Il fenomeno dello hate speech si espande in tutto il mondo attraverso il web; le norme per il suo contrasto si formano dal delicato rapporto tra libertà di manifestazione del pensiero e censura

 

Introduzione all’hate speech

I “nuovi” modi di comunicare attraverso il web hanno amplificato le opportunità di diffondere odio nella società. Ci riferiamo in particolare ai c.d. hate speech, “discorsi d’odio”, espressione che nasce come categoria della giurisprudenza americana negli anni ‘70 ed indica un genere di discorsi discriminatori, che hanno l’intento di esprimere odio e intolleranza verso un soggetto o un gruppo, rischiando di provocare azioni violente contro di essi.

In seguito, questa espressione è entrata a far parte del dibattito pubblico internazionale, ma la sua eccessiva ampiezza e gli aspetti controversi, ad oggi, non conducono ad una definizione univoca ed universale. Manifestandosi sul web la “forma” dello hate speech viene ulteriormente resa ambigua e la sua diffusione agevolata dalle specifiche caratteristiche della comunicazione digitale, che favoriscono un’incontrollata proliferazione dell’odio e della discriminazione ai danni degli utenti.

L’odio che viaggia sulla rete è in qualche misura differente, per caratteristiche ed effetti, rispetto alla sua manifestazione analogica ed è ormai diventato un problema internazionale, che richiede un approccio risolutivo ampiamente condiviso.

Per la configurazione di reati legati alla illecita manifestazione del pensiero, riconducibili allo hate speech, la competenza è affidata agli Stati che hanno un proprio orientamento politico e culturale nei confronti del problema. Nel contesto giurisprudenziale occidentale, tra Stati Uniti ed Europa, esiste una differenza sostanziale nell’approccio al contrasto dello hate speech. Ciò che sta dietro alle diverse concezioni riguarda i confini tra libertà di espressione e censura. Occorre innanzitutto evidenziare che il confine tra critica come libera opinione e critica come esternazione discriminatoria e pericolosa in virtù dei suoi potenziali effetti, non è univocamente individuabile.

Posto che la libertà di espressione debba essere garantita anche nei casi in cui possa risultare sgradita o scomoda, delimitare un preciso perimetro tra espressioni critiche cariche di veemenza e l’odio discriminatorio è un’operazione tutt’altro che semplice. Questo perché non esiste una norma giuridica valida universalmente, che definisca con precisione e completezza in cosa consista l’hate speech. La repressione dello hate speech pone un limite che separa il diritto alla libertà di espressione e la censura, una linea di confine che, nell’era digitale, diventa sempre meno netta e sempre più discussa. In questo senso si fronteggiano due opposte concezioni, riconducibili all’orientamento giurisprudenziale americano e quello europeo.

 

Libertà di manifestazione del pensiero e censura: l’orientamento statunitense

Lo hate speech può essere considerato un tema della giurisprudenza americana, che ha dei rapporti “delicati” con la libertà di manifestazione del pensiero, riconducibile al primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti che tutela la libertà di espressione in una forma ampia e garantistica, indipendentemente dal mezzo utilizzato[1]. Ciò rende estremamente difficile la normazione delle manifestazioni del pensiero, anche quando si tratta di espressioni denigratorie che hanno una relazione con azioni violente.

Il diritto alla manifestazione del pensiero è inteso in maniera individuale, come strumento per la realizzazione della persona, una libertà considerata come valore supremo rispetto al tutto, e ciò implica una grande difficoltà nell’accettazione di eventuali limitazioni e controlli. Questi, infatti, sono compatibili con i soli vincoli che mirano ad evitare lesioni della medesima libertà. Per questo motivo si considera negativamente l’innalzamento del livello di regolamentazione della libertà di espressione su Internet e, di conseguenza, il contrasto allo hate speech online; l’eccessiva regolazione avrebbe conseguenze non funzionali al nobile scopo che si propone di perseguire ma, al contrario, altererebbe il sistema di protezione della libertà di manifestare le proprie idee e il proprio pensiero. Senza contare che, un eventuale veto di censura sui contenuti farebbe perdere ai player dell’economia digitale uno status di neutralità infrastrutturale e l’impossibilità di sviluppare le strategie commerciali.

Non vengono perciò tollerate interferenze dei poteri pubblici (e non) nell’esercizio della freedom of speech; non sono previste limitazioni riguardo alle modalità e ai contenuti espressi. Secondo il Primo Emendamento della Costituzione americana, nell’incontrollato e libero flusso di informazioni, si assume che la corretta informazione emerga attraverso il libero confronto delle idee e dei pensieri contrastanti. Si configura così una situazione in cui ogni forma di responsabilizzazione degli intermediari digitali – soprattutto nel caso in cui si preveda il filtraggio e la moderazione dei contenuti – non viene considerata positivamente in quanto forma di collateral censorship[2].

Negli Stati Uniti, lo sviluppo della dimensione digitale ha costituito un ampliamento della portata della libertà di espressione, con la Corte Suprema americana che nelle sue prime pronunce in materia ha sposato un indirizzo in senso ampliativo della portata di questo diritto. Nella pronuncia della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Elonin v, United States, si ritrova uno specifico esempio di tutela dello hate speech online[3]. Nonostante nei testi di una canzone pubblicati su Facebook, il soggetto coinvolto minacciava di morte la sua ex moglie, la Corte ha ritenuto che le minacce contenute nei testi delle canzoni non configurassero hate speech in quanto le persone ragionevoli avrebbero senz’altro capito che non si trattasse di un thruth threat. Viene quindi applicato un principio di tolleranza a quello che può comunque essere definito un discorso d’odio.

 

Libertà di manifestazione del pensiero e censura: l’orientamento europeo

Nell’impostazione europea la libertà di manifestazione del pensiero è considerata una funzione strumentale agli interessi della comunità e spetta all’uomo in quanto membro, con limitazioni che si giustificano in nome delle esigenze della collettività. In questa concezione viene identificata una cornice sovranazionale entro cui gli stati possono muoversi nel contrastare i fenomeni riconosciuti come hate speech.

Gli strumenti costituzionali europei tutelano la libertà di espressione assoggettando però a limitazioni attivabili nel caso si presentino alcuni requisiti. Infatti, l’Art. 10 par.1 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e l’Art. 11 par.1 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea sanciscono la libertà di espressione, che deve però bilanciarsi con quanto riportato nell’Art. 10 par.2 CEDU e Art. 52 par.1 della Carta, dove è prevista la possibilità che l’attore pubblico possa limitare questa libertà nel rispetto di alcune condizioni. Si tratta di limiti che devono essere necessariamente previsti dalla legge, proporzionali e finalizzati al raggiungimento delle previsioni legislative.

In aggiunta a questo, l’Art. 17 CEDU e l’Art. 54 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE vi sommano un divieto di abuso di diritto: nessun diritto o libertà può essere interpretata come pretesa, da parte di uno Stato, un gruppo o un individuo, di esercitare un’attività o compiere un atto che punti a ledere irreversibilmente diritti e libertà riconosciute dagli stessi testi o di imporre ai medesimi limitazioni più ampie rispetto a quelle previste.

Il paradigma europeo in materia di tutela della libertà di espressione, perciò, non è solo limitato alle restrizioni che la figura pubblica può implementare a talune condizioni, ma deve assicurare che la libertà di espressione non venga demagogicamente utilizzata come mezzo per ledere altre libertà e diritti, come quello alla dignità umana, che più spesso gli si contrappone.

Sembrerebbe che a causa della sua esperienza storica con i regimi totalitari, l’Unione Europea avverte più di altri l’esigenza di sviluppare un dibattito sulla soppressione dei discorsi d’odio in favore dello sviluppo democratico dell’eurozona. Secondo il punto di vista prevalente nell’indirizzo europeo, il web dovrebbe essere regolamentato più rigidamente proprio al fine di ostacolare la diffusione di contenuti discriminatori, non rispettosi del principio di dignità umana.

In quest’ottica, i discorsi d’odio hanno ripercussioni negative non solo sulle vittime prese di mira, ma incidono sul sistema democratico nel suo complesso. I fenomeni discriminatori richiedono politiche attive di contenimento perché considerate minatorie nei confronti dei valori democratici della società. L’odio razziale e religioso viene sempre visto come una minaccia agli equilibri sociali e alla pace, pertanto, ne sono vietate le manifestazioni espressive al di là dei rischi legati all’incitamento alla violenza; l’Europa non vieta solo le forme di discorso atte a provocare danni alle persone, ma le vieta anche per il loro contenuto intrinseco.

 

Conclusioni

In tema di hate speech, abbiamo visto come vi sia una sostanziale differenza tra l’approccio giurisprudenziale statunitense e quello europeo. Il primo è di tipo individualista e liberista, estremamente sensibile alla tutela della libertà di espressione che nessuna legge può limitare, il secondo, invece, è di tipo comunitarista e prevede di stabilire un limite alla manifestazione del pensiero laddove, attraverso il suo esercizio, possano essere compromessi diritti considerati altrettanto meritevoli di tutela. L’impegno degli Stati Uniti in favore della libertà di parola ha minato il proposito assunto da altre nazioni per la regolamentazione collaborativa della questione. Di fatto, l’approccio nord americano rappresenta una visione che, attraverso il suo unilateralismo indiretto, sminuisce gli sforzi europei tesi a costruire un sistema di regolamentazione che possa davvero definirsi “internazionale”.

Entrambi i sistemi devono comunque venire a patti con la natura privata delle piattaforme di social networking, dove sempre più spesso l’hate speech trovano spazio, e che per certi versi funzionano come un vero e proprio tribunale (globale) le cui le confuse regole non sono leggi.

Il rapporto tra gli Stati e queste imprese private è più che mai al centro del dibattito pubblico internazionale. Per molti l’enorme responsabilità assunta dalle piattaforme è gestita in maniera poco trasparente, attraverso un processo di moderazione dei contenuti che per certi aspetti si rivela problematico.

In ambito europeo sono state attivate una serie di iniziative per arginare il fenomeno dello hate speech online, dove la soluzione principale è stata quella di interloquire con i fornitori di servizi, arrivando a stipulare un Codice di condotta contro le forme illegali di incitamento all’odio online[4]. Per certi versi questo sembra non bastare; alcuni stati membri dell’Unione stanno legiferando autonomamente per aggiungere garanzie ulteriori rispetto al potere detenuto dalle piattaforme di social networking[5].

Le regole dei principali social networks, primo tra tutti Facebook, non sembrano essere valide per tutti gli utenti, in tutti i luoghi e in ogni momento. Le decisioni riguardo al processo di moderazione e alla censura dei contenuti possono apparire contraddittorie e confuse e si intrecciano spesso con la politica, che ha un ruolo sempre più subalterno nei confronti dei grandi colossi tecnologici.

Ciò che si rende indispensabile è un’azione di contrasto allo hate speech quanto più possibile condivisa a livello internazionale, che riesca ad inquadrare con più precisione l’attività delle piattaforme che, di conseguenza, renda possibile il funzionamento di un sistema di controllo basato su regole quanto più possibili univoche, lontane da una volontà di repressione ma aderenti a quella di eguale tutela dei soggetti.

Gli Stati sono chiamati aggiornare i loro ordinamenti con mezzi di difesa più consoni a nuovi tipi di violenza e discriminazione, che non possono più essere ricondotti solo all’integrità fisica della persona, ma devono tenere sufficientemente in considerazione la dimensione personale e morale, colpite maggiormente dalla violenza che satura la rete.

Informazioni

Balking J.M., (2004) “Digital Speech and Democratic Culture: a theory of freedom of expression from the information society”, 79 New York University Law Rev.1.

Banks J., Regulating hate speech online. International Review of Law, Computers and Technology, 24 (3), 233-239, 2010.

Casarosa F., “Approccio normativo europeo verso il discorso all’odio online” su: https://www.questionegiustizia.it/articolo/l-approccio-normativo-europeo-verso-il-discorso-dell-odio-online-l-equilibrio-fra-un-sistema-di-enforcement-efficiente-ed-efficace-e-la-tutela-della-liberta-di-espressione

Daffarra L., “Hate Speech, troppo diverse le norme Usa-Europa”, 22 Ottobre 2020, su: https://www.agendadigitale.eu/

Gardini G., Caporale M., Massari G., Le regole dell’informazione. L’era della post-verità, Giappichelli Editore, 2017.

Gasparini I., L’odio ai tempi della rete: le politiche europee di contrasto all’online hate speech, JUS rivista delle scienze giuridiche, Vita e Pensiero Editore, 2017.

Greco S., Libertà di espressione su internet: tra anarchia e censura, DirittoConsenso.com: http://www.dirittoconsenso.it/2020/11/11/liberta-di-espressione-su-internet-fra-anarchia-e-censura/

Pollicino O., De Gregorio G., Hate Speech, una prospettiva di diritto costituzionale comparato. In Giornale di Diritto Amministrativo, 4, 2019, 421 ss.

[1] Il Primo Emendamento della Costituzione Statunitense, recita: “Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the Government for a redress of grievances”.

[2] La “Collateral censorship” è un tipo di censura in cui il timore di responsabilità legale viene utilizzato per incentivare un privato che agisce come intermediario per censurare il discorso di un altro soggetto privato.

[3] Elonis v, United States, 575 U.S. (2015).

[4] Codice di condotta per lottare contro le forme illegali di incitamento all’odio online, disponibile qui: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/ip_20_1134

[5] Per approfondire: Germania: Mchangama J., Alkiviadou N.,“The digital Berlin Wall: how Germany built a prototype for online censorship”, 8 Ottobre 2020, Euractiv: https://www.euractiv.com/section/digital/opinion/the-digital-berlin-wall-how-germany-built-a-prototype-for-online-censorship/  . Francia: Osservatorio delle libertà e delle istituzioni religiose, Francia, la pronuncia del Conseil constitutionnel sulla proposta di legge “Avia”, 18 Giugno 2020: https://www.olir.it/documenti/francia-la-pronuncia-del-conseil-constitutionnel-sulla-proposta-di-legge-avia/  .