Lo Stato fallito alla luce della teoria della soggettività internazionale e della prassi
Lo Stato fallito: nozione e finalità della trattazione
Per Stato fallito si intende quell’ente non capace di esercitare in maniera effettiva il proprio potere d’imperio su un territorio e sul popolo ivi stanziato. Da tale nozione discende la condizione preliminare secondo la quale prima di divenire “fallito” quello Stato si è rivelato alla comunità internazionale quale ente in grado di manifestare la propria sovranità. Ed invero, la prassi mostra come il fallimento dello Stato derivi da eventi esterni[1] o, sempre più spesso, interni[2] tali da destabilizzare la solidità del potere statuale.
La più elevata complessità che la rilevazione di un “failed State”[3] pone è quella di comprendere se tale ente possa continuare ad essere considerato un soggetto di diritto internazionale oppure perda la sua personalità giuridica.
Dal momento che esiste una discrasia tra la teoria della soggettività e la prassi, occorre offrire – qui di seguito – un’analisi completa che tenga in considerazione entrambi gli aspetti.
La nozione di Stato rilevante per il diritto internazionale
È noto che Governo, Popolo e Territorio si configurino come gli elementi costitutivi dello Stato. Essi trovano una più o meno maggiore accentuazione a seconda della nozione di Stato che si intenda prendere in considerazione.
Si può, infatti, parlare di “Stato-comunità”, inteso come l’insieme degli individui che formano la popolazione dell’ente: in tale accezione assume, dunque, maggiore rilevanza l’elemento del Popolo.
Ancora, è possibile considerare la nozione di “Stato-ordinamento”, dando una più elevata risonanza all’assetto legislativo che governa un determinato territorio.
Tuttavia, la nozione di Stato rilevante per il diritto internazionale è quella di “Stato-apparato”[4]: popolo e territorio, infatti, sono ambito di esplicazione del potere del Governo che eleva i primi due elementi ad un’unità giuridica.
Ne deriva che, alla luce della teoria della soggettività internazionale, ad uno Stato fallito non possa riconoscersi sic et simpliciter la personalità giuridica sul piano delle relazioni internazionali.
La teoria della soggettività internazionale e lo Stato fallito
La soggettività internazionale è il possesso da parte di un ente materiale di una pluralità giuridica astratta, tale da renderlo idoneo ad essere titolare di diritti, obblighi ed altre situazioni giuridiche soggettive sul piano internazionale[5]. In altre parole, è persona giuridica quell’ente che riesce ad interagire con altri soggetti di diritto internazionale. La giurisprudenza dominante[6] considera gli Stati e le organizzazioni internazionali dotati di tale attitudine.
Tuttavia, non sempre nella prassi appare semplice individuare i soggetti internazionali, dal momento che la comunità internazionale si configura come anorganica, cioè priva di organi che ne determinano la sua conformazione, tanto da aversi una sostanziale parità giuridica tra i soggetti.
Premesso ciò, oggetto dell’analisi sarà comprendere se lo Stato fallito possa comunque considerarsi un soggetto di diritto internazionale.
A tale scopo, occorre esaminare gli elementi che determinano la personalità dello Stato. Questi si estrinsecano nel concetto di sovranità, sia essa esterna che interna.
Nel primo caso, dovrà farsi cenno alla nozione di indipendenza: essa si configura come l’attitudine dell’ente di trarre la forza giuridica da una propria legge fondamentale, tale da esercitare un potere autonomo rispetto agli altri soggetti[7].
Nel secondo caso, invece, si dovrà parlare di effettività, cioè la capacità dello Stato di poter imporre la propria autorità sui cittadini. Tale carattere assume natura relativa e, dunque, non può assumersi come certo che la presenza di fenomeni insurrezionali sul territorio di uno Stato portino al suo fallimento in senso giuridico.
Inoltre, appare necessario soffermarsi anche sull’importanza che il riconoscimento assume nell’ambito delle relazioni internazionali. Sebbene, a differenza di quanto accadeva nella comunità internazionale classica, il riconoscimento oggi ha un valore meramente dichiarativo e non costitutivo della soggettività[8], non si può negare l’importanza politica che questo riveste. Ed invero, il riconoscimento di uno Stato nei confronti di un suo omologo importa l’instaurazione di relazioni diplomatiche formali e la persuasione del resto della comunità internazionale verso un analogo contegno positivo. Ciò è tanto più vero, non solo quanti più Stati si mostrano disposti a riconoscere l’ente, ma anche quali tra questi. È noto che, in ragione di un principio mal celato di imprescindibilità dei rapporti di forza, quando a riconoscere un ente è una delle potenze maggiormente rappresentative in un determinato periodo storico, il resto della comunità internazionale è predisposto a fare altrettanto.
Dunque, si ribadisce che, alla luce della teoria pura della soggettività internazionale, uno Stato fallito risulta privo di personalità giuridica in quanto non integra il carattere dell’effettività. Tuttavia, come si vedrà nel prosieguo, la prassi non è così rigida.
Lo Stato fallito alla luce della prassi internazionale
Si è detto dell’atteggiamento meno rigoroso della comunità internazionale rispetto alla teoria della soggettività. Una delle motivazioni è sicuramente di carattere politico, in quanto dichiarare “fallito” uno Stato significa determinare un vuoto di autorità. A ciò consegue una maggiore probabilità, nella prassi verificatasi, di violazione dei diritti umani e di proliferazione della criminalità organizzata.
Inoltre, dalla storia si apprende che buona parte degli Stati oggi falliti escono dal processo di decolonizzazione e, dunque, ciò ha impedito che il carattere dell’effettività si manifestasse in maniera evidente e solida.
Tuttavia, ai fini della presente trattazione, va rilevato che tale atteggiamento flessibile della comunità internazionale è da ascriversi ad una ragione giuridica. Dichiarare fallito uno Stato significa considerare il suo territorio come res nullius e quindi suscettibile di occupazione straniera. Tale atto determinerebbe la violazione di due norme di ius cogens e, quindi, come tali inderogabili, a scapito della pace e della sicurezza internazionale: il divieto dell’uso della forza e il diritto di autodeterminazione dei popoli.
A tal riguardo, il caso della Somalia appare sicuramente funzionale alla comprensione della discrasia tra teoria della soggettività internazionale e prassi. Ed invero, seppur palesemente priva di un governo effettivo, la comunità internazionale ben lungi dall’aver dichiarato tale ente come Stato fallito. Ciò trova dimostrazione nel fatto che dal 2008 il Consiglio di Sicurezza, organo delle Nazioni Unite le cui risoluzioni sono notoriamente destinati agli Stati, ha adottato numerose misure nei confronti della Somalia: si pensi alle misure di reazione ex capo VII della Carta ONU, alla costituzione di operazioni di peacekeeping e di peacebuilding in associazione con altre organizzazioni regionali[9].
Appare evidente, in definitiva, che la comunità internazionale è indirizzata verso l’adozione di misure di prevenzione attraverso forme di cooperazione, al fine di evitare la dichiarazione di fallimento.
Informazioni
CONFORTI, 2014, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica
Convenzione UNCLOS
DEL VECCHIO, 2003, Giurisdizione internazionale e globalizzazione, Giuffrè Editore
FOCARELLI, 2019, Diritto internazionale, Wolters Kluwer CEDAM
SINAGRA-BARGIACCHI, 2019, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Giuffré Francis Lefebvre
[1] Si pensi a invasioni o occupazioni da parte di Stati terzi.
[2] Si pensi ad una guerra civile.
[3] Versione anglosassone di “Stato fallito”.
[4] Tale circostanza risulta chiara dalla prassi internazionali così come codificata nel Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati del 2001.
[5] Cfr. SINAGRA-BARGIACCHI, 2019, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Giuffré Francis Lefebvre.
[6] Ex multis, CIG, 1949, Parere sulle riparazioni per lesioni subite a servizio delle Nazioni Unite.
[7] Cfr. CPA, 1928, Isola di Palmas; CPGI, 1931, Parere sul regime doganale tra Austria e Germania.
[8] Sul valore dichiarativo del riconoscimento, si vedano: 10° Parere della Commissione Badinter, art. 3 Convenzione di Montevideo, art. 9 Trattato OSA.
[9] Per approfondimenti su tale fenomeno, si veda A. FEDERICO, Le operazioni di peacekeeping, al seguente link http://www.dirittoconsenso.it/2021/08/10/le-operazioni-di-peacekeeping/

Angela Federico
Ciao, sono Angela. Dottoressa in Giurisprudenza cum laude con una tesi sul diritto alla vita, ho perfezionato i miei studi con il Master SIOI in Studi Diplomatici e attualmente ricopro la funzione di addetta all'Ufficio per il Processo presso la sezione penale del Tribunale di Castrovillari. Nutro un particolare interesse per tutte le materie attinenti al diritto pubblico generale, i.e. diritto costituzionale, diritto internazionale pubblico, diritto dell'Unione europea e delle altre organizzazioni internazionali. Parlo fluentemente inglese e spagnolo e mi aggiorno quotidianamente sulle questioni di attualità internazionale più rilevanti.