Responsabilità della struttura sanitaria

La responsabilità della struttura sanitaria, in breve

La responsabilità della struttura sanitaria e gli obblighi che si configurano in capo ad essa

 

Cosa si intende per responsabilità della struttura sanitaria?

La responsabilità della struttura sanitaria viene a configurarsi nel momento in cui un/una paziente subisce un danno riconducibile agli obblighi pendenti sulla struttura stessa.

A lungo dottrina e giurisprudenza sono state divise in merito a come definire la natura di suddetta responsabilità, che – come accennato – discende dal legame instaurato tra paziente e struttura che l’accoglie.

Il fulcro di tale dibattito risiedeva nella collocazione di questa: si trattava, infatti, di una responsabilità in ambito contrattuale o extracontrattuale[1]? Quindi, si configura una responsabilità per cui chi non esegue correttamente la prestazione è – in date circostanze – tenuto/a al risarcimento del danno o una responsabilità per cui tra il soggetto che cagiona un danno e l’individuo che patisce l’offesa non è ravvisabile un’obbligazione contrattuale?

Nel tentativo di dirimere le accennate controversie, originatesi in tale ramo del diritto, la giurisprudenza ha inizialmente optato per un orientamento che riconosceva in capo alla struttura una responsabilità di natura contrattuale (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 24 Marzo 1979, n. 1716) fondata su quello che definiamo un contratto di spedalità.

Restando fermi su una generica e risaputa concezione di quanto una struttura ospedaliera s’impegna ad offrire al/alla paziente, la fattispecie del sopracitato contratto occorre a definire “ (…) quanto la struttura sanitaria è tenuta a rendere: sia le specifiche cure mediche e chirurgiche, sia ulteriori prestazioni di natura accessoria, quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e paramedico, di medicinali, di attrezzature tecniche e latu sensu alberghiere (…).”[2].

Qualora suddette opere siano disattese, ecco che viene a configurarsi la responsabilità della struttura ospedaliera.

Quando pensiamo all’origine della responsabilità riconosciuta in capo alla struttura ospedaliera, è bene tenere a mente l’atipicità che caratterizza questa fattispecie di contratto: questo viene a sussistere in un momento molto particolare, ovvero quello in cui un/una paziente si sottopone ad una qualsivoglia tipologia di prestazione (strumentale, operatoria…) presso la struttura erogatrice e non solo, o necessariamente, con la stipulazione di un documento scritto. Sicuramente una situazione peculiare, per cui un generico orientamento non basta a definire la complessità dell’oggetto che stiamo qui analizzando.

Per questo, all’introduzione della c.d. Legge Gelli-Bianco (n. 24/2017) è riconosciuto un necessario intervento chiarificatore.

 

La Legge Gelli e la normativa italiana

La c.d. Legge Gelli ha la qualità di aver specializzato la materia della responsabilità in ambito sanitario. Come?

Quanto sancito dalla Legge Gelli è la previsione, e conseguente distinzione, della figura del medico e della struttura sanitaria. Viene così data vita ad una responsabilità definita a doppio binario[3]:

  • Al medico viene attribuita una responsabilità di tipo extracontrattuale a cui si affianca
  • la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, pubblica o privata che sia.

 

Cosa significa?

Secondo le statistiche riportate dall’articolo “Malasanità: qual è la situazione in Italia?”[4] della Rivista Diritto e Finanza, sono circa 300.000 le cause mosse ogni anno contro medici e strutture sanitarie, pubbliche o private.

La Legge Gelli sancisce che sulla struttura sanitaria grava l’obbligo di stipulare un’assicurazione “(…) da un lato per la responsabilità civile verso i terzi, sia per errori commessi propriamente dalla struttura, come quelli derivanti da carenze organizzative e o strutturali, sia per la malpractice dei propri medici, (…) e dall’altro per la responsabilità extracontrattuale degli esercenti la professione sanitaria. (…)”[5].

Per quanto il sanitario debba, in virtù della responsabilità extracontrattuale in cui può incorrere, stipulare privatamente un’assicurazione è la struttura sanitaria che in base all’articolo 7 ‘responsabilità professionale del personale sanitario’ della Legge Gelli a rispondere ed è responsabile dell’operato dei suoi ausiliari

1. La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose.”.

 

Riassumendo

Ricordando quanto anticipato in precedenza riusciamo a cogliere i tratti dell’evoluzione giurisprudenziale, qui semplificata e tratteggiata, circa la responsabilità della struttura sanitaria.

Se inizialmente l’orientamento della giurisprudenza prevedeva che la struttura sanitaria rispondesse esclusivamente degli obblighi di cui investita (attrezzature, sicurezza delle cure, organizzazione…) con l’introduzione della Legge Gelli, la giurisprudenza in tema si è affinata e specializzata con l’introduzione della “responsabilità a doppio binario” secondo la quale dell’operato degli ausiliari è responsabile in solido la struttura sanitaria.

Possiamo quindi affermare che si tratta, sì, dell’introduzione di una normativa ad hoc ma altresì di un ampliamento di quanto riscontriamo essere ricompreso nel cappello della responsabilità della struttura sanitaria.

Informazioni

Carvelli L. – Luchettu L. – Macrì E. – Mencarelli R. – Petrocelli F. – Salzano A. – Tuccillo R., “La responsabilità delle strutture e degli operatori della sanità.”, ed. I., Nel diritto editore, 2020, p. 25.

Corte d’Appello di Milano, Sentenza n. 3367/2021, 18 novembre 2021.

Medicina legale per i Corsi di Laurea ad orientamento Giuridico e triennali”, Idelson-Gnocchi, 2020, Napoli, p. 147.

[1] Per un approfondimento: Fatto illecito e responsabilità extracontrattuale in breve – DirittoConsenso

[2] Carvelli L. – Luchettu L. – Macrì E. – Mencarelli R. – Petrocelli F. – Salzano A. – Tuccillo R., “La responsabilità delle strutture e degli operatori della sanità.”, ed. I., Nel diritto editore, 2020, p. 25.

[3] Corte d’Appello di Milano, Sentenza n. 3367/2021, 18 novembre 2021.

[4] http://www.dirittoefinanza.it/diritto/malasanita-qual-e-la-situazione-in-italia/

[5]Medicina legale per i Corsi di Laurea ad orientamento Giuridico e triennali”, Idelson-Gnocchi, 2020, Napoli, p. 147.


Interruzione volontaria di gravidanza

L'interruzione volontaria di gravidanza: da reato a diritto

Come si è giunti a riconoscere il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza? Una breve panoramica sul percorso che ha condotto alla L. 194/1978

 

L’interruzione volontaria di gravidanza come illecito

Con l’acronimo IVG ci si riferisce all’interruzione volontaria di gravidanza prima che questa giunga naturalmente al suo termine[1], un diritto che in Italia è riconosciuto dalla Legge 22 Maggio 1978, n. 194.

Ma prima di capire meglio cosa prevede questa legge così dibattuta, facciamo un salto indietro nel tempo.

Come spiega chiaramente Antonio Paglius[2] nel suo articolo, l’aborto ha radici antichissime: secondo l’autore la sua più antica testimonianza risale a dodici secoli prima di Cristo ed era una pratica comunemente utilizzata ed accettata tra gli antichi greci ed i romani. Con la caduta dell’Impero romano d’occidente ed il buio periodo storico che seguì, sappiamo che il tema dell’aborto tornò alla luce con Papa Sisto V che condannò la pratica definendola niente di meno che un omicidio: fu così che, a partire dal Cinquecento, nacque la concezione di aborto come pratica associata ad un reato.

Questa rappresentazione dell’interruzione della gravidanza si diffuse largamente nelle società, in particolare quella Italiana che è qui oggetto d’analisi. Nel 1930 nello Stato italiano vigeva il Codice Rocco (da Arturo Rocco, il giurista a cui è attribuita la paternità della redazione di suddetto Codice penale ed in seguito altresì del Codice di Procedura penale) che si contraddistingue per il suo carattere spiccatamente autoritario, riflesso dell’epoca storica in cui venne promulgato. Suddetto Codice detta nel Libro secondo, Titolo X, quelli che vengono definiti “Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe” i quali disciplinano rigidamente la materia dell’aborto.

Prima del 1978, infatti, l’interruzione volontaria di gravidanza o l’aborto cagionato da terzi senza il consenso della donna erano considerati un illecito severamente punito con la reclusione, pena comminata sia a colui il quale eseguiva, l’allora, fatto criminoso ed altresì alla donna consenziente che si sottoponeva alla pratica. Era unicamente la c.d. “causa di onore” (art. 551 Codice Rocco) a prevedere una riduzione della pena: nella circostanza in cui l’interruzione di gravidanza era compiuta per “[…] salvare l’onore proprio o quello di un prossimo congiunto [c.p. 307] le pene ivi stabilite sono diminuite [c.p. 63] della metà ai due terzi.” (art. 551 Codice Rocco).

Si dovrà aspettare sino all’inizio degli anni sessanta per assistere ad un cambiamento: questo prese avvio in Italia con un’accesa discussione in materia di aborto, figlia del dibattito che accese i movimenti femministi e dell’antiproibizionismo, eredità delle lotte che presero avvio in diversi Stati (per esempio, l’America e la Francia) ma che influenzeranno inevitabilmente anche l’Italia e porterà all’abrogazione del Titolo X c.p.

La strada che avrebbe condotto alla Legge n. 194 iniziava così ad essere percorsa.

 

Verso la L. 194/1978: la sentenza della Corte Costituzione n. 27/1975

I mutamenti sociali a cui si stava assistendo, come abbiamo accennato, e le stime circa i ricorsi all’aborto c.d. clandestino furono decisivi nella conduzione di una determinata lotta verso la legalizzazione dell’aborto, che avrebbe garantito non solo il diritto all’aborto ma anche l’accesso ad una procedura medica sicura. Non solo le pratiche clandestine erano alquanto brutali (ad esempio, la spremitura dell’addome o l’inserimento di mezzi meccanici nel cavo uterino) ma le conseguenze lesive potevano essere così severe da condurre anche alla morte della donna.

La trasformazione della disciplina dell’interruzione volontaria della gravidanza iniziò con una storica sentenza della Corte Costituzionale, che il 18 Febbraio 1975 sancì l’incostituzionalità dell’art. 546 del codice penale (“aborto di donna consenziente”).

Le ragioni che mossero il giudizio della Corte soggiacciono nel fatto che suddetto articolo non prevedeva l’ipotesi del c.d. aborto terapeutico se non in stato di necessità: infatti secondo quanto puntualmente disposto dall’art. 54 c.p. la punibilità della pratica abortiva era esclusa solo nella circostanza in cui si fosse realizzata una situazione di pericolo attuale che consisteva nel “grave danno alla persona [… ] che assumeva la caratteristica della grave o permanente menomazione dell’integrità fisica o della minaccia per la vita stessa[3].

La sentenza del 1975 afferma infatti che “[…] il c.d. aborto terapeutico ricorre soltanto quando sussiste la inevitabilità e l’attualità del pericolo di un grave danno alla persona, mentre l’aborto praticato a scopo medico per evitare che la donna subisca aggravamenti di preesistenti alterazioni fisiche, rimane sanzionato penalmente.”.

Dunque ciò che la Corte rileva è un doppio limite dell’art. 54 c.p.: questo circoscrive all’attualità del grave danno a cui la donna è esposta il ricorso alla pratica abortiva e nel contempo esclude il rischio potenziale, considerato una mera possibilità, che questa potrebbe trovarsi ad affrontare come ragione sufficiente per il ricorso all’aborto terapeutico.

La sentenza infatti continua così: “[…] La condizione della donna gestante è del tutto particolare e non trova adeguata tutela in una norma di carattere generale come l’art. 54 c.p. che esige non soltanto la gravità e l’assoluta inevitabilità del danno o del pericolo, ma anche la sua attualità, mentre il danno o pericolo conseguente al protrarsi di una gravidanza può essere previsto, ma non è sempre immediato.”.

E, ancora, viene criticato l’orientamento dettato dall’art. 54 c.p. poiché “[…] (l)a scriminante dell’art. 54 c.p. si fonda sul presupposto d’una equivalenza del bene offeso dal fatto dell’autore rispetto all’altro bene che col fatto stesso si vuole salvare. Ora non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare.”. La Corte si riferisce, qui, alla inevitabile conseguenza che la disposizione di suddetto articolo comporta, ovvero una mancanza di considerazione verso i beni della vita e della salute della donna rispetto ad una vita che deve ancora realizzarsi compiutamente: con questa sentenza si afferma la prevalenza della vita e della salute della donna rispetto al feto, anticipando il rilievo di elementi quali la salute psicologica e le circostanze sociali ed economiche previste dalla L. 194/1978.

Seguendo le orme di questa sentenza che abbiamo brevemente analizzato, il passo verso l’approvazione della legge 194/1978 fu assai breve.

Il Parlamento giunse alla ratifica della regolamentazione dell’interruzione volontaria di gravidanza stabilendone le condizioni che tutt’oggi legittimano al suo ricorso.

 

La Legge 194/1978

Il nostro Ministero della Salute definisce la legge come la possibilità riconosciuta ad ogni donna di richiedere l’interruzione della gravidanza, secondo le procedure puntualmente descritte dal Testo di legge.

La legge 194 si propone come una forma di dialogo tra i diritti della donna e l’interesse alla vita del concepito, mantenendo tuttavia come fondamento la prevalenza della salute fisica e psicologica della donna. È così legittimata l’interruzione volontaria di gravidanza in caso di “serio pericolo” poiché, secondo quanto chiaramente stabilito dall’art. 1 l.194/1978, l’impiego della pratica abortiva non è considerato un mezzo per controllare le nascite.

Cosa s’intende con “serio pericolo”, dunque?

In base allo stato di avanzamento della gravidanza – stabilendo così, come anticipato, un equilibrio tra i diritti della donna e del concepito – l’interruzione della gravidanza è ammessa per motivazioni diverse, che possiamo così riassumere

  • 4: interruzione volontaria entro i primi 90 giorni; le ragioni di pericolo nel c.d. primo trimestre sono connesse alla salute fisica e psichica della donna, ad anomalie e malformazioni del concepito nonché a motivazioni non necessariamente d’ordine medico ma economico e sociale. Secondo quanto stabilito da suddetto articolo, il procedimento da seguire in questo frangente è:
    • La valutazione, con il medico competente, delle motivazioni che spingono la donna a tale richiesta e delle forme di sostegno di cui ella può eventualmente avvalersi[4] per portare a termine la gravidanza;
    • La redazione di un documento compilato dal medico competente insieme alla donna, e firmato da entrambi, che attesti “[…] lo stato di gravidanza, l’epoca della gravidanza e l’avvenuta richiesta della sua interruzione[5] come previsto dall’art. 5 194/1978. Sempre secondo quanto stabilito da suddetto articolo se non è riscontrato un caso d’urgenza, il medico invita la donna a soprassedere per 7 giorni: trascorsi questi, ella potrà recarsi con il documento presso le strutture accreditate per ottenere l’interruzione della gravidanza.
  • 6: interruzione della gravidanza oltre i 90 giorni; l’interruzione della gravidanza oltre il primo trimestre è prevista unicamente nei casi in cui vi è un accertato stato di grave pericolo per la salute della donna od “[…] anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”. In questa circostanza l’IVG è consentita solo presso il reparto ove opera lo specialista che ha redatto il certificato di cui abbiamo approfondito sopra.

 

Secondo quanto prescritto dall’art. 12, la richiesta di IVG dev’essere fatta personalmente e volontariamente dalla donna: durante l’intero percorso dev’esserle garantito l’anonimato e il rispetto della sua dignità.

Qualora la richiesta di interruzione di gravidanza riguardi una minore, si ritiene necessaria l’autorizzazione di entrambi gli esercenti la responsabilità genitoriale o di chi eserciti su di essa la tutela. Al Giudice tutelare spetta concedere l’autorizzazione definitiva a procedere, una volta sentita la minore. A rendere lecito l’intervento prescindendo le autorizzazioni, è solo un accertato stato di imminente pericolo per la vita della minore di qualsiasi età.

L’art. 13 riconosce, invece, alla donna interdetta la facoltà di poter decidere rispetto alla prosecuzione della gravidanza: ella può personalmente richiedere l’interruzione e se questa è avanzata dal tutore o dal marito, dev’essere confermata dalla donna. In ogni caso, l’autorizzazione a procedere è accordata esclusivamente dal giudice tutelare.

Informazioni

Pagliuso A., “La storia dell’aborto: dall’antichità fino alla legge n 194.”, Vanilla Magazione.

Cicognani A., Fallani m., Pelotti S., “Medicina legale.”, Casa Editrice Esculapio, Bologna, 2019.

Medicina legale per i corsi di laurea ad orientamento Giuridico e Triennali”, Edizioni Idelson – Gnocchi, Napoli, 2020.

[1] Quando questa giunge al termine è possibile di conseguenza capire un altro diritto, quello del parto cesareo. Per un approfondimento si rinvia all’articolo di Beatrice Alba per DirittoConsenso: Il diritto al parto cesareo – DirittoConsenso.

[2] Pagliuso A., “La storia dell’aborto: dall’antichità fino alla legge n 194.”, Vanilla Magazione. L’articolo è consultabile al sito https://www.vanillamagazine.it/la-storia-dellaborto-dallantichita-fino-alla-legge-n194/

[3] Cicognani A., Fallani m., Pelotti S., “Medicina legale.”, Casa Editrice Esculapio, 2019, Bologna, p. 169.

[4]Medicina legale per i corsi di laurea ad orientamento Giuridico e Triennali”, Edizioni Idelson – Gnocchi, Napoli, 2020, p. 422.

[5] Cicognani A., Fallani m., Pelotti S., “Medicina legale.”, Casa Editrice Esculapio, 2019, Bologna, p. 174.