Il licenziamento ritorsivo: motivi di nullità e onere della prova

 

Che cosa si intende per licenziamento ritorsivo

Il licenziamento c.d. “ritorsivo” è una fattispecie di recesso – l’atto unilaterale recettizio con cui una parte si scioglie dal vincolo scaturente dal contratto di lavoro – basata su un atto vendicativo applicato arbitrariamente dal datore di lavoro a fronte di un atto legittimo del dipendente.

Prendiamo il caso della proposizione di un’azione giudiziaria da parte del lavoratore per la rivendicazione del pagamento di ore di lavoro straordinario in costanza di rapporto di lavoro: il licenziamento intimato dal datore di lavoro, a breve distanza dalla notificazione della domanda giudiziale, potrebbe facilmente concretizzarsi in una reazione arbitraria e di rappresaglia nei confronti del dipendente che ha legittimamente agito per la tutela del suo diritto alla retribuzione.

Il licenziamento comminato dal datore di lavoro potrebbe, dunque, essere dichiarato ritorsivo.

Alla luce di quanto sopra, il licenziamento ritorsivo deve essere anzitutto sorretto da un motivo illecito, il quale deve essere altresì determinante, di modo che che esso deve essere il solo ad aver determinato il datore di lavoro a comminare il licenziamento[1].

L’unicità è conseguentemente esclusa nei casi in cui il licenziamento sia sorretto da una giusta causa ovvero da un giustificato motivo soggettivo o oggettivo.

A tal proposito la Suprema Corte ha infatti reiteratamente affermato come:

in tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale; ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini dell’applicazione della tutela prevista dall’art. 18, comma 1, st. lav., novellato, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento” (cfr., tra le tante, Cass civ. sez. lav. n. 1514/2021, in De Jure).

 

Onere della prova

Da quanto sopra, ne deriva, sotto il profilo dell’onere della prova, che il dipendente che intenda agire in giudizio per richiedere l’accertamento della natura ritorsiva del licenziamento dovrà anzitutto provare l’insussistenza delle – formali – motivazioni sottese al licenziamento.

Solo una volta esclusi la giusta causa o il giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) di licenziamento, il dipendente potrà sostenere la natura ritorsiva dello stesso.

Una volta dimostrata l’insussistenza ovvero l’irrilevanza di tali fatti, sarà quindi onere del lavoratore dimostrare il reale motivo di licenziamento, che esula da quanto contestato ovvero da quanto riferito nella lettera di recesso.

La palese insussistenza dei fatti e delle ragioni di recesso, anche se da sola non è sufficiente per reputare il licenziamento nullo, può essere valutata assieme ad altri elementi quali, ad esempio, la concatenazione temporale tra gli eventi.

Ed infatti, proprio la concatenazione temporale tra la condotta del lavoratore, il provvedimento espulsivo e l’assenza di ragioni del provvedimento medesimo è idonea a soddisfare l’onere probatorio del motivo illecito determinante.

Significativa al riguardo è la sentenza della Cassazione n. 11352 del 29 aprile 2019 (in De Jure) con cui è stato affermato che, laddove il recesso si riveli infondato nelle ragioni formalmente addotte dal datore, non è necessario che il giudice cerchi e reperisca prove in grado dimostrare inconfutabilmente la volontà ritorsiva del datore, essendo sufficiente al tal fine la presunzione derivante dalla coincidenza temporale tra le rivendicazioni del dipendente e il provvedimento espulsivo.

Conseguentemente, per i giudici di legittimità, quando i motivi posti alla base del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo risultino infondati, la ritorsività del recesso può anche essere provata per indizi.

Tale indirizzo è stato altresì confermato con la recente pronuncia n. 20530 del 27 giugno 2022 (in De Jure) con cui i Giudici di legittimità, in un caso di impugnazione del recesso da parte di un giornalista che aveva rivendicato la natura subordinata del rapporto, hanno affermato che il recesso irrogato a pochi giorni di distanza dalle richieste del collaboratore, potesse considerarsi quale elemento presuntivo per sostenere la natura ritorsiva della sanzione espulsiva.

 

Le tutele in caso di licenziamento ritorsivo

La natura ritorsiva del recesso viene valutata con particolare disvalore dall’ordinamento giuridico in quanto trattasi di una motivazione pretestuosa che sottende un atteggiamento di vendetta e rappresaglia da parte del datore.

Per tali motivazioni l’ordinamento prevede una tutela forte a favore del dipendente licenziato per motivo ritorsivo.

In tal caso, infatti, il licenziamento sarà dichiarato nullo e il dipendente avrà diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro nonché alla corresponsione delle retribuzioni dalla data del licenziamento a quella dell’effettiva reintegra.

Inoltre il datore di lavoro dovrà altresì corrispondere su tale importo i contributi previdenziali e assistenziali.

La tutela prevista è applicabile in tutti i casi in cui venga dimostrata in giudizio la natura ritorsiva del licenziamento: sia per i dipendenti assunti prima del c.d. Jobs Act (prima del 7 marzo 2015), sia per quelli assunti successivamente e a prescindere dal requisito dimensionale di cui all’art. 18 L. n. 300/1970[2].

Informazioni

R. Del Punta, Diritto del lavoro, Giuffrè, 2021

A. Russo, Il licenziamento del lavoratore, Seac, 2021

E. Zani, Divieto di discriminazione e licenziamento, Giuffrè, 2019

L. n. 300/1970

Cass. civ. sez. lav., n. 1514/2021, in De Jure

Cass. civ. sez. lav., n. 11352/2019, in De Jure

Cass. civ. sez. lav., n. 20530/2022, in De Jure

[1] Per un approfondimento sul tema del mobbing cfr M.G. Napoli, Le origini del mobbing, in DirittoConsenso: Le origini del mobbing – DirittoConsenso.

[2] Pe requisito dimensionale si intende la soglia minima aziendale (consistente in più di 15 dipendenti nell’unità produttiva in cui si è verificato il licenziamento oppure 60 nel territorio nazionale), cui si applica la tutela reintegratoria di cui all’art. 18 L. n. 300 del 1970 ai sensi del quale: “Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.

Il giudice, con la sentenza di cui al primo comma, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al secondo comma, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell’indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.

Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall’illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. In quest’ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d’ufficio alla gestione corrispondente all’attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma.

Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo.

Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all’articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo.

Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell’ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell’indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo.

Le disposizioni dei commi dal quarto al settimo si applicano al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all’impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti.

Ai fini del computo del numero dei dipendenti di cui all’ottavo comma si tiene conto dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale. Il computo dei limiti occupazionali di cui all’ottavo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.

Nell’ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente articolo”.

Nell’ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all’articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.

L’ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l’ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell’articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.

L’ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.

Nell’ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all’articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all’ordinanza di cui all’undicesimo comma, non impugnata o confermata dal giudice che l’ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore.