Prove digitali

Il valore legale delle prove digitali

I contenuti multimediali possono essere considerati prove digitali nell’ambito dei procedimenti legali

 

Reati in rete: per la tutela occorrono le prove digitali

In tempi recenti su Internet si è assistito ad una proliferazione di attacchi diretti ai danni di singoli individui e gruppi. Le forme di prevaricazione che si servono del web rappresentano un problema con cui sempre più utenti si trovano ad avere a che fare, sperimentando in prima persona le dannose conseguenze sulle proprie vite. Stalking e diffamazione sono solo alcuni dei reati che spesso utilizzano come veicolo la tecnologia per meglio riuscire a penetrare nella quotidianità delle vittime; il distorsivo e massiccio utilizzo degli strumenti di connessione ha portato alla teorizzazione di nuovi modelli comportamentali, collegati a nuove forme di illeciti, come nel caso del cyberbullismo e del revenge porn[1].

Per esercitare una tutela efficace verso i reati perpetrati attraverso la rete, spesso le più tradizionali misure di contrasto si rivelano non del tutto adeguate. In proposito, l’ordinamento giuridico italiano si rifà per lo più ad un contesto pre-digitale, non riuscendo così a ricomprendere esplicitamente le nuove categorie di illeciti che è possibile compiere attraverso il web. Far valere le proprie posizioni e difendersi può, in alcuni casi, rivelarsi molto complicato: tempistiche lunghe e difficoltà oggettive nell’utilizzo di procedure informatizzate specifiche volte a provare gli abusi compiuti on-line sbarrano la strada al riconoscimento del danno, ostacolando il percorso della giustizia. Nonostante ciò, esiste comunque la possibilità di agire legalmente con efficacia, anche attraverso nuovi iter e nuove soluzioni pensate appositamente per operare nei contesti tecnologici.

Molte prevaricazioni e abusi si lasciano dietro una scia di prove digitali che giungono a noi attraverso gli schermi di computer, smartphone e tablet. Ma in che modo è possibile ricomprendere questi elementi all’interno di un procedimento di tutela legale?

 

Il carattere probatorio dei contenuti digitali

Nella fase di accertamento della sussistenza di un reato che avviene o passa attraverso strumenti digitali, i contenuti veicolati possono costituire dei veri e propri elementi di prova. Si tratta però di prove smaterializzate, che possono assumere le più svariate forme: e-mail, chat, post sui social network, foto, video, screenshot e molto altro. Nonostante la diversità oggettiva che intercorre tra un documento cartaceo e tutte le varie tipologie di contenuti digitali, questi ultimi possono essere considerati come dei documenti informatici a tutti gli effetti. L’art.234 c.p.p. specifica la natura delle prove documentali, a cui è possibile attingere attraverso l’acquisizione di scritti o altri tipi di documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, cinematografia, fonografia o qualsiasi altro mezzo. Questo vuol dire che anche la registrazione di un messaggio vocale, veicolato attraverso una qualsiasi applicazione di messaggistica, può rappresentare un documento informatico se contiene una rappresentazione di atti o fatti giuridicamente rilevanti.

L’art.20 comma 1 bis del Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD) attribuisce al documento informatico l’efficacia probatoria della scrittura privata firmata digitalmente con ogni tipo di firma elettronica qualificata o avanzata, come regolato dall’art. 2702 c.c.[2]. Lo stesso articolo precisa che “in tutti i casi, l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità.”.

Al citato articolo va aggiunta una precisazione proveniente dalla Corte di Cassazione, che specifica quanto sia essenziale verificare la modalità di acquisizione del contenuto ai fini probatori. Esiste, infatti, la possibilità di alterare o danneggiare con estrema facilità contenuti digitali, facendo perdere alla prova il carattere di integrità. I principi che regolano la manipolazione di queste tipologie di prove provengono dal Computer Forensic, il comportato della scienza forense che si occupa dell’acquisizione delle prove memorizzate su supporti digitali.

Ad oggi per sporgere denuncia le persone devono raccogliere manualmente i dati digitali, con la trascrizione e l’archiviazione manuale di ogni elemento idoneo a costituire una prova nell’ambito dei più svariati procedimenti (amministrativi, penali, civili e stragiudiziali). Considerato il rischio che il materiale digitale possa essere facilmente manomesso a vantaggio di una realtà manipolata, si rende pertanto necessario proteggere e cristallizzare le caratteristiche originali del contenuto, senza le quali i dati raccolti non possono avere alcun valore legale di prova.

Un documento forense deve garantire la sua immodificabilità, integrità, qualità e sicurezza, inoltre deve essere necessariamente gestito nell’ambito di una procedura che assicuri corrispondenza tra la sua forma e il suo originale contenuto. Affinché il materiale digitale raccolto possa essere riconosciuto come elemento riguardante o costituente una prova è necessario che esso vada incontro ad un iter di legalizzazione. Si tratta di un’attività tecnica di preistruttoria, che consiste nell’eventuale estrazione e cristallizzazione della prova digitale in maniera conforme alle procedure internazionalmente riconosciute. Ad ogni prova viene associato un codice identificativo univoco che le rende accessibili alle autorità preposte, anche in caso di rimozione dallo spazio digitale di immissione. Si configura così un processo certificativo tecnico volto ad attestare la veridicità della prova digitale che ne attesta inequivocabilmente il suo valore sul piano del contenuto.

 

L’importanza dei servizi per la cristallizzazione delle prove digitali

Per le persone che si ritengono danneggiate da una condotta perpetrata attraverso strumenti digitali, è estremamente importante ricevere supporto specialistico che permetta di raccogliere le prove riguardo a ciò che online si sta verificando. Attestare la provenienza del dato digitale serve per velocizzare le fasi iniziali di indagine da parte dell’avvocato, della magistratura o delle forze dell’ordine. Gli strumenti tecnologici per la raccolta dei dati per molto tempo sono stati di esclusivo appannaggio dei consulenti della procura e richiedono l’attivazione di un meccanismo burocratico lungo, che può disincentivare dalla volontà di attivare un iter di tutela.

Oggi esistono servizi ad hoc in grado di fornire assistenza tecnica attraverso cui si ottiene in maniera semplice la certificazione delle prove digitali in modalità forense, come ad esempio TrueScreen.

I servizi, utilizzabili direttamente da smartphone sotto forma di App, permettono di salvaguardare il carattere probatorio dei contenuti multimediali presenti sui dispositivi. Tutto ciò deve avvenire nel rispetto delle best practice internazionali, tramite la verifica sull’alterazione dei contenuti e la loro modalità di acquisizione; una volta ottenuto esito positivo, l’ente certificatore ufficiale genera un report di valore forense. Questi strumenti possono essere di fondamentale importanza per la raccolta di prove nei più svariati ambiti, sia dal punto di vista della difesa dei diritti personali, sia per altre necessità capaci di maturare conseguenze legali o di altro genere. Inoltre, molto spesso le tecnologie digitali non rappresentano solo l’output di un reato ma possono costituire strumenti efficaci per intercettare e provare un evento o un fatto legalmente rilevante in tempo reale.

Si apre quindi uno scenario di possibilità inedite ed interessanti, che possono dare un concreto supporto sia alla tutela personale, sia ai procedimenti di verifica nei più svariati ambiti lavorativi.

Informazioni

Alba B., Whatsapp in aula, 3 dicembre 2020 su dirittoconsenso.it: http://www.dirittoconsenso.it/2020/12/03/whatsapp-in-aula/

Novario F., Prove digitali nel processo civile, Giappichelli Editore, 2014.


Hate speech

Hate speech: i due principali orientamenti giurisprudenziali occidentali

Il fenomeno dello hate speech si espande in tutto il mondo attraverso il web; le norme per il suo contrasto si formano dal delicato rapporto tra libertà di manifestazione del pensiero e censura

 

Introduzione all’hate speech

I “nuovi” modi di comunicare attraverso il web hanno amplificato le opportunità di diffondere odio nella società. Ci riferiamo in particolare ai c.d. hate speech, “discorsi d’odio”, espressione che nasce come categoria della giurisprudenza americana negli anni ‘70 ed indica un genere di discorsi discriminatori, che hanno l’intento di esprimere odio e intolleranza verso un soggetto o un gruppo, rischiando di provocare azioni violente contro di essi.

In seguito, questa espressione è entrata a far parte del dibattito pubblico internazionale, ma la sua eccessiva ampiezza e gli aspetti controversi, ad oggi, non conducono ad una definizione univoca ed universale. Manifestandosi sul web la “forma” dello hate speech viene ulteriormente resa ambigua e la sua diffusione agevolata dalle specifiche caratteristiche della comunicazione digitale, che favoriscono un’incontrollata proliferazione dell’odio e della discriminazione ai danni degli utenti.

L’odio che viaggia sulla rete è in qualche misura differente, per caratteristiche ed effetti, rispetto alla sua manifestazione analogica ed è ormai diventato un problema internazionale, che richiede un approccio risolutivo ampiamente condiviso.

Per la configurazione di reati legati alla illecita manifestazione del pensiero, riconducibili allo hate speech, la competenza è affidata agli Stati che hanno un proprio orientamento politico e culturale nei confronti del problema. Nel contesto giurisprudenziale occidentale, tra Stati Uniti ed Europa, esiste una differenza sostanziale nell’approccio al contrasto dello hate speech. Ciò che sta dietro alle diverse concezioni riguarda i confini tra libertà di espressione e censura. Occorre innanzitutto evidenziare che il confine tra critica come libera opinione e critica come esternazione discriminatoria e pericolosa in virtù dei suoi potenziali effetti, non è univocamente individuabile.

Posto che la libertà di espressione debba essere garantita anche nei casi in cui possa risultare sgradita o scomoda, delimitare un preciso perimetro tra espressioni critiche cariche di veemenza e l’odio discriminatorio è un’operazione tutt’altro che semplice. Questo perché non esiste una norma giuridica valida universalmente, che definisca con precisione e completezza in cosa consista l’hate speech. La repressione dello hate speech pone un limite che separa il diritto alla libertà di espressione e la censura, una linea di confine che, nell’era digitale, diventa sempre meno netta e sempre più discussa. In questo senso si fronteggiano due opposte concezioni, riconducibili all’orientamento giurisprudenziale americano e quello europeo.

 

Libertà di manifestazione del pensiero e censura: l’orientamento statunitense

Lo hate speech può essere considerato un tema della giurisprudenza americana, che ha dei rapporti “delicati” con la libertà di manifestazione del pensiero, riconducibile al primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti che tutela la libertà di espressione in una forma ampia e garantistica, indipendentemente dal mezzo utilizzato[1]. Ciò rende estremamente difficile la normazione delle manifestazioni del pensiero, anche quando si tratta di espressioni denigratorie che hanno una relazione con azioni violente.

Il diritto alla manifestazione del pensiero è inteso in maniera individuale, come strumento per la realizzazione della persona, una libertà considerata come valore supremo rispetto al tutto, e ciò implica una grande difficoltà nell’accettazione di eventuali limitazioni e controlli. Questi, infatti, sono compatibili con i soli vincoli che mirano ad evitare lesioni della medesima libertà. Per questo motivo si considera negativamente l’innalzamento del livello di regolamentazione della libertà di espressione su Internet e, di conseguenza, il contrasto allo hate speech online; l’eccessiva regolazione avrebbe conseguenze non funzionali al nobile scopo che si propone di perseguire ma, al contrario, altererebbe il sistema di protezione della libertà di manifestare le proprie idee e il proprio pensiero. Senza contare che, un eventuale veto di censura sui contenuti farebbe perdere ai player dell’economia digitale uno status di neutralità infrastrutturale e l’impossibilità di sviluppare le strategie commerciali.

Non vengono perciò tollerate interferenze dei poteri pubblici (e non) nell’esercizio della freedom of speech; non sono previste limitazioni riguardo alle modalità e ai contenuti espressi. Secondo il Primo Emendamento della Costituzione americana, nell’incontrollato e libero flusso di informazioni, si assume che la corretta informazione emerga attraverso il libero confronto delle idee e dei pensieri contrastanti. Si configura così una situazione in cui ogni forma di responsabilizzazione degli intermediari digitali – soprattutto nel caso in cui si preveda il filtraggio e la moderazione dei contenuti – non viene considerata positivamente in quanto forma di collateral censorship[2].

Negli Stati Uniti, lo sviluppo della dimensione digitale ha costituito un ampliamento della portata della libertà di espressione, con la Corte Suprema americana che nelle sue prime pronunce in materia ha sposato un indirizzo in senso ampliativo della portata di questo diritto. Nella pronuncia della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Elonin v, United States, si ritrova uno specifico esempio di tutela dello hate speech online[3]. Nonostante nei testi di una canzone pubblicati su Facebook, il soggetto coinvolto minacciava di morte la sua ex moglie, la Corte ha ritenuto che le minacce contenute nei testi delle canzoni non configurassero hate speech in quanto le persone ragionevoli avrebbero senz’altro capito che non si trattasse di un thruth threat. Viene quindi applicato un principio di tolleranza a quello che può comunque essere definito un discorso d’odio.

 

Libertà di manifestazione del pensiero e censura: l’orientamento europeo

Nell’impostazione europea la libertà di manifestazione del pensiero è considerata una funzione strumentale agli interessi della comunità e spetta all’uomo in quanto membro, con limitazioni che si giustificano in nome delle esigenze della collettività. In questa concezione viene identificata una cornice sovranazionale entro cui gli stati possono muoversi nel contrastare i fenomeni riconosciuti come hate speech.

Gli strumenti costituzionali europei tutelano la libertà di espressione assoggettando però a limitazioni attivabili nel caso si presentino alcuni requisiti. Infatti, l’Art. 10 par.1 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e l’Art. 11 par.1 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea sanciscono la libertà di espressione, che deve però bilanciarsi con quanto riportato nell’Art. 10 par.2 CEDU e Art. 52 par.1 della Carta, dove è prevista la possibilità che l’attore pubblico possa limitare questa libertà nel rispetto di alcune condizioni. Si tratta di limiti che devono essere necessariamente previsti dalla legge, proporzionali e finalizzati al raggiungimento delle previsioni legislative.

In aggiunta a questo, l’Art. 17 CEDU e l’Art. 54 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE vi sommano un divieto di abuso di diritto: nessun diritto o libertà può essere interpretata come pretesa, da parte di uno Stato, un gruppo o un individuo, di esercitare un’attività o compiere un atto che punti a ledere irreversibilmente diritti e libertà riconosciute dagli stessi testi o di imporre ai medesimi limitazioni più ampie rispetto a quelle previste.

Il paradigma europeo in materia di tutela della libertà di espressione, perciò, non è solo limitato alle restrizioni che la figura pubblica può implementare a talune condizioni, ma deve assicurare che la libertà di espressione non venga demagogicamente utilizzata come mezzo per ledere altre libertà e diritti, come quello alla dignità umana, che più spesso gli si contrappone.

Sembrerebbe che a causa della sua esperienza storica con i regimi totalitari, l’Unione Europea avverte più di altri l’esigenza di sviluppare un dibattito sulla soppressione dei discorsi d’odio in favore dello sviluppo democratico dell’eurozona. Secondo il punto di vista prevalente nell’indirizzo europeo, il web dovrebbe essere regolamentato più rigidamente proprio al fine di ostacolare la diffusione di contenuti discriminatori, non rispettosi del principio di dignità umana.

In quest’ottica, i discorsi d’odio hanno ripercussioni negative non solo sulle vittime prese di mira, ma incidono sul sistema democratico nel suo complesso. I fenomeni discriminatori richiedono politiche attive di contenimento perché considerate minatorie nei confronti dei valori democratici della società. L’odio razziale e religioso viene sempre visto come una minaccia agli equilibri sociali e alla pace, pertanto, ne sono vietate le manifestazioni espressive al di là dei rischi legati all’incitamento alla violenza; l’Europa non vieta solo le forme di discorso atte a provocare danni alle persone, ma le vieta anche per il loro contenuto intrinseco.

 

Conclusioni

In tema di hate speech, abbiamo visto come vi sia una sostanziale differenza tra l’approccio giurisprudenziale statunitense e quello europeo. Il primo è di tipo individualista e liberista, estremamente sensibile alla tutela della libertà di espressione che nessuna legge può limitare, il secondo, invece, è di tipo comunitarista e prevede di stabilire un limite alla manifestazione del pensiero laddove, attraverso il suo esercizio, possano essere compromessi diritti considerati altrettanto meritevoli di tutela. L’impegno degli Stati Uniti in favore della libertà di parola ha minato il proposito assunto da altre nazioni per la regolamentazione collaborativa della questione. Di fatto, l’approccio nord americano rappresenta una visione che, attraverso il suo unilateralismo indiretto, sminuisce gli sforzi europei tesi a costruire un sistema di regolamentazione che possa davvero definirsi “internazionale”.

Entrambi i sistemi devono comunque venire a patti con la natura privata delle piattaforme di social networking, dove sempre più spesso l’hate speech trovano spazio, e che per certi versi funzionano come un vero e proprio tribunale (globale) le cui le confuse regole non sono leggi.

Il rapporto tra gli Stati e queste imprese private è più che mai al centro del dibattito pubblico internazionale. Per molti l’enorme responsabilità assunta dalle piattaforme è gestita in maniera poco trasparente, attraverso un processo di moderazione dei contenuti che per certi aspetti si rivela problematico.

In ambito europeo sono state attivate una serie di iniziative per arginare il fenomeno dello hate speech online, dove la soluzione principale è stata quella di interloquire con i fornitori di servizi, arrivando a stipulare un Codice di condotta contro le forme illegali di incitamento all’odio online[4]. Per certi versi questo sembra non bastare; alcuni stati membri dell’Unione stanno legiferando autonomamente per aggiungere garanzie ulteriori rispetto al potere detenuto dalle piattaforme di social networking[5].

Le regole dei principali social networks, primo tra tutti Facebook, non sembrano essere valide per tutti gli utenti, in tutti i luoghi e in ogni momento. Le decisioni riguardo al processo di moderazione e alla censura dei contenuti possono apparire contraddittorie e confuse e si intrecciano spesso con la politica, che ha un ruolo sempre più subalterno nei confronti dei grandi colossi tecnologici.

Ciò che si rende indispensabile è un’azione di contrasto allo hate speech quanto più possibile condivisa a livello internazionale, che riesca ad inquadrare con più precisione l’attività delle piattaforme che, di conseguenza, renda possibile il funzionamento di un sistema di controllo basato su regole quanto più possibili univoche, lontane da una volontà di repressione ma aderenti a quella di eguale tutela dei soggetti.

Gli Stati sono chiamati aggiornare i loro ordinamenti con mezzi di difesa più consoni a nuovi tipi di violenza e discriminazione, che non possono più essere ricondotti solo all’integrità fisica della persona, ma devono tenere sufficientemente in considerazione la dimensione personale e morale, colpite maggiormente dalla violenza che satura la rete.

Informazioni

Balking J.M., (2004) “Digital Speech and Democratic Culture: a theory of freedom of expression from the information society”, 79 New York University Law Rev.1.

Banks J., Regulating hate speech online. International Review of Law, Computers and Technology, 24 (3), 233-239, 2010.

Casarosa F., “Approccio normativo europeo verso il discorso all’odio online” su: https://www.questionegiustizia.it/articolo/l-approccio-normativo-europeo-verso-il-discorso-dell-odio-online-l-equilibrio-fra-un-sistema-di-enforcement-efficiente-ed-efficace-e-la-tutela-della-liberta-di-espressione

Daffarra L., “Hate Speech, troppo diverse le norme Usa-Europa”, 22 Ottobre 2020, su: https://www.agendadigitale.eu/

Gardini G., Caporale M., Massari G., Le regole dell’informazione. L’era della post-verità, Giappichelli Editore, 2017.

Gasparini I., L’odio ai tempi della rete: le politiche europee di contrasto all’online hate speech, JUS rivista delle scienze giuridiche, Vita e Pensiero Editore, 2017.

Greco S., Libertà di espressione su internet: tra anarchia e censura, DirittoConsenso.com: http://www.dirittoconsenso.it/2020/11/11/liberta-di-espressione-su-internet-fra-anarchia-e-censura/

Pollicino O., De Gregorio G., Hate Speech, una prospettiva di diritto costituzionale comparato. In Giornale di Diritto Amministrativo, 4, 2019, 421 ss.

[1] Il Primo Emendamento della Costituzione Statunitense, recita: “Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the Government for a redress of grievances”.

[2] La “Collateral censorship” è un tipo di censura in cui il timore di responsabilità legale viene utilizzato per incentivare un privato che agisce come intermediario per censurare il discorso di un altro soggetto privato.

[3] Elonis v, United States, 575 U.S. (2015).

[4] Codice di condotta per lottare contro le forme illegali di incitamento all’odio online, disponibile qui: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/ip_20_1134

[5] Per approfondire: Germania: Mchangama J., Alkiviadou N.,“The digital Berlin Wall: how Germany built a prototype for online censorship”, 8 Ottobre 2020, Euractiv: https://www.euractiv.com/section/digital/opinion/the-digital-berlin-wall-how-germany-built-a-prototype-for-online-censorship/  . Francia: Osservatorio delle libertà e delle istituzioni religiose, Francia, la pronuncia del Conseil constitutionnel sulla proposta di legge “Avia”, 18 Giugno 2020: https://www.olir.it/documenti/francia-la-pronuncia-del-conseil-constitutionnel-sulla-proposta-di-legge-avia/  .


Legaltech

Legaltech: il settore legale è tecnologico

Un’introduzione al settore Legaltech, dove la tecnologia supporta il lavoro legale ed abilita all’erogazione di nuovi servizi

 

Introduzione

Buona parte delle classi professionali ha visto, nel corso degli ultimi decenni, un adattamento delle proprie mansioni al contesto tecnologico, con benefici e rischi associati. L’emergere di nuove pratiche trainate dalla tecnologia ha portato a evoluzione uno scenario dalla quale nascono nuove esigenze, che potranno essere soddisfatte efficacemente se le capacità e le competenze professionali saranno in simbiosi con il consolidarsi dell’innovazione tecnologica. Anche nel lavoro legale emerge sempre di più la necessità di ampliare le proprie conoscenze e rimodellare le funzioni classiche, fino a considerare collaborazioni multidisciplinari a sostegno della risoluzione di problemi complessi. Un settore nuovo, nato dalla sinergia tra tecnologia e settore legale, è quello delle Legal Technology (abbreviato Legaltech), che punta ad integrare la tecnologia nell’attività giuridica.

L’obiettivo è quello di velocizzare e rendere più produttiva l’attività dei professionisti, avviando contaminazioni disciplinari che trovano il loro collante nello sviluppo dell’intelligenza artificiale.

Il nesso tra tecnologia e settore legale è legato, in primis, ai processi di innovazione digitale che hanno un impatto rilevante sulla vita della collettività e che in gran parte dei contesti hanno bisogno di essere supportati da servizi legali nuovi e molto specifici, sempre più spesso intercettati da start up innovative. Sono sempre di più gli ambiti dove si fa avanti la necessità di modernizzare la funzione legale, includendo il bisogno di innovare attraverso l’utilizzo dei dati, oltre al doversi dimostrarsi adattivi ad un contesto tecnologico altamente mutevole.

Il legame tra professione legale e tecnologia va anche oltre il semplice affiancamento, sconfinando nel tema dell’intelligenza artificiale. L’impiego di una tecnologia specifica come strumento a supporto degli operatori del diritto è ancora un fenomeno in fase embrionale, soprattutto nel contesto europeo, anche se il tema è destinato ad essere approfondito nei prossimi decenni. Le soluzioni automatizzate dovrebbero essere riempite di conoscenza legale e non possono sostituire la funzione sociale dell’Avvocato, considerata la capacità e l’applicazione razionale e ragionevole della norma adatta ad un determinato fatto o evento specifico e concreto. L’influenza della tecnologia sul settore legale farebbe emergere piuttosto la figura dell’avvocato tecnologico, con il compito di esaminare le implicazioni legali delle soluzioni tecnologiche. È una sfida professionale, in quanto la tecnologia si muove molto più velocemente rispetto alla legge.

 

Il giurista del futuro

Nella professione legale l’innovazione digitale prenderà sempre più piede, modellando la fisionomia del giurista del futuro, come suggerito dall’esperto di digitalizzazione Richard Susskind. Quest’ultimo ha dichiarato che sentirsi minacciati dalla tecnologia è sbagliato, in quanto si tratta di un processo inevitabile che conviene accogliere come sfida e opportunità per indirizzare il futuro nella giusta direzione.

Le prime innovazioni legaltech cercavano di superare inefficienze legate a procedimenti eccessivamente macchinosi, affiancati da lunghe tempistiche burocratiche, automatizzando i compiti meramente compilativi, semplici ma lenti. Nascevano così tecnologie software a supporto degli studi legali, che consentono una gestione digitalizzata di alcune fasi del lavoro, al fine di semplificare le procedure e aumentare l’efficienza dei servizi con un loro più accurato monitoraggio. In questo modo il professionista può avere più tempo da dedicare alle specificità di ciascun cliente, offrendo un’assistenza più personalizzata, che può rappresentare un fattore di differenziazione e di qualità nel lavoro. Ma non si tratta solo di un’agevolazione strutturale.

È altresì richiesta assistenza altamente qualificata su questioni innovative, come la responsabilità nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale, le azioni di marketing basate sui dati e la pervasività degli strumenti digitali nell’ambito delle interazioni personali.

Nell’adozione di strumenti legaltech conta anche un certo tipo di orientamento. Ci sono due principali correnti d’opinione:

  • da un lato ci sono avvocati che preferiscono non utilizzare tecnologie che possano modificare l’approccio al proprio lavoro, in quanto convinti che il loro prendere piede possa destabilizzare il settore e i professionisti che vi lavorano. La c.d. Industria legale è considerata una realtà di stampo conservatrice e tradizionalista; la consulenza giuridica, per decenni, ha presentato pochissime innovazioni.
  • Dall’altro lato c’è chi guarda all’innovazione tecnologica senza paura ma, anzi, la considera come un’opportunità per gli avvocati, che avrebbero modo di impiegare il loro tempo in parti del lavoro più significative rispetto a quelle che possono essere coperte dai processi automatizzati. In questo modo gli avvocati possono – e anzi, sono chiamati – a diventare gli osservatori dell’output tecnologico, con funzioni di sviluppo del design dei sistemi (legal design) e la possibilità di ritagliarsi un ruolo nuovo[1]. Il tradizionale rapporto di fiducia tra avvocato e cliente non dovrebbe essere minato dal supporto di soluzioni legaltech ma anzi, il legame potrebbe beneficiare della rispondenza agli stimoli offerti dalla digitalizzazione.

 

Negli ultimi anni c’è stato un significativo incremento nello sviluppo delle realtà legaltech, alcune delle quali hanno iniziato a basarsi sulla combinazione di processi complessi come gestione dei big data, intelligenza artificiale, machine learning e blockchain. Queste integrazioni hanno portato su un altro livello il settore legaltech, offrendo concrete opportunità di cambiamento nelle pratiche tradizionali, che vanno dalla misurazione dell’efficienza di procedure specifiche, all’automatizzazione dei processi che risultano più ripetitivi a basso impatto intellettuale, con l’obiettivo di dimezzare tempi e costi. La parte più ricettiva e sensibile all’evoluzione tecnologica del settore legale tenta di eseguire la trasformazione digitale per semplificare le operazioni di routine, offrendo miglioramenti, sia sul fronte dell’offerta per i professionisti sia per lo sviluppo di servizi per i clienti.

 

Servizi legali: approccio nuovo e contaminazioni multidisciplinari

Con l’obiettivo di modernizzare il settore della consulenza legale e stimolare la concorrenza, paesi come il Regno Unito e Australia, hanno eliminato il monopolio della professione legale sui servizi di consulenza. Vengono create così le Alternative Business Structure (ABS), che consentono ai non avvocati di avere partecipazioni finanziarie all’interno degli studi legali. Infatti, dalla liberalizzazione nascono società le cui proprietà esulano dal campo strettamente legato alla professione legale, per affermare un approccio multidisciplinare ed offrire servizi in maniera del tutto inedita[2].

Si tratta di uno dei cambiamenti che ha contribuito a rendere possibile la fornitura di servizi legali su Internet.

Il Regno Unito ha aperto per primo in Europa all’orientamento al business e alla de-regulation dei servizi legali, attuata grazie al “Legal Service Actdel 2007, che ha come obiettivo quello di ampliare le scelte disponibile ai consumatori, favorendo così lo sviluppo di inedite modalità di erogazione dei servizi legali[3]. I cambiamenti apportati dalla riforma sono riscontrabili attraverso l’inedita offerta di servizi legali nel Regno Unito. Con un nuovo regime normativo, i fornitori legali non tradizionali hanno consentito agli avvocati di unirsi in una struttura aziendale con professionisti di altri settori, instaurando una particolare sinergia con il comparto ICT.

Il tentativo di trasformare nasce da chi cerca di rinnovare le pratiche e stare al passo con le esigenze dei clienti, che spesso si tengono lontani dalla consulenza a causa di costi eccessivi, che la rendono un servizio molto “esclusivo”. Ma si tratta di un cambio di mentalità molto difficile. Il monopolio legale sulla proprietà delle strutture che offrono i servizi viene giustificato sulla base dell’affidabilità; in molti casi l’innovazione è sentita come una minaccia, un discredito che colpirebbe l’etica lavorativa che enfatizza lo status dell’occupazione come professione piuttosto che come impresa.

Uno dei principali timori è che un connubio troppo stretto tra professione e tecnologia potrebbe generare errori etici e finanziari. Anche agli stessi clienti non risulta sempre facile fidarsi di servizi erogati da piattaforme online che non prevedono l’interazione umana. Se per alcuni sdoganare il cambiamento sarebbe di interesse pubblico, per altri le conseguenze potrebbero essere invece del tutto negative.

 

Tecnologia e servizi legali: nascono gli ALSP

Anche grazie alla caduta del monopolio sulla consulenza legale, dal decennio scorso si assiste alla proliferazione degli “Alternative Legal Service Providers” (ALSP), società che erogano servizi legali “alternativi” attraverso un modello non tradizionale di assistenza, in cui avvocati lavorano fianco a fianco ad esperti di tecnologia, analisti e project managers.

La creazione di ALSP è guidata dalla necessità di innovare attraverso l’acquisizione di competenze specialistiche, risparmio sui costi e sviluppi normativi. La tecnologia viene inquadrata come catalizzatore per la messa a punto di servizi che puntano alla scalabilità dell’offerta e permettono di assumere compiti diversificati e più complessi. Oggi esistono migliaia di ALSP che sfruttano le applicazioni mobili per fornire servizi legali a consumatori e piccole imprese, attraverso una modalità di fornitura efficiente e veloce, molto simile ad una delivery commerciale. I servizi sono erogati attraverso prestazioni digitali ed affrontano processi di automazione e abbattimento dei costi, analoghi a quelli che da decenni si trovano in altri contesti[4].

Oggi, le start up che sviluppano strumenti legaltech cercano di venire incontro alla necessità di innovare alcune pratiche tradizionali, sia a “causa” dell’importanza crescente della tecnologia nella vita quotidiana, sia per mezzo di essa e della rete Internet, che si configura come “nuovo” luogo di interazione e di mercato. Il ventaglio di offerte è vario: c’è chi offre servizi legati alla privacy, chi si occupa di diritto d’autore, chi acquisisce prove digitali per avviare procedimenti legali e molto altro. Tra le maggiori aree di sviluppo del settore legaltech c’è quella dei servizi c.d. “law driven”: GDPR compliance, digital reputation e tutela IP e molto altro. Ma ci sono anche dei veri e propri marketplace che offrono consulenza specifica su questioni che coinvolgono l’ambito legale nell’ecosistema digitale.

L’idea centrale è quella di un prodotto legale “fai da te” in cui tutti sono abilitati ad ottenere delle risposte con l’ausilio della tecnologia.

 

Conclusioni

C’è una crescente necessità di dotare il mercato legale della capacità di intercettare i trend contemporanei per ottimizzarne il valore attraverso nuovi servizi, migliorare quelli più tradizionali e innovare le modalità con cui i professionisti possono raggiungere i clienti (e viceversa). Per il mercato legale l’iniezione tecnologica non vuol dire solo alfabetizzazione informatica e processi telematici, ma rinnovata importanza della rete come luogo di incontro tra la domanda e l’offerta dei servizi, fino ad arrivare a prestazioni erogate direttamente attraverso essa.

Più di recente, la pandemia da Covid-19 ha stimolato la crescita del settore legaltech: questo perché i servizi digitali, in tempi in cui il contatto diretto è per necessità scoraggiato, sono investiti dalla responsabilità di riuscire a garantire soluzioni efficienti per il soddisfacimento delle necessità espresse dalla collettività.

Informazioni

C. Aparo, “Legaltech: percezione e prospettiva italiana”, 26 febbraio 2021, Dirittoconsenso.it: http://www.dirittoconsenso.it/2021/02/26/legaltech-percezione-e-prospettiva-italiana/

C. Morelli, “Legal innovation: ecco i nuovi trend da Londra”, 28 ottobre 2019, Altalex.com: https://www.altalex.com/documents/news/2019/10/28/legal-innovation-nuovi-trend-da-londra

C. Bussi, Intervista a Richard Susskind “Concorrenti Law Cost e Super Tecnologie sfidano l’Avvocato”, 8 maggio 2018, Il Sole24Ore : https://www.ilsole24ore.com/art/concorrenti-low-cost-e-super-tecnologie-sfidano-l-avvocato–AEjpTUhE?refresh_ce=1

M. Cohen, “Laws emerging élite: enterprise legal service providers” Part 2”, 15 agosto 2020,  Legalbusinessworld.com: https://www.legalbusinessworld.com/post/2019/04/17/laws-emerging-elite-enterprise-legal-service-providers-part-2

Per approfondire il tema delle Alternativee Business Structures rimando al sito” Chambers Student UK”: https://www.chambersstudent.co.uk/where-to-start/newsletter/alternative-business-structures

Per approfondire il Legal Service Act: https://www.legislation.gov.uk/ukpga/2007/29/contents

Per approfondire la conoscenza degli ALSP: “Perchè i fornitori di servizi legali alternativi sono in aumento” su Ey.com: https://www.ey.com/it_it/tax/why-alternative-legal-service-providers-are-on-the-rise

[1] R. Giuliani, “Il legal design: la semplificazione del mondo legale”, 22 aprile 2020, DirittoConsenso: http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/22/legal-design/

[2] Per approfondire il tema delle “Alternative Business Structures” si veda: Chambers Student UK”, https://www.chambersstudent.co.uk/where-to-start/newsletter/alternative-business-structures

[3] Per approfondire il Legal Service Act: https://www.legislation.gov.uk/ukpga/2007/29/contents

[4] Per approfondire sugli ALSP: “Perché i fornitori di servizi legali alternativi sono in aumento” su Ey.com: https://www.ey.com/it_it/tax/why-alternative-legal-service-providers-are-on-the-rise