione è volta a prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza, contrasti o interazioni con membri di altre organizzazioni.
Scendendo poi nel “vivo” delle restrizioni, contenute nelle lettere da b) ad f) si prevede: la possibilità di effettuare colloqui nella misura di uno al mese, videoregistrati e sottoposti a controllo auditivo, esclusivamente con familiari e conviventi, salvo casi eccezionali. C’è la possibilità, per coloro che non effettuano colloqui, previa autorizzazione, di usufruire di un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti sottoposto a registrazione. I colloqui con i familiari, inoltre, devono avvenire in apposite sale o, meglio, in appositi “locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti” e, quindi, in un contesto di assoluta costrizione, trovandosi il detenuto dietro un vetro a tutt’altezza attraverso il quale può solo vedere il familiare senza potersi avvicinare e senza avere alcun contatto fisico[6].
Solamente nel caso in cui il colloquio avvenga con un figlio minore infradodicenne, o un nipote infradodicenne, gli sarà consentito lo svolgimento dello stesso, anche senza il vetro divisorio[7].
Inizialmente, limitazioni erano previste anche al numero di colloqui con i difensori. Su tale limite è tuttavia intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n.143/2013 dichiarandone l’illegittimità per la parte in cui limitava il numero di colloquio fruibili con i difensori a tre a settimana, in quanto in contrasto con i principi enunciati negli artt. 3, 24 e 111 terzo comma, Cost.
Restrizioni sono poi previste per quanto attiene al peculio, alla ricezione di bene dall’esterno nonché, alla permanenza all’aperto.
Relativamente a ciò infatti la norma prevede una limitazione a due ore al giorno di permanenza all’aperto in gruppi non superiori a quattro persone e, con la previsione delle opportune misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi.
Su tale previsione è doppiamente intervenuta la Corte Costituzionale. Sono due le sentenze:
- con la sentenza n. 186/2018, è venuto meno il divieto di cottura dei cibi in quanto la ratio di tale preclusione era da ravvisarsi esclusivamente nella necessità di evitare che il detenuto acquisisca “potere” e prestigio criminale all’interno del carcere, anche mediante la disponibilità di generi alimentari di particolare pregio, obbiettivo che, ad avviso del giudice ad quem, poteva ben essere evitato mediante altre disposizioni comunque presenti all’interno della l. 354/1975 s.m.i e nel regolamento esecutivo così che, il divieto in questione finiva per rivelare l’incongruità della restrizione rispetto alle finalità di prevenzione del regime differenziato, tale da conferirle carattere di deroga ingiustificata all’ordinario regime carcerario e dotata di valenza meramente afflittiva, con conseguente violazione degli artt. 3 e 27 Cost.
- in tempi recentissimi, la Corte Costituzionale è intervenuta su un ulteriore divieto che da sempre ha caratterizzato il regime dell’art 41 bis o.p., ossia il divieto assoluto di scambio di oggetti tra i detenuti sottoposti al medesimo trattamento. La Consulta, in particolare, con la sentenza n. 97/2020 ha sottolineato come il divieto legislativo, comprensibile tra detenuti assegnati a gruppi di socialità diversi, risulta invece irragionevole se esteso in modo indiscriminato anche ai componenti del medesimo gruppo. Così, da una parte, il divieto non serve ad accrescere le esigenze di sicurezza pubblica, dall’altra, impedisce una sia pur minima modalità di socializzazione: finisce anzi per presentarsi come regola irragionevole, in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, e inutilmente afflittiva, in contrasto con l’articolo 27, terzo comma, della Costituzione[8].
Conclusioni
Dall’ excursus brevemente effettuato emerge come anche in questo ambito si stia sviluppando una sempre maggiore attenzione alla tutela dei diritti fondamentali, in linea con il trend maggiormente garantista che sembrava essersi sviluppato negli ultimi anni, anche in attuazione delle indicazioni sovranazionali.
Tuttavia, a bene vedere, vi è un diritto insopprimibile ed irrinunciabile che invece stenta ad affermarsi all’interno di tale regime di rigore: il riferimento è al diritto alla salute.
Sulla tematica, infatti, la giurisprudenza italiana si è sempre espressa valutando in maniera acritica la rigidità della misura carceraria de quo. La Consulta, in decisioni pregresse, ha sempre contestato la sussistenza di elementi di incompatibilità tra il regime del 41bis e il diritto alla salute. Tale orientamento, seppur in maniera labile, ha subito modifiche solo in tempi relativamente recenti, con sentenze in cui la Corte Costituzionale ha ammesso l’influenza del regime detentivo speciale sulle condizioni psicofisiche dei carcerati[9].
Durante il periodo di emergenza sanitaria tale diritto sembrava aver ricevuto un qualche riconoscimento anche nei confronti dei soggetti sottoposti al regime del 41 bis o.p. come hanno dimostrato alcune “coraggiose” ordinanze del Tribunale e della Magistratura di sorveglianza poi divenute oggetto di ingiustificata critica da parte dell’opinione pubblica[10].
Tuttavia, nonostante tale timida apertura, la scarsa attenzione alla tutela del diritto alla salute è stata ulteriormente confermata con l’introduzione da parte Legislatore dell’emergenza del d.l. 28/2020[11]. La novella, in estrema sintesi, incide sugli artt. 30 bis e 47 ter o.p., andando a prevedere, per l’adozione di tali misure nei confronti dei detenuti sottoposti a regime di “carcere duro” la necessità di un parere obbligatorio – ma si ritiene, non vincolante – sull’istanza che i giudici di sorveglianza devono richiedere al procuratore antimafia in ordine all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del soggetto.
Informazioni
L. Cesaris, Art. 41-bis inF. Della Casa, G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Milano, Cedam, 2011
L. Filippi, G. Spangher, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, prima ed. 2011
A. DELLA BELLA, Il “Carcere duro”, tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali – presente e futuro del regime detentivo speciale ex art.41 bis O.P, Giuffrè 2016.
L. Ionà, L’art. 41 bis ord. Pen. dalle origini ad oggi consultabile su http://www.salvisjuribus.it/lart-41-bis-ord-penit-dalle-origini-ad-oggi/#_ftn40
G. Alberti, per la Corte Costituzionale è illegittimo il divieto di cottura dei cibi imposto ai detenuti al 41 bis in Diritto penale contemporaneo, 2018
S. Romice, brevi note sull’art. 41 bis o.p. in Giurisprudenza penale web, 2017
[1] L. 663/1986
[2] L. Cesaris, Art. 41-bis, in F. Della Casa, G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Milano, Cedam, 2011
[3] L. Cesaris, Art. 41-bis in F. Della Casa, G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, V ed., Milano, Cedam, 2011
[4] Il comma 2 bis prevede infatti che il provvedimento emesso ai sensi del comma 2 è adottato con decreto motivato del Ministro della giustizia, anche su richiesta del Ministro dell’interno, sentito l’ufficio del pubblico ministero che procede alle indagini preliminari ovvero quello presso il giudice procedente e acquisita ogni altra necessaria informazione presso la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, gli organi di polizia centrali e quelli specializzati nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, terroristica o eversiva, nell’ambito delle rispettive competenze
[5] L. Filippi, G. Spangher, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, prima ed. 2011
[6] Tematica, questa, su cui più volte si è pronunciata anche la CEDU. Si veda, a titolo esemplificativo il ricorso n. 65039/01 – Schiavone c. Italia in cui si è affermata la legittimità di tali restrizioni di fatto pregiudizievoli del diritto alla vita familiare e privata sottolineando come “tenuto conto della natura specifica del fenomeno della criminalità organizzata, in particolare di tipo mafioso, e del fatto che molto spesso le visite familiari hanno consentito la trasmissione di ordini e istruzioni verso l’esterno, le restrizioni, certamente importanti, alle visite e i controlli che ne accompagnano lo svolgimento non possano essere considerati sproporzionati agli scopi legittimi perseguiti”
[7] Circolare D.A.P. n.3592/6042 del 9 ottobre 2012 e Circolare DAP n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017
[8] Comunicato della Corte Cost. consultabile su https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2020/05/comunicato-stampa-corte-cost.pdf
[9] Corte Costituzionale, sentenza n. 186/2018
[10] Il riferimento va all’ ordinanza del Tribunale di sorveglianza Sassari del 23 aprile 2020 e all’ordinanza della Magistratura di sorveglianza di Milano del 20 aprile 2020
[11] Dello stesso autore, su tematica affine, articolo DirittoConsenso consultabile al link http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/30/il-sovraffollamento-carcerario-covid19/

Rebecca Giorli
Ciao, sono Rebecca. Sono nata a Lucca nel 1994. Mi sono laureata in Giurisprudenza presso l'Università di Pisa con una tesi sul trattamento penitenziario per i condannati per i reati di criminalità organizzata. Attualmente svolgo il tirocinio formativo ex art 73 d.l. 69/2013 presso la Procura della Repubblica di Lucca. Nutro un forte interesse per il diritto penale e penitenziario, in particolar modo per quanto riguarda i reati di criminalità organizzata.
Ho fatto parte di DirittoConsenso da marzo 2020 ad aprile 2022.