Il tema in esame è indissolubilmente legato al concetto di crisi e fallimento, stati di dissesto economico storicamente temuti nei nostri confini nazionali. Comprendiamo quale sia la funzione sociale dello stato di insolvenza e perché sia importante abbattere i pregiudizi che lo circondano
Lo stato di insolvenza e la teoria economico-fallimentare
La decozione, altrimenti nota come insolvenza, altro non è che una situazione di difficoltà finanziaria in cui l’impresa[1] debitrice non è in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni[2]. Lo stato di insolvenza è legato all’istituto del fallimento. Benché quest’ultimo affondi le radici nel primo Codice del Commercio adottato nel 1882, esso è stato compiutamente disciplinato con il regio decreto n. 267/1942 (c.d. Legge Fallimentare).
Si tratta di una delle più importanti procedure concorsuali liquidatorie, finalizzata alla soddisfazione dei creditori mediante, appunto, la liquidazione del patrimonio di cui l’imprenditore è titolare. Ci troviamo innanzi ad uno strumento certamente intrusivo nell’altrui sfera patrimoniale (in sostanza, i creditori insoddisfatti possono chiedere al giudice di vendere all’incanto l’attivo dell’imprenditore per soddisfarsi sulle somme liquidate). Proprio per questo motivo, il fallimento rappresenta extrema ratio[3] dell’ordinamento, una misura che, per le incisive conseguenze che produce in capo al debitore, può essere concessa al solo ricorrere di precise condizioni stabilite ex lege[4].
Specifichiamo sin da subito che il concetto di fallimento è stato per lungo tempo sfuggente: più che di un vero è proprio status in cui versa il debitore, il fallimento, per definizione dottrinale e giurisprudenziale, coincide con la sentenza che lo dichiara[5]. Evidenza dello stretto legame tra fallimento e stato d’insolvenza è la circostanza per cui quest’ultimo sia il presupposto fattuale del primo. Non è possibile, per i creditori, richiedere il fallimento del debitore senza che esso si trovi in uno stato di conclamata insolvenza, nella incapacità di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni.
Per ragioni di completezza, precisiamo che l’istanza di fallimento può essere richiesta da qualsivoglia creditore e che ciascuno di essi ha diritto ad essere soddisfatto secondo il generale principio della par condicio creditorum (che, invero, soffre di non poche eccezioni). A tal proposito, il disposto dell’art. 2741 c.c. recita come “I creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, salve le cause legittime di prelazione”. In sostanza, la disposizione afferma che ciascun creditore ha diritto a vedere soddisfatto il proprio credito in una condizione di eguaglianza con gli altri creditori.
Come detto, tuttavia, questa regola viene sovente disapplicata a tutto vantaggio di altri regimi giuridici che trovano applicazione con riferimento alle legittime cause di prelazione.
Addentrarsi nel complesso sistema di privilegio, pegno e ipoteca (le cause di prelazione richiamate dal 2° comma della disposizione esaminata) sarebbe complesso e poco utile ai fini della nostra discussione. Basti sapere che un creditore assistito da legittima causa di prelazione (per intenderci: la banca che, a garanzia del pagamento di un mutuo concesso, abbia iscritto una ipoteca sulla casa del debitore ai sensi dell’art. 2808 c.c., 2° comma) ha diritto a soddisfarsi per primo e per intero sul patrimonio del debitore (qualora, tuttavia, più creditori siano assistiti da cause di prelazione, specifiche regole, basate sul concetto di prior in tempore potior in iure[6], regolano tali rapporti, sebbene anche a tal proposito vi siano delle eccezioni).
L’articolo 5 della Legge Fallimentare
Dopo aver brevemente presentato il contesto in cui stiamo operando, proponiamo una prima analisi tecnica di cosa si intenda con insolvenza. Ancora una volta, non possiamo prescindere dal dato normativo: l’art. 5 della Legge Fallimentare, oltre a rammentare che l’imprenditore che si trovi in stato di insolvenza è dichiarato fallito (1° comma), detta le modalità mediante le quali è possibile stabilire qualora il debitore sia o meno insolvente. La definizione che abbiamo offerto risulta, prima facie[7], generica e indeterminata.
Cosa intende il legislatore parlando di impossibilità per il debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni? A quali condizioni può, un soggetto, essere dichiarato insolvente? Notoriamente, il diritto si fonda sul principio di certezza delle situazioni giuridiche. Conseguentemente, il legislatore non poteva accontentarsi di regolare un istituto così delicato ricorrendo ad una formulazione talmente vaga. Per queste ragioni, il 2° comma dell’art. 5 afferma come “Lo stato d’insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.
Si badi bene: neppure questa è una descrizione pienamente soddisfacente e ciò spiega il complesso lavoro che giurisprudenza e dottrina hanno svolto per riempire di contenuti tale norma. Importante è precisare cosa si intenda con inadempimenti o altri fatti esteriori e, soprattutto, comprendere quale sia il limite oltre il quale si possa affermare con certezza che il debitore non sia in grado di soddisfare le proprie obbligazioni.
Insolvenza in senso tecnico
A tal proposito, è corretto puntualizzare che lo stato di insolvenza non coincide esclusivamente con uno squilibrio patrimoniale (la condizione per cui i ricavi di una impresa siano nettamente inferiori ai costi, violando il principio di economicità cui la stessa deve attenersi). Quando si parla di insolvenza, anche contenuti radicati nella dinamicità dell’attività di impresa assumono importanza[8].
Una impresa la cui reputazione sia solida e che, di conseguenza, goda di credito presso le banche e gli altri istituti finanziari, non può essere dichiarata insolvente neppure qualora il passivo superi l’attivo. La spiegazione è abbastanza agevole: quell’impresa è economicamente attiva, capace di svolgere la propria attività e di avere accesso a finanziamenti e risorse che possano permetterle di sanare lo squilibrio patrimoniale in cui temporaneamente si trova. Chiaro è che, laddove la situazione finanziaria peggiori nel tempo e le prospettive di risanamento risultino sempre meno rosee, neppure un’impresa che giovi di notevole credibilità presso i terzi potrebbe esimersi dall’essere definita insolvente. Ad ogni modo, tale riflessione è volta a sottolineare come la determinazione dello stato di insolvenza tenga conto, oltre che di fattori materiali, anche degli intangibles.
È possibile, tuttavia, determinare l’applicazione del regime ex art. 5 della Legge Fallimentare utilizzando criteri e metodi mediante i quali riconoscere situazioni di crisi aziendale alle quali può corrispondere uno stato di insolvenza latente o in atto.
Bisogna, però, prestare attenzione: abbiamo già sottolineato il delicato legame che collega l’insolvenza al fallimento. Date le incisive conseguenze che seguono alla dichiarazione di fallimento (misura che potrebbe letteralmente determinare la morte di una impresa), è necessario che lo stato di insolvenza, se presente, sia irreversibile.
Quando è possibile affermare di trovarsi innanzi ad una situazione di insolvenza reversibile?
Il primo aspetto da considerare è quello patrimoniale (c.d. stabilità patrimoniale). Si procede, nello specifico, ad un confronto tra attivo e passivo. Affinché possa definirsi stabile, l’attivo deve essere sufficientemente ampio da far fronte al passivo (in alternativa, dovremmo trovarci innanzi un attivo prospetticamente in crescita e un passivo in riduzione).
Secondo fattore centrale è quello reddituale. Il patrimonio riveste una importante funzione, è vero, ma anche la capacità di produrre reddito da parte della società ha un suo peso specifico.
Da ultimo, vi è l’aspetto finanziario: riesce, l’impresa, a pagare i propri fornitori? Può ottenere finanziamenti? È in grado di riscuotere con successo crediti che vanta presso terzi?
Rispondere a tali quesiti non è agevole e una approfondita analisi richiede competenze specifiche in materia finanziaria e contabile.
Uno dei metodi “matematici” più utilizzati per determinare il ricorrere di uno stato di insolvenza è il c.d. Z-score, formulato dal professor Altman. Esso consiste nell’attribuire un punteggio (noto anche come score) alla società esaminata, sulla base di alcuni indicatori filtrati mediante un procedimento statistico noto come “analisi discriminante”.
Il punteggio ottenuto, che esprime la probabilità di default (o fallimento) della società esaminata, viene tradotto in un rating (o punteggio) mediante l’utilizzo di una scala di equivalenza empirica. Essa permette di raffrontare il punteggio ottenuto con la scala di giudizi utilizzata dalle società di rating per attribuire il merito creditizio alle singole società.
Il modello presentato, ovviamente, va adattato al mercato cui la società appartiene e alle sue specificità. Il mercato americano, paese natio del metodo da noi esaminato, differisce sotto diversi aspetti dal mercato italiano e ciò rende l’utilizzo di siffatte metodologie ancor più complesso.
Un’ultima distinzione: stato di insolvenza, stato di crisi e dissesto
Ci siamo limitati, sino ad ora, ad analizzare in maniera superficiale il tema dell’insolvenza, che cela regole ben più intricate. Piuttosto che complicare ulteriormente l’analisi di questa fattispecie, in questa parte finale ci limiteremo a tracciare alcune importanti specificità che differenziano la condizione di insolvenza da concetti ad essa affini.
Nello specifico, lo stato di insolvenza è da tenere distinto, per un verso, dallo stato di crisi e, per un altro, dal concetto di dissesto.
Procedendo per gradi, lo stato di crisi comprende una iniziale e temporanea difficolta ad adempiere che si evolve, successivamente, in uno stato di insolvenza (margine terminale del processo). Tale evoluzione è possibile qualora non sia programmabile un percorso razionalmente risanatorio e venga messa in dubbio la continuità aziendale. Lo stato di crisi, in questo senso, precede la situazione di insolvenza (in altri termini, si tratta di una situazione di insolvenza soltanto incombente, ma non ancora “esplosa”).
Tuttavia, il riformato art. 160 della Legge Fallimentare complica il lavoro degli interpreti del diritto, in quanto equipara le due situazioni avendo riguardo all’applicabilità della procedura nota come concordato preventivo (sulla quale non ci dilungheremo). Dall’analisi normativa, di conseguenza, sarebbe possibile inferire che nello stato di crisi è compresa anche l’insolvenza (situazione di confusione, quest’ultima, creata dal legislatore il quale non si è premurato di tenere distinti i due concetti).
Il dissesto, ex adverso[9], non è altro che un dato quantitativo e graduabile, suscettibile di essere cagionato sia nell’an che nel quantum[10] (in termini di suo aggravamento) e che spesso coincide in una situazione di esclusivo squilibrio patrimoniale in cui il passivo domina l’attivo. Sovente dissesto e insolvenza si verificano nel medesimo momento (nella pratica, difatti, il debitore non riesce ad adempiere alle sue obbligazioni proprio in quanto si trova in stato di dissesto). Il dissesto, dunque, può essere impropriamente descritto come la causa scatenante lo stato di insolvenza.
Conclusioni
Importante è tracciare alcune conclusioni finali sul tema. Indubbiamente, la complessità del diritto fallimentare mette alla prova anche i giuristi più capaci. Data la natura tecnica di questa branca giuridica, tuttavia, è bene individuare quale sia la reale funzione svolta da questi istituti nel panorama normativo italiano, che potrebbe risultare sfuggente.
Nello specifico, il messaggio che più fra tutti è bene trasmettere è il seguente: la società in cui viviamo oggi è solita dipingere il concetto di fallimento come intrinsecamente negativo, sebbene così non sia. Nel mondo del diritto, il fallimento non è altro che uno strumento atto ad evitare che le naturali fasi di instabilità che chiunque può trovarsi ad affrontare, anche per fattori contingenti ed esterni al suo dominio (vedasi la crisi economica causata dalla pandemia), possano cagionare un’instabilità generale del mercato (causando un c.d. effetto domino, per cui l’insolvenza di una società possa causare l’insolvenza di altre società a questa collegate in ragione di rapporti commerciali). Il fallimento non è una condizione patologia da rifuggire ad ogni costo, né può, il fallito, essere condannato alla gogna mediatica: si tratta esclusivamente di una misura precauzionale adottata per tutelare la comunità economica e i player che ivi operano.
Il legislatore è cosciente dei pregiudizi che ancor oggi circondano lo stato di fallimento, a tal punto che nella recente riforma del diritto fallimentare, intervenuta con il Decreto Legislativo n. 14 del 12 gennaio 2019, si è proceduto sostituendo, in ogni parte del testo normativo, il termine “fallimento” con la locuzione “liquidazione giudiziale”.
I tempi sono, dunque, maturi per riconsiderare i valori di cui è portatrice tale branca giuridica.
Informazioni
A. ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, Il Mulino, 2010
A. ALESSANDRI (a cura di), Reati in materia economica, in Trattato teorico pratico di diritto penale, diretto da F. PALAZZO e C.E. PALIERO, vol. VIII, Giappichelli, 2012
C. PEDRAZZI, Introduzione al diritto penale, a cura di A. ALESSANDRI, Milano, CUSL
Manuale di Diritto Commerciale, Vol. 2, G. Campobasso, UTET Editore, 9ª edizione, 2015
[1] È imperativo ricordare che, diversamente da altri sistemi giuridici (vedasi le realtà di Common Law quali gli USA), l’ordinamento italiano non contempla la possibilità di applicare l’istituto del fallimento alle persone fisiche. In ambito fallimentare, dunque, si può parlare di insolvenza facendo riferimento alle sole persone giuridiche. Per un approfondimento in tema di imprenditore e impresa, si rimanda ad un articolo sul tema, pubblicato su DirittoConsenso (http://www.dirittoconsenso.it/2021/09/08/imprenditore-e-impresa/).
[2] L’obbligazione è istituto essenziale nel diritto civile, in virtù del quale un soggetto, noto come debitore, è tenuto ad eseguire una prestazione (facere), consegnare un bene o somma di danaro (dare) ovvero astenersi dal tenere una determinata condotta (non facere) a tutto favore di un soggetto noto come creditore. Ai sensi dell’art. 1173 c.c., le obbligazioni sorgono da contratto (art. 1321 c.c.), fatto illecito (art. 2043 c.c.) o da qualsiasi altro fatto o atto idoneo a costituirle.
[3] Ovvero una misura estrema, da utilizzare come ultima opzione.
[4] Dalla legge.
[5] In altri termini, è possibile parlare di fallimento solo dopo che sia intervenuta la sentenza del giudice che dichiara l’impresa fallita.
[6] Letteralmente, “primo nel tempo, più forte nel diritto”: tale brocardo indica la circostanza per cui, nel diritto, chi per primo ottiene un determinato provvedimento, sarà preferito a coloro che hanno deciso di agire tardivamente.
[7] Ad una prima analisi.
[8] Con ciò intendendosi fattori metagiuridici che svolgono, nel complesso, un ruolo attivo nel definire la posizione sociale e la credibilità dell’impresa medesima.
[9] Letteralmente, al contrario.
[10] Sia nel “se” che nel “quanto”, ovvero sia nell’essenza che nella quantità.

Leonardo Rubera
Ciao, sono Leonardo. Neolaureato in giurisprudenza, coltivo la passione del diritto commerciale, settore nel quale ho la fortuna di lavorare. Curiosità ed intraprendenza sono valori che reputo essenziali e che mi stimolano a coltivare numerose e diverse passioni che vanno oltre il mondo del diritto.