Alcune considerazioni a proposito della recente giurisprudenza sull’art. 131-ter del d.lgs. n. 385 del 1993 (Testo Unico Bancario) in tema di intermediazione illecita hawala
Definizione della fattispecie
Hawala consiste in una modalità informale di movimentazione di valori, originaria di alcune zone dell’Asia centrale e del Medio – oriente. Nei contesti d’origine, hawala è spesso impiegato per la movimentazione di somme di piccola-media entità. Una rete hawala si struttura su minimo di due soggetti. Colui che intende trasferire una somma (l’ordinante) la versa in denaro ad un hawaladar; questi contatta l’altro intermediatore (secondo hawaladar), a cui è legato da vincoli fiduciari, che provvede a versare una somma di denaro ad un soggetto terzo indicato dall’ordinante (il beneficiario). Tale somma corrisponde all’importo versato al primo intermediario, diminuito però della commissione trattenuta (di norma, tra il 2,5-5% dell’importo, ma può variare). Una rete è costituita inoltre da “corrieri” e “custodi”, con compiti organizzativi minori[1].
I vantaggi sono di facile comprensione. In primo luogo, il carattere informale garantisce un aggiramento dei costi connessi all’impiego di circuiti legali di intermediazione finanziaria (realizzata da istituti di credito autorizzati). Secondariamente, il carattere informale consente di aggirare i tassi di cambio. Da ultimo, va considerato che, per molti soggetti residenti in Paesi economicamente poco sviluppati, tale sistema non è avvertito o considerato come illecito, ma consiste addirittura nell’unico possibile di movimentare somme di denaro[2], data l’eccessiva onerosità dei servizi proposti dai circuiti legali di intermediazione.
L’emersione di hawala in Italia è connesso con il fenomeno migratorio che, dagli anni ’90, ha assunto una rilevante consistenza. Quale retaggio culturale, le reti hawala hanno preso vita e si sono sviluppate presso quelle comunità etniche, mediorientali o centrasiatiche residenti sul territorio nazionale, in cui il sistema hawala è tradizionalmente praticato in patria e all’estero. Tuttavia, in contrasto con tale radicata tradizione, l’ordinamento italiano presenta delle disposizioni legislative volte a salvaguardare la stabilità e la vigilanza sul sistema creditizio e finanziario, che, vietando la praticabilità di questo metodo di intermediazione finanziaria, affondano le loro radici nel combinato disposto fra gli artt. 41 e 47 Cost. Il riferimento va agli artt. 114-sexies, 114-novies e 131-ter T.u.b. Le prime due disposizioni stabiliscono un regime di autorizzazione in forza del quale l’esercizio di attività di <<servizi di pagamento>> (tra cui l’intermediazione finanziaria) richiede necessariamente l’autorizzazione della Banca d’Italia. La violazione di tale combinato disposto costituisce reato ai sensi dell’art. 131-ter T.u.b. che punisce i trasgressori con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa da 2.066 euro a 10.329 euro.
Va detto inoltre che, spesso, l’impiego delle reti hawala è connesso con l’impiego delle somme movimentate ai fini della realizzazione di altri reati quali, ad esempio, il pagamento delle somme corrisposte dai migranti c.d. economici per raggiungere l’Italia (e, da qui, i Paesi dell’Europa del Nord) e il finanziamento del terrorismo islamista. Del resto, la celerità dello spostamento della somma (dalle 6 alle 12 ore)[3] e la relativa impenetrabilità delle reti di mediatori, spesso inserite in modo quasi invisibile nell’ambito di comunità straniere residenti in Italia e all’estero, rendono hawala decisamente appetibile, tanto per perseguire intenti formalmente leciti (ad esempio, inviare rimesse aggirando i normali canali, come Money Transfer) quanto illeciti. È così di tutta evidenza come il reato de quo possa spesso configurarsi come un reato mezzo e non solo come reato fine.
Modalità operative di realizzazione dell’illecito hawala
Il reato di hawala prevede il necessario concorso di più soggetti, il cui apporto all’organizzazione può variare in ragione dei compiti loro assegnati. Rispondono del delitto in questione tutti coloro che, a vario titolo, collaborano nella attività di illecita intermediazione, <<in maniera stabile ed organizzata attraverso una rete di mediatori internazionali>> finalizzata al <<servizio di raccolta, cambio e trasferimento all’estero di valuta, mediante transazioni fiduciarie non tracciabili e non soggette ai tassi ufficiali di cambio, in quanto attività di mediazione finanziaria onerosa per la rimessa di denaro effettuata da soggetti non autorizzati>> (Cass. Pen., sez. V, 20/10/2020, n.36034).
L’attività di intermediazione illecita testé descritta si articola in una dimensione spaziale e temporale complessa. Quanto alla strutturazione della rete, all’ammontare delle operazioni effettuate e al numero di soggetti che beneficiano dei servizi di illecita intermediazione, sussiste un contrasto giurisprudenziale circa la soglia di punibilità delle condotte qualificabili come hawala. La soluzione preferibile, ad avviso di chi scrive, sarebbe che, ai fini della integrazione della fattispecie in questione, gli agenti soltanto operassero oggettivamente in assenza di autorizzazione ed in violazione della riserva di cui all’art. 114-sexies T.u.b. Sicché a nulla rilevando le più o meno estese modalità organizzative dell’illecita intermediazione nonché il numero di operazioni effettuate. Ciò, in definitiva, tradurrebbe entro i confini dell’illecito penale il fatto stesso di svolgere intermediazione illegale in violazione del regime amministrativo stabilito dalla legge, anche in presenza di un numero assai modesto di transazioni[4].
Giova però sottolineare, in primo luogo, come la giurisprudenza di Cassazione abbia stabilito che ai fini della punibilità rilevi solo un elevato grado di organizzazione e strutturazione della rete hawala. Ciò è stato recentemente asserito con riferimento alla <<stabile ed organizzata […] rete di mediatori internazionali>>[5] che dovrebbe necessariamente sussistere ai fini della penale rilevanza dei fatti contestati. Quanto riportato trova conforto in alcune pronunce di poco anteriori (Cass. Pen., sez. V, 16/01/2015, n. 25160; Cass. Pen., sez. V, 16/12/2016, n. 18317), dove si richiedeva, ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 131-ter T.u.b. un apprezzabile grado di strutturazione dell’attività di illecita intermediazione, consistente in <<un’organizzazione di mezzi e strumenti tali da consentire la concessione sistematica di un numero indeterminato di prestazioni finanziarie>>[6].
La tesi giurisprudenziale in questione sarebbe condivisa anche dalla dottrina maggioritaria[7], ma pare tuttavia lecito (motivatamente) dissentire. Infatti, la punibilità anticipata di questa fattispecie delittuosa ha il merito di prevenire che il sodalizio si radichi ed acquisisca una strutturazione di più difficile contrasto. Va inoltre considerato che, in relazione alle attività illecite realizzate per mezzo di hawala, la rilevanza penale del mero fatto de quo, anche in presenza di una proto-organizzazione a livello embrionale (senza che la stessa si configuri come reato presupposto per la commissione di altri più gravi delitti) assicurerebbe la punibilità dei partecipanti alla rete d’intermediazione prima che questa possa costruire rapporti fiduciari solidi. Tale punibilità anticipata mirerebbe ad evitare che un contesto strutturato e ben “rodato” possa costituire una possibile base d’appoggio per condotte plausibilmente ben più perniciose. Al tempo stesso, si conseguirebbe anche un secondo obiettivo, e cioè la punizione per i partecipanti per il fatto di aver dato vita alla rete stessa, assicurandone contestualmente lo smantellamento sul nascere[8].
Va notato inoltre che la Corte di Cassazione, in relazione al numero delle operazioni effettuate e a quello dei clienti serviti, rileva che le condotte delittuose ascrivibili al combinato disposto degli artt. 114-sexies, 114-novies e 131-ter T.u.b. <<possono essere poste in essere dal soggetto attivo nei confronti di un unico cliente, in quanto ciò non esclude che l’attività di prestazione di servizi finanziari abbia carattere di pubblicità e professionalità>>[9]. Così si è espressa in tema la Suprema Corte qualche anno fa, specificando l’irrilevanza dal punto di vista della punibilità, del numero, più o meno cospicuo, di soggetti che si siano serviti dell’intermediazione illecita. Ma, d’altro canto (e con apparente contraddittorietà), la stessa Cassazione concludeva, nella medesima pronuncia, nel senso della esclusione <<dall’area penalmente sanzionata il compimento di singoli atti occasionali, richiedendo, invece, una serie coordinata di atti rientranti nelle tipologie previste, secondo un concetto di professionalità in senso ampio, ed indirizzati al pubblico, nel limitato senso di soggetti quantitativamente non predeterminati>>[10], (Cass. Pen., sez. V, 16/01/2015, n. 25160). Come a dire: una organizzazione strutturata a sufficienza potrebbe plausibilmente servire le esigenze anche di un solo cliente (costituendo ciò reato), ma una serie di atti occasionalmente posti in essere rischierebbero di sfuggire dall’alveo della punibilità allorché non dotati di sufficiente strutturazione ma, al tempo stesso, soddisfacenti i fabbisogni finanziari di più soggetti richiedenti[11].
In particolare, l’aggravante della transanzazionalità
Con attenzione, invece, alle modalità spaziali di funzionamento del fenomeno, è prassi che gli hawaladar si trovino ad operare in due contesti territoriali differenti. Ciò significa che, molto spesso, l’ordinante può trovarsi al di fuori del territorio dello Stato, ubicandosi invece gli altri soggetti (mediatore e beneficiario) su suolo italiano. Ai fini di colpire in modo più rigoroso alcune condotte (tra cui quelle in esame), caratterizzate da transnazionalità, il legislatore, con l’art. 4 della legge n. 146 del 2004, ha introdotto una specifica circostanza aggravante, che aumenta la pena prevista dall’art. 131-ter T.u.b. nella misura di un terzo fino alla metà.
È di tutto rilievo come la giurisprudenza di legittimità abbia inteso qualificare tale circostanza come avente natura oggettiva (Cass. Pen., sez. II, 15/10/2020, n. 5241). Di talché, questa risulta estensibile a tutti i concorrenti nel reato di hawala << sulla base degli ordinari criteri di valutazione previsti dall’art. 59, comma 2, c.p., ovvero se conosciuta, ignorata per colpa o ritenuta inesistente per errore determinato da colpa>>[12]. L’utilità di tale aggravante è di tutta evidenza. Con attenzione alla giurisprudenza di merito, il più delle volte, le condotte contestate e ricostruite in sede giudiziale denunciavano una notevole articolazione internazionale, coinvolgente soggetti residenti anche in più Stati esteri (Siria, Iraq, Sudan, Eritrea ecc.)[13]. La Corte d’Assise di Brescia[14] si è espressa di recente su un caso coinvolgente una pluralità di soggetti che avevano dato luogo ad una triangolazione, avente lo scopo di realizzare illeciti movimenti finanziari tramite hawala, operante tra Italia, Svezia e Siria. Nondimeno, non si può che escludere che il fenomeno interessi – sia pure in misura minore – soggetti ubicati tutti all’interno dello Stato italiano, ipotesi quest’ultima che renderebbe inapplicabile la circostanza aggravante di cui all’art. 4 della l. n. 146 del 2004.
Concorso o assorbimento con altri profili di reato
Il fatto che hawala possa essere impiegata al fine di commettere altri reati, ulteriori e di maggiore gravità rispetto a quello testé descritto, pone una questione interpretativa di non secondaria rilevanza. Allorché le condotte qualificabili come hawala vengano si inseriscano (come sovente accade) in contesti delittuosi caratterizzati da una molteplicità di prospettabili illeciti, si profila un’ipotesi di concorso di reati ovvero di assorbimento? La risposta è, certamente: dipende. Ma la questione non è meramente teorica, giacché la corretta qualificazione giuridica dei fatti attiene al rispetto del principio del ne bis in idem sostanziale. Ciò posto, conviene preliminarmente interrogarsi sulla natura di hawala, calata in contesti in cui si profilino le ipotesi di finanziamento del terrorismo e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il reato in se diviene, in tali casi, un reato-mezzo, realizzato al fine di perseguire altre finalità ulteriori, oltre alla illecita intermediazione.
In primo luogo, il possibile impiego di hawala ai fini del finanziamento di attività terroristiche[15] (di matrice islamista), rileverebbe nello specifico ai sensi dell’art. 270-quinquies.1 c.p., come osservato dalla giurisprudenza di merito, che evidenzia un’ipotesi di concorso di reati[16]. Si può però asserire d’altro canto che, al fine di evitare una duplicazione della qualificazione penale dei fatti, il reato di hawala potrebbe ritenersi assorbito (in ragione del suo carattere ancillare) nel più grave reato di cui all’art. 270-quinquies.1 c.p. L’unitarietà normativo – sociale dei fatti (necessaria ai fini dell’assorbimento e ricomprendente la condotta meno grave nell’alveo di quella più grave) non pare ricorrere, tuttavia, in questo caso, dovendosi considerare come fattore dirimente la diversità di bene giuridico tutelato dalla norme in esame. Se infatti le disposizioni richiamate fino ad ora in tema di illecita intermediazione hanno il fine di tutelare la sicurezza e la stabilità del sistema bancario e finanziario, la norma poc’anzi richiamata ha, invece, il fine precipuo di tutelare l’integrità dello Stato italiano da potenziali condotte terroristiche (il cui sostentamento economico la norma in esame mira a punire). Essendo quello di cui all’art. 270-quinquies.1 un reato a forma libera, può ben essere che l’approvvigionamento di risorse avvenga tramite circuiti hawala, senza che questo determini però un’ipotesi di assorbimento. Essendo, d’altro canto, evidente come tali reati possano presentare un elevato grado di interdipendenza funzionale, le condotte in questione possono essere ricondotte nell’ambito di un medesimo disegno criminoso ex art. 81 cpv c.p.[17]
Optando per questa ricostruzione, non si può non evidenziare un dato a proposito del <<compimento di condotte con finalità di terrorismo>> di cui all’art. 270-quinquies.1 c.p., peraltro riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità. In tema di concorso, infatti, la Cassazione ha osservato che, ai fini della punibilità ai sensi della summenzionata norma, l’hawaladar deve necessariamente essere a conoscenza dell’impiego (ovvero della destinazione ultima) delle somme movimentate[18]. Dacché, la sola circostanza che uno o più soggetti esterni alla rete criminale abbia inteso impiegare od abbia altrimenti impiegato somme mosse tramite hawala ai fini del finanziamento di condotte terroristiche, rileva nella misura in cui tale destinazione ultima fosse stata nota agli intermediari al tempo delle operazioni[19].
Secondariamente, va poi considerato il nesso – invero, rilevante – fra l’impiego del sistema hawala e il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel territorio dello Stato italiano, reato previsto e punito dall’art. 12, co. 1 del d.lgs. n. 286 del 1998 (T.u. Imm.), laddove la norma in questione punisce (anche) il <<finanziamento>> del fenomeno migratorio illegale[20]. E’ frequente, infatti, che le somme di denaro impiegate per il pagamento dei viaggi di attraversamento del Mediterraneo, nonché lo spostamento di altre somme tra membri delle organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani, basate in Italia e all’estero, avvenga tramite questa modalità di intermediazione illecita[21]. Va inoltre considerato che, tramite questo sistema di pagamento, è possibile la retribuzione di prestazioni illecite, come, ad esempio, la fornitura di documenti d’identità contraffatti o il pagamento di passeurs alle frontiere. Anche in questo caso, hawala finisce per essere un reato-mezzo e non solo un reato-fine.
Optando per la qualificazione in termini di concorso fra reati ex artt. 81 cpv, varrebbero considerazioni analoghe a quelle effettuate per il finanziamento di operazioni terroristiche. La diversità dei beni giuridici appare come fattore discretivo sufficiente ad escludere un’ipotesi di assorbimento della fattispecie di hawala nel più grave reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina[22]. Ciò posto, si potrebbe però escludere un’ipotesi di concorso nel reato di cui all’art. 12 T.u. Imm. in capo al mediatore che, partecipando all’illecita movimentazione, ignorasse lo scopo di quelle operazioni[23]. L’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998, dove punisce il <<finanziamento>> di associazioni terroristiche, dovrebbe infatti essere qualificato, ad avviso di chi scrive, alla stregua di dolo specifico, difettando così la colpevolezza ove ignota fosse stata la destinazione o l’impiego ultimo delle somme movimentate tramite hawala. Ciò non toglie, ovviamente, che, ove questa fosse stata nota, a nulla rileverebbe il conseguimento o meno dello scopo perseguito dall’agente[24].
Strategie di contrasto
Come evidenziato in apertura, l’impiego di hawala presenta come fattore caratteristico l’uso di una rete fiduciaria, basata sull’onore e sulla stabile ripetitività delle condotte d’illecita intermediazione. Tanto più le stesse vengono reiterate, tanto più sarà solido il patrimonio di affidabilità dei relativi intermediari. Questo può essere considerato un vantaggio ed uno svantaggio al tempo stesso. Se è vero che l’impiego di hawala ha il beneficio di operare in maniera (quasi) occulta, il rischio di infiltrazioni od intercettazioni è elevato. Con attenzione al primo profilo, l’impiego di agenti sotto copertura da parte della polizia giudiziaria può rivelarsi uno strumento utile nel contrasto delle reti di hawaladar. È tuttavia doveroso osservare che questa strategia rischierebbe di fruttare scarsi risultati alla luce dell’elevato grado di impermeabilità delle reti. A questo va altresì aggiunta la possibile reticenza a testimoniare (da parte di informatori plausibilmente stranieri e ben inseriti nelle comunità etniche di riferimento) sulle attività poste in essere dalla rete hawala. Ciò rileva in quanto l’art. 203 c.p.p. prevede l’inutilizzabilità in sede processuale delle dichiarazioni rese da informatori della polizia giudiziaria, qualora gli stessi non accettino di essere uditi come testimoni nel corso del dibattimento. Un simile grado di esposizione poterebbe infatti scoraggiare collaborazioni utili ad infiltrare le reti di intermediatori.
Il ricorso a mezzi particolarmente pervasivi può essere dunque utile ai fini della ricostruzione dei contatti. Su questo fronte, l’impiego del captatore informatico da parte delle autorità inquirenti può risultare determinante per la ricostruzione di un solido quadro probatorio in vista del rinvio a giudizio. Questo occorrerebbe allorché gli intermediari adoperassero applicazioni di messaggistica istantanea (WhatsApp, Telegram ecc.) per impartire ordini e pattuire i termini delle operazioni. L’impiego del malware, con installazione da remoto, consentirebbe così al P.M. e alla polizia giudiziaria di superare i protocolli di crittografia impiegati dalle app di messaggistica istantanea, accedendo a preziose risorse investigative. Va osservato però, sotto questo profilo, che, allorché le indagini vertessero solamente su reti hawala non inserite nella realizzazione di ulteriori attività delittuose, è necessario che sussistano altri e più gravi profili di reato concorrenti con quello di cui all’art. 131-ter T.u.b. per l’impiego di tale tecnologia. Infatti, la mera sussistenza di una rete hawala non finalizzata al finanziamento del terrorismo o non strutturata a guisa di associazione per delinquere, non giustifica l’impiego di una tecnologia tanto pervasiva, giacché i limiti edittali previsti dalla norma predetta sono inferiori rispetto al requisito di cui all’art. 266, co. 1, lett. (a. c.p.p.
Va però rilevato che, qualora si avesse motivo di sospettare la sussistenza di una rete hawala avente, ad esempio, lo scopo di finanziamento del terrorismo, l’art. 267, co. 2-bis, c.p.p. non solo autorizzerebbe l’impiego del captatore informatico, ma addirittura lo consentirebbe tramite presupposti applicativi più generosi di quelli previsti in linea generale dal co. 2 della norma predetta, rientrando tale tipologia di delitti nell’ambito dei procedimenti di cui all’art. 51, co. 3-quater c.p.p.[25].
Da ultimo, allorché si indaghi solamente su reti hawala non finalizzate a commettere i reati di particolare gravità già menzionati, la misura sanzionatoria massima prevista dall’art. 131-ter T.u.b. (e cioè la reclusione da sei mesi a quattro anni) non consentirebbe l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere per gli indagati del reato di hawala, ove sussistenti le necessarie esigenze cautelari, beninteso. In prospettiva di un auspicabile intervento normativo, ai fini di una migliore eradicazione delle reti di intermediazione illecita, la permanenza predetentiva degli indagati in una struttura carceraria potrebbe risultare utile ai fini dello smantellamento del sodalizio: tale risultato potrebbe essere raggiunto, però, soltanto tramite un intervento legislativo sulla forchetta edittale della norma predetta, con l’innalzamento della pena massima da quattro a cinque anni di reclusione (portando così il massimo in corrispondenza del requisito richiesto dall’art. 280, co. 2, c.p.p. in tema di custodia cautelare in carcere).
Informazioni
COCCIA G., Il finanziamento al sedicente Stato Islamico attraverso l’utilizzo dei servizi informali per il Trasferimento dei Valori. Il caso “Hawala” ed il motivo della sua potenziale maggiore diffusione a seguito della sconfitta militare subita sul territorio dal Califfato, in Rassegna dell’Avvocatura dello Stato, n. 3/2020.
QUATTROCCHI, A., La rilevanza penale del sistema di pagamento hawala nel reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (nota a Trib. Palermo, sent. n. 400/2018, (dep. 18 settembre 2018), in DPC, 2/2019.
Cassazione penale sez. V, 16/01/2015, n.25160.
Cassazione penale sez. II, 15/10/2020, n.5241.
Cassazione penale sez. V, 20/10/2020, n.36034.
Corte d’Assise di Brescia, 4/2019.
Corte d’Appello di Brescia, 26/11/2019.
[1] Cfr. C. App. di Brescia, 26/11/2019.
[2] Il movimentare somme di denaro può portare a nascondere i proventi illeciti e a favorire il riciclaggio di denaro. Per un approfondimento sulle modalità invito a leggere l’articolo di Lorenzo Venezia pubblicato su DirittoConsenso, reperibile a questo link: http://www.dirittoconsenso.it/2019/05/02/alcuni-metodi-di-riciclaggio-di-denaro/
[3] G. COCCIA, Il finanziamento al sedicente Stato Islamico attraverso l’utilizzo dei servizi informali per il Trasferimento dei Valori. Il caso “Hawala” ed il motivo della sua potenziale maggiore diffusione a seguito della sconfitta militare subita sul territorio dal Califfato, in Rassegna dell’Avvocatura dello Stato, n. 3/2020, cit. p. 15. A ben vedere, la movimentazione del denaro non è materiale, bensì solo virtuale. Come afferma Cass. Pen., sez I, 20/10/2020, n. 36034 <<in sostanza il denaro viene trasferito “virtualmente” o meglio viene trasferito solo il “valore” del denaro, senza “trasportare” la somma di denaro dal mittente al destinatario, da un paese all’altro>>.
[4] Sul punto, v. anche C. App. Milano, 28/05/2019, che ha ritenuto la sussistenza del reato di cui all’art. 131-ter T.u.b. realizzato da alcuni soggetti che avevano realizzato, in tempi diversi, tre operazioni hawala.
[5] Cass. Pen., sez. II, 15/10/2020, n. 5241.
[6] A. QUATTROCCHI, La rilevanza penale del sistema di pagamento hawala nel reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (nota a Trib. Palermo, sent. n. 400/2018, (dep. 18 settembre 2018), in DPC, 2/2019, cit., p. 30.
[7] Ibidem.
[8] Inoltre, proprio perché la giurisprudenza di legittimità qualifica il reato di cui all’art. 131-ter T.u.b. come di pericolo presunto, l’anticipazione punitiva qui proposta sarebbe comunque coerente con la qualificazione attribuita a questo delitto dalla Suprema Corte, riprendendo quanto considerato sul punto in Cass. Pen., sez. V, 16/01/2015, n. 25160.
[9] Cass. Pen., sez. V, 16/01/2015, n. 25160.
[10] Contra, (ed apprezzabilmente), C. App. Torino, 03/04/2014.
[11] L’apparente contrasto si potrebbe risolvere in senso “cronologico”, accordando preferenza all’arresto giurisprudenziale più recente: secondo Cass. Pen., sez. II, 15/10/2020, n. 5241, non dovendo necessariamente sussistere la continuatività degli atti, si dovrebbe propendere per la punibilità anche di operazioni compiute una tantum nell’ambito di una sufficiente strutturazione, rilevando così più la dimensione organizzativa piuttosto che il “volume” delle operazioni.
[12] Cass. Pen., sez. II, 15/10/2020, n. 5241.
[13] Come ricorda Cass. Pen., sez. I, 23/11/2017, n.57440, a proposito della sussistenza dell’aggravante de qua <<è specificamente necessario che la commissione del reato sia stata determinata, o anche solo agevolata, in tutto o in parte, da un gruppo criminale organizzato impegnato in attività illecite in più di uno Stato>>.
[14] Corte d’Assise di Brescia, 4/2019, K. e altri.
[15] Cfr. l’art. 270-sexies c.p. per la tipizzazione di “condotte con finalità di terrorismo”.
[16] C. Assise di Brescia, 4/2019.
[17] Inoltre, l’applicazione della continuazione di cui all’art. 81 cpv c.p. consentirebbe di irrogare una risposta sanzionatoria più severa di quella riconducibile ad un’ipotesi di mero assorbimento, applicando così la pena prevista per il più grave reato di cui all’art. 270-quinquies.1 c.p., aumentata ai sensi del predetto art. 81 c.p. (sia pure con i limiti di cui all’art. 81, ult. co.). Secondariamente, ai fini di una più profonda eradicazione della rete, l’art. 270-septies c.p. consentirebbe nello specifico la confisca delle somme movimentate.
[18] Cass. Pen., sez. I, 20/10/2020, n. 36034.
[19] L’elemento psicologico potrebbe essere ricostruito (anche) in termini di dolo eventuale laddove, anche nella ragionevole prevedibilità di un siffatto impiego, il mediatore avesse comunque agito, accettando così le possibili implicazioni del suo gesto, ancorché non ne avesse avuto contezza assoluta.
[20] Non va dimenticato che il reato in questione potrebbe configurarsi nella sua fattispecie aggravata, con attenzione al co. 3-bis, lett. B) dell’art. 12 T.u. Imm. Infatti, l’esercizio della illecita intermediazione comporta per gli intermediatori il guadagno di un (pur modesto) profitto in forma di percentuale sulla somma movimentata a titolo di commissione. Tale utilità, percepita o promessa, potrebbe aggravare il reato di favoreggiamento contestato in relazione al summenzionato co. 1.
[21] Cfr. Trib. Palermo, G.u.p., sent. n. 400/2018 (dep. 18/09/2018).
[22] Valgono le stesse considerazioni in tema di dosimetria sanzionatoria di cui alla nota 13. La pena prevista dall’art. 12 T.u. Imm. è la reclusione da uno a cinque anni e la multa di 15.000 euro per ogni persona fatta entrare in Italia.
[23] Vale però quanto detto alla nota 17.
[24] A tal proposito, <<il delitto di cui all’art. 12 d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286 […] ha natura di reato di pericolo o a consumazione anticipata ed è del tutto irrilevante il conseguimento dello scopo: il reato, cioè, si perfeziona per il solo fatto che l’agente pone in essere, con la sua condotta, una condizione, anche non necessaria, teleologicamente connessa al potenziale ingresso illegale dello straniero nel territorio dello Stato o di altro Stato, e indipendentemente dal verificarsi dell’evento>>. Così Cass. Pen., sez. I, 13/05/2016, n.9636.
[25] Giova ricordare che, in riferimento ai luoghi di cui all’art. 614 c.p., l’art. 266, co. 2, c.p.p. richiede che vi sia <<fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa>>.

Alvise Accordati
Ciao, sono Alvise. Veneziano, classe 1996, ho conseguito la laurea in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Ferrara nel luglio 2021 con una tesi in Giustizia costituzionale. Materia, questa, che si colloca al vertice dei miei interessi giuridici, seguita dal diritto penale e dal diritto amministrativo. Da cattolico, inoltre, ho sempre amato indagare il rapporto tra Fede e diritto. Amo, infine, la Storia (antica e contemporanea) e le lettere classiche. Attualmente svolgo il tirocinio formativo ex art. 73, decreto legge n. 69 del 2013, presso la Corte d'appello di Venezia.