La lotta per la libertà religiosa in Israele passa da un piccolo gruppo di donne noto come Women of the Wall

 

Le Women of the Wall

Un movimento affascinante in Israele, ancora poco noto all’estero, sono le Women of the Wall. Si tratta di un gruppo di donne, attivo dagli anni Ottanta, che riunisce ebree di varie denominazioni e provenienza accomunate dal desiderio di poter pregare in modo egualitario al Muro Occidentale, meglio noto in Italia con il termine “Muro del Pianto”.

L’interpretazione prevalente dell’Ebraismo ortodosso prevede che solo gli uomini possano officiare pubblicamente la tefillah (preghiera pubblica), leggere dal sefer (rotolo della Bibbia) ed indossare ornamenti sacri chiamati tefillin. Le correnti dell’Ebraismo riformato e conservative, ma anche alcune comunità che si identificano come Modern Orthodox, al contrario consentono, ed anzi incoraggiano, le fedeli ad adottare tali pratiche religiose. L’ebraismo progressista è prevalente negli Stati Uniti ma resta una minoranza sia in Europa che in Israele.

Non deve quindi destare sorpresa la scelta delle autorità israeliane, dopo la conquista di Gerusalemme nel 1967, di affidare l’amministrazione del Kotel (Muro Occidentale) ad un rabbino ortodosso e trasformare quindi lo spazio antistante al Muro in un luogo di preghiera secondo i canoni dell’ebraismo ortodosso. Donne e uomini, di conseguenza, sono stati separati da una mekhizà. Si tratta di una barriera divisoria che garantisce il rispetto delle regole di modestia. Secondo tali standard, le letture pubbliche della Torah possono avvenire solo nell’area maschile ed è considerato offensivo che una donna indossi in pubblico gli ornamenti sacri riservati agli uomini o preghi a voce alta.

Nel 1988 un gruppo di partecipanti alla Jewish Feminist Conference a Gerusalemme si è incontrato per la prima volta per pregare al Muro e da questo evento ha preso vita il primo nucleo delle Women of the Wall, che a partire dal 1988 si riunisce regolarmente, ancora oggi, per pregare assieme.

Gli eventi hanno incontrato da subito l’aperta ostilità di altri presenti, sia uomini che donne. Non di rado tali scontri hanno portato a pestaggi veri e propri che hanno reso necessario l’intervento della polizia.

A seguito di alcuni episodi particolarmente seri, le Women of the Wall hanno deciso di avviare una lunga battaglia, sia politica che legale, per poter pregare secondo le proprie usanze nel luogo-simbolo dell’ebraismo contemporaneo.

 

La battaglia legale

Nel 1989 le Women of the Wall hanno presentato un’ufficiale petizione al governo perché venisse loro consentito di poter pregare[1] indisturbate al Kotel. A tale richiesta il governo ha opposto un secco rifiuto, affermando che le azioni del gruppo fossero in contrasto con i “costumi locali” e rischiassero di offendere la sensibilità degli altri fedeli.

Il gruppo ha quindi deciso di appellarsi alla Corte Suprema, avviando un lungo contenzioso.

Nel 2002 la Corte Suprema si è pronunciata a favore delle Women of the Wall, ma la decisione è stata ribaltata in appello. Nella decisione del 2003, la Corte ha ritenuto le preghiere del movimento in contrasto con la sicurezza e l’ordine pubblico. Le funzioni avrebbero dovuto spostarsi in una piattaforma vicina, il Robinson’s Arch, sul sito archeologico adiacente al Kotel. Trattandosi di una piattaforma secondaria non utilizzata a scopi liturgici, avrebbe dovuto essere adattata per diventare luogo di culto. In ogni caso, la soluzione non ha pienamente soddisfatto le Women of the Wall, che hanno iniziato a tenere funzioni presso il Robinson’s Arch a partire dal 2004 ma hanno in parte proseguito ad officiare e indossare gli ornamenti da preghiera al Muro[2].

Diverse esponenti del movimento sono state arrestate[3], dal momento che la decisione della Corte Suprema aveva dichiarato tali pratiche illegali al di fuori dell’area designata.

A partire dal 2012 il governo israeliano si è impegnato per cercare di trovare una soluzione per la questione.

Dopo aver stabilito che le pratiche religiose delle Women of the Wall non fossero in contrasto con i costumi locali e le stesse non usassero violenza fisica o verbale verso gli altri fedeli, un tribunale ha autorizzato il movimento a pregare liberamente al Kotel, in contrasto con la decisione della Corte suprema del 2003[4]. Nel gennaio 2016, il governo israeliano ha approvato un piano per costruire uno spazio idoneo da adibire per la preghiera egualitaria al Kotel, fuori dal controllo del Rabbinato ortodosso[5].

Tale decisione è stata tuttavia avversata dagli esponenti più conservatori del governo e dalle autorità religiose ortodosse. Contro tale intervento si è pronunciato anche il Waqf islamico, responsabile della gestione delle moschee della Spianata del Tempio[6], in quanto le modifiche che la creazione di una nuova area comporterebbe potrebbero mettere a rischio lo status quo dei luoghi sacri. Ad ogni modo, nel 2017 il piano è stato sospeso a causa di contrasti sorti all’interno dello stesso governo, della cui coalizione facevano parte partiti ultra-ortodossi. La lotta delle Women of the Wall, ad ogni modo, non è finita: in attesa della creazione di un’area “pluralistica”, continuano a ritrovarsi al Muro e cercare, tramite campagne ed altre azioni, di ottenere visibilità e consenso nella società civile israeliana[7].

 

Israele come sistema “neo-millet”

Lo Stato di Israele ha un sistema giuridico peculiare, che presenta caratteri sia di civil che di common law. Il tratto più caratterizzante, tuttavia, rimane la sua configurazione come sistema “neo-millet”.

Il termine “millet”, traducibile come nazioni, designava nell’Impero Ottomano i gruppi nazional-religiosi a cui era conferita una particolare autonomia in virtù del favor che il diritto islamico attribuiva loro in quanto dhimmi, confessioni religiose “tollerate”. Tale autonomia trovava espressione non solo in ambito religioso ma anche in ambito giuridico, in relazione alla disciplina giuridica sullo status personale. La normativa sul diritto di famiglia e successioni, dunque, trovava applicazione non su base territoriale bensì personale. Differenti appartenenze religiose, in altre parole, comportavano l’assoggettamento a distinte sfere di competenza giuridica.

L’attuale Israele è stato costola dell’Impero Ottomano fino al suo crollo, a seguito della Prima guerra mondiale. Nel 1920, con il Mandato Britannico sulla Palestina, il common law iniziò a penetrare nel sistema giuridico ma le autorità inglesi preferirono non intervenire in un’area sensibile come il diritto di famiglia, confinando l’applicazione del diritto inglese all’ambito commerciale e penale. Nel 1948, con la nascita dello Stato di Israele, la discussione su quale assetto dare allo Stato ebraico fu posticipata sia per la necessità di affrontare un conflitto armato che su pressione della minoranza palestinese, che guardava con sospetto ad eventuali interventi statali in settori delicati come il diritto familiare.

Le contingenze storiche hanno finito, di fatto, per cristallizzare l’ossatura del sistema pre-esistente. Israele è quindi rimasto un sistema neo-millet, al pari del Libano e, sorprendentemente, la Grecia. Will Kymlicka, uno dei principali teorici del multiculturalismo liberale, riteneva il sistema dei millet incapace di tutelare gli individui dalle cd “restrizioni interne”[8], le discriminazioni attuale dal gruppo nei confronti di alcuni membri, dal momento che, contestualmente all’identificazione dei gruppi, richiede l’individuazione di un vertice. Durante l’epoca ottomana, il Patriarca e il Gran rabbino di Costantinopoli ricoprivano tale funzione.

Per i 6 milioni di cittadini israeliani di religione ebraica, la giurisdizione in ambito di matrimonio e divorzio è di esclusiva competenza delle corti religiose del Rabbinato ortodosso. Su questa ossatura si sono inserite delle normative che, in qualche modo, “limitano” il carattere neo-millet. La legge sulle convivenze attribuisce ai conviventi more uxorio diritti analoghi a quelli delle coppie sposate. Viene altresì riconosciuto il diritto del partner non ebreo a chiedere la cittadinanza congiuntamente al coniuge, anche se il matrimonio è tra persone dello stesso sesso. Sono riconosciuti i matrimoni contratti all’estero, prassi diventata assai comune per coppie miste o laici. Tuttavia, la celebrazione di matrimoni ebraici non ortodossi resta proibita e lo status personale dell’individuo, inclusa la propria appartenenza alla religione ebraica (o, potremmo dire, al ‘millet’), viene determinato dal Rabbinato ortodosso.

La lotta delle Women of the Wall si inserisce in una richiesta più ampia di riconoscimento e, in ultima analisi, cerca di portare l’attenzione sul delicato problema della libertà religiosa in Israele.

Finora contingenze storiche e politiche hanno spostato tale dibattito in secondo piano, ma la questione resta aperta e tocca il cuore dell’identità dell’odierno Stato di Israele, Stato che fin dalle origini cerca di identificarsi come “ebraico e democratico”, nonché “patria nazionale del popolo ebraico”: sì, ma quale ebraismo? Per Anat Hoffman, leader delle Women of the Wall, “esiste più di un modo di essere ebrei”[9].

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