Il codice penale come sede naturale della disciplina in materia di maltrattamento di animali

 

Introduzione

Il maltrattamento di animali rappresenta una delle molte piaghe della nostra società ed è difficile comprendere le ragioni e le motivazioni soprattutto se consideriamo che gli animali sono da sempre un aiuto fondamentale ed essenziale nelle nostre vite.

È difficile immaginare la nostra vita senza di loro che, da moltissimo tempo, colorano la nostra quotidianità e ci aiutano nello svolgimento di diverse attività: infatti, in alcuni casi sono ottimi colleghi di lavoro che aiutano l’agricoltore o il poliziotto nello svolgimento delle loro mansioni, altre volte, attraverso la pet therapy, aiutano bambini e adulti con gravi disabilità cognitive e/o motorie oppure, come spesso accade, entrano “semplicemente” nelle nostre vite come compagni e membri della famiglia a tutti gli effetti[1]. Purtroppo, nonostante l’importante ruolo ricoperto dagli animali nella vita quotidiana di molti individui, essi sono, ancora troppo spesso, vittime di maltrattamenti.

 

La composizione dell’art. 544-ter c.p.: tra fattispecie di reato e circostanze aggravanti

Il reato di maltrattamento di animali oggi ha sede nell’art. 544-ter c.p., il quale stabilisce che:

Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche è punito con la reclusione da 3 mesi a 18 mesi o con la multa da 5 000 euro a 30 000 euro. La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi. La pena è aumentata della metà se dai fatti dei quali al comma uno deriva la morte dell’animale.

 

Si tratta di una disposizione piuttosto recente introdotta nel nostro ordinamento attraverso la L. 189/2004 la quale ha inserito nel nostro codice penale il Titolo IX bis contenente i reati posti a tutela del sentimento per gli animali.  Pochi anni dopo, la disciplina introdotta nel 2004, è stata sottoposta a modifiche tramite la L. 201/2010, la quale ha previsto delle pene molto più rigide e severe nell’ottica di assicurare una più vasta tutela e protezione degli animali.

Cerchiamo di entrare più nel vivo della fattispecie in esame: l’art. 544-ter c.p. punisce chiunque cagioni delle lesioni o sevizie ad un animale; la giurisprudenza ha, tuttavia, chiarito che, affinché il reato sia consumato, non è necessario che vi siano delle lesioni fisiche, poiché è sufficiente che l’animale si trovi in una condizione di sofferenza. La disposizione si pone come obbiettivo quello di tutelare gli animali in quanto esseri viventi, e non in quanto proprietà, capaci di percepire dolore.

Si configura, altresì, il reato di maltrattamento di animali quando vengono poste in essere delle condotte omissive, ad esempio la mancanza di cure, e, perciò, non solo a fronte di azioni materiali idonee a cagionare lesioni o sofferenze all’animale.

Occorre però chiarire che, a fronte di una azione commissiva o omissiva lesiva dell’integrità e della vita dell’animale e commessa per crudeltà, il reato ex art. 544-ter c.p. si configura come reato a dolo specifico; invece, tale norma assume le vesti di reato a dolo generico quando l’azione/omissione è tenuta senza necessità. In altri termini, se vengono posti in essere degli atti capaci di provocare gravi sofferenze nell’animale animati da motivazioni futili prive, cioè, di un giustificato motivo, affinché si integri il reato di maltrattamento è sufficiente il dolo generico che è, appunto, ricavabile dalla mancanza di necessità. Non è tutto: infatti, ai fini della configurabilità della disposizione in esame, può bastare la coscienza e la volontà di causare sofferenza ad un animale e l’accettazione di essa.

Il secondo comma dell’art. 544-ter c.p. punisce, inoltre, chi “somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate, oppure li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi”. Il legislatore, per la priva volta, condanna in questo modo il c.d. reato di doping a danno di animali, ponendosi come obbiettivo quello di limitare e, se possibile, evitare la pratica delle scommesse clandestine e delle competizioni tra animali.

Il terzo comma dell’art.544-ter c.p. disciplina una speciale circostanza aggravante che comporta un aumento di pena nel caso in cui dal maltrattamento derivi la morte dell’animale; occorre, però, l’evento morte sia colposo e non doloso. In altri termini, la morte deve essere una conseguenza non voluta del maltrattamento dell’animale da parte del soggetto agente. Nel caso di morte voluta, e perciò dolosa, si configurerebbe il reato di uccisione di animali che trova sede nell’art. 544-bis c.p.: “chiunque per crudeltà o necessità cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni”.

 

Procedibilità dell’art. 544-ter c.p.

Il reato di maltrattamento di animali ex art. 544-ter c.p. è perseguibile d’ufficio, perciò quando l’autorità giudiziaria entra a conoscenza di un fatto che, ipoteticamente, può essere riconducibile alla fattispecie in esame deve procedere autonomamente con le indagini, senza che sia necessario un impulso o una sollecitazione da parte di terzi o della persona offesa. In ogni caso, la notizia di reato può provenire da qualsiasi soggetto, il quale può rivolgersi direttamente alle autorità oppure può richiedere l’intervento delle associazioni animaliste o degli enti riconosciuti che, in base a quanto previsto dall’art.7 della L. 189/2004, perseguono finalità di tutela degli interessi lesi dai reati previsti dalla legge ex art. 91 c.p.p.

Nello specifico l’art. 7 della L. 189/2004 prevede espressamente che “ai sensi dell’articolo 91 del codice di procedura penale, le associazioni e gli enti di cui all’articolo 19- quater delle disposizioni di coordinamento e transitorie del codice penale[2] perseguono finalità di tutela degli interessi lesi dai reati previsti dalla presente legge”.

Per determinati soggetti che, invece, vengono a conoscenza del reato di maltrattamento durante lo svolgimento della loro attività professionale, come nel caso di veterinari o liberi professi0nisti, sussiste l’obbligo di denunciare il reato all’autorità.

 

La giurisprudenza in materia di maltrattamento di animali

Tra il 2018 e il 2019 la Corte di Cassazione ha confermato e ribadito che si configura il reato di maltrattamento di animali anche a fronte di condotte capaci di incidere sulla stabilità e serenità psico-fisica dell’animale e, perciò, anche nel caso in cui non si verifichino dei processi patologici.

Ecco alcuni esempi concreti: attraverso la sentenza n. 14734/2019 la Cassazione ha confermato la responsabilità penale del proprietario di alcune aziende agricole che faceva trasportare 63 asini, 12 dei quali manifestavano delle evidenti difficoltà a deambulare a causa delle unghie troppo lunghe[3]. I giudici di legittimità hanno dichiarato che “si è ripetutamente chiarito che la detenzione impropria di animali, produttiva di gravi sofferenze, va considerata, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), attingendo al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali (Sez. 3, n. 37859 del 4/6/2014, Rainoldi e altro, Rv. 260184; Sez. 3, n. 6829 del 17/12/2014 (dep. 2015), Garnero, Rv. 262529), specificando che assumono rilievo non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali per la loro manifesta crudeltà, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psicofisica dell’animale, procurandogli dolore e afflizione (Sez. 7, n. 46560 del 10/7/2015, Francescangeli e altro, Rv. 265267), prendendo in considerazioni situazioni quali, ad esempio, la privazione di cibo, acqua e luce (Sez. 6, n. 17677 del 22/3/2016, Borghesi, Rv. 267313) o il trasporto di bovini stipati in un furgone di piccole dimensioni e privo d’aria (Sez. 5, n. 15471 del 19/1/2018, P.G. in proc. Galati e altro, Rv. 272851). Nel caso di specie, il Tribunale ha posto in evidenza come agli animali, per la lunghezza delle unghie, era impedita o, comunque, resa particolarmente difficoltosa la deambulazione, tanto che uno di essi non riusciva neppure ad alzarsi dal camion ove si trovava, esponendoli a grossi rischi durante l’alpeggio, dovendosi muovere su un terreno che non è piano.”[4].

Le pronunce in materia di maltrattamento di animali sono molte e diverse, ma, senza ombra di dubbio, vale la pena citare la sentenza n. 17691/2019. I giudici della Corte di Cassazione hanno, in questo caso, confermato la colpevolezza dell’imputato che utilizzava, per la pesca sportiva dei pesci siluro, dei piccioni vivi come esche. La risposta della Cassazione, di fronte ad una pratica di questo tipo, è stata sintetica e diretta “il piccione non è un verme”. Nello specifico i giudici di legittimità hanno sottolineato come tutti gli animali siano uguali tra di loro, nonostante occorra per ognuno prende in considerazione la loro diversa natura e le loro divergenti attitudini etologiche. Ciò che potrebbe essere considerato una sevizia o un maltrattament0 per una determinata specie potrebbe non esserlo per un’altra: infatti, i pescatori sportivi utilizzano come esca i vermi vivi e questo impiego non contrasta con le attitudini etologiche delle larve. Ben diverso è il caso dei volatili e, in questo caso, dei piccioni i quali, affinché possano essere utilizzati come esche, vengono dapprima ridotti in cattività per poi essere seviziati attraverso dei ripetuti tentativi di affogamento che, inevitabilmente, causano loro gravi sofferenze di carattere psico-fisico.[5]

Tramite questa breve carrellata di pronunce emerge certamente una disciplina che, negli anni, si svela sempre più garantista nei confronti degli animali, i quali sono destinatari di norme volte ad assicurarne una tutela e protezione psico-fisica.