L’ambito di applicazione e il fondamento giustificativo della facoltà di non rispondere dell’indagato ex art. 64, c. 3, lett. b) c.p.p..
La facoltà di non rispondere ai sensi dell’art. 64, c. 3, lett. b) c.p.p.: esegesi della norma
La facoltà di non rispondere dei soggetti sottoposti alle indagini preliminari (c.d. indagati) è un istituto del diritto processuale penale, previsto dall’art. 64, c. 3, lett. b). Tale disposizione prevede che, prima che il suo interrogatorio abbia inizio, il soggetto indagato debba essere avvertito che, salvo quanto disposto dall’articolo 66, comma 1, ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda.
Inoltre, la norma stessa afferma che, rispetto alla prescrizione in essa contenuta, è fatto salvo quanto disposto dall’art. 66, c. 1: quest’ultimo, nella sostanza, prescrive l’obbligo dell’imputato[1] di dichiarare, dietro invito della autorità giudiziaria, le proprie generalità e quant’altro valga ad identificarlo[2]. Tali informazioni sono le sole, dunque, rispetto alle quali il soggetto indagato non può avvalersi del c.d. ius tacendi riconosciutogli dall’art. 64, c. 3, lett. b).
L’art. 64, c. 3-bis stabilisce poi che l’inosservanza dell’obbligo di avvertimento di cui al c. 3 lett. b) rende inutilizzabili le dichiarazioni rese dalla persona interrogata.
In generale, è dunque possibile osservare che l’attribuzione della suddetta facoltà di non rispondere costituisce una garanzia difensiva a favore del soggetto indagato – in quanto quest’ultimo viene esonerato dall’obbligo di rispondere che invece generalmente sussiste per gli altri soggetti del procedimento penale, come i testimoni (art. 198, c. 1, c.p.p.)[3] – la cui effettività è assicurata:
- innanzitutto dall’obbligo di avvertimento di cui allo stesso art. 64, c. 3, lett. b);
- in secondo luogo dalla sanzione di inutilizzabilità per l’atto di assunzione che venga compiuto in violazione del medesimo obbligo di avvertimento (inutilizzabilità della dichiarazione contra se).
Ambito di applicazione dell’istituto
L’istituto della facoltà di non rispondere si applica a tutti gli atti costituenti formalmente “interrogatorio” dell’indagato o dell’imputato (artt. 208-210 c.p.p.), nonché a tutti quelli che risultano ad esso assimilabili in quanto possibili sedi di domande all’incolpato[4].
In generale, il nostro ordinamento considera “interrogatorio” qualsiasi atto di esame del soggetto incolpato che, ai sensi dell’art. 364 c.p.p., avviene alla presenza del suo difensore. A rigor di logica, dunque, non dovrebbero considerarsi interrogatori quelli di cui ai commi 5 e 7 dell’art. 350 c.p.p., ovvero quegli atti in cui la polizia giudiziaria può ricevere dall’indagato, anche senza la presenza del difensore, rispettivamente “notizie e indicazioni utili ai fini della immediata prosecuzione delle indagini” (c. 5), oppure “dichiarazioni spontanee” (c. 7). Di conseguenza, in relazione a queste due fattispecie, la polizia giudiziaria non è tenuta a dare l’avviso di cui all’art. 64 c.p.p..
A tutela dell’indagato, nel primo dei precedenti casi, viene in luce però la norma del comma 6 dell’art. 350, che vieta la verbalizzazione e l’utilizzazione delle dichiarazioni assunte meramente ai fini dell’immediata prosecuzione delle indagini, mentre nel secondo caso lo stesso c. 7 dell’art. 350 afferma che le spontanee dichiarazioni non possono essere utilizzate in dibattimento, a meno che l’imputato riferisca dichiarazioni difformi (art. 503. c. 3 c.p.p.)[5].
La facoltà di non rispondere come ostacolo all’accertamento del fatto
Tenuto conto di quanto precede, è possibile però porsi un interrogativo: se il procedimento penale ha come finalità precipua quella di permettere al giudice di accertare un fatto di reato e stabilire la responsabilità penale del soggetto accusato, come si giustifica la circostanza che quest’ultimo, ancor prima che venga formulata l’imputazione nei suoi confronti, può legittimamente decidere di non collaborare e non rispondere alle domande che gli vengono poste a scopo investigativo?
Per dare risposta a tale quesito è necessario analizzare la ratio dell’istituto oggetto del presente esame.
Il diritto al silenzio come espressione del diritto di difesa
Il fondamento della facoltà di non rispondere della persona sottoposta alle indagini preliminari è eminentemente politico, e mira ad evitare che il soggetto indagato, con le sue dichiarazioni, possa contribuire a fondare la sua stessa accusa.
Il diritto al silenzio dell’indagato/imputato, come già accennato, è infatti espressione del suo diritto di difesa[6], che costituisce uno dei pilastri del sistema accusatorio[7].
Nel sistema inquisitorio il soggetto indagato è privo di una vera e propria difesa; costui viene chiamato a perseguire le stesse finalità del soggetto inquirente e costretto a rendere noti tutti gli elementi di sua conoscenza attinenti al fatto di reato che, eventualmente, possano condurre all’accertamento della sua responsabilità. In una prospettiva storica, il modello inquisitorio ha addirittura giustificato l’uso sistematico della forza al fine di estorcere le dichiarazioni dell’indagato.
Al contrario, il sistema accusatorio non solo rifugge l’idea dell’uso della forza per l’escussione degli indagati, ma riconosce al soggetto indagato/imputato ampie garanzie difensive. Tra queste rientra il diritto al silenzio, di cui è corollario la facoltà di non rispondere dell’indagato in sede di interrogatorio di garanzia.
A tale facoltà si affianca, inoltre, la possibilità dell’indagato di mentire, rendendo dichiarazioni false o mendaci a fini difensivi, che seppur non prevista espressamente dal legislatore, è ugualmente espressione, proprio come la facoltà di non rispondere, dell’antico principio “nemo tenetur se detegere”, per cui l’imputato non può essere obbligato a fornire alcuna informazione a proprio danno[8].
Il diritto al silenzio, in definitiva, costituisce un’applicazione negativa (o passiva[9]) del diritto di difesa (e più specificamente del diritto di autodifesa[10]): garantisce la legittima scelta dell’indagato di “difendersi tacendo”.
Tale scelta legislativa risulta coerente con l’impianto accusatorio del procedimento penale, che attribuisce esclusivamente al Pubblico Ministero – quale parte processuale – il compito di dimostrare tutti gli elementi della fattispecie incriminatrice, ed esclude, quindi, un obbligo di collaborazione dell’indagato.
(Segue) Il diritto al silenzio come corollario della presunzione di innocenza
Va ancora osservato come il diritto al silenzio sia intrinsecamente correlato, oltre che al diritto di difesa, alla presunzione di innocenza (o di non colpevolezza). L’art. 27, c. 2 Cost., che sancisce l’anzidetto principio, afferma che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”.
Tale precetto impone di guardare all’indagato come a un presunto non colpevole, e cioè come alla persona meno informata dei fatti oggetto di imputazione. Ne deriva che “sul piano logico, prima ancora che su quello giuridico, sarebbe inammissibile pretendere da tale soggetto un contributo conoscitivo in ordine a circostanze che si devono ritenere da lui non conosciute, in quanto, appunto, presunto innocente”[11].
Tale assetto interpretativo, tuttavia, si pone in contraddizione con la tradizionale e intuitiva affermazione secondo cui tra i soggetti che a vario titolo intervengono nel processo penale, l’imputato è quello che possiede il più ampio patrimonio di conoscenze sui fatti[12]. Effettivamente tale ultima osservazione risulta condivisibile e oggettiva: sia qualora l’indagato conosca la sua responsabilità, sia qualora sappia di essere innocente, il suo bagaglio conoscitivo sarebbe in ogni caso determinante per gli esiti del procedimento. Tuttavia, trattarlo come se non conoscesse affatto le circostanze relative al fatto di reato per cui si procede è una fictio processuale, funzionale a mettere in atto il suo diritto di autodifesa, e dare contenuto alla presunzione di non colpevolezza.
Conclusioni
In sintesi, è possibile affermare che la facoltà di non rispondere dell’indagato è un istituto che ben si inserisce nello schema accusatorio del procedimento penale adottato dal nostro ordinamento. L’istituto è funzionale alla tutela del diritto di difesa dell’indagato/imputato, e più in generale risponde alla logica del riconoscimento, nei confronti dello stesso soggetto, della possibilità di autodeterminarsi liberamente, nel rispetto della sua libertà morale.
La facoltà di non rispondere rappresenta quell’istituto processuale atto a presidiare la formazione della volontà individuale, da intendersi soprattutto come assenza di qualunque forma di coartazione “psichica” della persona sottoposta a procedimento penale, il cui contributo alla ricostruzione del fatto deve essere necessariamente “frutto di un’iniziativa informata, consapevole e spontanea rispetto alla vicenda processuale”[13], e può, dunque, ben risolversi in un silenzio di fatto.
Informazioni
G. FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, Giuffrè, Milano, 1965.
A. LARONGA, Sul valore probatorio del contegno non collaborativo dell’imputato nell’accertamento del fatto proprio, in Questionegiustizia.it, 14 aprile 2014.
O. MAZZA, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nel suo procedimento, Milano, 2004, 46 ss..
V. PATANÈ, Il diritto al silenzio dell’imputato, Giappichelli, Torino, 2006.
D. QUARTO, Libertà morale dell’imputato e valutazione probatoria dello ius tacendi, in Quaderni del Dipartimento Jonico, 11, 2019.
P.TONINI, Manuale di procedura penale, Giuffré, Milano, 2018.
[1] Nonostante la disposizione dell’art. 66, c. 1 c.p. faccia specifico riferimento all’imputato, la prescrizione in esso contenuta deve applicarsi anche al soggetto sottoposto alle indagini, in virtù della norma di cui all’art. 61, c.p., che estende i diritti e le garanzie dell’imputato (c. 1), e più in generale ogni altra disposizione relativa all’imputato (c. 2) alla persona sottoposta alle indagini preliminari.
[2] L’art. 66, c. 1, inoltre, prevede che l’invito che l’autorità giudiziaria deve avanzare nei confronti dell’imputato, relativo alla dichiarazione delle sue generalità e quant’altro valga ad identificarlo, deve essere accompagnato dall’ammonimento circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false. Tali conseguenze sono descritte dall’art. 495 c.p. che prevede la fattispecie di reato di falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri, e alla cui lettura si rimanda.
[3] Sull’esame dei testimoni nel processo penale v. A. STRADA, L’esame testimoniale nel processo penale, su Dirittoconsenso.it, al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2021/09/03/esame-testimoniale-nel-processo-penale/ .
[4] Cfr. A. LARONGA, Sul valore probatorio del contegno non collaborativo dell’imputato nell’accertamento del fatto proprio, in Questionegiustizia.it, 17 aprile 2014 (reperibile al seguente link: https://www.questionegiustizia.it/articolo/nemo-tenetur-se-detegere_17-04-2014.php ) in cui l’autore passa in rassegna tutti gli atti del procedimento penale che possono costituire potenziali interrogatori dell’incolpato: “a) l’interrogatorio da parte del p.m. durante le indagini preliminari, determinato da presentazione spontanea (art. 374 c.p.p.) o da invito a presentarsi (art. 375 c.p.p.), oppure da arresto o fermo di indiziato di delitto (art. 388, comma 2, c.p.p.); b) l’interrogatorio dell’indiziato sottoposto a misura cautelare, oppure precautelare, da parte del G.i.p. (artt. 289, comma 2, 294, 299, comma 3-ter, 391, comma 3, c.p.p.); c) le sommarie informazioni dall’indagato e/o l’interrogatorio delegato del medesimo ad opera della polizia giudiziaria (artt. 350 e 370, comma 1, c.p.p.); d) l’interrogatorio cui l’imputato richieda di essere sottoposto nell’udienza preliminare ordinaria oppure in sede d’integrazione probatoria disposta dal giudice durante la stessa fase (artt. 421, comma 2, 422, comma 4, c.p.p.); e) l’interrogatorio cui l’imputato chieda d’essere sottoposto nel corso del giudizio abbreviato (art. 441, comma 6, c.p.p. in relazione all’art. 422, comma 4, c.p.p.)”.
[5] Nonostante l’esistenza delle garanzie sopra menzionate, vi è chi ha sostenuto che anche solo la possibilità di utilizzare tali informazioni per l’acquisizione di “notizie e indicazioni utili ai fini della immediata prosecuzione delle indagini” può tradursi in un sostanziale aggiramento del diritto di autodifesa passiva dell’indagato, e che, di conseguenza, sarebbe opportuno estendere in via analogica anche a queste ipotesi l’avvertimento di cui all’art. 64, c. 3, lett. b). Cfr. IDEM, Ivi, 6.
[6] Lo ius tacendi trova dunque aggancio costituzionale nell’art. 24, c. 2 Cost., a norma del quale “La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”.
[7] È bene tenere a mente che nonostante si faccia riferimento a modelli puri (modello accusatorio e modello inquisitorio), si tratta quasi sempre, in realtà, di impronte accusatorie o inquisitorie caratterizzanti il procedimento penale. È raro infatti che esistano modelli puri, del tutto inquisitori o accusatori. Più di frequente si ha un modello misto, che recepisce alcuni istituti e canoni dal modello accusatorio e altri dal modello inquisitorio. Lo stesso sistema processuale italiano, ad oggi, è un sistema misto con prevalenza di aspetti accusatori. Cfr. P. TONINI, Manuale di procedura penale, Giuffré, Milano, 2018, 6 ss..
[8] Infatti, oltre a non essere tenuto all’obbligo di rispondere a cui invece soggiace il testimone ex art. 198 c.p.p., l’indagato/imputato non è neppure sottoposto ad alcun obbligo di verità, e le sue eventuali dichiarazioni false o mendaci non costituiscono, agli occhi dell’ordinamento, autonoma fattispecie di reato, alla stregua delle false dichiarazioni del testimone (art. 372 c.p.).
[9] Cfr. V. PATANÈ, Il diritto al silenzio dell’imputato, Giappichelli, Torino, 2006, 85 ss..
[10] Sebbene in generale, nel nostro ordinamento, l’imputato nel procedimento penale è tenuto a dotarsi di una difesa tecnica, ai sensi degli artt. 96 e 97 c.p.p., esiste una notevole serie di atti specifici attraverso cui l’accusato può offrire il proprio contributo autodifensivo. Uno di questi è indubbiamente l’interrogatorio del soggetto indagato/imputato, nell’ambito del quale egli può rispondere al fine di respingere le accuse mosse nei suoi confronti (anche mentendo), oppure tacere. Se la mancata risposta costituisce applicazione passiva del diritto di (auto)difesa, la menzionata possibilità di mendacio difensivo, al contrario, costituisce la sua configurazione positiva (o attiva), in quanto rappresenta la facoltà per l’indagato/imputato “di fornire il proprio apporto conoscitivo alla ricostruzione fattuale senza dover soggiacere agli obblighi di verità che caratterizzano la testimonianza”. Cfr. A. LARONGA, Op. cit., 3.
[11] O. MAZZA, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nel suo procedimento, Milano, 2004, 46 ss..
[12] In tal senso v. G. FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, Giuffrè, Milano, 1965, pp. 453 ss..
[13] V. PATANÈ, Op. cit., 104.

Massimo Pillosu
Ciao, sono Massimo. Mi sono laureato in giurisprudenza nel luglio del 2020 presso l'Università degli studi di Cagliari con una tesi in procedura penale sulla cooperazione giudiziaria in materia penale nell'ambito dell'Unione europea. Oggi svolgo la pratica forense presso uno studio legale a Cagliari e continuo a studiare con l'obiettivo di sostenere l'esame di stato per l'abilitazione alla professione forense, nonché approfondire le mie conoscenze teoriche del diritto.
Ho fatto parte di DirittoConsenso da gennaio ad ottobre 2021.