Come si configura il lavoratore nell’ambito di un distacco transnazionale? Il difficile bilanciamento fra parità di tutela e promozione della libera circolazione del lavoro nel mercato unico europeo
Cos’è il distacco transnazionale?
Si definisce distacco transnazionale la situazione in cui, nell’ambito di una prestazione di servizi, un’impresa con sede in un dato paese distacca uno o più lavoratori in un’altra impresa con sede in un altro paese dell’Unione Europea[1].
Per fare un esempio, potrebbe essere il caso di un’impresa edile italiana con sede legale in Italia che distacca un gruppo di lavoratori presso un’azienda spagnola con sede legale in Spagna per svolgere – spesso in regime di appalto o subappalto – una determinata prestazione lavorativa, come la costruzione di un immobile.
Il datore di lavoro, per quanto riguarda la normativa nazionale, trova legittimazione all’impiego del distacco transnazionale nell’ambito del potere direttivo attribuitogli dal Codice civile, grazie al quale ha la facoltà di modificare il luogo della prestazione lavorativa di un proprio lavoratore subordinato[2].
Una delle problematiche più evidenti si concretizza nel fatto che nel mercato unico, dove in base al principio della libera circolazione dei lavoratori sancito agli artt. 45 e seguenti del TFUE[3] è consentito alle imprese reperire professionalità provenienti da qualsiasi Stato membro, si è sviluppata la tendenza all’utilizzo di dinamiche di concorrenza deregolativa[4]. La conseguenza più evidente si riflette nelle difficoltà di raccordo tra i sistemi di diritto del lavoro e di relazioni industriali degli Stati membri.
In questo contesto pone le basi il dibattito sul dumping sociale e salariale[5] che interessa i lavoratori distaccati nell’ambito del distacco transnazionale, soprattutto a seguito del comportamento ampiamente diffuso di imprese che hanno sfruttato l’esistenza di squilibri sul piano del costo del lavoro andando ad inficiare uno degli stessi principi cardine dell’Unione Europea, ossia la leale concorrenza.
Le difficoltà nel superare la direttiva 96/71/CE
Il distacco transnazionale è regolato principalmente dalla direttiva 96/71/CE, la cui funzione dovrebbe essere quella di conciliare le esigenze delle imprese di prestare servizi transnazionali senza inficiare le tutele dei lavoratori distaccati tramite meccanismi di dumping sociale. Come si vedrà, tale direttiva non è in grado di contrastare efficacemente il fenomeno.
Negli anni successivi sono state adottate ulteriori normative da parte dell’Unione Europea, come la c.d. direttiva enforcement (n. 2014/67/CE), che non hanno però modificato nella sostanza le norme della direttiva 96/71.
Allo stesso modo, nel 2016 la Commissione Europea ha presentato una proposta di revisione della direttiva del 1996 con l’obiettivo di stabilire regole più favorevoli per gli Stati che subiscono il dumping sociale in ragione dei più alti standard di tutela garantiti dal loro sistema di diritto del lavoro[6]. Ma anche in questo caso non si sono verificate modifica sostanziali.
I principi ricavabili dal TFUE: la sentenza Rush Portuguesa
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha nel tempo affrontato il tema del distacco transnazionale interpretando il fenomeno alla luce dei principi generali del mercato unico, contenuti nel TFUE.
In una delle prime pronunce, in luogo della sentenza Rush Portuguesa[7], la Corte ha chiarito che il lavoratore impiegato in un distacco transnazionale in un altro Stato membro non può rivendicare i diritti garantiti dal principio della libertà di circolazione dei lavoratori ex art. 45 TFUE perché non è garantita la parità di trattamento rispetto ai lavoratori dello Stato ospitante.
È invece l’impresa che lo distacca a poter invocare la libertà di prestare servizi in un altro Stato membro ai sensi dell’art. 56 TFUE. La parità di trattamento tra i lavoratori, infatti, si configura come un ostacolo all’esercizio di questa libertà se determina un aggravio del costo del lavoro a causa degli eventuali maggiori oneri previsti dalla legislazione dello Stato membro dove avviene il distacco transnazionale[8] .
La Corte di Giustizia, in una successiva sentenza, specifica che lo Stato ospitante può imporre il rispetto delle norme di diritto del lavoro interno solo nel caso in cui questo sia giustificato da overriding reasons of public interest, ossia ragioni di interesse pubblico; e purché ciò avvenga nel rispetto del principio di non discriminazione e del principio di proporzionalità[9].
La nozione di tariffe minime salariali: la sentenza Ruffert
Sulla base delle riflessioni fino ad ora discusse occorre considerare l’art. 3[10] della direttiva 96/71/CE, nella parte in cui, al paragrafo 1, elenca le norme di protezione minima. Tra esse sono incluse le c.d. “tariffe minime salariali” (da qui in avanti TMS), dalla quale dipende nel concreto la possibilità per le imprese di attuare dumping salariale nello Stato dove operano il distacco transnazionale.[11]
Inizialmente la Corte con la sentenza Ruffert[12] sembrava aver negato la possibilità di aumentare le TMS, andando contro ad uno dei principi fondanti del diritto del lavoro, ossia il “trattamento più favorevole”[13].
Nel tempo, ha modificato la propria posizione fino ad accettare di introdurre temperamenti all’interpretazione iniziale. La Corte ha così ammesso che uno Stato possa introdurre diversi livelli salariali come previsti dagli inquadramenti dei contratti collettivi di settore, e non un unico minimo standard salariale a livello nazionale. Per esempio, nella sentenza ESA[14] si è ammessa la possibilità di erogare di un’indennità giornaliera per distacco.
I nodi ancora da sciogliere
Come abbiamo visto, la Corte nel corso dei decenni ha ampliato le tutele relative al lavoratore nell’ambito del distacco transnazionale. Tuttavia, non si può propriamente parlare dell’eliminazione dei fenomeni di dumping sociale e salariale.
La stessa sentenza ESA, che di primo acchito sembrerebbe garantire agli Stati la possibilità di difendersi dal fenomeno permettendo l’applicazione ai lavoratori distaccati di standard salariali sostanzialmente equivalenti a quelli rispettati dalle imprese nazionali, nel concreto non lo consente.
In primo luogo, perché la libertà degli Stati membri nell’identificare le componenti delle TMS è sempre sottoposta al giudizio di proporzionalità. In secondo luogo, perché i sistemi di diritto del lavoro e relazioni industriali dei vari paesi sono differenti fra loro, di conseguenza anche la determinazione delle TMS sarà diversa.
Da queste riflessioni risulta evidente come questi fattori possano ancora alimentare fenomeni di dumping[15].
La Commissione Europea, in una comunicazione del 2016, ha proposto di sostituire la nozione di TMS con quella omnicomprensiva di “retribuzione”[16], comprendente in particolare “tutti gli elementi della retribuzione resi obbligatori da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali, da contratti collettivi o da arbitrati dichiarati di applicazione generale e/o, in mancanza di un sistema di dichiarazione di applicazione generale di contratti collettivi o di arbitrati, da altri contratti collettivi o arbitrati ai sensi del paragrafo 8, secondo comma, nello Stato membro nel cui territorio è distaccato il lavoratore”. Tuttavia, in questo modo non vengono risolti i problemi sopra esposti.
Allo stesso modo, anche la Confederazione Europea dei Sindacati (CES) ha sostenuto la necessità di dare piena libertà agli Stati nel definire il contenuto della retribuzione fissata dai contratti collettivi e di restituire alla direttiva 96/71 il carattere di direttiva che fissa standard minimi, riconoscendo esplicitamente il principio del “trattamento più favorevole” per i lavoratori interessati da distacco transnazionale.
Informazioni
Orlandini, G. “Distacco transnazionale e dumping salariale nell’Unione europea”. EUROPEANRIGHTS NEWSLETTER, 63, 1-10. 2017
Codice Civile
Direttiva 96/71/CE
Corte Giust. 27.3.1990, causa C-113/89
Corte Giust. CE 23.11.19999, causa C-369/96 e C-376/96
Corte Giust. 3.4.2008, causa C-346/06
Corte Giust. 12.2.2015, causa C-396/13
Il diritto derivato dell’UE: Regolamenti e Direttive, DirittoConsenso. Link: Regolamenti e direttive dell’UE – DirittoConsenso.
[1] Si consideri che il distacco transnazionale può anche interessare paesi extra UE, ma ai fini della trattazione del presente approfondimento vengono presi in considerazione soltanto i distacchi fra paesi membri dell’Unione Europea, data la peculiarità della normativa che si andrà ad indagare.
[2] Vedere artt. 2086 e 2094 Codice civile
[3] Per visionare il testo degli artt.: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:12016E045
[4] Orlandini G. “Distacco transnazionale e dumping salariale nell’Unione europea”
[5] Nella dottrina economica il dumping è un termine usato per indicare lo sfruttamento dell’international price discrimination, ossia la vendita di beni e servizi in un mercato estero ad un prezzo più basso rispetto a quello praticato nel proprio mercato interno, provocando fenomeni di concorrenza sleale. L’espressione dumping sociale è stata coniata per esprimere in fenomeno in ambito giuslavoristico, attraverso lo sfruttamento delle differenze nell’ambito delle legislazioni dei singoli paesi che determinano differenze nel costo del lavoro. Vedere Pessi R. “dumping sociale e diritto del lavoro, in W.P. Libertà, lavoro e sicurezza sociale, n. 3/2011”
[6] Orlandini G.
[7] Corte Giust., 27.3.1990, causa C-113/89, Rush Portuguesa Lda. Il caso riguardava dei lavoratori portoghesi inviati in Francia per eseguire lavori di costruzione di una linea ferroviaria in base ad un contratto di subappalto.
[8] Orlandini G.
[9] Corte Giust. CE, 23.11.1999, causa C-369/96 e C-376/96, Arblade, per cui rispettivamente alle imprese straniere non possono essere imposti obblighi che non gravano su quelle nazionali; limiti alle libertà economiche sono ammissibili solo adottando le misure strettamente necessarie.
[10]Per la visione integrale dell’articolo: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/it/ALL/?uri=CELEX%3A31996L0071
[11] Orlandini G.
[12] Corte Giust., 3.4.2008, causa C-346/06, Rüffert.
[13] Orlandini G. Nella sentenza veniva affrontato il caso di un appalto vinto da azienda polacca per la costruzione di un carcere in Germania che, tramite il subappalto, distaccava un certo numero di lavoratori polacchi. Il Land tedesco interessato imponeva alle imprese aggiudicatrici di rispettare le retribuzioni stabilite dal contratto collettivo di lavoro del luogo di esecuzione della prestazione del lavoro. Tuttavia, durante un controllo era emerso che per i lavoratori polacchi non erano state rispettate le condizioni di lavoro prescritte dal contratto vigente in loco, ma che percepivano una retribuzione nettamente inferiore. La direttiva sul distacco transnazionale prescrive l’obbligo di rispettare i minimi salariali fissati da disposizioni legislative o da contratti collettivi di applicazione nazionale vigenti nel paese di distacco. Tuttavia, nel caso in questione, il contratto collettivo vigente in loco non era di applicazione generale ai sensi del diritto tedesco, poiché si applicava solo agli appalti pubblici. Di conseguenza, il livello salariale prescritto non poteva essere considerato un minimo salariale e costituiva una limitazione alla libertà di prestazione dei servizi. Questo però si traduceva in una disparità di trattamento tra i lavoratori “del luogo” ed i suddetti lavoratori distaccati, impiegati nel medesimo appalto.
[14] Corte Giust., 12.2.2015, causa C-396/13, Sähköalojen ammattiliitto ry v Elektrobudowa Spolka Akcyjna (ESA)
[15] Orlandini G.
[16] COM. 2016/128, p. 13-14

Alessia Boeri
Ciao, sono Alessia. Sono laureata in consulenza del lavoro all'Università di Torino e frequento la magistrale in diritto per le nuove tecnologie e l'innovazione sostenibile a Verona. Nel corso dei miei studi mi sono appassionata al diritto del lavoro ed attualmente sto svolgendo il praticantato per l'abilitazione alla professione di consulente del lavoro presso uno studio di consulenza.