L’articolo 2598 c.c. prevede tre categorie di atti di concorrenza sleale: gli atti per confusione, gli atti per denigrazione e vanteria e atti contrari alla correttezza professionale
La definizione di concorrenza sleale
Affinché il sistema concorrenziale presente sul mercato possa essere corretto e “pulito”, è necessario che questo sia anche regolato[1]. In mancanza di un intervento da parte del legislatore che orienti le condotte degli operatori economici, questo finirebbe certamente per andare alla deriva. Il sistema di norme presenti nel nostro ordinamento volto alla repressione della concorrenza sleale, allora, lungi dal costituire una limitazione alla concorrenza, rappresenta un necessario strumento per tutelarla.
L’astensione di taluni comportamenti ritenuti dannosi per la concorrenza, difatti, non può che giovare a tutti gli operatori economici.
Un’importante osservazione che occorre preliminarmente fare, prima di passare all’analisi della disciplina relativa alla concorrenza sleale, è che questa non è volta alla tutela dei consumatori, contrariamente a quanto si potrebbe ritenere. Essa è rivolta invece a realizzare gli interessi della categoria imprenditoriale, interesse ossia a che prevalga l’impresa più efficiente sul mercato, e non quella che si avvale di strumenti non corretti per raggiungere questo fine[2].
La principale fonte nel nostro ordinamento che regola la concorrenza sleale è rappresentata dal codice civile, in particolare dall’articolo 2598. Esso si suddivide in tre punti dal seguente contenuto:
- divieto di realizzare atti di confusione;
- divieto di realizzare atti denigratori o di vanteria;
- clausola generale volta a vietare atti di concorrenza sleale non tipizzati ai primi due commi.
I singoli atti di concorrenza sleale sono vietati nella loro oggettività, indipendentemente dalla consapevolezza del soggetto agente di porli in essere.
L’articolo 2598, nella sua formulazione, utilizza il termine chiunque per riferirsi a soggetti che possano porre in essere atti di concorrenza sleale: in realtà, come detto, essa è indubbiamente riferibile ai soli soggetti che rivestano la qualifica di imprenditori[3] e che possano realizzare una condotta concorrenziale verso altri.
Non assume rilevanza nemmeno il carattere pubblico o privato del soggetto imprenditore, purché sia in grado di realizzare una concorrenza c.d. prossima, ossia rivolta allo stesso settore di mercato in cui operano i soggetti destinatari[4]. Nella definizione di soggetto a cui imputare gli atti di concorrenza sleale non rileva neppure che sia propriamente lui a realizzarli, essendo talvolta riferibili a taluni imprenditori atti realizzati dagli stessi indirettamente, ossia per il tramite di altri soggetti che operino nel loro interesse[5].
Gli atti di concorrenza sleale per confusione
Il primo punto dell’articolo 2598 dispone che compie atti di concorrenza sleale chiunque “usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente”.
Perché gli atti in questione possano effettivamente costituire atti di confusione è necessario che si tratti di atti idonei a tal fine: non è necessario che la confusione in capo ai consumatori sia realmente avvenuta, in quanto costituiscono condotte punibili ai sensi dell’art. 2598 n. 1 tutte quelle che siano anche in potenza in grado di generare confusione, che siano cioè confondibili in capo al consumatore medio del settore di mercato di riferimento[6].
Il comma in questione effettua una ulteriore distinzione tra gli atti di confusione. Esso parla infatti di:
- atti di confusione tipici;
- atti di confusione atipici.
La prima categoria è costituita dall’uso di nomi o segni distintivi usati legittimamente da altri e dall’ imitazione servile di prodotti di un concorrente. Per nomi o segni distintivi deve intendersi sia quelli tipici come marchi, insegne o brevetti, che quelli atipici come ad esempio le etichette. Vero è che i primi trovano già nell’ordinamento una loro protezione specifica, tramite l’azione di contraffazione[7], mentre i secondi, privi di una protezione specifica, la trovano tramite questa disposizione[8].
La seconda categoria di atti per confusione tipici concerne invece l’imitazione servile di prodotti di un concorrente. Con il concetto di imitazione si fa riferimento all’imitazione della forma del prodotto, qualora questa sia riconducibile ad una certa impresa. Non rilevano infatti quali imitazioni servili quelle di forma prive di originalità, così come quelle che siano indispensabili al funzionamento del prodotto, che rispondano ossia ad esigenze di tipo tecnico[9].
La categoria di atti di confusione atipici, invece, allude a tutti gli altri atti che con qualsiasi mezzo siano idonei a creare confusione con prodotti e attività dei concorrenti. Questa clausola generale ha il ruolo di comprendere, nel novero di atti vietati, tutti quelli che sfuggano alle due categorie precedenti.
Gli atti di concorrenza sleale per denigrazione e per vanteria
Il secondo punto dell’articolo 2598 dispone che compie atti di concorrenza sleale chiunque “diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente”.
Occorre distinguere pertanto gli atti di denigrazione da quelli di vanteria.
Compie denigrazione colui il quale diffonda notizie o apprezzamenti idonei a determinare il discredito di concorrenti. Tale diffusione non rileva che sia quantitativa, ossia rivolta ad un ampio numero di persone, essendo anzi sufficiente una diffusione di tipo qualitativo, vale a dire rivolta anche solo ad un soggetto che riveste un determinato peso sul mercato (si pensi ad esempio ad un cliente particolarmente importante)[10]. Affinché sia realizzata la condotta in questione non rileva neppure la veridicità di quanto diffuso. Unico caso nel quale si ritiene essere consentita la denigrazione, ossia la diffusione di notizie e informazioni negative ma rispondenti al vero su un concorrente, è quella della legittima difesa del soggetto agente[11]. Con essa si fa riferimento ad una reazione, giustificata, di un imprenditore ad un atto di denigrazione subito da altri.
L’atto di denigrazione più esemplificativo è rappresentato dalla c.d. pubblicità superlativa: questo tipo di atto è volto a porre un proprio prodotto su un piano di assoluta superiorità rispetto a quelli altrui[12].
Il punto n. 2 dell’articolo 2598 fa divieto anche di quelle condotte c.d. di vanteria. Con esse debbono intendersi tutti quegli atti di appropriazione di pregi di prodotti o attività di un concorrente. La principale condotta con la quale si realizza la vanteria vietata è l’agganciamento: con esso l’imprenditore in questione presenta al pubblico i propri prodotti sottolineando la loro somiglianza con quelli di un concorrente, realizzando una forma di sfruttamento sistematico della fama e dell’impegno di altri per lanciare il proprio prodotto sul mercato[13].
Le altre fattispecie di concorrenza sleale
Dispone il punto n. 3 dell’articolo 2598 che compie atti di concorrenza sleale chiunque “si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda“.
Questa clausola di chiusura, che, come detto, ha l’intento di punire gli atti di concorrenza sleale atipici, ossia non contemplati ai punti precedenti, fa riferimento al concetto di correttezza professionale. Tale nozione non è di agevole definizione in quanto può esserle data sia una lettura propriamente etica nella misura in cui fa riferimento ad una sorta di codice deontologico dell’imprenditore, sia una lettura di tipo fenomenologico, ossia riferito alla prassi seguita dagli imprenditori[14].
Ad ogni modo, questa ulteriore categoria ha l’intento di vietare tutte quelle condotte di concorrenza sleale che via via sorgono nella prassi, per le quali il legislatore avrebbe difficoltà ad una tipizzazione mano a mano che vengono in essere. Nonostante la loro acclarata atipicità, comunque, è possibile proporre una elencazione delle principali, a titolo esemplificativo.
Costituiscono atti di concorrenza sleale atipica:
- storno di dipendenti (ossia la sottrazione di forza lavoro particolarmente qualificata alla concorrenza, al solo fine di recare danneggiamento)[15];
- boicottaggio (ossia sistematico rifiuto a contrattare con la concorrenza, realizzato in maniera collettiva con altri imprenditori);
- sottrazione di segreti imprenditoriali;
- concorrenza parassitaria (sistematica imitazione delle idee dell’impresa concorrente);
- ribasso dei prezzi irregolare (finalizzato unicamente ad eliminare dal mercato concorrenti minori, ma effettuato in perdita per chi lo pratica, ossia al di sotto dei costi di produzione)[16];
- violazione di norme di diritto pubblico (ad esempio il divieto di realizzare frode in commercio);
- pubblicità menzognera, suggestiva o iperbolica.
La tutela giurisdizionale
In sede di tutela da atti di concorrenza sleale, si definisce soggetto legittimato attivamente colui che subisce la condotta vietata, mentre è soggetto legittimato passivo colui che, direttamente o indirettamente, la pone in essere. Si fa menzione, oltretutto, anche all’articolo 2601 del codice civile, il quale dispone che qualora gli atti di concorrenza sleale realizzati abbiano pregiudicato gli interessi di una categoria professionale, la repressione degli stessi spetti anche alle associazioni o enti che rappresentino tale categoria.
In riferimento alle sanzioni previste dal codice, l’articolo 2599 prevede il rimedio dell’inibitoria, ossia la facoltà del soggetto leso di richiedere al giudice che la condotta lesiva cessi, così come richiedere allo stesso di emettere provvedimenti volti anche ad eliminarne gli effetti. Tali rimedi, talvolta, possono poi essere assunti anche in via immediata e urgente, stante la necessità di far cessare nel minor tempo possibile la reiterazione delle condotte ed evitare l’aggravamento del danno.
L’articolo 2600, infine, prevede proprio la risarcibilità del danno. Questo è possibile se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o colpa, anche se all’ultimo comma dello stesso articolo si precisa che la colpa, una volta accertati gli atti, è presunta. Ciò è volto a sgravare il soggetto leso dall’onere di provare l’elemento psicologico in capo al soggetto agente, mettendolo unicamente nella condizione di provare l’effettività della condotta lesiva[17].
Il secondo comma dell’articolo 2600 prevede poi la possibilità, per il giudice, di ordinare la pubblicazione della sentenza di condanna.
Informazioni
V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, quattordicesima edizione, Giappichelli Editore, Torino, 2020;
N. ABRIANI, Diritto delle imprese, manuale breve, Giuffrè Editore, Milano, 2012.
[1] Per approfondimenti relativi alla normativa a tutela della concorrenza e del mercato, si veda l’articolo su DirittoConsenso “La tutela della concorrenza e del mercato: uno sguardo alla normativa”, di Lisa Montalti, 10 febbraio 2022, La tutela della concorrenza e del mercato: uno sguardo alla normativa – DirittoConsenso
[2] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, quattordicesima edizione, Giappichelli Editore, Torino, 2020, p. 142.
[3] Per approfondimenti relativi alla figura del soggetto imprenditore, si veda l’articolo su DirittoConsenso dal titolo “Imprenditore e impresa”, di Leonardo Rubera, 8 settembre 2021, Imprenditore e impresa – DirittoConsenso
[4] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 143.
[5] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 143.
[6] N. ABRIANI, Diritto delle imprese, manuale breve, Giuffrè Editore, Milano, 2012, p. 114.
[7] Si ritiene che in questo caso le due tutele, quella offerta dall’articolo 2598 e l’azione di contraffazione, possano dirsi cumulabili, non costituendo un duplicato, in quanto hanno presupposti e sanzioni differenti. N. ABRIANI, Diritto delle imprese, manuale breve, op. cit., p. 115.
[8] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 145.
[9] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 145.
[10] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 146.
[11] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 146.
[12] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 146.
[13] N. ABRIANI, Diritto delle imprese, manuale breve, op.cit., p. 118.
[14] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 147.
[15] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit. p. 148.
[16] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 148.
[17] V. BUONOCORE, Manuale di Diritto Commerciale, op. cit., p. 150.

Lisa Montalti
Ciao, sono Lisa. Sono nata nel 1998 e vivo a Imola. Laureata con lode in Giurisprudenza all’Alma Mater Studiorum di Bologna, ho svolto il primo semestre di pratica forense anticipata presso uno Studio Legale, occupandomi prevalentemente di Diritto Civile. Attualmente sono praticante avvocato presso uno Studio Legale specializzato in Diritto Commerciale, in particolare mi occupo di Diritto Fallimentare e procedure concorsuali. Ho da sempre una passione per la scrittura e la lettura.