Questo articolo riguarda un profilo di attualità: l’impatto che il Covid-19 ha avuto sui contratti e sulle obbligazioni

 

Quali sono gli effetti del Covid-19 sui contratti?

L’emergenza pandemica ha prodotto effetti nefasti in ogni ambito del diritto, dal diritto societario[1], al diritto amministrativo[2], al diritto del lavoro[3] arrivando anche al diritto penitenziario[4]. Con questo articolo si porrà attenzione esclusivamente sul diritto privato strictu sensu: obbligazioni e contratti e effetti del Covid-19 in materia contrattuale.

La pandemia, ma soprattutto la numerosa legislazione d’emergenza emanata di volta in volta per contenerne la diffusione, hanno causato quale effetto naturale uno sconvolgimento sopravvenuto all’equilibrio contrattuale che regolava le preesistenti prestazioni nei contratti sinallagmatici. In questa tipologia di contratti l’equilibrio è un elemento essenziale e deve sussistere per tutta la durata della prestazione. L’eventuale vizio o difetto che colpisce una delle due prestazioni è destinato a ripercuotersi inevitabilmente anche sull’altra, poiché quest’ultima diverrebbe irrimediabilmente sproporzionata.

Il legislatore non ha introdotto nuove disposizioni per mitigare gli effetti della pandemia sul rapporto contrattuale, preferendo utilizzare i classici rimedi solutori già previsti dal Codice Civile.

Qualora lo squilibrio sia sopravvenuto durante l’esecuzione del contratto, il Codice Civile offre:

  • il rimedio della rescissione del contratto concluso in stato di bisogno ex art. 1448 c.c. (che non verrà approfondito poiché estraneo alla “disciplina covid-19”) e
  • la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta ex artt. 1463 ss. c.c. e
  • nei contratti di durata, anche la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità ex. art. 1467 c.c.

 

Impossibilità sopravvenuta

Sia nei casi di infezione, sia nei casi in cui una limitazione o una oggettiva difficoltà scaturisca dalle limitazioni della autorità (basti considerare le misure governative previste nel c.d. decreto Natale), la norma cui fare riferimento è prevista all’art. 1256 c.c., la quale prevede:

  • al primo comma una impossibilità definitiva che estingue l’obbligazione e
  • al secondo comma, una impossibilità temporanea che estingue l’obbligazione solo se il creditore non ha più interesse a ricevere la prestazione parziale o in ritardo.

 

In relazione alla pandemia, spesso la prestazione negoziale si mostrerà solo parzialmente o provvisoriamente impossibile, in ragione della provvisorietà dei provvedimenti governativi emessi o comunque nella eccezionalità della situazione sociale in cui ci troviamo. Pertanto, la parte creditrice della prestazione parzialmente impossibile può:

  • sospendere la propria controprestazione e, in alternativa, chiedere una riduzione della prestazione da lui dovuta;
  • recedere dal contratto qualora non abbia interesse all’adempimento parziale.

 

Alla ordinaria disciplina codicistica, il governo ha introdotto, nel turbinio legislativo susseguente alla diffusione del contagio, una norma avente carattere speciale[5] prevedente che “il rispetto delle misure di contenimento è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c. (ovvero le norme generali sulla responsabilità per inadempimento del debitore), anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

La norma speciale assume una particolare rilevanza nel caso di provvedimenti dell’autorità ostative alla esecuzione della prestazione (il c.d. factum principis). Ciò perché un provvedimento dell’autorità che vieti una determinata condotta è idoneo a determinare l’estinzione di un obbligo che si lega inscindibilmente all’adempimento e, pertanto, offre una specificazione in merito all’assoluto esonero di responsabilità del debitore circa l’inadempimento causato dal factum principis volta al contenimento della pandemia.

Era necessaria questa norma speciale in una situazione altrettanto speciale?

Probabilmente si, pur di rimediare gli effetti del Covid-19 sui contratti. La Cassazione in merito alla impossibilità sopravvenuta della prestazione causata dal provvedimento ostativo della Autorità statale (non da Covid-19) è molto restia al riconoscimento assoluto del factum principis quale causa di esonero della responsabilità, poiché richiede, oltre all’elemento oggettivo, anche l’assenza di colpa, la sussistenza della diligenza media e la presenza della Buona Fede (si vedano, tra le molteplici, le pronuncia C. Cass. Sez. III n. 14915/18, Cons. Stato, ad. Plen. N.2/2017).

Invece, con l’articolo 3 comma 6-bis, ogni valutazione giudiziale sembra doversi arrestare alla mera sussistenza del provvedimento della autorità ostativo al corretto adempimento della prestazione.

 

Eccessiva onerosità sopravvenuta

I problemi maggiori nel rapporto tra contratti e Covid-19 sorgono in merito ai contratti di durata continuativa o a prestazioni differite, ossia quelli la cui esecuzione si svolge necessariamente durante un certo periodo di tempo. Prendendo ad esempio la locazione, che è il principale e più usato contratto di durata, la prestazione del locatore continua ad essere resa benché l’utilità che il conduttore ne ricava sia compromessa a causa delle limitazioni dei provvedimenti governativi.

Infatti, non sembrano potersi applicare le disposizioni dell’impossibilità sopravvenuta per il conduttore al fine di consentirgli di recedere dal contratto poiché, salvo nei casi di immediato rilascio, il bene immobile continua ad essere occupato e l’obbligazione di pagamento, in ossequio al principio del genus numquam perit, non si estingue per una oggettiva difficoltà a dare, (tranne ipotesi particolarissime, più di scuola che reali), ma solamente con l’improbabile ritiro di tutti i mezzi di pagamento, pertanto le obbligazioni del conduttore restano possibili.

L’istituto che quindi può venire in essere in questo caso è la risoluzione per eccessiva onerosità definitiva prevista all’art. 1467 c.c.. Questo prevede, in buona sostanza, la risoluzione del rapporto contrattuale qualora si verifichino avvenimenti straordinari ed imprevedibili che determinano un aggravio eccessivo nell’economia del contratto.

Tale rimedio risolutivo non inficia sulla causa del contratto, come l’impossibilità sopravvenuta, ma trova fondamento nell’esigenza di contenere entro limiti di normalità l’alea dell’aggravio economico della prestazione, evitando una eccessiva sproporzione tra i rispettivi rapporti socio-economici.

Il principio giurisprudenziale che regola tale rimedio risolutivo subordina l’eccessiva onerosità ad eventi oggettivi per cui le mere difficoltà economiche del debitore ricadano nella sfera soggettiva e, quindi, non consentono di agire in via risolutiva. Tale principio, a dir il vero, nelle prime pronunce giurisprudenziali riguardante la risoluzione per eccessiva onerosità nei contratti di locazione è stato integralmente confermato[6], ma è chiaro che, un anno di pandemia ha comportato effetti che possono trascendere la nozione di ordinaria congiuntura economica sfavorevole irrilevante, ma potrebbe acquisire i caratteri della straordinarietà e della imprevedibilità che legittimano il debitore ad agire in via risolutiva.

 

Rimedi conservativi

Tutti i rimedi visti fino ad ora fanno cessare sia il contratto che gli effetti del contratto liberando le parti dai reciproci obblighi e diritti, rimuovono il vincolo ma non riequilibrano il sinallagma.

L’art 1467 c.c. sulla eccessiva onerosità sopravvenuta non contempla una (più appropriata in relazione alla pandemia) ipotesi di temporanea riduzione dei corrispettivi, ma conduce unicamente alla demolizione del contratto.

Ciò, se astrattamente è idoneo a salvaguardare un contraente da una sproporzione economica, in realtà “tratta con l’accetta” un tema complesso quale è quello di cui trattiamo. Basti pensare che agire in via risolutiva per una società verso un suo fornitore ha in ogni caso alti costi non economici da sostenere (la cattiva pubblicità, lo strappo alla propria rete di contatti etc), pertanto, fuori dai casi specifici, in generale appare più opportuno conservare il contratto.

Il principale rimedio conservativo del contratto è previsto all’art. 1467 co.3 c.c., che prevede “la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”.

Questa disposizione, seppur astrattamente valida, manifesta in maniera lampante l’inadeguatezza degli strumenti offerti dal codice per il mantenimento in essere del vincolo contrattuale a causa di sopravvenienze.

La norma in oggetto infatti, offre una legittimazione unilaterale al creditore per mantenere in vita il negozio e ridurre ad equità le rispettive obbligazioni, cioè alla parte che, nella maggioranza dei casi, ha meno interesse a vedersi ridurre il valore della prestazione a lui dovuta del debitore. Così appare chiarissimo il fragile sistema che collega contratti e Covid-19.

A questo punto, vista l’inadeguatezza codicistica, vengono in supporto quali rimedi negoziali i più moderni strumenti di diritto internazionale privato riguardanti le c.d. hardship clause, che, in buona sostanza, gestiscono gli eventuali fatti sopravvenuti che rendono sproporzionato il valore delle reciproche obbligazioni disponendo i casi e le modalità in cui è consentito sospendere la prestazione o precedere alla rinegoziazione.

 

La rinegoziazione dei contratti: il Covid-19 qui potrebbe non avere effetti

Esiste una soluzione. La rinegoziazione del contenuto delle rispettive obbligazioni contrattuale è ovviamente la via da preferire per ricondurre sui binari dell’equità il negozio e non giungere alla demolizione di tutto ciò che attiene alla vita sociale di una società e che ne garantisce la stabilità e la sopravvivenza a lungo termine, tuttavia la scelta di modificare il contenuto del contratto è espressione del principio di autonomia privata delle parti e, pertanto, è rimesso alla loro volontà.

Pertanto la domanda da porci è: sussiste un obbligo di rinegoziazione?

È interessante da questo punto di vista rilevare che l’art. 1374 c.c.obbliga le parti non solo a quanto è espresso (nel contratto N.D.R.) ma anche a tutte le conseguenze che ne derivino secondo (…) equità”.

Tale disciplina pare consentire al giudice al giudice di intervenire su un contratto squilibrato per ristabilirne l’equilibrio sinallagmatico. Autorevole dottrina[7] sostiene che, proprio in ragione di tale principio, nei contratti di durata vi è implicitamente contenuta una clausola di rinegoziazione “in virtù della quale il dato obsoleto o non più funzionale possa essere sostituito dal dato aggiornato e opportuno”.

In pratica, è l’implicita clausola rebus sic stantibus nella risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta ma interpretata in chiave conservativa e non risolutiva.

Pertanto, in applicazione dei generali principi di correttezza e Buona Fede nella interpretazione del contratto, di cui l’art. 1374 c.c. ne costituisce un corollario, la risoluzione deve essere l’extrema ratio nella gestione delle sopravvenienze contrattuali e non l’unica via eletta dal codice. Il generale principio di Buona Fede consentirebbe una stabilità del contratto e imporrebbe, prima di addivenire alla risoluzione, una reductio ad aequitatem tendente al riequilibrio dell’equilibrio sinallagmatico.

Questa tesi è da escludersi, perché, nonostante la suggestività pubblicistica, si scontra con il principio dell’autonomia privata. L’idea che il giudice possa sindacare il contenuto di un contratto, nega e restringe in maniera illecita lo spazio dell’autonomia privata, che vale sia nel momento costitutivo, ma nondimeno nel momento modificativo o estintivo dello stesso.

Inoltre, per restare in tema di locazioni o affitti, appare non giustificato ridurre il canone di locazione o di affitto solamente per le limitazioni imposte (legittimamente o meno) dal D.P.C.M., poiché in questo caso la mancata realizzazione della funzione economica dell’affittuario si fa ricadere sul locatore, che si troverebbe costretto a concedere un immobile dal valore economico immutato ad un prezzo sensibilmente inferiore a quello di mercato per cause assolutamente estranee al contratto di locazione.