La pandemia ha aumentato le disparità di genere? Analisi dell’impatto del covid-19 sull’impiego femminile

 

Impiego femminile e covid-19, il quadro normativo

A marzo 2020 la diffusione incontrollata del covid-19 ha costretto più della metà della popolazione mondiale a rispettare misure straordinarie volte al contenimento del virus. L’emergenza sanitaria ha colpito duramente svariati ambiti, tra i quali si annovera sicuramente quello socio-economico[1], al cui interno le categorie più colpite sono state quelle che erano già lavorativamente più svantaggiate: le donne, i giovani e gli stranieri. Prima di analizzare l’impatto del covid-19 sull’impiego femminile è altresì necessario premettere alcuni brevi cenni sul quadro normativo di riferimento all’interno del quale ci si muove nel parlare di impiego, del principio di uguaglianza e di parità di trattamento.

Nell’operare tale breve esegesi, non si può non partire dalla Carta Costituzionale che, nei primi dodici articoli, cristallizza i principi fondamentali dell’ordinamento repubblicano.

In tema di parità di trattamento, l’articolo 3 della Costituzione sancisce uno dei principi cardine del nostro ordinamento, il principio di uguaglianza, formulato nella sua duplice veste formale e sostanziale. In forza di tale enunciazione tutti i cittadini – il termine “cittadini” deve essere inteso nella sua più ampia accezione di persone e non solo in riferimento ai cittadini italiani – sono considerati uguali di fronte alla legge “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Appare evidente che la scelta dei Costituenti di scandire ogni distinzione ha il valore di consacrarne il divieto e di condannare, con ogni singola parola, le ingiustizie fondate su tali discriminazioni, di cui non infrequentemente si nutrono la guerra e le dittature, al fine di emarginare esseri umani solo perché appartenenti a minoranze.

Quanto alla prima scansione, quella attinente alle discriminazioni fondate sul sesso, risalta ancora oggi l’attualità della previsione che evidenzia un cammino verso la parità di genere che, dopo tutti questi anni, è ancora in atto.

Quanto al panorama europeo ed internazionale, gli articoli 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e 14 CEDU vietano altresì qualunque discriminazione degli individui che possa limitare il godimento dei diritti e delle libertà fondamentali.

 

Il divario di genere

A ben vedere, è interessate notare come il quadro normativo di riferimento richiami – anche indirettamente – un valore fondamentale: il lavoro, riconosciuto come diritto in forza del quale la personalità umana si emancipa e si sviluppa, concorrendo, nel contempo, al progresso materiale e spirituale della società nel suo complesso. Ed è proprio in riferimento al lavoro che la parità di trattamento tra uomini e donne, ovvero la parità di opportunità, al netto di pari competenze, qualifiche e capacità, è ancora ben lontana da essere garantita.

Tale affermazione si comprende in primis se si guarda al tasso di occupazione delle donne che in Italia è di 18 punti percentuali più basso di quello degli uomini, il lavoro part time riguarda il 73,2% le donne ed è involontario nel 60,4% dei casi e i redditi complessivi guadagnati dalle donne sul mercato del lavoro sono in media inferiori del 25% rispetto agli uomini.

È un quadro generale che assume contorni drammatici, a maggior ragione se inserito all’interno della crisi pandemica, ma perché tale divario?

In Italia, secondo i dati Censis, le donne sono quasi 31 milioni e rappresentano il 51,3% della popolazione, le giovani studiano di più, infatti le laureate sono il 57,1% degli oltre 7,6 milioni di laureati, con risultati scolastici migliori dei loro coetanei: le ragazze si laureano prima e con un voto di laurea medio di 103,7 contro il 101,9 degli uomini. Le donne sono in maggioranza anche negli studi post laurea: degli oltre 115.000 studenti che nell’a.a. 2017/2018 erano iscritti ad un dottorato di ricerca, un corso di specializzazione o un master, il 59,3% era una donna.

Eppure tutto ciò non basta per avere una posizione di parità sul mercato del lavoro: le donne sono meno occupate degli uomini e difficilmente ricoprono incarichi di responsabilità e, sebbene si tratta di fenomeni comuni anche agli altri paesi europei, in Italia vedono una condizione di ancora maggior ritardo.

Le cause di tale divario sono composite e complesse, sicuramente dovute al fatto che le donne italiane rimangono in gran parte prigioniere di stereotipi, di iniziative e di servizi non sufficienti a favorire una conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

In tal senso, ancora oggi le donne in Italia si trovano a dover scegliere tra famiglia e carriera, aspetti della vita umana che rimangono percorsi paralleli e incompatibili. Tra gli ambiti che maggiormente danno la misura degli squilibri di genere e che hanno ripercussioni sulla partecipazione delle donne sul mercato del lavoro, vi è sicuramente quello della casa, della cura di figli e dei genitori, un impegno familiare che, ancora oggi, grava essenzialmente e prevalentemente sulle donne, ancorché lavoratrici.

Del resto, il 65% delle donne fra i 25 e i 49, con figli piccoli fino ai 5 anni, non sono disponibili a lavorare per motivi legati alla maternità e al lavoro di cura e il 63,5% degli italiani riconosce, neppure troppo implicitamente, che a volte può essere necessario o opportuno che una donna sacrifichi un po’ del suo tempo libero o della sua carriera per dedicarsi di più alla famiglia. Opinione che, addirittura, è fatta propria più dalle donne, le quali per prime tendono a perpetuare e a non mettere in discussione comportamenti e modi di pensare che hanno appreso nella famiglia di origine.

 

Impatto della pandemia sul mercato del lavoro femminile: alcuni dati rilevanti

Sin dai primissimi mesi di pandemia, UN Women, l’ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile, lancia un tempestivo allarme: una pandemia ombra si sta insinuando al riparo dai riflettori e pressoché ovunque, le sue vittime predesignate sono le donne.

In particolare, quest’ultime sono state costrette a condividere spazi ristretti, con partener spesso violenti, e situazioni di stress, derivanti anche dalla gestione accentrata dei carichi famigliari e degli impegni domestici.

I dati confermano la drammatica escalation di violenza contro le donne e, nel contempo, la crisi economica scoppiata a livello globale con l’avvento della pandemia, le penalizzata in via nettamente maggiore rispetto agli uomini.

Non di rado si afferma che la ricaduta sociale ed economica della pandemia rischia di spazzare via anni di conquiste e progressi, ma, anche in concreto, si teme che 47 milioni di donne e ragazze in tutto il mondo ricadano sotto la soglia di povertà.

Nell’ambito dell’emergenza sanitaria, i dati dimostrano che la percentuale di donne che hanno perso il lavoro nel 2020 è stata doppia rispetto a quella degli uomini che lo hanno perso: dei 841 mila posti di lavoro persi nel secondo trimestre del 2020 più della metà sono femminili, l’occupazione delle donne è calata del 2% a fronte di una minore flessione di quella maschile.

Ma ciò che preoccupa maggiormente è che la forbice del divario creato durante il lockdown non è stata colmata, infatti dalle rilevazioni dell’Istat in collaborazione con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Inps, Inail e Anpal 2020 risulta che fino a giugno i tassi di attivazione per le posizioni occupate dalle donne sono scesi molto più rapidamente e, nei mesi successivi, il rallentamento della decrescita è più contenuto tra le posizioni femminili rispetto a quelle maschili.

Considerando, poi, le nuove assunzioni, nei primi nove mesi del 2020 rispetto all’anno precedente, si registra un calo del 26,1% delle nuove assunzioni che abbiano riguardato le donne, a fronte della diminuzione del 20,7% dei contratti attivati per gli uomini. I dati non sono evoluti favorevolmente, in quanto nel settembre 2020 il saldo annualizzato per gli uomini è positivo e risulta in crescita di 15 mila posizioni, mentre per le donne si registra un calo di 28 mila posizioni.

E, ancora, le donne sono la categoria ad aver registrato il minor numero di reingressi nel mercato del lavoro, di 67 mila persone che avevano perso la propria occupazione solo il 42,2% delle donne ha goduto di questa possibilità e tale percorso non è stato di certo semplice, infatti le donne hanno dovuto attendere in media 100 giorni prima di trovare una nuova occupazione, a fronte dei 21 giorni del 2019.

 

Conclusione

Tanto premesso, con una visione simile a quella delle madri e dei padri costituenti, occorrerà un serio e programmatico intervento da parte dello Stato che sia in grado di investire e non mortificare il talento femminile. La linea guida di tale opera deve essere certamente il dettato dell’articolo 3, comma 2 della Costituzione che impone allo Stato il dovere specifico di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che di fatto limitano l’uguaglianza e la libertà dei consociati.

In definitiva, si auspica un intervento che vada ben oltre la questione della parità di genere e della giustizia sociale e che sia volto a garantire effettiva emancipazione e autodeterminazione a tutte le donne e le ragazze, forti della consapevolezza che nessuna società può prosperare se spreca, disperde, saccheggia la metà delle sue risorse.

Informazioni

[1] Per fare un esempio, dal punto di vista economico si può fare un richiamo all’attività dell’Antitrust nei primi mesi della pandemia. Per DirittoConsenso ne ha parlato Giuseppe Nicolino in quest’articolo:  http://www.dirittoconsenso.it/2020/05/16/la-politica-antitrust-ai-tempi-covid-19/