Il fenomeno del caporalato. Disamina dell’art. 603 bis c.p. e degli indici di sfruttamento

 

Introduzione al delitto di caporalato

La legge fondamentale in tema di contrasto e prevenzione del caporalato è la L. n. 199/2016, intitolata “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro in nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”.

Negli ultimi anni è notevolmente cresciuto in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale il numero di inchieste in questo settore. Nel 2019 erano 214. Hanno raggiunto quota 458 nel 2022[1].

Dall’esame dei report redatti in materia emerge la tendenza allo sfruttamento delle persone straniere. I mediatori culturali svolgono un ruolo di notevole importanza in questo campo, rappresentando un punto di riferimento per tutte le persone estranee al contesto linguistico e culturale italiano.

Tuttavia, nonostante il 74% delle vittime sia straniero, negli ultimi tempi sta crescendo il numero delle vittime italiane[2].

La Legge n. 199/2016 rappresenta un progetto ambizioso e contiene misure a tutela dei lavoratori agricoli, misure repressive e misure di sostegno alle vittime.

L’elemento innovativo di tale Legge riguarda l’art. 603 bis c.p., oggetto della presente trattazione. Il delitto di caporalato è infatti stato riscritto ed è stata prevista la responsabilità penale del datore di lavoro, ovvero di colui che utilizza la forza lavoro in condizioni di sfruttamento.

Sul piano processuale vi è stato un inasprimento del trattamento attraverso la previsione dell’arresto obbligatorio in flagranza. Tuttavia nella prassi questo non accade di frequente in quanto è piuttosto raro trovarsi di fronte a situazioni di flagranza di reato.

Ulteriormente, è stato rafforzato il contrasto patrimoniale del delitto di caporalato prevedendo la confisca dei beni sequestrati.

Appare utile evidenziare altresì l’adozione di misure relative all’azienda, che è considerata lo strumento di commissione del delitto.

L’idea del legislatore è stata quella di porsi in un’ottica di bonifica, laddove possibile, così da evitare che l’accertamento della responsabilità e la sanzione in capo ai responsabili possa avere un impatto negativo in termini di livelli occupazionali e di capacità di produrre beni e servizi.

La misura cautelare del controllo giudiziale prevede di sottoporre l’azienda ad una sorta di vigilanza così da depurarla da tutti gli aspetti negativi e restituirla “sana” al mercato. Si tratta di uno strumento di politica criminale che sta prendendo sempre più piede nel nostro ordinamento.

Il Legislatore ha introdotto anche un rinvigorimento delle funzioni del fondo anti tratta, prevedendo che i proventi delle confische conseguenti a condanne per il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro confluiscano in questo fondo, destinato anche alle vittime del caporalato.

Il fondo anti tratta risale al 2002 ed è destinato al finanziamento dei programmi di assistenza e di integrazione sociale in favore delle vittime di reati.

 

Caporalato e lavoro agricolo

Nel 2016, anno dell’entrata in vigore della Legge n. 199, la forma di caporalato più diffusa si concentrava nel mondo dell’agricoltura.

Gli artt. 8 e 9 della Legge hanno quindi previsto misure di sostegno a tutela del lavoro, in particolare del lavoro agricolo.

Tuttavia, il fenomeno ha dimostrato un’incredibile vitalità trasferendosi dalle zone dove storicamente era impiantato (ovvero le zone del sud a prevalente vocazione agricola) ad altre località (centro e nord Italia).

L’art. 8 ha previsto una sorta di “white list”, ovvero una lista di imprese virtuose osservanti la normativa in materia di rapporti di lavoro, così da valorizzare le imprese ossequiose della legge. Si tratta di realtà imprenditoriali che possono vantare sul mercato l’osservanza della normativa, anche dal punto di vista fiscale, in materia di rapporti di lavoro.

L’art. 9, anche questo relativo al lavoro agricolo, prevede delle misure per la sistemazione logistica ed il supporto dei lavoratori stagionali.

Ad oggi l’agricoltura rimane il settore numericamente più rilevante in materia di sfruttamento del lavoro. Tuttavia si registra un ampliamento dei settori coinvolti, che oggi sono anche quello della logistica, dei trasporti, della distribuzione e della comunicazione.

 

Iniziative concrete per la lotta al caporalato

Uno dei pregi della L. 199/2016 è che non si limita ad introdurre una fattispecie incriminatrice, rischiando quindi di dare vita ad un diritto penale simbolico non idoneo a prevenire il fenomeno del caporalato, bensì introduce una serie di norme che fanno da contorno a tale fattispecie, così da aumentare le possibilità di successo nel contrasto al fenomeno.

La rete di lavoro agricolo di qualità, il fondo anti tratta ed il supporto dei lavoratori stagionali rappresentano quindi delle misure volte a garantire una maggiore efficacia della fattispecie incriminatrice.

Uno dei maggiori problemi che si riscontava nella vecchia formulazione del reato era la mancanza di una sanzione per il datore di lavoro. Si puniva quindi soltanto il caporale (colui che recluta i lavoratori e li colloca presso il datore di lavoro) e non il datore di lavoro (colui che si approfitta dello stato di bisogno per sfruttare i lavoratori, sottopagandoli dopo averli sottoposti a condizioni di lavoro particolarmente faticose) che si giovava della manodopera dei lavoratori sfruttati.

Tuttavia è pacifico che l’intermediazione e l’utilizzo dei lavoratori in condizioni di sfruttamento siano ugualmente penalmente rilevanti.

Al fine di rimediare a tale clamorosa svista del Legislatore, le procure indagavano il datore di lavoro come concorrente nella condotta di intermediazione. Si trattava, però, di una soluzione molto complessa da applicare nella prassi, anche perché diventava difficile provare il dolo del soggetto agente.

Nel 2016 il Legislatore, prendendo atto dell’errore, ha deciso di sdoppiare le due condotte, riscrivendo l’art. 603 bis c.p.

Oggi è pertanto punito chiunque:

  • recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;
  • utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al punto precedente, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.

 

Le condotte punite sono quindi due.

Il reclutamento è la condotta del caporale, il cd. intermediatore, che approfitta dello stato di bisogno dei lavoratori e li destina ad un lavoro in condizioni di sfruttamento.

L’utilizzo, l’assunzione e l’impiego della manodopera è, invece, la condotta posta in essere dal datore di lavoro. La particella aggiuntiva “anche”, evidenziata in grassetto, sottolinea come l’attività di intermediazione non sia assolutamente necessaria per ritenere configurato il delitto di caporalato.

Il comma II dell’articolo recita:

“Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato”.

 

In questo modo il legislatore ha dato un segnale forte, in quanto da tale previsione si deduce che molto probabilmente la pena verrà scontata in carcere, a meno che sussistano delle circostanze attenuanti, il che, però, appare alquanto insolito nel caso del caporalato.

 

Indici di sfruttamento

Il Legislatore del 2016 ha individuato quattro indici in presenza dei quali è probabile che si configuri il reato di cui si parla.

In presenza di almeno uno di questi elementi il pubblico ministero prima ed il giudice poi devono valutare se nel caso concreto sussista una condizione di sfruttamento oppure no.

Si tratta soltanto di indicatori. Quindi in astratto potrebbe essere integrata la fattispecie di cui si parla anche in assenza di tali indici o, al contrario, potrebbe non essere integrata nonostante la sussistenza di almeno uno di questi indici.

Tuttavia si tratta solo di ipotesi astratte necessarie per far capire il meccanismo. Nella realtà è praticamente impossibile che le due ipotesi astratte si verifichino. Gli indici, infatti, prendono in considerazione tutte le possibilità di sfruttamento.

Gli indici da tenere in considerazione sono quattro.

  • Il primo riguarda la reiterata corresponsione di una retribuzione palesemente difforme dai CCNL e sproporzionata rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato. Ogni termine utilizzato ha un significato importante. L’avverbio “palesemente” indica che non è sufficiente che sia corrisposto qualche euro in meno rispetto alle indicazioni del CCNL di riferimento perché si possa ritenere configurato il reato di caporalato. Inoltre, oltre al riferimento ai contratti collettivi, l’art. 603 bis c.p. parla della sproporzione rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato.
  • Il secondo indice riguarda gli orari di lavoro, in particolare “la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di risposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie[3].
  • Il terzo indice riguarda la sicurezza e l’igiene nei luoghi di lavoro.
  • L’ultimo concerne il livello di degrado delle condizioni di lavoro.

 

Anche la presenza di uno solo di questi indici può portare a motivare adeguatamente lo sfruttamento del lavoratore al fine di ritenere configurato il reato di cui all’art. 603 bis c.p.

Si tratta di ipotesi dolose, è pertanto necessario che il datore di lavoro abbia voluto approfittare della situazione di bisogno del lavoratore. Non è necessario che il caporale abbia un ritorno economico. È infatti astrattamente possibile che egli agisca con il solo scopo fare un favore al datore di lavoro.

 

Differenza tra caporalato e riduzione in schiavitù

La sentenza n. 24441/2021 della Cassazione rappresenta un punto di riferimento per l’individuazione dell’approfittamento dello stato di bisogno. Esso non deve confondersi con quella situazione di totale assoggettamento che è richiesta dalle norme che puniscono la riduzione di schiavitù.

La Corte ha chiarito quali sono i casi in cui c’è uno stato di bisogno e quando, invece, sussiste la totale sudditanza che caratterizza la riduzione in schiavitù:

  • Il primo sussiste quando vi è una “grave difficoltà anche solo temporanea che limita la volontà della vittima inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose”. È questo il caso in cui si configura il delitto di caporalato. Nel delitto di cui all’art. 603 bis c.p. la volontà del soggetto sfruttato è fortemente limitata, ma non è del tutto assente. Si pensi al caso di un individuo irregolare che cerca lavoro e che non vorrebbe accettare le condizioni prospettategli, ma acconsente a causa del suo stato di bisogno, della sua necessità di lavorare. In questo caso il soggetto ha la possibilità di rifiutare le condizioni proposte, ma al contempo ha un impellente bisogno di lavorare che lo porta ad accettare i vincoli prospettati.
  • Per la configurazione della schiavitù, invece, è necessario uno “stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualsiasi libertà di scelta”.

Informazioni

Banca dati Dejure

Codice penale aggiornato

G. De Santis, S. M. Corso, F. Delvecchio, Studi sul caporalato, Giappichelli editore, 2019

[1] Dati del IV “Rapporto sullo sfruttamento lavorativo e sulla protezione delle sue vittime” del Laboratorio “Altro Diritto”/FLAI-CGIL, basato su oltre 400 inchieste delle Procure di tutta Italia.

[2] “Rapporto sullo sfruttamento lavorativo e sulla protezione delle sue vittime” cit. nota 1.

[3] Per un approfondimento sul diritto dei lavoratori alle ferie si consiglia la lettura di questo articolo: Il diritto alle ferie – DirittoConsenso.