Nullum crimen vs tempus regit actum: breve excursus degli orientamenti contrapposti in tema di norme che governano la fase dell’esecuzione penale

 

Il dibattito sulle norme che regolano la fase dell’esecuzione penale

Circa la natura delle norme che governano la fase dell’esecuzione penale a lungo si è dibattuto sia in dottrina che in giurisprudenza. Le prospettive adottabili sono sostanzialmente due:

  1. configurare tali fattispecie normative come norme sostanziali oppure
  2. considerarle alla stregua di norme processuali.

 

Considerare la norma come avente natura sostanziale, significherebbe escluderne un’applicazione retroattiva, in conformità con il divieto sancito dall’art 25 co 2 Cost. Viceversa, considerare la norma come avente natura processuale significa precludere il divieto di irretroattività, così che la normativa troverebbe immediata applicazione, anche ai processi chiusi con sentenza di condanna antecedente all’entrata in vigore della novella normativa ma il cui ordine di esecuzione venga emanato successivamente.

 

Le Sezioni Unite del 2006

Ad oggi, in seguito all’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2006, la querelle relativa alle norme che governano la fase dell’esecuzione penale si è, almeno a livello giurisprudenziale, sostanzialmente assestata sulla configurazione delle stesse quali norme processuali con conseguente applicazione del principio del tempus regit actum.

Il fulcro del ragionamento adottato dalla Corte per addivenire a tale configurazione poggia sostanzialmente sull’assunto per cui, le norme che governano la fase dell’esecuzione penale non riguardano l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena ma, soltanto le modifiche della stessa, essendone conseguentemente escluso il carattere di norme penali sostanziali.

Ad avviso della Corte, infatti, il principio di irretroattività delle norme penali si applica solo per le pene inflitte dal giudice della cognizione, ma non anche per le misure alternative alla detenzione stabilite dal giudice di sorveglianza e per ogni altra modalità esecutiva della pena.

A sostegno delle proprie argomentazioni gli Ermellini richiamano quanto statuito dalla Corte Costituzionale nella sentenza 306/1993 in cui la Corte pur osservando che la tesi secondo la quale il principio di irretroattività è dettato, oltre che per la pena, anche per le disposizioni che ne regolano l’esecuzione, “potrebbe meritare una seria riflessione”, finisce per abbandonare la tesi stessa andando a ritenere l’illegittimità costituzionale della norma scrutinata (che era l’art 15 comma 2 D.L. 306/1992) solo in quanto violatrice del principio di ragionevolezza ex art 3 Cost, ma non in quanto lesiva anche del principio di irretroattività.

Nonostante tale approdo giurisprudenziale, in dottrina non è mancato chi[1] ha invece da sempre sostenuto la natura sostanziale delle norme che governano la fase dell’esecuzione penale. L’asserita “neutralità” dell’ordinamento penitenziario sui diritti individuali, posta quale fondamento della natura processuale di tali fattispecie normative ritenute non idonee – a differenza delle norme penali sostanziali – ad incidere sulla porzione di libertà dei singoli, deve necessariamente essere rivalutata a favore, invece, di una riconsiderazione sull’impossibilità di scindere la sanzione criminale del suo effettivo contenuto esecutivo, e dunque in ragione dell’incidenza “sostanziale” sulla libertà personale[2].

 

Il dictum della Corte costituzionale

La Corte costituzionale, tuttavia, con la sentenza n. 32/2020, in maniera dirompente ed in aperta rottura rispetto al passato, ha aperto la strada ad un mutamento di paradigma del “diritto vivente”. La Corte ha sostenuto la natura sostanziale delle norme che governano la fase dell’esecuzione penale quantomeno tutte le volte in cui le modifiche normative, post crimen patratum[3], comportino una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato.

La Corte giunge alla complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall’art. 25 comma 2 Cost., in relazione alla disciplina dell’esecuzione della pena, richiamando, in un’ottica comparatistica, numerose pronunce straniere[4].

Alla luce di tali considerazioni la Corte, tenendo conto anche della doppia anima del principio del nullum crimen – vuoi come garanzia per il destinatario della norma di ragionevole prevedibilità delle conseguenze cui si esporrà trasgredendo il precetto penale, vuoi come bastione a garanzia dell’individuo contro possibili abusi da parte del potere legislativo – dispone l’estensione del disposto dell’art 25 comma 2 Cost. anche alle norme che governano la fase dell’esecuzione penale.

Ad avviso della Corte, infatti – e questo è il cuore pulsante del dictum dalla stessa emesso – se non v’è dubbio che vi siano ragioni assai solide a fondamento della soluzione, sinora consacrata dal diritto vivente, secondo la quale le pene devono essere eseguite – di regola – in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione, e non in base a quella in vigore al tempo della commissione del reato, tale regola deve soffrire un’eccezione allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato. In tal caso, infatti, la successione normativa determina, a ogni effetto pratico, l’applicazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto con conseguente inammissibilità di un’applicazione retroattiva di una tale modifica normativa, al metro dell’art. 25 comma 2 Cost.

Ciò si verifica, paradigmaticamente, allorché al momento del fatto fosse prevista una pena suscettibile di essere eseguita “fuori” dal carcere, la quale – per effetto di una modifica normativa sopravvenuta al fatto – divenga una pena che, pur non mutando formalmente il proprio nomen iuris, va eseguita di norma “dentro” il carcere. Tra il “fuori” e il “dentro” la differenza è radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa.

E ciò vale anche laddove la differenza tra il “fuori” e il “dentro” si apprezzi in esito a valutazioni prognostiche relative, rispettivamente, al tipo di pena che era ragionevole attendersi al momento della commissione del fatto, sulla base della legislazione allora vigente, e quella che è invece ragionevole attendersi sulla base del mutato quadro normativo[5].

 

Riflessioni conclusive

È fuor di dubbio che a tale pronuncia si deve il merito, mediante l’affermazione della natura sostanziale delle norme che governano la fase dell’esecuzione penale, di aver ricondotto a giustizia un settore “dimenticato” dal Legislatore. Tuttavia tale pronuncia non è esente da censure critiche.

Se infatti, come poc’anzi affermato, non si può che apprezzare l’approdo a cui la Corte è giunta, discutibile è il fatto che la stessa, nell’indicare in concreto quali siano gli istituti in relazione ai quali opera la garanzia del nullum crimen, vi escluda i benefici penitenziari dei permessi premio[6] e del lavoro all’esterno prevendendo, per questi, la sottoposizione alla disciplina del tempus regit actum.

La Corte[7] giunge a tale esclusione sulla base della considerazione per cui  sebbene non possa disconoscersi il significativo impatto di questi benefici sul grado di concreta afflittività della pena per il singolo condannato, modifiche normative che si limitino a rendere più gravose le condizioni di accesso ai benefici medesimi non determinano una trasformazione della natura della pena da eseguire, rispetto a quella comminata al momento del fatto e inflitta, sì da chiamare in causa la garanzia costituzionale in parola.

L’unico temperamento rispetto all’applicazione “pura” del tempus regit actum¸ è data, in questi casi, dal divieto di regressione incolpevole del trattamento rieducativo per cui laddove, alla data di entrata della novella normativa, il condannato abbia già raggiunto in concreto un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio negare la meritevolezza dello stesso significherebbe disconoscere il percorso rieducativo effettivamente compiuto dal condannato e la funzione pedagogico-propulsiva dello stesso in vista del reinserimento nella società̀ e dell’eventuale concessione di misure alternative alla detenzione.

Come da autorevole dottrina sostenuto[8] la distinzione tra “misure alternative alla detenzione” e “meri benefici penitenziari”, quale selettore del regime intertemporale, non è pienamente condivisibile atteso che risulta affetta da artificiosità e inficiata da esiti controproduttivi.

Se, da un lato, come è stato osservato dalla Corte EDU[9], la distinzione tra misure che costituiscono in sostanza una “pena” e misure che riguardano l’esecuzione della pena,  nella pratica non può essere operata in modo netto e categorico, dall’altro, non si tiene conto del fatto che nella prassi applicativa, l’esperienza positiva del permesso premio o del lavoro all’esterno viene spesso considerata come condizione per l’ammissione alle altre misure alternative, il che potrebbe determinare un notevole ridimensionamento in concreto degli effetti della pronuncia[10].

Nel far dipendere l’operatività della garanzia dalla distinzione tra restrizioni del regime penitenziario e limitazioni della possibilità di accedere alle misure alternative alla detenzione, la Corte sembra trascurare il fatto che “essere punito” significa soffrire o fruire del regime punitivo che esiste nel Paese, in tutte le sue articolazioni[11].

Informazioni

D. NOTARO, Un passo deciso (e atteso) sulla via dell’affermazione delle garanzie costituzionali nella fase dell’esecuzione della pena in diritto penale e processo, 2020

F. BRICOLA, Legalità e crisi: l’art 25 commi 2 e 3 della costituzione rivisitato alla fine degli anni ’70 in Scritti di Diritto penale vol. I, tomo II, Milano 1997

A. GARGANI, L‘estensione ‘selettiva’ del principio di irretroattività alle modifiche in pejus in materia di esecuzione della pena: profili problematici di una decisione ‘storica’ in Giurisprudenza costituzionale fasc. 1, 2020

V. F. MAZZACUVA-V. MANES, Irretroattività e libertà personale: l’art 25 secondo comma Cost, rompe gli argini dell’esecuzione della pena. Note a Corte Cost. sentenza 12 febbraio 2020 n. 32 in www.sistemapenale.it 2020,15

V. G VASSALLI, Giurisprudenza costituzionale e diritto penale sostanziale. Una rassegna in AA.VV. Corte costituzionale e processo costituzionale nell’esperienza della rivista “giurisprudenza costituzionale” per il cinquantesimo anniversario a cura di A. PACE, Milano 2006

Corte Costituzionale, sentenza 12 febbraio 2020 n. 32 consultabile su https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2020&numero=32

Corte EDU, Grande Camera, sentenza 12 febbraio 2008 Kafkaris C Cipro

[1] Si cita, per tutti, F. BRICOLA, legalità e crisi: l’art. 25, commi 2° e 3°, della Costituzione rivisitato alla fine degli anni ’70, in Scritti di diritto penale, vol. I, tomo II, Milano, 1997

[2] Tale interpretazione si è affermata, a livello giurisprudenziale, soprattutto in ambito sovranazionale, dove la Corte EDU, per il tramite del concetto di matière pénale,  è giunta ad affermare l’estensione del raggio di azione dell’art. 7 CEDU a modifiche (di istituti e norme) processuali che avessero ricadute afflittive per il singolo (Scoppola c. Italia) ovvero a mutamenti – anche solo interpretativi – formalmente confinati nel segmento penitenziario ma dalla concreta valenza afflittiva (Del Rio Prada c. Spagna), e più in generale suggerendo una  prospettiva antiformalistica volta ad analizzare problemi e casi “oltre le apparenze” e le nomenclature, appunto, formali. In tal senso si veda anche V. MANES-F MAZZACUVA, irretroattività e libertà personale: l’art 25 cost comma secondo cost rompe gli argini dell’esecuzione penale Note a Corte Cost. sentenza 12 febbraio 2020 n. 32 in www.sistemapenale.it 2020,15

[3] L’espressione sta a significare “dopo che il crimine è stato commesso”

[4] In particolare, menziona il caso Garner v. Jones in cui la Suprema Corte degli Stati Uniti estese alle modifiche delle norme in materia di esecuzione della pena – ed in specie all’istituto del parole – che producano l’effetto pratico di prolungare la detenzione del condannato il divieto generale di ex post facto laws, (ossia divieto di legge retroattiva) peraltro affermandone l’operatività anche solo ove sussista “a sufficient risk of of increasing the measure of punishment attached to the covered crimes” per passare poi al caso Del Rio Prada c. Spagna in cui la Corte EDU ha ribadito che, in linea di principio, le modifiche alle norme che governano l’esecuzione penale  non sono soggette al divieto di applicazione retroattiva di cui all’art. 7 CEDU, eccezion fatta – però – per quelle che determinino una «ridefinizione o modificazione della portata applicativa della “pena” imposta dal giudice», pena, altrimenti, il rischio che gli Stati adottino misure che ridefiniscono retroattivamente la portata della pena imposta in senso sfavorevole per l’interessato.

[5] Considerato in diritto della sentenza C. Costituzionale 32/2020 punto 4.3.3

[6] Su tematica affine si veda, della stessa autrice, “L’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario e i permessi premio” pubblicato su DirittoConsenso consultabile al link: http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/30/larticolo-4-bis-dellordinamento-penitenziario-e-i-permessi-premio/

[7] Considerato in diritto della sentenza C. Costituzionale 32/2020 punto 4.4.1 ss

[8] A. GARGANI, L’estensione ‘selettiva’ del principio di irretroattività alle modifiche in pejus in materia di esecuzione della pena: profili problematici di una decisione ‘storica’ in Giurisprudenza costituzionale fasc. 1, 2020

[9] Vedi in tal senso Corte EDU, Grande Camera, sentenza 12 febbraio 2008 Kafkaris C Cipro, 142

[10] V. F. MAZZACUVA-V. MANES, irretroattività e libertà personale: l’art 25 secondo comma Cost, rompe gli argini dell’esecuzione della pena. Note a Corte Cost. sentenza 12 febbraio 2020 n. 32 in www.sistemapenale.it 2020,15

[11] V.G VASSALLI giurisprudenza costituzionale e diritto penale sostanziale. Una rassegna in AA.VV. Corte costituzionale e processo costituzionale nell’esperienza della rivista “giurisprudenza costituzionale” per il cinquantesimo anniversario a cura di A. PACE, Milano 2006