La responsabilità genitoriale è la più delicata per il peculiare ruolo svolto dall’istituto della famiglia nella vita di ogni soggetto

 

La responsabilità genitoriale: un istituto peculiare

Omnis obligatio nascitur vel ex contracto vel ex delicto[1]. Quella delle fonti delle obbligazioni è una definizione (invero, particolarmente felice) risalente nel tempo, formulata – per come a noi oggi nota – dal giurista Gaio[2] nel II secolo d.C., all’interno della sua più celebre opera, le Institutiones (libro III, passo 88). La completezza di tale definizione è stata tale da permetterle di sopravvivere allo scorrere del tempo e di riaffermarsi nei secoli come genere giuridico assolutamente attuale. Non a caso, la moderna teoria della tripartizione delle fonti da cui sorge una obbligazione richiama persino la lettera del concetto gaiano: le obbligazioni sorgono da contratto, da fatto illecito e da qualsiasi altro atto o fatto idoneo a produrle (art. 1173 c.c.).

La categoria di obbligazione riveste, all’interno dell’ordinamento e, più in generale, nella vita dei consociati, un ruolo essenziale, regolando i rapporti che intercorrono tra i soggetti. Posta la natura imperfetta dell’uomo, non sempre ossequioso degli impegni da lui assunti, l’osservanza di una prestazione dedotta ad oggetto di una obbligazione può essere garantita solamente fornendo all’obbligazione medesima un contraltare imperativo che le garantisca, in maniera indiretta, forza coattiva. Il meccanismo richiamato, in termini più generali, è tale per cui, laddove un impegno validamente costituito ed assunto da un soggetto non venga rispettato, la condotta integri un inadempimento[3], esponendo il soggetto in difetto a risponderne a titolo di responsabilità.

Posta questa importante premessa, si potrebbe pensare che la responsabilità, come sopra descritta, viva indissolubilmente legata al concetto di obbligazione e che la medesima svolga, pertanto, un ruolo essenziale, sì, ma limitato alla mera sfera patrimoniale dell’individuo. A ben vedere, tuttavia, una puntuale analisi delle disposizioni normative previste in tema di responsabilità sconfessa da principio questa corrente.

In primo luogo, la responsabilità contrattuale convive con la responsabilità aquiliana[4], destinata a disciplinare rapporti tra consociati che sorgono alla luce di un fatto illecito, ontologicamente distinto rispetto ad una predeterminata regolazione di interessi patrimoniali tra parti.

Esiste, però, una fattispecie di responsabilità totalmente estranea alla dimensione della patrimonialità e illiceità sopra menzionate, destinata ad incidere su una sfera ben più importante: la responsabilità genitoriale. Posto quanto richiamato in esordio, la responsabilità è istituto fondamentale al fine della regolazione dei rapporti tra soggetti all’interno della società.

È innegabile che sia la famiglia la tipologia più elementare di società, per ciò solo destinata ad essere disciplinata sulla base dei medesimi meccanismi di obblighi e responsabilità che si adattano così bene alla società intesa in senso lato. Conscio di ciò, il legislatore del 1942 ha dettato una puntuale disciplina sul tema, via via aggiornata alla luce delle importanti evoluzioni che l’istituto della famiglia ha conosciuto nel tempo e che hanno riflettuto di pari passo i principali cambiamenti sociali registrati negli ultimi anni. Dalla riforma della disciplina del diritto di famiglia del 1975[5], sino alle recenti modifiche legislative che hanno seguito al riconoscimento delle unioni civili e delle unioni di fatto tra coniugi[6], l’istituto della familias è mutato camaleonticamente per adattarsi alle esigenze di una società in costante evoluzione.

Prima di addentrarci sulle modifiche che hanno interessato la responsabilità genitoriale nel corso dei decenni, pare saggio analizzare la normativa vigente e le definizioni dettate sul punto dal codice civile, tenendo conto, altresì, del complesso substrato storico che caratterizza questo istituto.

 

La responsabilità genitoriale: principali caratteristiche

La riforma del 1975 ha introdotto, all’interno del nostro ordinamento, la nuova categoria di responsabilità genitoriale[7], con ciò intendendosi la potestà attribuita ai genitori di proteggere, educare e istruire il figlio minore, curandone gli interessi. È stata ovviamente esclusa la possibilità – avulsa in epoche più risalenti – per il padre dell’utilizzo della violenza sul figlio come strumento educativo[8].

Il codice civile si occupa della responsabilità genitoriale agli artt. 147 e 315-bis, oggetto, appunto della menzionata riforma. E, pertanto, il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’articolo 315-bis (art. 147 c.c.).

L’articolo 147 riguarda gli obblighi dei genitori nei confronti del figlio. Nel presente elaborato, tuttavia, si è mossi i primi passi menzionando una serie di obblighi e responsabilità che gravano sul figlio stesso, destinatario della disciplina prevista al comma 4° dell’art. 315-bis.

Difatti, dopo aver nuovamente ricordato che il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni, il legislatore afferma che “il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”.

La responsabilità genitoriale, a valle di questa analisi normativa, si estende a tutti gli aspetti della vita dei figli, dal loro mantenimento alla loro istruzione, educazione e assistenza morale. Nuovamente, si sottolinea come il potere coercitivo riconosciuto ai genitori abbia perso notevole verve, posto che questi sono, oggi, tenuti a considerare e rispettare, nelle decisioni che assumono per conto dei figli, le loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni.

Più semplicemente, non è più consentito né ammissibile che un genitore operi delle pressioni sul figlio, pretendendo, ad esempio, di veicolarne la carriera costringendolo ad una scelta piuttosto che ad un’altra. Si tratta, a ben vedere, di una fondamentale conquista per l’autonomia del figlio, il quale vanta una libertà ampissima sulle questioni che lo riguardano.

La natura simmetrica che caratterizza il diritto, tuttavia, non può riconoscere al soggetto tanto potere senza prevedere determinate limitazioni. E, pertanto, oltre al naturale obbligo che impone il rispetto del genitore, il figlio ha l’ulteriore e giusto onere di contribuire al sostentamento della famiglia in relazione alle proprie capacità, sostanze e reddito sinché convive con essa. Trattasi, in questo caso, di obblighi ai quali il figlio dovrebbe – tendenzialmente – adempiere spontaneamente, ma che il legislatore, a ben vedere, ha ritenuto corretto positivizzare in una disposizione normativa a tutela delle capacità dei genitori e, più in generale, della famiglia.

Pertanto, anche in virtù di talune importanti pronunce dei giudici nazionali, i genitori non possono vedersi costretti al mantenimento per un periodo di tempo illimitato del figlio a loro carico che abbia raggiunto una maturità tale da ritenere ragionevole, da parte sua, una autonomia economica ed esistenziale. Si badi bene: non si sta, in questo caso, sostenendo che in nessuna circostanza può il figlio – anche di età avanzata – chiedere ed ottenere aiuto alla famiglia. Ciò che il legislatore ha voluto prevenire è un utilizzo distorto della disciplina sulla responsabilità genitoriale che consenta al figlio di cullarsi sulle capacità del proprio nucleo di appartenenza in maniera totalmente passiva, senza apportare alcun contributo all’interno dell’economia familiare.

 

Matrimonio, unioni civili e unioni di fatto          

La responsabilità genitoriale è un istituto logicamente connesso alla presenza, all’interno di un nucleo familiare, della progenie. In precedenza, si è fatta menzione della riforma del diritto di famiglia intervenuta con la Legge 20 maggio 2016, n. 76[9] (c.d. Legge Cirinnà) destinata al riconoscimento delle unioni civili e delle unioni di fatto tra coniugi. Il concetto di famiglia, genericamente inteso come nucleo necessariamente composto da un uomo e una donna ha accolto due ulteriori declinazioni, mediante il riconoscimento delle unioni tra coppie del medesimo sesso e delle coppie di fatto la cui unione non è formalizzata mediante i canonici istituti (vd. matrimonio) messi a disposizione nell’ordinamento. Sorge spontaneo, dunque, chiedersi se gli obblighi discendenti dagli artt. 147 e 315-bis del codice civile si applichino a queste due novità normative.

La risposta, a ben vedere, non può che essere positiva – quantomeno per le unioni di fatto. Con ciò si intendono, in generale, le c.d. famiglie di fatto, ovvero realtà sociali rappresentate da una coppia che convive stabilmente con il sostanziale rispetto dei doveri coniugali.
È importante puntualizzare, tuttavia, che tra i conviventi di fatto non esistono diritti e doveri reciproci, essendo, la loro, una unione libera. Tuttavia, i genitori conviventi esercitano la responsabilità genitoriale nei confronti dei figli riconosciuti da entrambi (posto altresì che, in seguito all’adozione del d. lgs. 154/2013, è stata portata a compimento la completa equiparazione tra figli legittimi – nati in costanza di matrimonio – e figli naturali – nati al di fuori del matrimonio).

Più complesso il discorso riferito alle unioni civili. Il legislatore italiano, difatti, diversamente da quanto previsto in altri ordinamenti, ha deciso di non adottare la disciplina della c.d. “stepchild adoption”, ovvero l’adozione del figlio minore del partner all’interno della coppia unita civilmente. Nel corso degli anni, tuttavia, si è assistito – sostanzialmente – ad una evoluzione del testo di legge (operata, invero, grazie a un orientamento giurisprudenziale) che, stabilendo la possibilità per gli uniti civilmente di ricorrere alla stepchild adoption in nome del bene del minore, ha spostato l’attenzione dal diritto della coppia alla genitorialità all’interesse del minore alla genitorialità.

La legge, poi, non consente l’adozione alle copie omosessuali e, di conseguenza, alle unioni civili. Non è, pertanto, possibile per due soggetti legati da unione civile adottare un bambino. Nell’uno e nell’altro caso sopra rappresentati, dunque, mancherebbe, per un verso o per un altro, il presupposto sostanziale dal quale dipende l’applicabilità della norma sulla responsabilità genitoriale, permettendo (al momento) di optare per l’inapplicabilità di questa disciplina a tali fattispecie.

 

Conclusioni

Alla luce di quanto esposto sinora, dunque, si comprende a colpo d’occhio la complessità della disciplina sulla responsabilità genitoriale, legata soprattutto al fatto che la normativa è destinata ad incidere su rapporti umani estremamente delicati che coinvolgono la sfera più intima della persona.

A ciò si aggiungono le ulteriori complessità che derivano dal tentativo di conciliare il concetto di genitorialità con le fattispecie di unione civile e unione di fatto. Pare saggio, pertanto, astenersi da giudizi di legittimità circa il tenore della disciplina adottata. E, d’altronde, a prescindere dal credo di ciascun consociato, non spetta ad altri se non al legislatore il compimento delle valutazioni circa l’opportunità di estendere la categoria di genitorialità alle fattispecie sorte con la legge Cirinnà.

Basti apprezzare, a questo stadio, la complessità delle questioni normative che caratterizza l’operato del legislatore ogni qual volta si tenti di regolare con uno strumento razionale e distaccato come la legge fattispecie complesse che impongono il compimento di giudizi valoriali e che sono destinate ad incidere in rapporti umani tanto importanti quanto quelli intercettati dal concetto di famiglia, in qualsivoglia modo lo si intenda.

Informazioni

[1] Lett. “ogni obbligazione è nata o da contratto o da delitto”.

[2] Giurista romano attivo tra il I e il II secolo d.C.

[3] Nella dizione normativa (art. 1218 c.c.), “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

[4] Secondo il dettato ex art. 2043 c.c., “Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.

[5] Legge 19 maggio 1975, n. 151, “Riforma del diritto di famiglia

[6] Legge 20 maggio 2016, n. 76, anche nota come Legge Cirinnà.

[7] Per una analisi complementare dell’argomento, si legga anche l’articolo concernente gli strumenti di protezione del minore pubblicato su DirittoConsenso: Gli strumenti di protezione ordinaria del minore – DirittoConsenso.

[8] Meglio comunemente noto come “Ius Corrigendi”, questo termine fa riferimento al diritto degli esercenti la responsabilità genitoriale e dei loro (eventuali) delegati – quali maestri o precettori – di utilizzare mezzi di correzione e di limitare in vario modo la libertà personale dei figli nell’interesse della loro educazione.

[9] C.d. Legge Cirinnà. Per un approfondimento vedi: Legge Cirinnà e successive conseguenze – DirittoConsenso.it.