La giurisprudenza italiana sulla proporzionalità nell’uso legittimo delle armi

 

Libertà e autorità: l’impiego della forza (armata)

Ciò che non è proibito è lecito e ciò che è imposto è, a maggior ragione, doveroso. In tanto si può compendiare il principio di non contraddizione dell’ordinamento, in forza del quale non è consentito che una condotta sia al contempo realizzabile, in quanto posta in un’area di liceità agli occhi del diritto, e penalmente rilevante[1]. Muovendo dalla premessa generale appena proposta, conviene analizzare, quale buon banco di prova della non contraddizione, la causa di giustificazione di cui all’art. 53 cod. pen. e cioè l’uso legittimo delle armi[2].

Lungi da una analitica esposizione, si è preferito concentrarsi su alcune questioni interpretative e applicative che hanno impegnato la giurisprudenza (specie di legittimità) nella definizione del campo applicativo di questa scriminante. Si tratta di una tematica di tutta rilevanza.

Il confine che separa il legittimo impiego di un’arma, da parte di chi la detenga e la impieghi per fini di pubblica necessità e un abuso punibile del suo utilizzo investe direttamente il complesso dialogo Stato-cittadino. Ove equilibrato, cioè ispirato dal fondamentale principio di proporzione[3], viene a configurarsi come un rapporto che relega l’uso della violenza a giustificata eccezione. Viceversa, dove sbilanciato, non di dialogo è lecito parlare, quanto piuttosto di scontro, nell’ambito del complesso rapporto libertà-autorità.

Proprio per questo motivo, è assolutamente apprezzabile che gli approdi interpretativi più recenti abbiano posto particolare accento sul canone della proporzionalità, anche in una prospettiva ermeneutica attenta che tenga conto del dato costituzionale.  Ciò posto, buona parte della linea che separa il terreno scriminato da quello penalmente rilevante in tema di impiego di un’arma è stata tracciata dalla giurisprudenza (specie di legittimità) e, pertanto, è conviene comprendere i reali termini del problema. Senza pretermettere il dato normativo, beninteso.

 

L’art. 53 c.p.: l’uso legittimo delle armi

Il punto nodale su cui conviene concentrarsi è l’individuazione di quelle situazioni in cui il legislatore ritiene sia lecito, per il pubblico ufficiale, fare uso dell’arma d’ordinanza nell’ambito dell’esercizio delle sue funzioni. Su questo versante, il testo dell’art. 53 c.p. prevede l’elisione dell’antigiuridicità del fatto tipico (ad esempio, di lesioni personali) nel momento in cui l’uso dell’arma (o dello strumento di coazione) costituisce una reazione del pubblico ufficiale.

Più nel dettaglio, la disposizione fa riferimento alla “necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona”.

È interessante soffermarsi sull’esegesi della prima parte della norma (limitandosi ai concetti di violenza e resistenza), ritenuto che, secondo la Cassazione, “tanto la violenza quanto la resistenza sono costituite dall’impiego della forza, fisica o morale, diversificandosi solo per lo scopo che anima i soggetti[4].

 

La violenza

Sul significato della violenza, è opportuno riprendere l’ampia definizione fornita dalla Cassazione, secondo cui questa consiste nella “esplicazione di qualsiasi energia fisica da cui derivi una coazione personale[5]. Nelle ipotesi de quibus l’uso dell’arma si configura come una reazione proporzionata quando rapportata ad una condotta offensiva, idonea per le sue modalità esplicative, a causare un danno (anche potenzialmente letale) alla incolumità e alla vita del pubblico ufficiale o a quella di terzi estranei.

È chiaro, quindi, che la violenza debba immaginarsi come un impiego di forza attiva, esplicata contro (ed ai danni) del pubblico ufficiale nell’esercizio dei suoi doveri d’ufficio. Si pensi, ad esempio, a dei rapinatori armati che, fuoriuscendo da un istituto di credito appena svaligiato, ingaggiassero sulla pubblica via uno scontro a fuoco con i Carabinieri[6], non solo per guadagnarsi la fuga, ma anche allo scopo di neutralizzare la resistenza opposta dalla forza pubblica.

L’interpretazione assegnata a questo termine, tuttavia, non ha sempre seguito un rettilineo, trovando piuttosto un percorso accidentato in relazione alle specificità dei casi concreti.

Infatti, l’orientamento della Suprema Corte ha ritenuto che, al fine di ritenere sussistente la “violenza”, la stessa, oltre al carattere della serietà, dovesse annoverare anche il carattere dell’attualità. Sicché il giudice di legittimità ha affermato che non risulta scriminata la condotta del pubblico ufficiale che, all’interno dell’auto di pattuglia, vistosi puntare addosso una rivoltella da un soggetto al centro della carreggiata, sia sceso ed abbia immediatamente esploso dei colpi di arma d’ordinanza, cagionandone il decesso[7].

Si può obiettare che, dove di attualità del pericolo si tratti, anche impugnare minacciosamente un’arma in direzione del pubblico ufficiale sia da considerarsi violenza, venendosi a creare un reale e concreto rischio per la sua incolumità.

Inoltre, non va dimenticato che la natura dei beni posti in serio e credibile pericolo dalla condotta del soggetto colpito ben potesse ritenersi, nella succitata pronuncia, di pari rango rispetto a quelli minacciati (e cioè la vita e l’integrità fisica degli operatori di pattuglia). Non parrebbe così violato, ad avviso di chi scrive, il canone della proporzionalità tra offesa (potenziale, ma allo stesso ben attuale per le sue modalità esplicative, e reazione del pubblico ufficiale).

 

La resistenza, da distinguersi in: attiva …

Sempre sul piano interpretativo, chiarita la natura attiva e attuale della violenza per cui l’impiego dell’arma si pone, il più delle volte, come reazione proporzionata con attenzione ai beni in gioco, spinoso problema è la bipartizione della resistenza, sulla quale il legislatore tace.

Il problema della (difficile) distinzione fra resistenza attiva e resistenza passiva è particolarmente complesso. La distinzione, come accennato, è prettamente giurisprudenziale e proprio per questo, in assenza di un chiaro confine normativo, risulta talora arduo stabilirne le coordinate. Si può osservare, del resto, come il dato legislativo non operi alcuna testuale distinzione.

Anzitutto va premesso che la distinzione trova la sua ragion d’essere nella necessità di evitare che condotte che non esplicano alcuna incidenza sull’attività posta in essere dal pubblico ufficiale né siano idonee a porre in pericolo soggetti terzi possano essere fatte oggetto di reazione violenta da parte degli operatori di polizia.

La resistenza attiva, perciò, presenta una particolare affinità con la violenza per il fine perseguito (che è sempre quello di opporsi ai pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni) ma differisce in quanto difetta di azioni violente, direttamente esplicate contro l’autorità. Possono così realizzarsi condotte intimidatorie, al limite anche pericolose per l’incolumità di terzi soggetti, ma difetta la dimensione compiutamente violenta esaminata in precedenza.

Si prenda, ad esempio il caso del soggetto che, non arrestatosi all’alt intimato dai carabinieri non solo si allontani in auto a folle velocità, ma guidando in modo che “che ad essa si accompagnino manovre che concretino – sul piano teleologico – una vera e propria intimidazione contro il pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico servizio), atta a paralizzarne o contrastarne l’attività[8] venendo così a configurarsi una resistenza “destinat[a] ad incidere, direttamente o indirettamente, sull’esplicazione della funzione pubblica (o del servizio pubblico)[9]. In situazioni simili, l’impiego dell’arma può ritenersi proporzionato quando si configuri come l’unico strumento atto a superare tale “resistenza costruttiva”. Chiarisce infatti la Cassazione che ciò occorre quando “l’uso che può realizzarsi solamente nel caso egli [cioè il pubblico ufficiale] si trovi di fronte alla necessità di […] superare una resistenza costruttiva[10].

Ancora, secondo la Suprema Corte ricorre l’ipotesi della resistenza attiva, risultando giustificato l’uso intimidatorio della pistola d’ordinanza, in caso di esplosione in aria di colpi d’arma da fuoco da parte del carabiniere che, invitati più corrissanti a cessare la rissa in corso, resistevano attivamente all’ordine continuandosi a picchiare[11].

 

… e passiva

In chiusura, non resta che ricostruire la nozione di resistenza passiva. Considerato quanto detto sinora, appare agevole individuare tale figura con attenzione ad una forma non violenta di opposizione agli atti posti in essere dagli operatori di polizia.

Per quanto il fine perseguito da chi resiste possa anche qui individuarsi nella volontà di sottrarsi agli atti d’ufficio, ciò che difetta è tanto la componente violenta quanto quella “costruttiva”. Il soggetto si oppone in modo tale da non determinare nessuna situazione dannosa o pericolosa per gli operatori di polizia o per terzi.

Secondo il giudice di legittimità “la scriminante dell’uso legittimo delle armi è configurabile anche quando l’attività dell’agente è posta in essere nel corso della fuga dei malviventi, purché detta fuga non sia finalizzata esclusivamente alla conservazione dello stato di libertà ma, per le sue modalità, determini l’insorgere di pericoli per l’incolumità di terzi[12]. Si ricava, a contrario, che la natura inoffensiva della fuga, unita all’assenza di qualsiasi danno o pericolo, vedrebbe come sproporzionato l’impiego delle armi per farla cessare.

Lapalissiana l’affermazione in questione se si tiene conto di quanto ribadito dalla Suprema Corte, per la quale “L’uso delle armi nei confronti di persone disarmate, datesi alla fuga per sottrarsi all’intimazione o all’arresto, non è legittimo, trattandosi di comportamento di resistenza passiva[13].

Quanto appena detto è inoltre ben specificato in una pronuncia che, nell’individuare le caratteristiche della resistenza attiva, individua il discrimine proprio nella probabile realizzazione di ulteriori reati da parte di chi si sottrae agli atti compiuti dai pubblici ufficiali, richiamando il criterio di proporzionalità[14]. La mera volontà di riguadagnare la libertà, , dunque, divincolandosi, strattonando, correndo non giustifica, per contro, l’impiego dell’arma: insomma, ove manchi la violenza o una dimensione attiva di resistenza, verrà a mancare sin dall’origine la proporzione, ove l’arma venisse impiegata[15].

 

La proporzionalità nell’uso legittimo delle armi come canone ermeneutico costituzionale

Ciò che maggiormente colpisce, in relazione all’art. 53 cod. pen., è l’assenza di un riferimento diretto al principio di proporzionalità. In effetti, dove non è intervenuto il diritto positivo, si è ad esso surrogata l’interpretazione giudiziale, e ciò opportunamente dove è stato richiamato il necessario rapporto di proporzionalità.

Il canone della proporzione è richiamato in molteplici pronunce in tema di uso legittimo delle armi.

Osserva la Cassazione che, in luogo della distinzione fra resistenza attiva e passiva, sarebbe più opportuno riferirsi “al criterio della necessaria proporzione fra i contrapposti interessi, con estensione del relativo giudizio, oltre che alla legittimità dell’uso dell’arma in sé, anche alla graduazione di detto uso, fra quelli possibili, tenendo comunque presente che al pubblico ufficiale il quale si trovi in situazione che imponga l’adempimento del dovere non è riconosciuta — come invece nel caso della legittima difesa o dello stato di necessità — un’opzione di rinuncia o di commodus discessus”[16].

Non a caso, il criterio della proporzionalità consente una lettura costituzionalmente orientata della disposizione in esame e permette di far rientrare, nell’ambito delle condotte scriminate, quelle che appaiano effettivamente ponderate rispetto alle circostanze del caso concreto. Invero, l’interprete non è lasciato solo in questa prospettiva ermeneutica. In una pronuncia, il giudice di legittimità ha individuato un test, alla prova del quale vagliare l’eventuale conformità alla legge della condotta incriminata. Afferma così la Suprema Corte che “perché possa riconoscersi la scriminante dell’uso legittimo delle armi, quale prevista dall’art. 53 c.p., occorre, nell’ordine: che non vi sia altro mezzo possibile; che tra i vari mezzi di coazione venga scelto quello meno lesivo; che l’uso di tale mezzo venga graduato secondo le esigenze specifiche del caso, nel rispetto del fondamentale principio di proporzionalità, da ritenersi operante, pur in difetto di espresso richiamo, anche con riguardo alla suddetta scriminante[17]. Tale giudizio, che dovrà essere compiuto dal giudice in sede applicativa, dovrà svolgersi entro le tappe dell’iter logico descritte dalla Cassazione, al fine di rispondere, caso per caso, al fondamentale quesito: i fatti tipici (omicidio, lesioni ecc.) sono scriminati ovvero integrano un’ipotesi di eccesso colposo ex art. 55 cod. pen.?

Nella ricostruzione della regola di diritto, secondo la scansione appena proposta, il criterio di proporzione potrà attingere, anzitutto, al dato costituzionale che disegna un rapporto Stato–individuo non caratterizzato da una supremazia autoritaria quanto, piuttosto, di valorizzazione della persona umana, con primario riferimento all’apporto esegetico di cui all’art. 2 Cost. Ne discende che l’impiego della violenza da parte del pubblico ufficiale potrà avvenire solo quando in gioco vi sia la necessaria tutela di beni (costituzionali) di pari rango rispetto a quelli minacciati od offesi, incolumità dell’agente in primo luogo, e, non in secondo piano, la salvaguardia della vita e dell’integrità fisica dei cittadini.

Tale valorizzazione della proporzionalità potrebbe, infine, e in una prospettiva di aggiornamento normativo dell’art. 53 c.p. portare ad un superamento delle complesse distinzioni create in via pretoria.

Informazioni

Cass. Pen., Sez. I, 21/05/1991, n. 5527

Cass. Pen., Sez. IV, 01/03/1995, n. 2148

Cass. Pen., Sez. VI, 29/05/1996, n. 7061

Cass. Pen., Sez. IV, 22/09/2000, n. 9961

Cass. Pen., Sez. VI, 20/04/2004, n. 7337

Cass. Pen., Sez. IV, 10/01/2008, n. 854

Cass. Pen., Sez. IV, 16/02/2015, n. 6719

[1] F. CARINGELLA – L. LEVITA, Principi fondamentali del diritto penale, II ed., Dike Giuridica Editore, Roma, 2018, p. 175 ss.

[2]  Cfr., G. NICOLINO, La scriminante dell’uso legittimo delle armi, in DirittoConsenso, 31/03/2020, http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/31/la-scriminante-delluso-legittimo-delle-armi

[3] Est modus in rebus

[4] Cass. Pen., Sez. I, 3 febbraio 1983, n. 941

[5] Cass. Pen., Sez. I, 21 giugno 2013, n. 40346.

[6]Nella fattispecie è stata riconosciuta la scriminate, giacché i malviventi, nel corso della fuga, avevano continuato ad esplodere colpi d’arma da fuoco nonché preso in ostaggio tre persone (Cass. Pen., Sez. I, 16/02/2015, n. 6179).

[7] In tal senso, v. Cass. Pen., Sez. IV, 10/01/2008, n. 854

[8] Cass. Pen., Sez. VI, 29/05/1996, n. 7061. V. anche, in tema di resistenza attiva, Cass. Pen., Sez. IV, 22/09/2000, n. 9961 dove i malviventi <<avevano reagito all’intimazione di alt da parte di una pattuglia di carabinieri tentando di speronare l’autovettura di servizio, per poi darsi a spericolata fuga per strade urbane, mettendo a repentaglio l’incolumità dei passanti>>.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Cass. Pen., Sez. VI, 20/04/2004, n. 7337.

[12] Cass. Pen., Sez. IV, 16/02/2015, n. 6719.

[13] Cass. Pen., Sez. I, 21/05/1991, n. 5527.

[14] Secondo Cass. Pen., Sez. IV, 22/09/2000, n. 9961 <<quando l’uso dell’arma sia finalizzato a bloccare la fuga di malviventi, la suddetta proporzione dev’essere ritenuta sussistente ove, per le specifiche modalità con le quali i fuggitivi cercano di sottrarsi alla cattura, siano ragionevolmente prospettabili, oltre all’avvenuta commissione di reati al cui accertamento essi cerchino di sottrarsi, anche rischi attuali per l’incolumità e la sicurezza di terzi>>. Vedi anche << l’inosservanza dell’ordine di fermarsi impartito dal pubblico ufficiale integra una resistenza meramente passiva, inidonea a giustificare l’uso dell’arma da parte di quest’ultimo. (Fattispecie relativa a riconoscimento di responsabilità per il reato di cui all’art. 589 c.p. di un brigadiere dei carabinieri il quale, dopo avere intimato l’alta un veicolo sopraggiungente, vedendo che il conducente non si arrestava e proseguiva la marcia, ha esploso un colpo di pistola in direzione del mezzo, direttamente colpendo a morte il guidatore)>>, Cass. Pen., Sez. IV, 01/03/1995, n. 2148.

[15] In tema di uso legittimo di armi, nel caso di resistenza posta in essere con la fuga, manca il rapporto di proporzione tra l’uso dell’arma e il carattere non violento della resistenza opposta al pubblico ufficiale.

[16] Cass. Pen., Sez. IV, 22/09/2000, n. 9961.

[17] Cass. Pen., Sez. IV, 10/01/2008, n. 854