Offendere la reputazione altrui all’interno di un social network può configurare il reato di diffamazione tramite social network? Quali sono i presupposti applicativi e come tutelarsi?
La comunicazione nell’era dei social network
Oggigiorno tutti noi utilizziamo i social network all’interno della nostra vita, sia privata che professionale. La rete internet ha infatti consentito un libero accesso su diversi fronti: sull’informazione, sulla comunicazione, sull’istruzione, sull’entertainment, ecc. Tutti possediamo uno smartphone, un pc, un tablet: strumenti tecnologici con i quali è possibile accedere in qualsiasi momento all’interno dei social network, quali Facebook, Instagram, Whatsapp, Twitter, che consentono di comunicare con persone situate anche dall’altra parte del globo. Si tratta di azioni che vengono svolte quotidianamente.
Tant’è che ogni giorno vengono condivisi pensieri, opinioni, idee, informazioni, nella totale libertà concessa dai Social e più in generale dalla rete Internet [1].
Ciò detto la domanda da porsi è la seguente: è sempre possibile esprimersi liberamente in questo mondo virtuale senza incorrere in sanzioni nella vita reale?
Il reato di diffamazione tra accezione “classica” ed aggravata
Per rispondere a tale domanda appare utile prendere in considerazione l’articolo 595 c.p. che disciplina per l’appunto il reato di diffamazione.
Il delitto sussiste nell’ipotesi in cui chiunque, consapevolmente, offende la reputazione altrui, comunicando con più persone[2]. La sanzione prevista è la reclusione sino ad un anno o la multa fino a 1.032,00 euro.
Si pensi al caso in cui, comunicando con più soggetti, si vada a screditare una persona nel proprio onore e soprattutto non presente al momento della condotta diffamatoria.
Individuata la norma di riferimento è possibile, ora, delineare quali sono i presupposti che configurano tale delitto:
- L’assenza della persona offesa al momento della condotta diffamatoria;
- L’offesa alla sua reputazione, quale lesione delle qualità personali, morali, sociali, professionali di un individuo (lesione dell’immagine, dell’onore o ancora il decoro di una persona);
- La presenza di almeno due persone che siano in grado di percepire le parole diffamatorie.
Si tratta di condizioni che devono sussistere contemporaneamente al fine dell’instaurazione del delitto di diffamazione: la mancanza di una sola di esse non integra tale reato (si pensi al caso in cui il soggetto diffamato sia presente: in tal caso si è di fronte ad un’ipotesi di ingiuria e non di diffamazione).
Delineata la diffamazione nella sua concezione più classica, è importante ribadire come il reato assuma una concezione ancora più grave: è aggravato ad esempio allorquando l’offesa viene arrecata tramite il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità.
In tale contesto assume rilievo il terzo comma del presente articolo, il quale stabilisce una pena più rigida rispetto alla “semplice” diffamazione, prevedendo la reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro.
Per comprendere al meglio la diffamazione tramite social network, in tale sede risulta indefettibile prendere in considerazione il solo terzo comma di cui all’art. 595 c.p., benché non contenga espressamente una definizione di diffamazione attuata a mezzo social.
Ci si chiede, pertanto, se sia possibile ricomprendere la diffamazione tramite social network all’interno della presente disciplina.
Su tale questione, data la lacuna normativa lasciata dal legislatore, è dovuta intervenire la giurisprudenza.
Giurisprudenza e prassi nella diffamazione tramite internet e social
La Corte di Cassazione, nel 2008, ha sancito tramite la sua pronuncia come “la diffamazione tramite internet costituisce un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3, c.p. in quanto commessa con altro mezzo di pubblicità […] essendo internet un potente mezzo di diffusione di notizie, immagini, ed idee, anche attraverso tale strumento di comunicazione si estrinseca il diritto di esprimere le proprie opinioni, tutelato dall’art. 21 Cost., che, per essere legittimo, deve essere esercitato rispettando le condizioni e limiti dei diritti di cronaca e di critica”[3].
La Suprema Corte ha pertanto ricompreso la diffamazione tramite l’ausilio di internet all’interno del terzo comma dell’art. 595 c.p., facendola rientrare quale condotta commessa con altro mezzo di pubblicità[4]: si pensi, a titolo esemplificativo, al caso in cui “il messaggio viene inoltrato a destinatari molteplici e diversi, per esempio attraverso la funzione di forward o a gruppi di Whatsapp, su Twitter o Facebook […]”[5].
È pacifico quindi che il reato di diffamazione aggravata possa configurarsi quando la condotta diffamatoria venga messa in atto all’interno di un social network, blog telematici, siti internet e tutti i più disparati canali telematici ad oggi presenti: si parla in tali casi di vera e propria diffamazione tramite social network.
Recentemente una pronuncia della Corte di Cassazione ha enucleato il seguente principio di diritto, per cui “le affermazioni lesive dell’onore e del decoro della persona offesa enunciate sullo status di whatsapp possono integrare il reato di diffamazione qualora i contenuti ivi presenti siano visibili ai contatti presenti in rubrica”[6].
In altre parole, la diffamazione aggravata può sussistere anche nell’ipotesi in cui venga lesa la reputazione di una persona aggiornando semplicemente lo Stato di Whatsapp: l’applicazione di messaggistica più comune ed utilizzata al giorno d’oggi.
Si aggiunge inoltre che, con riferimento al momento di consumazione del reato, la Corte precisa che il medesimo si consuma al momento della percezione del messaggio offensivo da parte di soggetti che siano terzi rispetto all’agente ed alla persona offesa: e non, quindi, al momento della diffusione della condotta offensiva[7].
Siffatta condotta deve pertanto essere percepita dai soggetti terzi nonché recepita come condotta diffamatoria tesa a ledere l’onore/reputazione della persona che subisce la diffamazione.
Circa l’elemento soggettivo del reato, è sufficiente la presenza del dolo generico, inteso nella consapevolezza del diffamatore di pronunciare o di scrivere una frase lesiva dell’altrui reputazione, accompagnata altresì dalla volontà che la frase denigratoria giunga a conoscenza ad una pluralità di persone.
Diffamazione aggravata tramite l’utilizzo di Facebook
Pertanto, recare un’offesa su una pagina Facebook può costituire diffamazione aggravata, anche se nel profilo personale si hanno solamente due amici (presupposto necessario per l’applicazione del reato di diffamazione) in grado di visionare il post, poiché “trattasi di condotta potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato o, comunque, quantitativamente apprezzabile di persone, qualunque sia la modalità informatica di condivisione e di trasmissione”[8].
La diffamazione tramite social network può verificarsi anche qualora il post venga pubblicato direttamente sulla bacheca di un altro utente. Quanto detto è emerso in una sentenza del Tribunale di Livorno verso la fine del 2012, con la quale veniva disposto che, si è in presenza del reato di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 comma 3 c.p., anche nel caso di pubblicazione di un post offensivo sulla bacheca Facebook di un altro utente[9].
Il GIP di Livorno rileva, invero, che “è nota agli utenti di Facebook l’eventualità che altri possano in qualche modo individuare e riconoscere le tracce e le informazioni lasciate in un determinato momento sul sito, anche a prescindere dal loro consenso”. Ciò comporta che “l’uso di espressioni di valenza denigratoria e lesiva del profilo professionale della parte civile integra sicuramente gli estremi della diffamazione alla luce del carattere pubblico del contesto in cui quelle espressioni sono manifestate, della sua conoscenza da parte di più persone e della possibile sua incontrollata diffusione tra i partecipanti alla rete del social network”.
L’utente Facebook, secondo i giudici di merito sono perfettamente consapevoli che la comunicazione attuata tramite siffatto Social è potenzialmente diretta ad un numero imprecisato di persone. Perciò trattasi di “[…] rischio in una certa misura indubbiamente accettato e consapevolmente vissuto”[10] da parte degli utenti.
Il nome della persona diffamata non è presupposto necessario
È possibile incorrere nel reato di diffamazione tramite social network anche nell’ipotesi in cui la condotta diffamatoria si esprima senza recare esplicitamente il nome e il cognome della persona offesa. Giacché, secondo la Cassazione “ai fini dell’integrazione del reato di diffamazione, è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dall’indicazione nominativa”[11].
Secondo l’impostazione ermeneutica della giurisprudenza è pertanto possibile configurare la diffamazione aggravata anche nell’ipotesi in cui la persona offesa non venga esplicitamente menzionata, purché risulti possibile individuarla anche in via indiretta.
La sua individuazione avviene tramite la ricerca degli elementi nella fattispecie concreta: la natura e la portata dell’offesa, le circostanze descritte oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali e simili; elementi che dovranno essere valutati congiuntamente agli altri emersi nel caso concreto.
Quanto raccolto dovrà far desumere con ragionevole certezza e, in modo non equivoco, l’individuazione della persona offesa[12].
Come tutelarsi
La persona offesa può procedere a sporgere querela entro tre mesi dalla commissione del fatto, a pena di improcedibilità, dimostrando di aver subito tale condotta diffamatoria.
Ai fini probatori, sarebbe auspicabile stampare il post incriminato per evitare che l’agente lo cancelli, oltre che recarsi da un notaio, in modo da farlo autenticare, indicando contestualmente gli eventuali testimoni che hanno visionato l’offesa.
Qualora il procedimento prosegua fino a sfociare all’interno di un processo penale, la persona offesa potrà avvalersi della facoltà di costituirsi come parte civile al fine di ottenere il risarcimento dei danni causati dalla diffamazione tramite social network.
Informazioni
G. Corrias Lucente, La diffamazione a mezzo facebook, disponibile al seguente link: https://www.medialaws.eu/la-diffamazione-a-mezzo-facebook/;
B. Alba, Hate Speech Online: è un reato?, in DirittoConsenso, disponibile al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2021/01/05/hate-speech-online-reato/.
Cass. Civ., sez. III, sent. n. 17180 del 6 agosto 2007;
Cass. pen., sez. V, 1° luglio 2008, n. 31392;
Cass. pen., sez. V, 19 settembre 2011, n. 46504;
Cass. pen., Sez. I, sentenza n. 16712 del 22 gennaio 2014;
Cass. pen., sent. n. 24431 del 2015;
Cass. pen., sent. n. 41276 del 2015.
Cass. pen. sez. V, 13/07/2015, n. 8328;
Cass. pen. sent. n. 50 del 2017;
Cass. pen. sent., n. 8482 del 2017;
Cass. pen., V sez., n. 7904/19;
Cass. pen., sez. V, sent. n. 33219 del 08.09.2021;
Trib. Di Monza, sez. IV, sent. n. 770 del 2 marzo 2010;
GIP Tribunale di Livorno, sent. n. 38912 del 31 dicembre 2012;
Tribunale di Pescara, 05/03/2018, n. 652.
[1] Si precisa, sin d’ora, come tale libertà non debba sfociare in condotte violente commesse tramite l’ausilio di Internet. Per un approfondimento sul c.d. Hate speech, C.F.R. B. Alba, Hate Speech Online: è un reato?, in DirittoConsenso, disponibile al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2021/01/05/hate-speech-online-reato/.
[2] Art. 595 c.p.
[3] Cass. pen., sez. V, 1° luglio 2008, n. 31392.
[4] Impostazione condivisa anche dalla dottrina, si veda tra i tanti, G. Corrias Lucente, La diffamazione a mezzo facebook, disponibile al seguente link: https://www.medialaws.eu/la-diffamazione-a-mezzo-facebook/.
[5] Cass. pen., V sez., n. 7904/19; dello stesso avviso, Cass. pen. sez. V, 13/07/2015, n. 8328; Tribunale di Pescara, 05/03/2018, n. 652.
[6] Cass.pen., sez. V, sent. n. 33219 del 08.09.2021.
[7] Cass. pen., sez. V, 19 settembre 2011, n. 46504.
[8] Cass. pen. sent. n. 50 del 2017; Cass. pen. sent., n. 8482 del 2017; Cass. pen., sent. n. 24431 del 2015; Cass. pen., sent. n. 41276 del 2015.
[9] Cfr. GIP Tribunale di Livorno, sent. n. 38912 del 31 dicembre 2012.
[10] Trib. Di Monza, sez. IV, sent. n. 770 del 2 marzo 2010.
[11] Cass. pen., Sez. I, sentenza n. 16712 del 22 gennaio 2014.
[12] In tal senso, Cass. Civ., sez. III, sent. n. 17180 del 6 agosto 2007.

Matteo Perri
Ciao, sono Matteo. Praticante avvocato presso uno Studio Legale situato nel cuore di Varese. Mi occupo di diritto penale e di diritto civile. Ho conseguito la laurea in giurisprudenza, con una tesi in diritto processuale penale, avente ad oggetto l’uso del captatore informatico. Da sempre nutro una forte passione per il diritto penale, il settore tecnologico/digitale, con una spiccata propensione per il mondo privacy e la tutela dei dati personali.