Analisi del concetto di “successo sostenibile” e del posizionamento del Nuovo Codice di Corporate Governance all’interno delle tensioni tra istituzionalismo e contrattualismo

 

Il Nuovo Codice di Corporate Governance

Il 31 gennaio 2020 è entrato in vigore il Nuovo Codice di Corporate Governance. Fatte salve alcune, limitate, eccezioni, il Codice è applicabile a partire dal primo esercizio successivo al 31.12.2020 con relativa informativa nella relazione sul governo societario da pubblicare nel 2022. Il Codice è il frutto del lavoro del Comitato per la Corporate Governance, la cui attuale configurazione vede la presenza delle Associazioni di impresa (ABI, ANIA, Assonime, Confindustria), Borsa Italiana S.p.A. e Assogestioni[1]. Il Comitato, avente natura squisitamente privata nonché sprovvisto di personalità giuridica, si prefigge quale scopo istituzionale la promozione del buon governo societario delle società italiane quotate.

Il Codice di Autodisciplina italiano, dunque, a differenza di quanto avviene nelle esperienze giuridiche di molti altri Paesi, continua ad avere una caratterizzazione di stampo assolutamente privatistico e ciò spiega perché la sua adesione non possa che essere volontaria e assistita dal consueto[2] obbligo di comply or explain[3].

 

Struttura del Codice

La nuova versione del Codice di Corporate Governance ha come cardini la semplificazione, la flessibilità e la proporzionalità. A beneficiare di questa semplificazione è in primo luogo la struttura stessa del Codice, articolata in sei sezioni[4] (indicate come “Articoli”), ognuna delle quali contenente dieci principi redatti in modo sintetico, e raccomandazioni le quali indicano invece le c.d. best practice , ovvero quei comportamenti ritenuti idonei a realizzare gli obiettivi indicati nei princìpi.

Infine, il nuovo Codice introduce il concetto di “successo sostenibile” dandone la seguente definizione: “obiettivo che guida l’azione dell’organo di amministrazione e che si sostanzia nella creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società.” Si tratta di un neologismo ignoto alla precedente versione del documento (risalente al 2018) la quale si limitava alla creazione del valore per gli shareholder. L’introduzione dell’idea di sostenibilità rappresenta una novità dirompente con non poche implicazioni, tanto teoriche quanto pratiche, e ripresa a piene mani dalla Section 172 del Companies Act[5].

 

Le varie innovazioni

Al di là della rinnovata struttura, più snella e sintetica, anche il target di riferimento muta e questa mutazione avviene proprio in ragione della già citata proporzionalità, che è fra le principali direttrici di fondo della nuova stesura. Nonostante, infatti, il Codice parli in generale a tutte le società quotate, le raccomandazioni assumono varie sfumature in ragione delle dimensioni dell’impresa e le prescrizioni risultano adeguate in ragione della struttura proprietaria più o meno concentrata. I target diventano quindi, rispettivamente: le “grandi società”[6] e le “società a proprietà concentrata”[7]. Le due categorie possono interferire fra loro sovrapponendosi, nel senso che taluni trattamenti applicabili ad una società grande potrebbero venir meno qualora questa sia anche a proprietà concentrata, e viceversa.

Si tratta di un importante cambio di direzione. Mentre in passato, la proporzionalità era limitata alle sole dimensioni, il nuovo Codice di Corporate Governance desidera adattarsi alle piccole e medie imprese industriali e/o a conduzione familiare, le quali notoriamente rappresentano la spina dorsale dell’economia italiana e sostengono in modo sproporzionato i costi e gli oneri di conformità di una quotazione sul mercato.

 

Il concetto di “successo sostenibile”

Il centro nevralgico dell’innovazione del Codice di Corporate Governance del 2020 rimane, tuttavia, il successo sostenibile. Il parametro del successo sostenibile diviene quindi cardine del nuovo sistema di autodisciplina e, di conseguenza, cardine del nuovo modo di gestire una società quotata e, più in generale, di un nuovo modo di fare impresa, specialmente ad un certo livello. La sostenibilità assume quindi un ruolo rilevante in tema di remunerazioni[8] e dei compiti del comitato controllo interno e rischi[9]. L’idea che gli amministratori debbano tener conto degli interessi degli stakeholders (e quindi di quell’ampio spettro che è la categoria dei c.d. portatori di interessi) amplia, di fatto, la discrezionalità degli stessi anche in virtù della giustificazione di scelte e politiche le quali dovranno tenere conto del dialogo con gli stakeholder, laddove in precedenza il focus era interamente sugli azionisti.

Lo spostamento di questo focus, lungi dall’essere mera questione di forma o tema relegato ai dibattiti fra accademici risulta di notevole impatto sulla gestione quotidiana e di medio-lungo periodo degli emittenti.

Il principio della sostenibilità, già espresso nella Direttiva UE 17 maggio 2017, n. 828, la “Shareholder Rights Directive II” o “SRD II[10], diviene quindi guida dell’organo di amministrazione il quale, coadiuvato da un comitato consiliare ad hoc, avrà il compito di integrare gli obiettivi di sostenibilità con la predisposizione del piano industriale della Società e/o del gruppo ad essa facente capo.

A ben vedere la trasformazione alla quale assistiamo con il Nuovo Codice di Corporate Governance non è un mero riadattamento delle priorità di cui tener conto nella definizione delle politiche d’impresa. Parrebbe invece essere un vero e proprio cambio di paradigma, un mutamento culturale che sempre più lontano dalle tesi contrattualiste si muove verso, l’apparentemente inesorabile, abbraccio del pensiero istituzionalista.

 

Istituzionalismo e contrattualismo a confronto

Per comprendere la portata e la natura delle trasformazioni di cui il Nuovo Codice di Corporate Governance è stato oggetto, bisogna, tuttavia, fare un passo indietro e guardare alla storia del pensiero delle dottrine che nel tempo hanno informato l’idea stessa di impresa.

Il concetto di “impresa”, acquisito implicitamente a fondamento degli studi e della prassi aziendale, è sovente ricondotto, in modo più o meno esplicito, a due modelli di riferimento identificati rispettivamente da quello contrattuale (o contrattualistico) e da quello istituzionale (o istituzionalistico).

Per comprendere l’essenza di questi due, diversi, approcci è necessario andare indietro nel tempo. Il dibattito sull’interesse sociale, infatti, storicamente nasce e si sviluppa per dare risposta ai problemi posti dallo sviluppo della grande impresa. Quest’ultima, sovente costituita nella forma di una società per azioni, presenta la nota e peculiare caratteristica della dissociazione fra proprietà e controllo e attribuisce agli organi direttivi il potere di pianificazione.

È proprio che in questo quadro che, nella Germania del primo dopoguerra, si impone la teoria istituzionalista[11] dell’interesse sociale.  Fondatore della teoria istituzionalista viene generalmente considerato Walther Rathenau. Nella visione di Rathenau[12],  l’impresa di grandi dimensioni si stacca dai soci proprietari e dai loro interessi privati, per assumere rilevanza propria, come elemento dell’economia collettiva.

L’impresa “rathenauiana” ha quindi lo scopo di produrre ricchezza per la comunità, di migliorare la tecnica e dare impulso al progresso scientifico e, ovviamente, di offrire lavoro. È quindi evidente come questi obiettivi, che Rathenau fra propri dell’impresa in quanto tale, siano posti in funzione della società, o comunque della comunità di riferimento. A un simile approccio non può che seguirne la fisiologica visione antagonistica del piccolo azionista, del risparmiatore, il quale, nel perseguimento del proprio (dalla legge riconosciuto e tutelato) immediato e personale guadagno distoglie gli utili dal perseguimento dell’interesse generale.

La visione di Rathenau sarebbe stata poi tradotta nella teoria dell’Unternehmen an sich[13][14]. In particolare uno dei punti fondamentali di tale teoria, quello dell’affermazione dell’indipendenza e della superiorità dell’organo amministrativo rispetto a quello assembleare[15], sarà più tardi ripreso dalla dottrina nazionalsocialista del Reich quale espressione del Führerprinzip[16] in ambito di diritto societario.

Nel quadro descritto dalla visione di Rathenau prima e dalla sua formulazione dottrinale completa come “teoria dell’azienda in sé” poi, l’impresa perde inevitabilmente la sua natura di strumento di massimizzazione dell’utilità privata ed espressione dello sforzo creativo dell’imprenditore diventando il luogo di incontro e composizione di interessi eterogenei appartenenti ad altrettanto eterogenei soggetti, perlopiù estranei ai processi decisionali dell’impresa.

Nella dottrina contrattualista, di contro, muove da tutt’altre premesse. L’interesse sociale è definito dalle formulazioni contrattualiste come l’interesse comune dei soci in quanto tali. Si tratta dell’interesse al conseguimento dell’utile, che rimane quindi lo scopo primario della società. Rispetto all’utile, l’oggetto sociale, assume funzione strumentale ponendosi in rapporto di mezzo a fine.

La teoria contrattualista dell’interesse sociale trova moderna espressione nella teoria dello Shareholder Value[17], la quale identifica l’interesse sociale con l’aumento del valore reale delle azioni.

 

Il superamento della contrapposizione classica

Pur apparendo sostanzialmente come una riproposizione dell’ormai risalente lettura istituzionalistica dell’interesse sociale quale difesa della Unternehmen an sich, la tesi che pone al centro l’interesse degli stakeholder ha trovato accoglimento nell’ordinamento inglese, nella forma del già citato Companies Act del 2006. In ciò emerge il carattere anacronistico dell’odierna contrapposizione fra istituzionalismo e contrattualismo e anche lo stesso antagonismo fra le odierne teorie della shareholder value e della stakeholder value[18] non rispecchia in pieno la profonda diversità ideologica che caratterizzava la contrapposizione fra le posizioni classiche.

L’odierno spostamento di focus dalla Shareholder Value in favore della c.d Share Value[19], non fa che confermare quanto detto finora e come il confine risulti sempre più sfumato. Certamente la contrapposizione tra istituzionalismo e contrattualismo non può dirsi del tutto superata, ma superata pare essere la loro antinomia.

Laddove il focus per la creazione di valore per l’azionista lascia spazio alla massimizzazione del valore dell’azione in sé, altresì rimane compatibile con l’interesse dell’azionista di medio-lungo periodo. A restarne escluso pare, ancora una volta, il piccolo risparmiatore, disinteressato alle vicende della società. Tuttavia questa figura, considerata come vero e proprio elemento di disturbo dalle tesi dell’istituzionalismo classico è oggi non più incompatibile con una visione dell’impresa, anche e soprattutto di grandi dimensioni, attenta a questione “altre” rispetto all’esclusiva massimizzazione del valore per l’azionista.

Questa, infatti, riconosce al piccolo risparmiatore la possibilità di ridare dignità alla componente amministrativa del pacchetto di diritti spettantegli attraverso il ruolo svolto dagli investitori istituzionali. Tali soggetti esercitano al posto di suddetti azionisti i rispettivi diritti di voto, supplendo all’assenza di interesse per gli aspetti strategici di medio-lungo periodo tipica del piccolo risparmiatore che detiene una modesta, spesso infinitesimale, frazione della proprietà.

 

Conclusioni sul Codice di Corporate Governance

È quindi corretto affermare che il Nuovo Codice di Corporate Governance del 2020 abbia abbracciato le tesi istituzionaliste distaccandosi dal pensiero contrattualista, espressione del liberalismo classico? In parte sì, in parte no. La nozione di “successo sostenibile” di cui il nuovo codice è informato appare comunque più riconducibile alla teoria dello shareholder value (o meglio dello “Share Value”) che alle imperative ed estreme tesi istituzionaliste classiche. Le stesse pratiche di Corporate Social Responsibility, che pure trovano riscontro, al di fuori dell’ambito dell’autodisciplina, in interventi di matrice nazionale ed europea, continuano a risultare strumentali al perseguimento dello scopo di lucro, alla massimizzazione del valore per gli azionisti.

In ultima istanza, quindi, la valutazione e il perseguimento anche di interessi-altri rimane, ad oggi, pur sempre profit-oriented. Certamente non è possibile ignorare che l’introduzione dell’idea di “successo sostenibile” comporti, sul piano pratico, non poche conseguenze (come già si è discusso). Tuttavia, per provare a dare una risposta al quesito in merito al posizionamento del Nuovo Codice di Corporate Governance all’interno del dibattito fra le due scuole di pensiero discusse, andrebbe in primo luogo presa coscienza che l’originale, netta, antinomia fra contrattualismo e istituzionalismo come la conoscevamo oggi non esiste più e lo stesso concetto di Shareholder value esprime come l’obiettivo della massimizzazione del valore per gli azionisti non neghi in sé il perseguimento (o almeno il tener conto) di obiettivi e interessi “altri”, quelli degli stakeholder[20].

Ciò che è possibile affermare con certezza è che le tesi del contrattualismo e dell’istituzionalismo nella loro forma pura paiono oggi inadeguate a rappresentare le tendenze attuali, cedendosi reciprocamente il passo. Laddove l’idea di interesse sociale come inteso dai contrattualisti strictu sensu risulta in parte abbandonata, al contempo la creazione di valore per gli azionisti rimane perno della disciplina. Allo stesso modo, laddove lo spirito di responsabilità sociale d’impresa, tipico della scuola istituzionalista, è riuscito a farsi strada anche nel pensiero anglosassone[21] conquistandosi una certa rilevanza (che va detto, è crescente) questo rimane confinato al ruolo di strumento, di mezzo, senza mai innalzarsi davvero (specie nella pratica) a fine, come invece predicato da Rathenau e dalla scuola di pensiero dell’ Unternehmen an sich.

Informazioni

F. Baracchini, La Tutela del socio e delle minoranze, Giappichelli Editore, 2018

N. Facchin, Interesse sociale nella società per azioni: teoria istituzionalista e teoria contrattualista, Facchin Studio Legale, 2018

C. Galloro, “Unternehmen an sich: la impresa in sé tra potere gestionale e diritto di partecipazione” in Norme internazionali e comunitarie sulle società commerciali, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012

CAMMINO DIRITTO, L’impresa societaria tra Corporate Social Responsibility e Shareholder Value, estratto dal n.10 anno 2019

M. Palmieri, L’interesse sociale: dallo shareholder value alle società benefit

[1] L’Associazione degli investitori professionali.

[2] Nell’ambito dell’autodisciplina.

[3] Il principio richiede che le società quotate sui mercati che si discostano dal Codice disciplinare societario, la cui adesione è volontaria, siano chiamate a spiegare le ragioni di tale scelta, in un’ottica di trasparenza e buon governo delle società.

[4] Nella prima versione erano ben dieci le sezioni.

[5] Il Companies Act 2006 (c 46) è un atto del Parlamento del Regno Unito che costituisce la fonte primaria del diritto societario del Regno Unito. La legge è entrata in vigore in più fasi, con la disposizione finale iniziata il 1° ottobre 2009. Ha sostituito il Companies Act 1985. La legge fornisce un codice completo di diritto societario per il Regno Unito e ha apportato modifiche a quasi ogni aspetto della legge in relazione alle società.

[6] Società con capitalizzazione superiore a un miliardo di euro alle fine dei tre esercizi precedenti

[7] Emittenti nelle quali uno o più soci, partecipanti a un patto di sindacato di voto dispongono, anche indirettamente, della maggioranza dei voti esercitabili nelle assemblee ordinarie.

[8] Potendo giustificare la restituzione di componenti variabili delle stesse.

[9] Arricchendo lo spettro informativo, anche non finanziario, che il comitato è chiamato a valutare.

[10] Della quale si era già parlato in tema di proxy advisors: Il Proxy Advisor nelle società quotate – DirittoConsenso

[11] Il fulcro del pensiero istituzionalista si sostanzia nell’affermazione dell’interesse dell’impresa in sé come predominante su qualunque altro interesse, incluso quello degli stessi soci.

[12] Uomo politico e imprenditore tedesco, nonché Ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar.

[13] Letteralmente traducibile con “Azienda in sé”.

[14] L’essenza di suddetta teoria può essere riassunta nei seguenti assunti che ne costituiscono il perno:

  1. Affidamento del controllo dell’impresa ad un organo stabile e slegato dalle “mutevoli maggioranze di mutevoli azionisti”;
  2. Identificazione di un obiettivo dell’azienda in sé nella maggiore efficienza produttiva dell’impresa stessa;
  3. I diritti degli azionisti (agli utili, alle informazioni ecc.) sono riconosciuti e tutelati soltanto in quanto esercitati in conformità al superiore interesse dell’impresa medesima;
  4. Accentuata impostazione pubblicistica che si traduce nella visione della società per azioni (forma giuridica tipica della grande impresa) come ingranaggio dell’economia collettiva. L’interesse della società è il perseguimento dell’interesse generale, trascendendo, quindi, quello del singolo azionista o imprenditore.

[15] In quanto il primo vero interprete delle esigenze dell’impresa come meccanismo dell’economia collettiva.

[16] La  teoria dell’Unternehmen an sich verrà quindi  recepita dalla stesura originale dell’Aktiengesetz[16] tedesco del 1937, al cui interno spicca il § 70, il quale impone all’organo amministrativo (Vorstand), sotto la propria responsabilità, di dirigere la società secondo quanto è richiesto dal bene dell’impresa (Wohl des Betriebs) e dei dipendenti di essa (Gefolgschaft), nonché dall’interesse comune della nazione e del Reich.

[17] Letteralmente “Valore per gli azionisti”, è un termine commerciale, a volte espresso come massimizzazione del valore per gli azionisti o come modello di valore per gli azionisti, il che implica che la misura ultima del successo di un’azienda è la misura in cui arricchisce gli azionisti. È diventato importante negli anni ’80 e ’90 insieme al principio di gestione basato sul valore o “gestione per valore”.

[18] Il valore per gli stakeholder implica la creazione del livello ottimale di rendimento per tutti gli stakeholder di un’organizzazione. Questo è un concetto più ampio rispetto al più comune valore per gli azionisti, che di solito si concentra solo sulla massimizzazione dei profitti netti o dei flussi di cassa.

[19] Con l’espressione “Share Value” si fa infatti riferimento alla creazione di una struttura societaria volta alla stabilità dell’impresa, alla responsabilità di gestione e alla tutela di tutti gli interessi in essa coinvolti.

[20] In economia il portatore d’interessi (in inglese stakeholder, letteralmente «titolare di una posta in gioco») o interessato è genericamente qualsiasi soggetto (o un gruppo) influente nei confronti di una iniziativa economica, una società o un qualsiasi altro progetto. Fanno dunque parte di tale insieme clienti, fornitori, finanziatori (es. banche e azionisti, o shareholder), collaboratori, dipendenti, ma anche gruppi di interesse locali o esterni, come i residenti di aree limitrofe a un’azienda e le istituzioni statali relative all’amministrazione locale.

[21] Storicamente avverso alle tesi istituzionaliste.