Il contratto a tempo determinato: la disciplina, i profili di nullità e la tutela del lavoratore

 

La disciplina del contratto a tempo determinato a seguito della novella del c.d. “Decreto Dignità”

La disciplina del contratto a tempo determinato è stata oggetto di numerosi interventi legislativi che hanno registrato, da ultimo, una sorta di inversione di tendenza rispetto al previgente assetto normativo, ispirato ad una – seppur limitata – liberalizzazione del suo utilizzo.

La disciplina del contratto a tempo determinato è attualmente contenuta nel D.lgs n. 81/2015, così come modificato dal D.L. n. 87/2018, meglio noto come Decreto Dignità, il quale ha di fatto determinato il superamento del principio di acausalità del termine apposto al contratto, in base al quale non è necessario per l’azienda indicare le ragioni che giustificano l’utilizzo del rapporto a tempo determinato anziché di quello a tempo indeterminato, che rappresenta a tutt’oggi nel nostro ordinamento giuridico, la forma comune del rapporto di lavoro.

Ed infatti, in base all’attuale normativa, entrata in vigore il 14 luglio 2018, al contratto di lavoro può essere apposto un termine senza la necessità di alcuna ragione giustificatrice solo ed esclusivamente nell’ipotesi di primo e unico rapporto di durata massima sino a dodici mesi.

Nel caso in cui invece il contratto abbia una durata superiore, ma comunque non eccedente i 24 mesi, lo stesso potrà essere considerato valido solo in presenza di ragioni oggettive e temporanee, tassativamente elencate all’art. 19 D.lgs n. 81/2015.

In particolare, ai fini della legittimità del termine apposto al contratto, dovrà ricorrere necessariamente una delle seguenti causali:

  • Esigenze temporanee ed oggettive estranee all’ordinaria attività produttiva: ovverosia esigenze legate ad eventi non riguardanti l’ordinario ciclo produttivo, come nel caso in cui un’azienda stia sperimentando un nuovo prodotto sul mercato;
  • Esigenze di sostituzione di altri lavoratori, ad esempio come nel caso di sostituzione di una lavoratrice in congedo di maternità;
  • Esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria, come ad esempio nel caso di picchi e/o di una straordinaria intensificazione dell’attività produttiva non prevedibile.

 

Oltre alla reintroduzione dell’obbligo di specificazione delle causali in caso di rapporto di durata superiore a 12 mesi, il Decreto Dignità ha apportato una serie di ulteriori novità rispetto al previgente quadro normativo, così sintetizzabili:

  • Previsione di una durata massima del rapporto di 24 mesi (in luogo degli originari 36 mesi);
  • Riduzione del numero delle proroghe: (da 5 a 4 nell’arco dei 24 mesi);
  • Introduzione di un nuovo termine di impugnazione stragiudiziale pari a 180 giorni in luogo dei previgenti 120.

 

Resta invece fermo il requisito della necessità della forma scritta, tale per cui l’apposizione del termine è priva di effetto qualora non risulti da atto scritto, di cui una copia dovrà essere consegnata al lavoratore entro cinque giorni dall’inizio della prestazione lavorativa.

 

Divieti di assunzione a tempo determinato

L’assunzione a termine non è ammessa in ogni caso.

L’art. 20 D.lgs 81/2015 individua le ipotesi tassative in cui è posto il divieto di assunzione a termine:

  • nel caso in cui l’azienda intenda assumere per sostituire lavoratori che esercitano il diritto di sciopero (c.d. divieto del crumiraggio esterno);
  • presso unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi riguardanti lavoratori adibiti alle stesse mansioni;
  • presso unità produttive nella quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario in regime di cassa integrazione guadagni che interessano lavoratori adibiti alle medesime mansioni, e, infine,
  • da parte di aziende che non hanno effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa sulla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori[1].

 

Impugnativa del contatto a termine e regime sanzionatorio

Il lavoratore che intenda far accertare la nullità della clausola appositiva del termine è tenuto, in base all’art. 28 comma 1 D.lgs n. 81/2015, ad impugnare il contratto anche in via stragiudiziale, entro il termine decadenziale di 180 giorni dalla cessazione del singolo contratto (ricordiamo che il nuovo termine si applica ai contratti stipulati successivamente all’entrata in vigore della riforma e dunque dal 14.7.2018).

Tuttavia, l’impugnazione diventa inefficace se non è seguita entro il successivo termine di 180 giorni dall’introduzione del giudizio[2].

In ordine al regime sanzionatorio, l’accertamento della nullità del termine apposto al contratto di assunzione comporta la trasformazione dello stesso a tempo indeterminato sin dalla data originaria di decorrenza e dunque con efficacia retroattiva.

Non solo: nel caso in cui il giudice accerti la nullità del termine, applicando la sanzione della trasformazione del contratto a tempo determinato a tempo indeterminato, il datore di lavoro sarà altresì condannato al risarcimento del danno in favore del lavoratore.

Tale risarcimento può essere liquidato dal giudice nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, tenendo conto di fattori quali la durata del rapporto, le dimensioni dell’azienda, la gravità della violazione, il comportamento e la condizione delle parti.

Informazioni

R. Del Punta, Diritto del lavoro, Giuffrè, 2021

D. lgs n. 81/2015

D. lgs n. 87/2018

[1] Per un approfondimento cfr: T. Di Giulio, Le morti bianche e la responsabilità penale dei datori di lavoro, in Le morti bianche e la responsabilità penale dei datori di lavoro – DirittoConsenso.

[2] Per un approfondimento cfr, M.G. Napoli, Il rito del lavoro, cos’è, in Il rito del lavoro: cos’è? – DirittoConsenso.