La rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello secondo la Corte Edu
Fedeltà ai precedenti, ma con un’eccezione: breve storia in tema di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello, come di recente temperata dalla Corte di Strasburgo
Il diritto di essere sentito: la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello
La rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello è un evento eccezionale. Ma proprio in virtù della sua eccezionalità, vi sono ipotesi in cui lo stesso diviene cruciale: è il caso, tra gli altri di cui all’art. 603 c.p.p., dell’impugnazione da parte della pubblica accusa della sentenza di assoluzione pronunciata in sede di primo grado.
A seguito di altalenanti vicende normative, il codice di procedura penale esclude, ad oggi, che la proposizione dell’appello da parte dell’imputato possa tradursi in un azzardo, con un eventuale peggioramento delle statuizioni del giudice di prime cure (c.d. divieto di reformatio in peius). Ciò tuttavia non vale, ovviamente, nei casi di appello interposto dal Pubblico Ministero.
Orbene, la necessaria riassunzione delle prove dichiarative, al fine di potersi pervenire ad un ribaltamento della sentenza assolutoria di primo grado, è stata in più occasioni ribadita dalla giurisprudenza della Corte Edu. Chiaramente, vengono qui in rilievo esigenze antitetiche, che devono essere bilanciate. Da una parte, l’obbligo di ripetere l’istruttoria dibattimentale assicura il primato dell’oralità sulla scrittura, il rispetto del fondamentale principio del contraddittorio, l’inviolabilità della difesa. Dall’altra, però, non si può negare che l’aggravio procedurale si traduca in un allungamento dei tempi del giudizio, con inevitabili ripercussioni sulla ragionevole durata dei processi.
Prima di operare una disamina delle pronunce che hanno segnato il cammino di questa imprescindibile esigenza, volta a garantire l’equità del giudizio di seconde cure, giova considerare che la giurisprudenza in questione non si è limitata a ribadire la necessità del riesame dei soli testimoni, ma anche dell’imputato e di eventuali coimputati nel primo giudizio.
Si è scelto in questa sede di analizzare la genesi del principio in questione come maturata in sede sovranazionale, atteso tuttavia che anche la giurisprudenza italiana ha, dal suo canto, concorso non poco nel delinearne i connotati[1], fino a che, da ultimo, le elaborazioni pretorie sono state tradotte in dato normativo dall’art. 603, comma 3-bis cpp, introdotto dalla legge n. 103 del 2017.
Panoramica della giurisprudenza della Corte Edu
La sensibilità dei giudici di Strasburgo rispetto a questo tema è ormai risalente nel tempo. Una delle prime prese di posizione sulla questione della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello risale alla fine degli anni ’80 (Ekbatani c. Svezia, 1988)[2].
Tanto in questo caso, quanto in uno successivo (Barrios c. Spagna, 2010), la Corte Edu dovette occuparsi di ordinamenti interni che non prevedevano udienze in grado di appello ovvero le declassavano a mera eventualità. È chiaro che gli arresti pretori internazionali non possano dirsi propriamente neutri rispetto all’organizzazione giudiziaria dei singoli Stati membri, poiché il rispetto del principio di diritto enunciato nelle citate sentenze postula, in primo luogo, che il giudizio d’appello possa prevedere una o più udienze e che non sia esclusivamente cartolare. Invero, in queste pronunce la Corte europea ha insistito sulla necessità di riascoltare l’imputato in grado di appello per potersi addivenire ad una pronuncia di condanna.
Un vero e proprio leading case, in questo senso, e riguardante propriamente la nuova audizione dei testi, è rappresentato dal caso Dan c. Moldavia del 2011, sull’obbligo di riesame dei testimoni in grado d’appello: nel caso di specie, l’autorità giudiziaria nazionale (la Corte d’appello di Chisinau) non aveva minimamente proceduto ad una rinnovazione dell’audizione dei testi di polizia giudiziaria, operando una semplice rivalutazione delle loro dichiarazioni e condannando, così, il ricorrente[3]. Il principio in questione era già stato riaffermato in molte occasioni dai giudici di Strasburgo su ricorsi proposti contro la Romania (Constantinescu c. Romania, 1995; Danila c. Romania, 2007; Spînu c. Romania, 2008; Popa e Tănăsescu c. Romania, 2012; Găitănaru c. Romania, 2012) e ciò anche per il fatto che, fino al 2006, il Codice di procedura penale rumeno consentiva all’Alta Corte di Cassazione e Giustizia di “cassare le sentenze di assoluzione dei giudici di merito e condannare, in via definitiva e per la prima volta, senza ulteriori possibilità di difesa, trattandosi di giurisdizione di ultima istanza”[4].
E per l’Italia?
Per quanto attiene all’Italia, vale un discorso particolare. Il principio in parola è stato ribadito, in prima battuta, dal caso Lorefice c. Italia, 2017. In questa vicenda, i giudici di Strasburgo avevano appurato la violazione, da parte dello Stato italiano, dell’art. 6, par. 1 della Convenzione per non aver proceduto il giudice d’appello alla rinnovazione dell’escussione dei testimoni in sede di seconde cure. È interessante notare come nella fattispecie la Corte Edu abbia applicato il principio in parola nonostante la presenza di consistenti elementi probatori oggettivi su cui fondare un giudizio di colpevolezza del ricorrente, ritenuto che una nuova escussione dei testi non avrebbe fornito al giudice d’appello né elementi decisivi né alcun contributo ulteriore al materiale risultante dagli atti di causa.
Insomma, un principio ribadito con costanza e pervicacia, anche a costo di esprimere giudizi di merito relativi alle scelte “di funzionamento” dei processi penali degli Stati membri. Stupisce, allora, che l’assolutezza di una simile e paziente fedeltà ai propri indirizzi giurisprudenziali sia stata in parte smentita dal recente caso Di Martino e Molinari c. Italia, 2021.
L’eccezione alla regola: il giudizio abbreviato
Come in ogni regola, c’è l’eccezione. Nonostante l’impegno profuso dalla Corte di Strasburgo nel difendere e assicurare l’attuazione del diritto in parola, di recente il consesso europeo ha ritenuto che questa regola non sia, poi, così assoluta.
Ci si riferisce ad un recente caso in cui i ricorrenti lamentavano la violazione dell’art. 6 della Convenzione, dolendosi della mancata rinnovazione in appello del’istruttoria, ai fini di un riesame della prova decisiva. Qual è stato il distinguo che ha portato i giudici europei a disattendere una giurisprudenza apparentemente granitica? La circostanza che gli imputati avessero optato, in primo grado, per il rito abbreviato.
Orbene, com’è noto, la scelta di questo rito speciale[5] comporta un vantaggio per l’imputato (e cioè la riduzione “secca” della pena, pari ad un terzo se si procede per un delitto, della metà per una contravvenzione) a fronte però dell’impiego, sul fronte probatorio, dei materiali raccolti nel corso delle indagini preliminari, di regola inutilizzabili in sede dibattimentale (salvo, naturalmente, che non si tratti di atti irripetibili ovvero acquisiti con il consenso delle parti).
Partendo da questa premessa, nel caso di specie i ricorrenti erano stati assolti in primo grado nell’ambito di un giudizio abbreviato e nel grado successivo erano stati condannati senza che il Giudice d’appello avesse rinnovato le prove ritenute decisive per la condanna. A ben vedere, la soluzione adottata dal giudice di seconde cure si porrebbe in contrasto con quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. U n. 18620 del 19 gennaio 2017, Patalano) che si era espressa sull’obbligo del giudice d’appello, anche nel caso di giudizio abbreviato, di procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale[6].
Nel suo arresto pretorio, il Supremo Consesso si era pronunciato a proposito dell’ipotesi in cui gli imputati avessero optato, in primo grado, per l’abbreviato c.d. secco (o “non condizionato”). Sicché, la regola di giudizio espressa dovrebbe valere, a maggior ragione, nei casi di abbreviato condizionato ex art. 438, comma 5 c.p.p. Se infatti nella prima ipotesi non v’è spazio alcuno per una dimensione propriamente dichiarativa, nella seconda ben può essere che la richiesta dell’imputato sia subordinata all’audizione di uno o più testi.
È perciò evidente che tanto nelle ipotesi di assoluzione disposta all’esito del dibattimento, quanto in quelle risultanti dalla scelta dell’abbreviato condizionato, vi è un’identità di ratio che dovrebbe includere ambedue i casi nell’ambito della stessa regola di giudizio. Infatti, non c’è una differenza qualitativa tra una testimonianza (o comunque una prova dichiarativa, compreso l’esame di un coimputato o dell’imputato stesso) resa in dibattimento o in sede di abbreviato condizionato.
Di diverso avviso, però, i giudici europei che hanno ritenuto di temperare la severità dell’indirizzo più volte affermato, lasciando però al contempo uno spazio di movimento al legislatore nazionale (o ai suoi orientamenti pretori) che si volessero discostare da quest’ultima statuizione in un’ottica più garantista.
Si legge nella sentenza in questione che l’esclusione della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in seguito all’impugnazione della sentenza assolutoria, in sede di appello del p.m., ove il giudizio di primo grado fosse stato celebrato mediante rito abbreviato, non viola l’art. 6 della Cedu, sul presupposto che la scelta processuale è stata in quella sede opzione libera e consenziente degli imputati, consistita nella rinuncia all’oralità del giudizio[7].
Il che è vero, però, ad avviso di chi scrive, solo che non si tratti di abbreviato condizionato ex art. 438, comma 5 c.p.p. ove non c’è una totale rinuncia all’oralità, bensì una rinuncia al dibattimento (a condizione, chiaramente, che la richiesta di abbreviato condizionato sia subordinata all’assunzione di una o più prove dichiarative).
Si evita cioè una fase del processo e non una tipologia di prova. Bene, dunque, ha fatto la Corte di Strasburgo a chiarire il carattere relativo della regola di giudizio espressa in Di Martino e Molinari c. Italia, garantendo così un margine di valutazione più ampiamente garantista allo Stato nazionale (in Italia, già affermato, come visto, dalle Sezioni Unite Patalano)[8].
Informazioni
D. CARDAMONE, Reformatio in peius in appello e processo equo nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo da Dan c. Moldavia a Maestri ed altri c. Italia, in Questione Giustizia, 07/09/2021, p. 1 ss.
V. VASTA, Overturning in appello dell’assoluzione nel giudizio abbreviato: la decisione della Corte di Strasburgo sulla rinnovazione delle prove dichiarative, in Sistema Penale, 18/05/2021, p. 1 ss.
Corte Edu, sentenza Ekbatani c. Svezia, 1988
Corte Edu, sentenza Barrios c. Spagna, 2010
Corte Edu, sentenza Dan c. Moldavia, 2011
Corte Edu, sentenza Lorefice c. Italia, 2017
Corte Edu, sentenza Di Martino e Molinari c. Italia, 2021
Cass., Sez. U, n. 27620 del 28 aprile 2016, ric. Dasgupta
Cass., Sez. U n. 18620 del 19 gennaio 2017, ric. Patalano
Cass., Sez. U, n. 14426 del 28 gennaio 2019, ric. Pavan
Cass., Sez. U, n. 14800 del 21 dicembre 2017, ric. Troise
[1] Cass., Sez. U, n. 27620 del 28 aprile 2016, ric. Dasgupta; Cass., Sez. U n. 18620 del 19 gennaio 2017, ric. Patalano; Cass., Sez. U, n. 14426 del 28 gennaio 2019, ric. Pavan; Cass., Sez. U, n. 14800 del 21 dicembre 2017, ric. Troise.
[2] Nel caso di specie, il ricorrente lamentava che la sua assoluzione in primo grado fosse stata ribaltata in secondo grado conformemente alla legge svedese che, al tempo, non prevedeva la celebrazione di udienze in grado d’appello.
[3] Peraltro, la Moldavia era già stata condannata in precedenza in un caso pressoché analogo, v. Popovici c. Moldavia, 2007.
[4] D. CARDAMONE, Reformatio in peius in appello e processo equo nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo da Dan c. Moldavia a Maestri ed altri c. Italia, in Questione Giustizia, 07/09/2021, cit. p. 5.
[5] Per un approfondimento al giudizio abbreviato si rinvia all’articolo di Lisa Montalti per DirittoConsenso disponibile al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2021/11/27/giudizio-abbreviato-caratteri-generali/
[6] Le Sezioni Unite, con sentenza depositata il 14 aprile 2017, hanno affermato il seguente principio di diritto: «è affetta da vizio di motivazione, per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero avverso assoluzione disposta all’esito di giudizio abbreviato non condizionato, affermi la responsabilità dell’imputato operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni», così Cass., Sez. U n. 18620 del 19 gennaio 2017, ric. Patalano (conforme Sez. U, n. 27620 del 28 aprile 2016, ric. Dasgupta;; Sez. U, n. 14426 del 28 gennaio 2019, ric. Pavan; Sez. U, n. 14800 del 21 dicembre 2017, ric. Troise).
[7] Dal testo francese della sentenza: “la Cour considère que, en sollicitant l’adoption de la procédure abrégée, les requérants, qui étaient assistés d’avocats, ont accepté de baser leur défense sur les pièces recueillies pendant les investigations préliminaires, dont ils avaient pris connaissance, et ont ainsi renoncé sans équivoque à leur droit à obtenir la convocation et l’audition de témoins au procès (par. 36) – La Cour en déduit que la demande des requérants d’être jugés selon la procédure abrégée a déterminé la renonciation aux preuves orales et a eu pour conséquence que leur procès soit fondé sur les preuves documentaires versées au dossier (par. 37)”.
[8] Sempre dalla versione francese della parte motiva della sentenza: “son système de garantie collective des droits qu’elle consacre, la Convention vient renforcer, conformément au principe de subsidiarité, la protection qui en est offerte au niveau national. Rien n’interdit aux États contractants d’adopter une interprétation plus large garantissant une protection renforcée des droits et libertés en question dans leurs ordres juridiques internes respectifs (para 39)”.
L'uso legittimo delle armi
La giurisprudenza italiana sulla proporzionalità nell’uso legittimo delle armi
Libertà e autorità: l’impiego della forza (armata)
Ciò che non è proibito è lecito e ciò che è imposto è, a maggior ragione, doveroso. In tanto si può compendiare il principio di non contraddizione dell’ordinamento, in forza del quale non è consentito che una condotta sia al contempo realizzabile, in quanto posta in un’area di liceità agli occhi del diritto, e penalmente rilevante[1]. Muovendo dalla premessa generale appena proposta, conviene analizzare, quale buon banco di prova della non contraddizione, la causa di giustificazione di cui all’art. 53 cod. pen. e cioè l’uso legittimo delle armi[2].
Lungi da una analitica esposizione, si è preferito concentrarsi su alcune questioni interpretative e applicative che hanno impegnato la giurisprudenza (specie di legittimità) nella definizione del campo applicativo di questa scriminante. Si tratta di una tematica di tutta rilevanza.
Il confine che separa il legittimo impiego di un’arma, da parte di chi la detenga e la impieghi per fini di pubblica necessità e un abuso punibile del suo utilizzo investe direttamente il complesso dialogo Stato-cittadino. Ove equilibrato, cioè ispirato dal fondamentale principio di proporzione[3], viene a configurarsi come un rapporto che relega l’uso della violenza a giustificata eccezione. Viceversa, dove sbilanciato, non di dialogo è lecito parlare, quanto piuttosto di scontro, nell’ambito del complesso rapporto libertà-autorità.
Proprio per questo motivo, è assolutamente apprezzabile che gli approdi interpretativi più recenti abbiano posto particolare accento sul canone della proporzionalità, anche in una prospettiva ermeneutica attenta che tenga conto del dato costituzionale. Ciò posto, buona parte della linea che separa il terreno scriminato da quello penalmente rilevante in tema di impiego di un’arma è stata tracciata dalla giurisprudenza (specie di legittimità) e, pertanto, è conviene comprendere i reali termini del problema. Senza pretermettere il dato normativo, beninteso.
L’art. 53 c.p.: l’uso legittimo delle armi
Il punto nodale su cui conviene concentrarsi è l’individuazione di quelle situazioni in cui il legislatore ritiene sia lecito, per il pubblico ufficiale, fare uso dell’arma d’ordinanza nell’ambito dell’esercizio delle sue funzioni. Su questo versante, il testo dell’art. 53 c.p. prevede l’elisione dell’antigiuridicità del fatto tipico (ad esempio, di lesioni personali) nel momento in cui l’uso dell’arma (o dello strumento di coazione) costituisce una reazione del pubblico ufficiale.
Più nel dettaglio, la disposizione fa riferimento alla “necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona”.
È interessante soffermarsi sull’esegesi della prima parte della norma (limitandosi ai concetti di violenza e resistenza), ritenuto che, secondo la Cassazione, “tanto la violenza quanto la resistenza sono costituite dall’impiego della forza, fisica o morale, diversificandosi solo per lo scopo che anima i soggetti”[4].
La violenza
Sul significato della violenza, è opportuno riprendere l’ampia definizione fornita dalla Cassazione, secondo cui questa consiste nella “esplicazione di qualsiasi energia fisica da cui derivi una coazione personale”[5]. Nelle ipotesi de quibus l’uso dell’arma si configura come una reazione proporzionata quando rapportata ad una condotta offensiva, idonea per le sue modalità esplicative, a causare un danno (anche potenzialmente letale) alla incolumità e alla vita del pubblico ufficiale o a quella di terzi estranei.
È chiaro, quindi, che la violenza debba immaginarsi come un impiego di forza attiva, esplicata contro (ed ai danni) del pubblico ufficiale nell’esercizio dei suoi doveri d’ufficio. Si pensi, ad esempio, a dei rapinatori armati che, fuoriuscendo da un istituto di credito appena svaligiato, ingaggiassero sulla pubblica via uno scontro a fuoco con i Carabinieri[6], non solo per guadagnarsi la fuga, ma anche allo scopo di neutralizzare la resistenza opposta dalla forza pubblica.
L’interpretazione assegnata a questo termine, tuttavia, non ha sempre seguito un rettilineo, trovando piuttosto un percorso accidentato in relazione alle specificità dei casi concreti.
Infatti, l’orientamento della Suprema Corte ha ritenuto che, al fine di ritenere sussistente la “violenza”, la stessa, oltre al carattere della serietà, dovesse annoverare anche il carattere dell’attualità. Sicché il giudice di legittimità ha affermato che non risulta scriminata la condotta del pubblico ufficiale che, all’interno dell’auto di pattuglia, vistosi puntare addosso una rivoltella da un soggetto al centro della carreggiata, sia sceso ed abbia immediatamente esploso dei colpi di arma d’ordinanza, cagionandone il decesso[7].
Si può obiettare che, dove di attualità del pericolo si tratti, anche impugnare minacciosamente un’arma in direzione del pubblico ufficiale sia da considerarsi violenza, venendosi a creare un reale e concreto rischio per la sua incolumità.
Inoltre, non va dimenticato che la natura dei beni posti in serio e credibile pericolo dalla condotta del soggetto colpito ben potesse ritenersi, nella succitata pronuncia, di pari rango rispetto a quelli minacciati (e cioè la vita e l’integrità fisica degli operatori di pattuglia). Non parrebbe così violato, ad avviso di chi scrive, il canone della proporzionalità tra offesa (potenziale, ma allo stesso ben attuale per le sue modalità esplicative, e reazione del pubblico ufficiale).
La resistenza, da distinguersi in: attiva …
Sempre sul piano interpretativo, chiarita la natura attiva e attuale della violenza per cui l’impiego dell’arma si pone, il più delle volte, come reazione proporzionata con attenzione ai beni in gioco, spinoso problema è la bipartizione della resistenza, sulla quale il legislatore tace.
Il problema della (difficile) distinzione fra resistenza attiva e resistenza passiva è particolarmente complesso. La distinzione, come accennato, è prettamente giurisprudenziale e proprio per questo, in assenza di un chiaro confine normativo, risulta talora arduo stabilirne le coordinate. Si può osservare, del resto, come il dato legislativo non operi alcuna testuale distinzione.
Anzitutto va premesso che la distinzione trova la sua ragion d’essere nella necessità di evitare che condotte che non esplicano alcuna incidenza sull’attività posta in essere dal pubblico ufficiale né siano idonee a porre in pericolo soggetti terzi possano essere fatte oggetto di reazione violenta da parte degli operatori di polizia.
La resistenza attiva, perciò, presenta una particolare affinità con la violenza per il fine perseguito (che è sempre quello di opporsi ai pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni) ma differisce in quanto difetta di azioni violente, direttamente esplicate contro l’autorità. Possono così realizzarsi condotte intimidatorie, al limite anche pericolose per l’incolumità di terzi soggetti, ma difetta la dimensione compiutamente violenta esaminata in precedenza.
Si prenda, ad esempio il caso del soggetto che, non arrestatosi all’alt intimato dai carabinieri non solo si allontani in auto a folle velocità, ma guidando in modo che “che ad essa si accompagnino manovre che concretino – sul piano teleologico – una vera e propria intimidazione contro il pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico servizio), atta a paralizzarne o contrastarne l’attività”[8] venendo così a configurarsi una resistenza “destinat[a] ad incidere, direttamente o indirettamente, sull’esplicazione della funzione pubblica (o del servizio pubblico)”[9]. In situazioni simili, l’impiego dell’arma può ritenersi proporzionato quando si configuri come l’unico strumento atto a superare tale “resistenza costruttiva”. Chiarisce infatti la Cassazione che ciò occorre quando “l’uso che può realizzarsi solamente nel caso egli [cioè il pubblico ufficiale] si trovi di fronte alla necessità di […] superare una resistenza costruttiva”[10].
Ancora, secondo la Suprema Corte ricorre l’ipotesi della resistenza attiva, risultando giustificato l’uso intimidatorio della pistola d’ordinanza, in caso di esplosione in aria di colpi d’arma da fuoco da parte del carabiniere che, invitati più corrissanti a cessare la rissa in corso, resistevano attivamente all’ordine continuandosi a picchiare[11].
… e passiva
In chiusura, non resta che ricostruire la nozione di resistenza passiva. Considerato quanto detto sinora, appare agevole individuare tale figura con attenzione ad una forma non violenta di opposizione agli atti posti in essere dagli operatori di polizia.
Per quanto il fine perseguito da chi resiste possa anche qui individuarsi nella volontà di sottrarsi agli atti d’ufficio, ciò che difetta è tanto la componente violenta quanto quella “costruttiva”. Il soggetto si oppone in modo tale da non determinare nessuna situazione dannosa o pericolosa per gli operatori di polizia o per terzi.
Secondo il giudice di legittimità “la scriminante dell’uso legittimo delle armi è configurabile anche quando l’attività dell’agente è posta in essere nel corso della fuga dei malviventi, purché detta fuga non sia finalizzata esclusivamente alla conservazione dello stato di libertà ma, per le sue modalità, determini l’insorgere di pericoli per l’incolumità di terzi”[12]. Si ricava, a contrario, che la natura inoffensiva della fuga, unita all’assenza di qualsiasi danno o pericolo, vedrebbe come sproporzionato l’impiego delle armi per farla cessare.
Lapalissiana l’affermazione in questione se si tiene conto di quanto ribadito dalla Suprema Corte, per la quale “L’uso delle armi nei confronti di persone disarmate, datesi alla fuga per sottrarsi all’intimazione o all’arresto, non è legittimo, trattandosi di comportamento di resistenza passiva”[13].
Quanto appena detto è inoltre ben specificato in una pronuncia che, nell’individuare le caratteristiche della resistenza attiva, individua il discrimine proprio nella probabile realizzazione di ulteriori reati da parte di chi si sottrae agli atti compiuti dai pubblici ufficiali, richiamando il criterio di proporzionalità[14]. La mera volontà di riguadagnare la libertà, , dunque, divincolandosi, strattonando, correndo non giustifica, per contro, l’impiego dell’arma: insomma, ove manchi la violenza o una dimensione attiva di resistenza, verrà a mancare sin dall’origine la proporzione, ove l’arma venisse impiegata[15].
La proporzionalità nell’uso legittimo delle armi come canone ermeneutico costituzionale
Ciò che maggiormente colpisce, in relazione all’art. 53 cod. pen., è l’assenza di un riferimento diretto al principio di proporzionalità. In effetti, dove non è intervenuto il diritto positivo, si è ad esso surrogata l’interpretazione giudiziale, e ciò opportunamente dove è stato richiamato il necessario rapporto di proporzionalità.
Il canone della proporzione è richiamato in molteplici pronunce in tema di uso legittimo delle armi.
Osserva la Cassazione che, in luogo della distinzione fra resistenza attiva e passiva, sarebbe più opportuno riferirsi “al criterio della necessaria proporzione fra i contrapposti interessi, con estensione del relativo giudizio, oltre che alla legittimità dell’uso dell’arma in sé, anche alla graduazione di detto uso, fra quelli possibili, tenendo comunque presente che al pubblico ufficiale il quale si trovi in situazione che imponga l’adempimento del dovere non è riconosciuta — come invece nel caso della legittima difesa o dello stato di necessità — un’opzione di rinuncia o di commodus discessus”[16].
Non a caso, il criterio della proporzionalità consente una lettura costituzionalmente orientata della disposizione in esame e permette di far rientrare, nell’ambito delle condotte scriminate, quelle che appaiano effettivamente ponderate rispetto alle circostanze del caso concreto. Invero, l’interprete non è lasciato solo in questa prospettiva ermeneutica. In una pronuncia, il giudice di legittimità ha individuato un test, alla prova del quale vagliare l’eventuale conformità alla legge della condotta incriminata. Afferma così la Suprema Corte che “perché possa riconoscersi la scriminante dell’uso legittimo delle armi, quale prevista dall’art. 53 c.p., occorre, nell’ordine: che non vi sia altro mezzo possibile; che tra i vari mezzi di coazione venga scelto quello meno lesivo; che l’uso di tale mezzo venga graduato secondo le esigenze specifiche del caso, nel rispetto del fondamentale principio di proporzionalità, da ritenersi operante, pur in difetto di espresso richiamo, anche con riguardo alla suddetta scriminante”[17]. Tale giudizio, che dovrà essere compiuto dal giudice in sede applicativa, dovrà svolgersi entro le tappe dell’iter logico descritte dalla Cassazione, al fine di rispondere, caso per caso, al fondamentale quesito: i fatti tipici (omicidio, lesioni ecc.) sono scriminati ovvero integrano un’ipotesi di eccesso colposo ex art. 55 cod. pen.?
Nella ricostruzione della regola di diritto, secondo la scansione appena proposta, il criterio di proporzione potrà attingere, anzitutto, al dato costituzionale che disegna un rapporto Stato–individuo non caratterizzato da una supremazia autoritaria quanto, piuttosto, di valorizzazione della persona umana, con primario riferimento all’apporto esegetico di cui all’art. 2 Cost. Ne discende che l’impiego della violenza da parte del pubblico ufficiale potrà avvenire solo quando in gioco vi sia la necessaria tutela di beni (costituzionali) di pari rango rispetto a quelli minacciati od offesi, incolumità dell’agente in primo luogo, e, non in secondo piano, la salvaguardia della vita e dell’integrità fisica dei cittadini.
Tale valorizzazione della proporzionalità potrebbe, infine, e in una prospettiva di aggiornamento normativo dell’art. 53 c.p. portare ad un superamento delle complesse distinzioni create in via pretoria.
Informazioni
Cass. Pen., Sez. I, 21/05/1991, n. 5527
Cass. Pen., Sez. IV, 01/03/1995, n. 2148
Cass. Pen., Sez. VI, 29/05/1996, n. 7061
Cass. Pen., Sez. IV, 22/09/2000, n. 9961
Cass. Pen., Sez. VI, 20/04/2004, n. 7337
Cass. Pen., Sez. IV, 10/01/2008, n. 854
Cass. Pen., Sez. IV, 16/02/2015, n. 6719
[1] F. CARINGELLA – L. LEVITA, Principi fondamentali del diritto penale, II ed., Dike Giuridica Editore, Roma, 2018, p. 175 ss.
[2] Cfr., G. NICOLINO, La scriminante dell’uso legittimo delle armi, in DirittoConsenso, 31/03/2020, http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/31/la-scriminante-delluso-legittimo-delle-armi
[3] Est modus in rebus
[4] Cass. Pen., Sez. I, 3 febbraio 1983, n. 941
[5] Cass. Pen., Sez. I, 21 giugno 2013, n. 40346.
[6]Nella fattispecie è stata riconosciuta la scriminate, giacché i malviventi, nel corso della fuga, avevano continuato ad esplodere colpi d’arma da fuoco nonché preso in ostaggio tre persone (Cass. Pen., Sez. I, 16/02/2015, n. 6179).
[7] In tal senso, v. Cass. Pen., Sez. IV, 10/01/2008, n. 854
[8] Cass. Pen., Sez. VI, 29/05/1996, n. 7061. V. anche, in tema di resistenza attiva, Cass. Pen., Sez. IV, 22/09/2000, n. 9961 dove i malviventi <<avevano reagito all’intimazione di alt da parte di una pattuglia di carabinieri tentando di speronare l’autovettura di servizio, per poi darsi a spericolata fuga per strade urbane, mettendo a repentaglio l’incolumità dei passanti>>.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Cass. Pen., Sez. VI, 20/04/2004, n. 7337.
[12] Cass. Pen., Sez. IV, 16/02/2015, n. 6719.
[13] Cass. Pen., Sez. I, 21/05/1991, n. 5527.
[14] Secondo Cass. Pen., Sez. IV, 22/09/2000, n. 9961 <<quando l’uso dell’arma sia finalizzato a bloccare la fuga di malviventi, la suddetta proporzione dev’essere ritenuta sussistente ove, per le specifiche modalità con le quali i fuggitivi cercano di sottrarsi alla cattura, siano ragionevolmente prospettabili, oltre all’avvenuta commissione di reati al cui accertamento essi cerchino di sottrarsi, anche rischi attuali per l’incolumità e la sicurezza di terzi>>. Vedi anche << l’inosservanza dell’ordine di fermarsi impartito dal pubblico ufficiale integra una resistenza meramente passiva, inidonea a giustificare l’uso dell’arma da parte di quest’ultimo. (Fattispecie relativa a riconoscimento di responsabilità per il reato di cui all’art. 589 c.p. di un brigadiere dei carabinieri il quale, dopo avere intimato l’alta un veicolo sopraggiungente, vedendo che il conducente non si arrestava e proseguiva la marcia, ha esploso un colpo di pistola in direzione del mezzo, direttamente colpendo a morte il guidatore)>>, Cass. Pen., Sez. IV, 01/03/1995, n. 2148.
[15] In tema di uso legittimo di armi, nel caso di resistenza posta in essere con la fuga, manca il rapporto di proporzione tra l’uso dell’arma e il carattere non violento della resistenza opposta al pubblico ufficiale.
[16] Cass. Pen., Sez. IV, 22/09/2000, n. 9961.
[17] Cass. Pen., Sez. IV, 10/01/2008, n. 854
Ripensare la tendenza a delinquere in chiave costituzionale
Un ripensamento delle basi teoriche della dichiarazione di tendenza a delinquere ex art. 108 del codice penale
Natura dell’istituto: la tendenza a delinquere come pericolosità specifica del reo
Esistono i criminali incorreggibili? Ed un giudice può essere chiamato a predire la condotta di un imputato per i suoi anni a venire? Si tratta di due domande, l’una atavica, l’altra bizzarra, che devono tuttavia trovare risposta (seppur parziale) ai fini della comprensione dell’art. 108 c.p. (rubricata “tendenza a delinquere”). Si tratta di una declaratoria pronunciata dal giudice, contestualmente alla sentenza di condanna, a cui sono riconnessi effetti gravosi per il reo e che certa dottrina tenderebbe a considerare poco più che un fossile[1].
La formulazione di tale norma può dirsi, a ragion veduta, un compromesso fra le posizioni della Scuola positiva (Lombroso e Ferri) ed i postulati di quella classica. È impossibile in questa sede ripercorrere i tratti del pur interessante dibattito sulla personalità del delinquente, limitandosi ad un assunto.
Il tipo di delinquente tratteggiato dall’art. 108 c.p. è il soggetto non rieducabile. Si tratta di una tipologia di colpevole, imputabile, in cui la predisposizione al delitto non deriva da una infermità psichica, quanto piuttosto da una indole particolarmente malvagia. È opportuno sin d’ora tenere distinta la tendenza a delinquere dalla imputabilità e dalla colpevolezza. Con attenzione alla prima, questa deve sussistere al momento del fatto, come limpidamente ricavabile a contrario dall’art. 108, co. 2 c.p., giacché eventuali stati di infermità o semi-infermità del reo precluderebbero la declaratoria di cui alla norma in questione. Quanto alla seconda, la componente psicologica del reato attiene alla riferibilità soggettiva del fatto al suo autore e non alla sua indole interiore.
Se infatti nel dolo o nella colpa gli artt. 42 e 43 c.p. ineriscono alla coscienza (e alla volontà, nel caso del dolo), la tendenza a delinquere ha a che fare con la predisposizione morale del colpevole, con la sua dimensione ontologica, al di là della dimensione spazio-temporale dello specifico illecito posto in essere[2]. La dichiarazione di tendenza a delinquere implica, tuttavia, non già un giudizio sul soggetto in quanto autore del reato (o dei reati), ma sull’agente in quanto delinquente (oltre che autore dell’illecito contestato)[3].
E, a ben vedere, la sussistenza di tale innata propensione al crimine prescinderebbe da condizionamenti di tipo ambientale, i quali pure rientrano tra i parametri utilizzabili dal giudice ai fini della determinazione della misura della pena ex art. 133 c.p.: quelle considerate presupposto applicativo della norma di cui all’art. 108 c.p. sono, dunque, le pulsioni prettamente interne che spingono il reo, irresistibilmente, a violare la legge.[4] Ecco che, allora, viene a profilarsi la figura del delinquente incorreggibile: colui che è naturalmente portato a delinquere. Questi presenterebbe una scarsissima resistenza alle proprie malvagie pulsioni, ricadendo nel reato ogniqualvolta se ne presenti l’occasione.
Nel pensiero del Ferri, che posiziona questa categoria all’apice della sua pentapartizione dei criminali, il reo per tendenza è rappresentato da colui che non è infermo di mente ma, al contempo, non prova alcuna repulsione morale all’idea di delinquere. Nella psiche di questa figura, dunque, appare del tutto impossibile riscontrare un confine chiaro tra il lecito e l’illecito. E, anche se il soggetto fosse ben in grado di raffigurarselo, passare tale linea di demarcazione non comporterebbe alcuna remora interiore o resipiscenza successiva[5].
Presupposti applicativi dell’istituto
Ora, che ad una propensione così marcata al crimine si accompagni una particolare pericolosità sociale, parrebbe di tutta evidenza. Il presupposto di tale equazione risiede nell’insito carattere pericoloso per la collettività derivante dalla presenza in società di un individuo di bassissima moralità, incapace di dominare le proprie pulsioni criminose. È per questo motivo che l’art. 109, co. 1, c.p. prevede che alla dichiarazione di tendenza a delinquere consegua l’irrogazione da parte del giudice di una misura di sicurezza (ad esempio, la permanenza in una casa di cura e di custodia oppure la destinazione ad una colonia agricola)[6]. È evidente come l’obiettivo di tale previsione miri alla neutralizzazione della pericolosità sociale del reo.
In tal senso, una considerazione incidentale s’impone: il sistema del “doppio binario”, disegnato dal Codice Rocco, basato sul binomio pena-misura di sicurezza, è da lunghi anni oggetto di plurime critiche dottrinali e giudiziali disaffezioni[7], ma, anche, di un certo revival nell’applicazione delle misure di sicurezza da parte di certa giurisprudenza, quale risposta a dilemmi securitari che da anni preoccupano l’opinione pubblica[8]. E così, pure a fronte di una scarsissima ricorrenza pratica, giova approfondire i presupposti applicativi della dichiarazione di tendenza a delinquere.
Quello fondamentale, considerato il dato letterale di cui all’art. 108 c.p., è il riscontro da parte del giudice di una <<speciale inclinazione al delitto>> nel colpevole, basata <<sull’indole particolarmente malvagia>> di questi. Si richiede pertanto all’organo giudicante[9] una duplice valutazione, attuale e prognostica al contempo.
Quella attuale importa un accertamento dell’indole malvagia, da rilevarsi in relazione alle particolari modalità di estrinsecazione della sua condotta colpevole (quindi, un delitto di per sé particolarmente brutale, tale da configurare un’assenza di senso morale[10]). La presenza di precedenti penali può concorrere alla formazione del giudizio, ma non è condizione necessaria né risolutiva[11].
D’altra parte, tautologicamente, la valutazione prognostica guarda al futuro. Ecco che qui sovviene una prognosi che può ben poco essere ristretta entro i tassativi binari della formulazione normativa e che rimanda, piuttosto, alla personale esperienza del magistrato in chiave, per così dire, “predittiva”. Ciò che gli si richiede è formulare una sorta di profezia di ricaduta nel reato del colpevole, dipendente dalla sua natura malvagia e pressoché del tutto amorale.
Ed in ciò, peculiarmente, l’istituto in questione si differenzia dalla recidiva: mentre quest’ultima guarda alla proclività al crimine dell’imputato dal punto di vista storico, per avere lo stesso già commesso reati in passato, la declaratoria di tendenza a delinquere non presuppone la ricaduta nel reato ma il rischio di ricaduta nel reato[12]. È così lecito domandarsi se tale valutazione per il futuro debba rivestire i canoni della probabilità o della mera possibilità di reiterazione di condotte delittuose. Parrebbe lecito propendere per la prima, giacché un giudizio di questo tipo, compiuto alla stregua dei parametri di cui all’art. 133 c.p., dovrebbe quanto meno essere formulato a fini di garanzia per il reo in termini probabilistici, più che meramente possibilistici (o, peggio, di semplice plausibilità).
Da ultimo, l’altro presupposto che consente la dichiarazione di tendenza a delinquere è l’aver commesso un delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale[13]. La ratio può essere colta in relazione alle brutali modalità di aggressione di quei beni giuridici, ritenuti apicali nel nostro ordinamento. In chiave costituzionale, è infatti evidente come tali interessi siano meritevoli della più severa tutela penale in chiave di protezione della persona umana. Chi, infatti, attentando per malvagia indole all’integrità dei beni considerati di maggior valore dal legislatore e dimostrando una totale indifferenza non solo per il gesto in sé, ma anche per le basilari norme del vivere associati, potrebbe essere destinatario della declaratoria in questione.
Oltre alla misura di sicurezza già menzionata, la natura neutralizzante della dichiarazione di tendenza a delinquere (che, ex art. 109, co. 3, c.p. è pronunciata con la sentenza di condanna) si coglie con attenzione agli altri effetti che, per legge, conseguono alla declaratoria. Anzitutto l’aggravamento del trattamento sanzionatorio, consistente nella interdizione in perpetuo dai pubblici uffici, nel raddoppio del termine di prescrizione per le contravvenzioni, esclusione della prescrizione della pena per i delitti, inapplicabilità di amnistia ed indulto e, infine, divieto di perdono giudiziale e sospensione condizionale della pena[14].
Compatibilità dell’art. 108 c.p. con il finalismo rieducativo della pena ex art. 27, co. 3, Cost.
Come accennato poco sopra, nonostante la scarsa applicazione della norma in questione, è lecito interrogarsi sulla sua permanenza ordinamentale. È infatti diritto vigente e, ai fini della sua sopravvivenza, se ne può tentare una lettura in chiave costituzionale. Occorre una premessa, duplice.
Superando la c.d. “concezione polifunzionale”[15], la Corte costituzionale ha stabilito, con la sent. n. 313/1990, il carattere centrale della funzione rieducativa della pena[16]. E, ulteriormente, con la sent. n. 149/2018, la Consulta è tornata a soffermarsi sul finalismo rieducativo. Sarebbe difficile, in poche righe, dar conto dei brillanti passaggi motivazionali seguiti dal giudice delle leggi. Basti tuttavia ricordare che la risocializzazione del reo riveste, ad oggi, valore centrale nella legittimazione del trattamento sanzionatorio inflitto al condannato. Il valore del processo di progressivo recupero dei minimi valori di convivenza civile si coglie nelle (recenti) parole del giudice delle leggi. Osserva infatti la Corte che <<la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento>> (C. cost. sent. n. 149/2018).
In contrasto con quanto appena considerato, la dichiarazione di tendenza a delinquere comporta un accertamento di una indole antitetica rispetto a quella che, normalmente, il condannato dovrebbe possedere, e cioè aperta alla revisione critica del proprio passato e alla sua emenda. Tuttavia, l’ordinamento non richiede una redenzione del reo, bensì un recupero basilare della sua capacità di dominare le sue pulsioni criminose, di riacquistare consapevolezza delle regole minime del vivere associati. Ciò non comporta, quindi, un’adesione interiore al trattamento punitivo (che, invero, può ben esserci) ma una emenda solo esteriore. Ora, proprio perché distogliere taluno dal reato passa (anche) per lo svolgimento di attività a contenuto risocializzante, come si concilia quanto appena visto con l’art. 27, co. 3, Cost., data la capacità afflittiva degli effetti scaturenti dalla declaratoria di cui all’art. 108 c.p.?
Giova considerare come, nella loro concezione originaria, proprio alle misure di sicurezza fosse assegnata la funzione specialpreventiva. Le moderne concezioni della pena, anche sulla scorta della giurisprudenza della Corte costituzionale, parrebbero aver messo in crisi i fondamenti teorici della bipartizione pene-misure di sicurezza. Sicché l’aggravio del trattamento sanzionatorio basato su un’innata tendenza a delinquere si troverebbe a contrastare con l’idea, sottesa a quanto inscritto all’art. 27, co. 3, Cost., che tutti i condannati, diversamente ed in tempi anche molto lunghi, siano in qualche modo “recuperabili”, poiché nessuno può risultare del tutto immune alla permanenza detentiva (come osserva, del resto, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 9 luglio 2013, Vinter e altri contro Regno Unito).
Tanto premesso, i termini della questione sono questi. L’aggravamento del trattamento sanzionatorio è risposta proporzionata e teleologicamente compatibile con l’art. 27, co. 3, Cost.? Per rispondere, non bisogna dimenticare l’arte del distinguo: dell’istituto possono essere criticati i presupposti teorici, ma salvati gli effetti pratici.
Se infatti l’idea di un delinquente per tendenza, irrecuperabile, stride con il nocciolo duro della norma costituzionale che, doverosamente, impone di guardare al reo non com’è ma come sarà, ecco che gli effetti possono essere, in una certa misura, salvaguardati. Infatti, a fronte di una personalità particolarmente malevola e priva di scrupoli di fronte alla prospettiva di violare la legge, unita all’aver commesso reati di particolare brutalità contro la vita e l’integrità fisica, l’aggravio del trattamento sanzionatorio complessivamente considerato può giustificarsi come risposta sanzionatoria congrua rispetto alla brutale declinazione del fatto tipico. E ciò, si badi, non dovrebbe trovare giustificazione in una sorta di “pazzia” di lombrosiana memoria, quanto piuttosto in una particolare cattiveria e disprezzo per la vita umana (e l’integrità fisica della persona), evincibile dalle particolari modalità di estrinsecazione della sua condotta criminosa.
Se è vero, com’è vero, che la vita è “bene presupposto”, la cui esistenza è condizione per il godimento di tutti gli altri diritti, mostrare particolare crudeltà nell’offenderla o nel metterla in pericolo può giustificare effetti sanzionatori più pervicaci, che rendano il cammino verso la piena risocializzazione più complesso ma, al contempo, forse, più efficace. E questo partendo da una premessa di fondo: il delinquente per tendenza non lo rimarrà (e non può rimanerlo) per tutta la vita.
La lettura costituzionalmente orientata qui proposta vuole, dunque, limitare la portata della prognosi fino ad un certo punto della vita del reo, evitando automatismi preclusivi e valorizzando verifiche periodiche e frequenti del condannato, in vista di una graduale rimozione degli aggravi sanzionatori connessi alla dichiarazione di tendenza a delinquere. Un punto futuro e futuribile, oltre il quale, si auspica, il completamento di un cammino di risocializzazione: un po’ più lungo di quello degli altri condannati, ma con una luce in fondo al tunnel.
Ecco perché, in una prospettiva di riforma, l’istituto potrebbe essere rivitalizzato attraverso modifiche che possano, in questo senso, renderlo maggiormente compatibile con il dettato costituzionale, evitando di cadere in rigide preclusioni automatiche, senza periodiche valutazioni e valorizzazioni del cammino risocializzante compiuto dal reo, attraverso una progressiva mitigazione degli effetti neutralizzanti, fino ad una loro auspicabile revoca completa ed individualizzata.
Informazioni
FERRI E., Principi di diritto criminale: delinquente e delitto nella scienza, legislazione, giurisprudenza in ordine al codice penale vigente, progetto 1921, progetto 1927, Unione tipografica Editrice, 1928
FIORENTIN F., Misure di sicurezza personali: a declaratoria preventiva di abitualità nel reato contrasta con i principi costituzionali in materia di rieducazione del condannato, in DPC, 09 maggio 2013
RICCIO G., Tendenza a delinquere, Volume II, Napoli, 1938
C. cost., sent. n. 264/1974
C. cost., sent. n. 313/1990
C. cost., sent. n. 149/2018
Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 9 luglio 2013, Vinter e altri contro Regno Unito
[1] Non a caso, un d.d.l. del 2007 (XV Legislatura) ne auspicava l’abrogazione. Nei relativi lavori parlamentari si faceva presente la posizione dottrinale maggioritaria (in particolare FIANDACA, MUSCO) incline alla prospettiva di rimozione della norma in esame dal tessuto del codice penale quale “fossile” del passato.
[2] E’ pur vero che per il tramite degli indici di cui all’art. 133 c.p., ai fini della commisurazione della pena, rientrano nelle valutazioni giudiziali anche elementi estranei e solo indirettamente legati al reato, come, ad es., il carattere del reo (co. 2, n. 1) oppure le condizioni di vita individuale e sociale del medesimo (n. 4).
[3] Con un’ovvia distanza dai postulati teorici fondamentali del c.d. “diritto penale del fatto” e dal principio di materialità. Non a caso, nessuna valutazione come quella in esame potrebbe essere più intrinsecamente soggettiva e guardare, precipuamente, all’autore nella sua dimensione interiore.
[4] Vedi nota precedente.
[5] E. FERRI, Principi di diritto criminale: delinquente e delitto nella scienza, legislazione, giurisprudenza in ordine al codice penale vigente, progetto 1921, progetto 1927, Unione tipografica Editrice, 1928, cit., p. 207.
[6] L’applicazione della misura di sicurezza è obbligatoria, come ricorda Cass. pen., sez. I, 09/03/2011, n. 14014.
[7] Per tutti, ed a compendio: G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, VII ed., Zanichelli, Bologna, 2014, p. 680 ss. Per una valorizzazione, invece, degli strumenti amministrativi di rieducazione v. G. PUGLIESE, Le misure amministrative di rieducazione, in DirittoConsenso, 30 dicembre 2020, http://www.dirittoconsenso.it/2020/12/30/misure-amministrative-di-rieducazione/
[8] Cfr. F. FIORENTIN, Misure di sicurezza personali: a declaratoria preventiva di abitualità nel reato contrasta con i principi costituzionali in materia di rieducazione del condannato, in DPC, 09 maggio 2013, p. 1 ss. https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/2256-misure-di-sicurezza-personali–la-declaratoria-preventiva–di-abitualita-nel-reato–contrasta-con-i
[9] La declaratoria può essere pronunciata sia su sollecitazione del P.M. sia d’ufficio da parte del giudice.
[10] Nello specifico, è da ritenersi che tale amoralità nell’agire si sostanzi in una perversione totale delle comuni regole di condotta, una totale mancanza di umanità del reo. In ciò, la brutalità del delitto è indice sicuramente più manifesto, ma non l’unico. Cfr. G. RICCIO, Tendenza a delinquere, Volume II, Napoli, 1938, p. 1128.
[11] Ibidem.
[12] E da qui, come visto, la legge evince la pericolosità sociale del reo.
[13] Anche non necessariamente tra quelli ricompresi di cui al capo I, Titolo XII, libro II del codice penale (v. art. 108 c.p.).
[14] Ai succitati effetti, ne conseguono anche taluni di ordine processuale, come, ad esempio, la preclusione della facoltà di richiedere il patteggiamento della pena ex art. 444, co. 1-bis, c.p.p. (in tema, v. Cass. pen., sez. II, 27/10/2006, n. 44604).
[15] Sul punto, v. C. cost. sent. n. 264/1974.
[16] Osserva, sul punto, la Corte, a proposito della pena che: <<in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stesse della pena>>, contestualmente, però, ricordando che <<alla sua natura ineriscano caratteri di difesa sociale, e anche di prevenzione generale per quella certa intimidazione che esercita sul calcolo utilitaristico di colui che delinque>> (C. cost. sent. n. 313/1990).
È lecito criticare il Presidente della Repubblica?
La possibilità di criticare il Presidente della Repubblica nel bilanciamento fra diritto e delitto
Criticare il Presidente della Repubblica: la ratio della scelta ordinamentale di tutelare l’onore e il prestigio del Capo dello Stato
«Sacrilegio crimen est quod maiestatis dicitur» ovvero “è un particolare crimine di sacrilegio quello che viene chiamato di lesa maestà”[1]. Così scrisse, nel III secolo d.C., il giurista romano Ulpiano, riferendosi alla laesa maiestas, e cioè a quell’eterogeneo novero di reati offensivi della maestà, prerogativa suprema ed esclusiva dello Stato romano e delle sue istituzioni, Imperatore in primis. Attraverso i secoli e le varie esperienze giuridiche che si sono susseguite nel tempo, la protezione penale degli attributi dell’autorità ha rivestito (e riveste) una costante centralità. Tutelare le strutture politiche ed amministrative, nell’ambito di una comunità organizzata, ha lo scopo di scoraggiare atti di più o meno aperta critica o ribellione da parte dei consociati e, indirettamente, circondare di sacralità e prestigio le cariche e gli apparati che, in un determinato sistema politico, hanno il compito di governare la società. Con la progressiva affermazione degli Stati nazionali, l’attributo della maiestas di romana memoria è stato progressivamente traslato ad opera del pensiero giuridico dalle antiche istituzioni imperiali in capo allo Stato moderno e, segnatamente, attribuito agli organi di cui esso si compone[2]. Con attenzione all’ordinamento penale italiano, giova riscontrare che il Codice penale prevede il reato di <<Offesa all’onore o al prestigio del Presidente della Repubblica>>[3] (art. 278 c.p.). È lecito dunque chiedersi, in prima battuta: la norma tutela il Capo dello Stato in quanto persona o in quanto detentore di una carica? La risposta è evidente, e risiede nella seconda opzione. Alla scelta di incriminare certe condotte, non è infatti sottesa una visione sacrale della suprema magistratura dello Stato, quanto piuttosto una sua concezione funzionale: il prestigio e l’onore del detentore della carica sono tutelati in relazione alla titolarità della carica medesima, e non viceversa.
Il delitto in questione si colloca all’interno del Titolo I, Capo II del Codice (Delitti contro la personalità interna dello Stato). Come da rubrica, oggetto di tutela sono “l’onore ed il prestigio del Presidente della Repubblica”, beni di <<eccezionale rilevanza [pertinenti] alla prima carica istituzionale dello Stato italiano>>[4]. In questa sede, si vuole in primo luogo porre l’attenzione sulla punibilità delle manifestazioni del pensiero, espresse con qualsiasi mezzo[5], che travalicano i confini del diritto di critica, sconfinando in una vilipendiosa aggressione verbale o scritta. In dettaglio, saranno considerati in via esemplificativa fatti ritenuti dalla giurisprudenza di legittimità e di merito integranti gli estremi della fattispecie di cui all’art. 278 c.p., quali illegittime modalità di critica del Presidente della Repubblica. Successivamente, si considererà il bilanciamento, operato in sede giudiziale, fra manifestazioni del pensiero critiche e condotte vilipendiose. Da ultimo, ci si concentrerà sulla cornice edittale prevista dal reato, con particolare riferimento all’attività giornalistica, anche in considerazione degli orientamenti della Corte Edu.
Uno sguardo alle condotte tipiche
Prima di cimentarsi con il difficile tentativo di tracciare il confine fra diritto e delitto, è necessario ricordare che un apprezzamento in tal senso è sempre rimesso, con attenzione alla concretezza del caso specifico, al giudice di prime cure, non potendosi disciplinare in via astratta un confine univoco tra condotte concretamente o solo formalmente offensive. Premesso che criticare il Presidente della Repubblica è di per sé lecito, individuare l’area penalmente irrilevante (o, per converso, quella rilevante) è una questione in defettibilmente legata alle specifiche modalità di concretizzazione delle singole condotte, ciascuna apprezzata nella sua specificità. E’ infatti vero che espressioni dai toni accesi possano, ad un’analisi più approfondita, apparire prive di rilevanza penale. Ma è pur vero che affermazioni di primo acchito innocue e scherzose possono debordare fuori dai limiti del commento critico e tramutarsi in offesa penalmente sanzionabile. Una rassegna, certamente non esaustiva, può aiutare a comprendere meglio i termini del discorso.
Va ricordato in premessa come, di recente, in relazione ad un tweet pubblicato lo scorso dicembre, un docente universitario sia attualmente indagato dalla Procura di Roma in relazione al delitto previsto e punito dall’art. 278 c.p. per aver criticato il Presidente della Repubblica, attribuendogli l’epiteto – con evidente riferimento alla lessicologia satirica germinata intorno alla situazione epidemica – di <<capo del regime sanitocratico>>, attribuendogli la responsabilità delle misure adottate dal Governo nell’ambito della gestione dell’emergenza Covid-19[6]. Critica o reato? Spetterà alla magistratura stabilirlo. Nondimeno, in passato si sono registrati episodi ben più significativi sul piano dell’offensività.
Con attenzione alla giurisprudenza di legittimità, avente ad oggetto prevalentemente l’attività giornalistica, si può fornire una panoramica interessante delle condotte ritenute integranti gli estremi del delitto in questione. Osserva, in primo luogo, la Cassazione (Cass. Pen., Sez. I, n. 12696/2004) che, in riferimento alle frasi scritte dall’imputato in un articolo di giornale, correttamente i giudici di merito avevano ricondotto alla previsione di cui all’art. 278 c.p. espressioni, riferite al Capo dello Stato, quali: “antipatico“, “l’averne detta “una delle sue“, “il lanciare messaggi mafiosi”, il “non stare a fare nulla nel posto occupato“, l’insinuazione della sua responsabilità morale nella morte di A. M. (Aldo Moro, nda)[7]. Ancora, il giudice di legittimità (Cass. Pen., Sez. I, n. 9880/1996) concludeva per l’esatta qualificazione delittuosa del contenuto di un articolo di un periodico in cui, criticando l’allora Presidente della Repubblica Scalfaro, venivano allo stesso attribuiti una serie di fatti, quali <<i partigiani promossero Scalfaro giudice sul campo, anche se forse non ne aveva i titoli>> e <<gli si chiedeva solo di condannare senza tante storie della povera gente>>[8] concludendo infine che quest’ultimo non fosse <<un vero cattolico, ma un codino, un bigotto, di quella tradizione farisaica dei sepolcri imbiancati, quei farisei che Gesù bollò come “razza di vipere”>>[9].
Alcune specifiche, per chiarire. Dal punto di vista del numero di soggetti che abbiano percepito il commento denigratorio, conclude la Cassazione nel senso che è sufficiente <<la semplice comunicazione dell’offesa ad un terzo con qualsiasi mezzo>>[10]. Sicché, ad avviso del giudice di legittimità sarebbe irrilevante il numero di soggetti che abbiano percepito l’offesa, bastandone anche solo uno. In secondo luogo, non rileverebbe nemmeno che i fatti attribuiti in sede di critica al Presidente della Repubblica siano stati compiuti prima dell’assunzione della massima carica istituzionale. Rileva a tal proposito il giudice di legittimità che l’art. 278 c.p. riguarda <<tutte le offese al capo dello Stato […] con riguardo anche ai fatti anteriori all’attribuzione della carica medesima>>[11] sul presupposto che <<le offese (riguardanti fatti) non compiut[i] contemplatione officii si ripercuotono in concreto anche sul prestigio dell’istituzione>>[12], chiarendo così il punto nel senso che la norma tutela non soltanto la carica, ma, in ragione del predetto nesso funzionale tra carica ed individuo, la stessa persona del Capo dello Stato nella sua individualità, fatta anche di fatti pregressi parimenti criticabili entro i limiti della continenza[13].
Quando, allora, una condotta è considerata penalmente rilevante? Alla luce di quanto sin qui proposto, viene da rispondere in modo lapalissiano: quando la critica al Presidente della Repubblica sconfina in offesa. Buonsenso, si direbbe. Ebbene, è opportuno notare come, nei casi giudiziali qui citati, l’intento critico manifestato dagli autori tenda a trascendere il requisito della continenza, richiesto invece da costante giurisprudenza quale elemento strutturale del diritto di critica[14], che pure gode di copertura costituzionale ex art. 21 Cost.[15] ed idoneo, in linea di principio, a elidere il carattere antigiuridico del fatto tipico, se esercitato correttamente. Come ricordato poco più sopra, infatti, criticare il Presidente della Repubblica è condotta non aprioristicamente illecita, bensì subordinata al rispetto di quei parametri, elaborati dalla giurisprudenza, che ne consentono il legittimo esercizio. Ecco che una condotta, pur a prima vista atta a rispondere alla astratta tipizzazione della norma-precetto, può nondimeno risultare a più attento esame scriminata e di conseguenza non concretamente lesiva del bene giuridico tutelato (eccettuate, ovviamente, quei fatti di modestissima entità che si pongono già ad una prima considerazione ben al di sotto della soglia minima di offensività).
Non potendosi trarre una regola generale, alla stregua della quale individuare con sicurezza, ma soprattutto ex ante, l’offensività di un discorso o di uno scritto, è più utile ricercare quali possano considerarsi i criteri discretivi che l’interprete dovrebbe impiegare per evitare di commettere un delitto. Conviene premettere, però, che la particolare posizione del Capo dello Stato nell’architettura costituzionale non solo giustifica un trattamento sanzionatorio più severo rispetto alle ipotesi delittuose volte a tutelare il prestigio e l’onore di altri soggetti pubblici, ancorché nell’esercizio delle loro funzioni (ad es. artt. 342, 343, 595 co. 2 c.p.) ma anche un diverso e più rispettoso approccio nell’esercizio del diritto di critica da parte dei cittadini nonché, a maggior ragione, dagli operatori dell’informazione. La posizione super partes della massima carica istituzionale, quale garante dell’ordine costituzionale e simbolo di unità della Nazione al di sopra della contesa politica, giustificherebbe un approccio diverso da parte dell’interprete, posto che il Capo dello Stato non è un politico qualsiasi. Apicalità della carica istituzionale ed imparzialità dovrebbero così configurarsi come i tratti giustificativi della diversa e più importante tutela penale apprestata dall’ordinamento tramite l’art. 278 c.p.
In che misura è legittimo criticare il Presidente della Repubblica?
In relazione al diritto di critica, due sono i presupposti che vanno osservati:
- veridicità o plausibilità dei fatti contestati (anche putativa) e oggetto di critica
- continenza nella loro esposizione.
Quanto al primo profilo, è da disattendere quella visione – invero, maggioritaria – che attribuisce un valore molto flessibile alla veridicità dei fatti contestati attraverso l’esercizio del diritto di critica. Se infatti la critica si vuole intendere quale strumento di utile compartecipazione all’opinione pubblica e funzionale a stimolare il dibattito in seno ad essa, ecco che la verità o comunque la plausibilità dei fatti contestati o censurati non può che essere il necessario presupposto[16]. Sicché, è fondamentale che la manifestazione del pensiero critico prenda le mosse da fonti il più possibile attendibili, per rendere così quanto meno plausibile la sussistenza della scriminante putativa del diritto di critica. Ergo: chi critica deve essere ragionevolmente sicuro della veridicità dei fatti contestati od attribuiti[17].
Con attenzione al secondo requisito, è di tutta evidenza come le espressioni riportate poche righe più sopra (necessariamente estrapolate da contesti motivazionali ben più ampi) non possano essere ricondotte alla continenza che la giurisprudenza richiede ai fini dell’esercizio del diritto di critica. A tal proposito, l’impiego di termini scurrili, offensivi, denigratori e mortificanti denuncia non soltanto un difetto di quella necessaria serenità che deve insistere in capo a chi critica senza offendere, bensì anche una mancanza di rispetto connesso alla massima carica dello Stato e al prestigio che essa esprime. Ciò non significa, ovviamente, che l’operato istituzionale o la pregressa carriera politica del Presidente in carica non possa essere pubblicamente censurato (ciò non sarebbe proprio di uno Stato democratico) ma la scelta dei termini e del lessico va adeguatamente ponderata, per risultare polemica, ma non offensiva, tagliente ma non dissacrante[18].
Come già accennato, è al caso concreto che deve guardarsi per cogliere la natura effettivamente offensiva di certe manifestazioni del pensiero. A questo proposito, può essere rilevante, ed incidere sulla colpevolezza del reo, l’aver scelto mezzi di diffusione particolarmente efficaci, quali blog o social media, mediante i quali è possibile raggiungere un numero indeterminato di soggetti. Infatti è necessario che l’intento di offendere si manifesti mediante la consapevolezza da parte dell’agente della natura denigratoria degli epiteti o dei fatti contestati – anche con attenzione al contesto in cui si auspica che quelle offese siano percepite – e della volontà di ledere il prestigio del Capo dello Stato. Un riscontro della rilevanza penale delle condotte non può che essere effettuato, dunque, se non guardando al contesto generale nel quale il pensiero viene manifestato, riservando un maggiore stigma giuridico per quelle frasi caustiche o molto brevi, il cui intento polemico è tutto residente nell’offesa gratuita ed infamante, non perseguendo queste ultime altro scopo se non l’insulto fine a sé stesso. D’altra parte, forme più strutturate di critica al Presidente della Repubblica (es. articoli di giornale, contributi, saggi) possono meglio configurarsi come legittimo esercizio del diritto di cui all’art. 21 Cost., purché le modalità di esposizione del pensiero (anche se taglienti) possano essere inserite in un contesto dignitoso, caratterizzato da scelte lessicali congrue, che non denuncino, a prima vista, una mera volontà di attaccare o ridicolizzare.
Alcune considerazioni sulla cornice edittale: la misura …
Quali conseguenze per il reo? A tal proposito, conviene soffermarsi sull’ampiezza del delta punitivo previsto dall’art. 278 c.p. e cioè la pena della reclusione da uno a cinque anni. A ben vedere, una forchetta sanzionatoria, tutto sommato, abbastanza divaricata. È lecito immaginare che nell’opinione pubblica una risposta sanzionatoria di questo tipo, in relazione a delle critiche al Presidente della Repubblica, ancorché illegittimamente espresse, possa apparire sproporzionata. È il caso di provare a controargomentare. Senza voler indugiare sul massimo (la cui applicazione, invero, non risulta per nulla ricorrente), due questioni investono la cornice edittale, rispettivamente nella misura della pena (e, segnatamente, nel minimo) e nel tipo di pena.
Il primo nodo ha a che fare con il rapporto di proporzionalità fra il disvalore del reato (nella sua declinazione meno offensiva) e il quantum di pena previsto in via legislativa. Non è questa considerazione peregrina, giacché la questione circa la compatibilità fra la misura minima e l’art. 27, co. 3, Cost., sollevata dal Tribunale di Pordenone[19], era stata prontamente dichiarata manifestamente infondata dalla Consulta[20]. Osservavano, in particolare, i giudici costituzionali che, considerato il <<valore di rango costituzionale che la norma mira a preservare, ben si giustifica la previsione di un trattamento sanzionatorio che adeguatamente scolpisca, anche nel minimo edittale, il particolare disvalore che assume per la intera collettività l’offesa all’onore e al prestigio della più alta magistratura dello Stato>>[21]. Dello stesso tenore le considerazioni della Corte d’appello di Firenze[22] e della Corte di Cassazione[23] nel ritenere manifestamente infondati i dubbi di costituzionalità sollevati dai difensori degli imputati relativi alla compatibilità della pena minima di cui all’art. 278 c.p. con gli artt. 3 e 27, co. 3, Cost.
Va così rilevato come, secondo la giurisprudenza costituzionale, la pena detentiva di un anno sia stata ritenuta in più occasioni proporzionata ed adeguata a sanzionare quelle condotte tipiche che, pur collocandosi alla più bassa soglia d’offensività, risultano ben più gravi della diffamazione o dell’ingiuria proposte spesso dai giudici rimettenti quali tertia comparationis (termini di raffronto) per apprezzare indebite sperequazioni punitive con altri reati. Sul punto, osserva la Cassazione che sarebbe del tutto improprio sul piano concettuale cercare di ravvisare delle analogie fra il reato di oltraggio al Capo dello Stato e la diffamazione o l’ingiuria[24], tentando di così di effettuare comparazioni tra fattispecie afferenti a beni giuridici diversi e connotate, queste ultime, da disvalore estremamente meno significativo di quello espresso dall’art. 278 c.p., tale da impedire le stesse condizioni di praticabilità di un raffronto in chiave comparativa alla luce del principio di eguaglianza-ragionevolezza ex art. 3 Cost.
Del resto, non si può prescindere da una valutazione, per così dire, “superindividuale” del bene giuridico protetto dalla norma del Titolo I, dacché le medesime condotte incriminate non offendono in via diretta il solo Presidente della Repubblica ma, mediatamente, costituiscono un’offesa alla comunità nazionale, in relazione al <<particolare disvalore che assume per la intera collettività l’offesa all’onore e al prestigio della più alta magistratura dello Stato>>[25]. Pertanto, né la pretesa comparazione con figure di reato decisamente non assimilabili (ancorché, per certi versi, similari nelle sole modalità di concretizzazione) né un’asserita sproporzione intrinseca tra disvalore del fatto ed entità della sanzione, sono apparse convincenti ed idonee ad ottenere la caducazione del minimo edittale di cui all’art. 278 c.p. con auspicata riespansione del canone legislativo minimo di quindici giorni di reclusione previsto dall’art. 23 c.p.[26].
… ed il tipo di pena
La seconda questione ha a che fare con il tipo di pena. Come si è potuto osservare qualche riga più sopra, spesso la giurisprudenza di legittimità e di merito hanno affrontato casi ricondotti alla previsione del reato in questione aventi ad oggetto articoli comparsi su quotidiani o stampati. Pare dunque opportuno interrogarsi sulla compatibilità della pena detentiva con i (più o meno) recenti indirizzi della Corte Edu e della Consulta in tema di punibilità con il carcere dei giornalisti per reati che abbiano commesso nell’esercizio della loro professione. E’ impossibile non partire dalla notissima Cumpana e Mazare v. Romania del 2004 dove la Corte di Strasburgo si espresse negativamente a proposito di pene detentive – ancorché brevi – per i giornalisti[27]. La domanda, dunque: è giustificabile che un giornalista possa essere condannato alla pena della reclusione da uno a cinque anni per aver offeso il Capo dello Stato? Prima di rispondere alla domanda, conviene osservare che il nostro ordinamento si trova in una fase di stallo, in tema di pene detentive per reati commessi (anche) a mezzo stampa. La Corte costituzionale, con l’ord. n. 132/2020 ha assegnato sei mesi al Parlamento per consentirgli di intervenire sulle pene previste per la diffamazione aggravata e per il medesimo reato, commesso tramite la stampa[28].
E qui sta il punto: giudica bene chi ben distingue. Proprio come osservato dalla Cassazione, a suo tempo, le fattispecie di diffamazione, oltraggio ed ingiuria, pur sostanziandosi in manifestazioni “devianti” del pensiero, come quelle che la norma in questione mira a colpire, non possono essere poste sul medesimo piano: criticare il Presidente della Repubblica è cosa diversa. La giustificazione della sanzione detentiva discenderebbe, così, non solo dalla dimensione collettiva degli interessi protetti ma anche dalla già menzionata posizione super partes del Presidente, connessa al suo altissimo ruolo istituzionale. Tutelarne l’onore significa tutelarne la credibilità come arbitro costituzionale del (convulso) gioco politico. Sicché, se l’incongruità della pena detentiva può risultare più o meno condivisibile, ad esempio, con attenzione all’onore del singolo cittadino (o del candidato politico di turno), leso da una condotta diffamatoria del giornalista, altrettanto non potrebbe dirsi per il prestigio e l’onore del Capo dello Stato, che debbono essere tutelati dalle condotte vilipendiose proprio di quei soggetti che, in ragione dei mezzi impiegati, possono verosimilmente rendere percepibile l’offesa ad un pubblico potenzialmente consistente.
La stessa Cedu (art. 10, par. 2), nel richiamare gli interessi che legittimano una limitazione della libertà d’espressione, tra cui, segnatamente, la “difesa dell’ordine”, lascerebbe presupporre, a prima vista, una legittimità della previsione sanzionatoria in questione. Secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la limitazione della libera manifestazione del pensiero è consentita allorché abbia ad oggetto, tra l’altro, la tutela dell’ordine democratico[29]. Inoltre, sul fronte della proporzionalità della cornice edittale rispetto alla gravità del reato, la Corte ha sempre lasciato agli Stati aderenti un certo margine di apprezzamento discrezionale in ordine alle modalità di tutela di determinati interessi meritevoli di tutela penale. Sicché, la scelta dell’ordinamento italiano di prevedere un delta sanzionatorio di intensità pari a quello in esame potrebbe, plausibilmente, rientrare entro l’ambito di valutazione discrezionale lasciato ai legislatori nazionali. Pare infatti arduo qualificare, anche astrattamente, il quadro edittale in questione come un trattamento inumano e degradante, in violazione dell’art. 3 della Cedu, dalla quale i giudici della Corte Edu hanno ricavato, unicamente, un mero divieto (in negativo) di pene <<grossolanamente sproporzionate>> rispetto alla gravità del fatto[30]. Ipotesi, questa, che non pare nemmeno con attenzione alla comminatoria in astratto afferire al caso in esame.
Informazioni
Cass. Pen., Sez. I, n. 5844/1978.
C. App. Firenze, 23/10/1995.
Cass. Pen., Sez. I, n. 3069/1996.
Cass. Pen., Sez. I, n. 9880/1996.
Cass. Pen., Sez. I, n. 12625/2004.
C. cost. sent. n. 163/1996.
C. cost. sent. n. 313/2013.
Trib. Udine, sent. n. 1456/2020.
[1] Dig., XLVIII, 4, 1pr.
[2] È infatti importante notare come, nel diritto penale romano, fino all’età imperiale, oggetto di protezione fossero le cariche pubbliche, diretta manifestazione della auctoritas e della maiestas della Res publica. A partire però dall’anno 8 a.C., con l’introduzione della Lex Iulia maiestatis, oggetto di tutela da parte della tradizionale laesa maiestas non risultava più essere solo la carica pubblica ma anche la stessa persona dell’Imperatore. Viene a configurarsi così una plurioffensività dei reati indirizzati contro l’autorità imperiale, sfociata poi in una progressiva confusione fra carica istituzionale e suo detentore. Bisogna però notare, allo stesso tempo, come, in riferimento all’art. 278 c.p. la giurisprudenza della Corte di Cassazione – lo si vedrà meglio – abbia ricompreso nell’ambito delle condotte penalmente rilevanti anche le azioni compiute dal Presidente prima dell’assunzione della carica istituzionale, anche in veste di privato cittadino (Cass. Pen., Sez. I, n. 5844/1978). A tal proposito, è corretto parlare di un nesso funzionale fra carica istituzionale e suo detentore, dove fatti che ne offendono l’individualità possano riverberarsi sulla carica stessa.
[3] Art. 278 – Offesa all’onore o al prestigio del Presidente della Repubblica. [I]. Chiunque offende l’onore o il prestigio del Presidente della Repubblica è punito con la reclusione da uno a cinque anni. È prevista un’estensione del trattamento punitivo previsto dalla presente disposizione in relazione alla persona del Sommo Pontefice (v. l’art. 8, co. 2 del Trattato 11 febbraio 1929 fra la Santa Sede e l’Italia). Nella versione originaria del Codice del 1930, la norma in questione tutelava i medesimi interessi, ascritti tuttavia alla figura del Re, della Regina e della Famiglia Reale. L’impostazione attuale del testo normativo risale alla legge n. 1317 del 1947.
[4]Cass. Pen., Sez. I, n. 3069/1996.
[5] Il delitto in questione è un reato a forma libera, nel senso che le modalità di realizzazione della condotta tipica non sono enucleate in via legislativa. Depone in questo senso, in un obiter dictum, Cass. Pen., Sez. I, n. 9880/1996. In questa sede si considerano, prevalentemente, le offese poste in essere attraverso articoli di giornale e riferibili a giornalisti condannati per il reato in esame.
[6] https://www.corriere.it/politica/21_maggio_11/mattarella-11-indagati-le-offese-via-web-perquisizioni-ros-9dd4ca70-b226-11eb-ad37-20fbbce36b88 . Il presente articolo non intende prendere posizione alcuna in relazione alla vicenda giudiziaria in corso, limitandosi a riportare il contenuto del post incriminato, ritenuto dalla Procura di Roma integrante gli estremi del reato di cui all’art. 278 c.p., riservando ad un eventuale futuro giudizio la statuizione circa la rilevanza penale del contenuto medesimo. Fino a tale momento, (e, segnatamente, al passaggio in giudicato di un’eventuale sentenza di condanna) l’autore tiene a ricordare che l’imputato è costituzionalmente assistito dalla presunzione di innocenza ex art. 27, co. 2, Cost.
[7] Cass. Pen., Sez. I, n. 12625/2004.
[8] Cass. Pen., Sez. I, n. 9880/1996.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Così anche Trib. Udine, sent. n. 1456/2020 secondo cui <<il reato di offesa all’onore ed al prestigio del Presidente della Repubblica, previsto dall’articolo 278 del codice penale, tutela il prestigio del Capo della Stato anche in riferimento a situazioni anteriori all’attribuzione della carica medesima>>.
[12] Cass. Pen., Sez. I, n. 5844/1978.
[13] Ibidem.
[14] La giurisprudenza in tema è amplissima. A compendio, cfr. Cass. Pen., Sez. I, n. 10119/2000).
[15] Per un inquadramento, v. G. DE LUCIA, Art. 21 Cost.: la libera manifestazione del pensiero, in DirittoConsenso, 8 giugno 2020, http://www.dirittoconsenso.it/2020/06/08/art-21-cost-libera-manifestazione-pensiero/
[16] Così, Trib. Roma, 3 febbraio 1998. Sul punto, più ampiamente, cfr. G. GARDINI, Le regole dell’informazione. L’età della post verità, IV ed., Giappichelli, Torino, 2016, cit., p. 120.
[17] Cfr. Cass. Pen., Sez. I, n. 35646/2008.
[18] Trib. Torino, 21 aprile 1998.
[19] Trib. Pordenone, G.u.p., ord. 30/03/1995.
[20] Il giudice a quo aveva, in effetti, ancorato la propria valutazione sulla scorta della (allora) recente sent. n. 341/1994 della Corte Costituzionale in tema di pena minima per il reato di oltraggio (341 c.p.). In quel caso, il minimo di sei mesi, caducato dal giudice delle leggi, aveva portato alla riespansione del minimo legale di quindici giorni di reclusione di cui all’art. 23 c.p. L’auspicio del G.u.p. di Pordenone era, evidentemente, quello di ottenere un analogo risultato.
[21] C. cost. sent. n. 163/1996.
[22] C. App. Firenze, 23/10/1995.
[23] Cass. Pen., Sez. I, n. 3069/1996.
[24] A proposito della comparazione con il delitto d’ingiuria (art. 594 c.p.) deve ovviamente farsi riferimento alla situazione antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 7/2016, che ha abrogato la norma in questione. Al posto della sanzione penale è stata infatti introdotta una sanzione pecuniaria civile, cui si affianca il risarcimento del danno in favore della persona offesa.
[25] C. cost. sent. n. 163/1996.
[26] In questo senso le richieste dei giudici a quibus, sulla scorta della richiamata sent. n. 341/1994.
[27] Cfr., ex plurimis, Corte Edu, Cumpana e Mazare c. Romania, 17 dicembre 2004.
[28] Per una visione più approfondita e le relative implicazioni, v. P. VERONESI, Un’altra incostituzionalità “prospettata” ma non (ancora) dichiarata: la diffamazione a mezzo stampa nell’ord. n. 132 del 2020, in Studium Iuris, 2020, 1355 ss.
[29] Corte Edu, Grande Camera, sentenza 17 dicembre 2013, Perinçek v. Switzerland ; Corte Edu, sentenza 1 febbraio 2000, Schimanek v. Austria; Corte Edu, sentenza 14 settembre 2010, Dink v. Turkey
[30] Sul punto, v. Corte Edu, sentenza 21 giugno 2011, Kafkarys v. Cipro; Grande Camera, sentenza 9 luglio 2013, Vinter e altri v. Regno Unito.
Hawala: alcune riflessioni penalistiche
Alcune considerazioni a proposito della recente giurisprudenza sull’art. 131-ter del d.lgs. n. 385 del 1993 (Testo Unico Bancario) in tema di intermediazione illecita hawala
Definizione della fattispecie
Hawala consiste in una modalità informale di movimentazione di valori, originaria di alcune zone dell’Asia centrale e del Medio – oriente. Nei contesti d’origine, hawala è spesso impiegato per la movimentazione di somme di piccola-media entità. Una rete hawala si struttura su minimo di due soggetti. Colui che intende trasferire una somma (l’ordinante) la versa in denaro ad un hawaladar; questi contatta l’altro intermediatore (secondo hawaladar), a cui è legato da vincoli fiduciari, che provvede a versare una somma di denaro ad un soggetto terzo indicato dall’ordinante (il beneficiario). Tale somma corrisponde all’importo versato al primo intermediario, diminuito però della commissione trattenuta (di norma, tra il 2,5-5% dell’importo, ma può variare). Una rete è costituita inoltre da “corrieri” e “custodi”, con compiti organizzativi minori[1].
I vantaggi sono di facile comprensione. In primo luogo, il carattere informale garantisce un aggiramento dei costi connessi all’impiego di circuiti legali di intermediazione finanziaria (realizzata da istituti di credito autorizzati). Secondariamente, il carattere informale consente di aggirare i tassi di cambio. Da ultimo, va considerato che, per molti soggetti residenti in Paesi economicamente poco sviluppati, tale sistema non è avvertito o considerato come illecito, ma consiste addirittura nell’unico possibile di movimentare somme di denaro[2], data l’eccessiva onerosità dei servizi proposti dai circuiti legali di intermediazione.
L’emersione di hawala in Italia è connesso con il fenomeno migratorio che, dagli anni ’90, ha assunto una rilevante consistenza. Quale retaggio culturale, le reti hawala hanno preso vita e si sono sviluppate presso quelle comunità etniche, mediorientali o centrasiatiche residenti sul territorio nazionale, in cui il sistema hawala è tradizionalmente praticato in patria e all’estero. Tuttavia, in contrasto con tale radicata tradizione, l’ordinamento italiano presenta delle disposizioni legislative volte a salvaguardare la stabilità e la vigilanza sul sistema creditizio e finanziario, che, vietando la praticabilità di questo metodo di intermediazione finanziaria, affondano le loro radici nel combinato disposto fra gli artt. 41 e 47 Cost. Il riferimento va agli artt. 114-sexies, 114-novies e 131-ter T.u.b. Le prime due disposizioni stabiliscono un regime di autorizzazione in forza del quale l’esercizio di attività di <<servizi di pagamento>> (tra cui l’intermediazione finanziaria) richiede necessariamente l’autorizzazione della Banca d’Italia. La violazione di tale combinato disposto costituisce reato ai sensi dell’art. 131-ter T.u.b. che punisce i trasgressori con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa da 2.066 euro a 10.329 euro.
Va detto inoltre che, spesso, l’impiego delle reti hawala è connesso con l’impiego delle somme movimentate ai fini della realizzazione di altri reati quali, ad esempio, il pagamento delle somme corrisposte dai migranti c.d. economici per raggiungere l’Italia (e, da qui, i Paesi dell’Europa del Nord) e il finanziamento del terrorismo islamista. Del resto, la celerità dello spostamento della somma (dalle 6 alle 12 ore)[3] e la relativa impenetrabilità delle reti di mediatori, spesso inserite in modo quasi invisibile nell’ambito di comunità straniere residenti in Italia e all’estero, rendono hawala decisamente appetibile, tanto per perseguire intenti formalmente leciti (ad esempio, inviare rimesse aggirando i normali canali, come Money Transfer) quanto illeciti. È così di tutta evidenza come il reato de quo possa spesso configurarsi come un reato mezzo e non solo come reato fine.
Modalità operative di realizzazione dell’illecito hawala
Il reato di hawala prevede il necessario concorso di più soggetti, il cui apporto all’organizzazione può variare in ragione dei compiti loro assegnati. Rispondono del delitto in questione tutti coloro che, a vario titolo, collaborano nella attività di illecita intermediazione, <<in maniera stabile ed organizzata attraverso una rete di mediatori internazionali>> finalizzata al <<servizio di raccolta, cambio e trasferimento all’estero di valuta, mediante transazioni fiduciarie non tracciabili e non soggette ai tassi ufficiali di cambio, in quanto attività di mediazione finanziaria onerosa per la rimessa di denaro effettuata da soggetti non autorizzati>> (Cass. Pen., sez. V, 20/10/2020, n.36034).
L’attività di intermediazione illecita testé descritta si articola in una dimensione spaziale e temporale complessa. Quanto alla strutturazione della rete, all’ammontare delle operazioni effettuate e al numero di soggetti che beneficiano dei servizi di illecita intermediazione, sussiste un contrasto giurisprudenziale circa la soglia di punibilità delle condotte qualificabili come hawala. La soluzione preferibile, ad avviso di chi scrive, sarebbe che, ai fini della integrazione della fattispecie in questione, gli agenti soltanto operassero oggettivamente in assenza di autorizzazione ed in violazione della riserva di cui all’art. 114-sexies T.u.b. Sicché a nulla rilevando le più o meno estese modalità organizzative dell’illecita intermediazione nonché il numero di operazioni effettuate. Ciò, in definitiva, tradurrebbe entro i confini dell’illecito penale il fatto stesso di svolgere intermediazione illegale in violazione del regime amministrativo stabilito dalla legge, anche in presenza di un numero assai modesto di transazioni[4].
Giova però sottolineare, in primo luogo, come la giurisprudenza di Cassazione abbia stabilito che ai fini della punibilità rilevi solo un elevato grado di organizzazione e strutturazione della rete hawala. Ciò è stato recentemente asserito con riferimento alla <<stabile ed organizzata […] rete di mediatori internazionali>>[5] che dovrebbe necessariamente sussistere ai fini della penale rilevanza dei fatti contestati. Quanto riportato trova conforto in alcune pronunce di poco anteriori (Cass. Pen., sez. V, 16/01/2015, n. 25160; Cass. Pen., sez. V, 16/12/2016, n. 18317), dove si richiedeva, ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 131-ter T.u.b. un apprezzabile grado di strutturazione dell’attività di illecita intermediazione, consistente in <<un’organizzazione di mezzi e strumenti tali da consentire la concessione sistematica di un numero indeterminato di prestazioni finanziarie>>[6].
La tesi giurisprudenziale in questione sarebbe condivisa anche dalla dottrina maggioritaria[7], ma pare tuttavia lecito (motivatamente) dissentire. Infatti, la punibilità anticipata di questa fattispecie delittuosa ha il merito di prevenire che il sodalizio si radichi ed acquisisca una strutturazione di più difficile contrasto. Va inoltre considerato che, in relazione alle attività illecite realizzate per mezzo di hawala, la rilevanza penale del mero fatto de quo, anche in presenza di una proto-organizzazione a livello embrionale (senza che la stessa si configuri come reato presupposto per la commissione di altri più gravi delitti) assicurerebbe la punibilità dei partecipanti alla rete d’intermediazione prima che questa possa costruire rapporti fiduciari solidi. Tale punibilità anticipata mirerebbe ad evitare che un contesto strutturato e ben “rodato” possa costituire una possibile base d’appoggio per condotte plausibilmente ben più perniciose. Al tempo stesso, si conseguirebbe anche un secondo obiettivo, e cioè la punizione per i partecipanti per il fatto di aver dato vita alla rete stessa, assicurandone contestualmente lo smantellamento sul nascere[8].
Va notato inoltre che la Corte di Cassazione, in relazione al numero delle operazioni effettuate e a quello dei clienti serviti, rileva che le condotte delittuose ascrivibili al combinato disposto degli artt. 114-sexies, 114-novies e 131-ter T.u.b. <<possono essere poste in essere dal soggetto attivo nei confronti di un unico cliente, in quanto ciò non esclude che l’attività di prestazione di servizi finanziari abbia carattere di pubblicità e professionalità>>[9]. Così si è espressa in tema la Suprema Corte qualche anno fa, specificando l’irrilevanza dal punto di vista della punibilità, del numero, più o meno cospicuo, di soggetti che si siano serviti dell’intermediazione illecita. Ma, d’altro canto (e con apparente contraddittorietà), la stessa Cassazione concludeva, nella medesima pronuncia, nel senso della esclusione <<dall’area penalmente sanzionata il compimento di singoli atti occasionali, richiedendo, invece, una serie coordinata di atti rientranti nelle tipologie previste, secondo un concetto di professionalità in senso ampio, ed indirizzati al pubblico, nel limitato senso di soggetti quantitativamente non predeterminati>>[10], (Cass. Pen., sez. V, 16/01/2015, n. 25160). Come a dire: una organizzazione strutturata a sufficienza potrebbe plausibilmente servire le esigenze anche di un solo cliente (costituendo ciò reato), ma una serie di atti occasionalmente posti in essere rischierebbero di sfuggire dall’alveo della punibilità allorché non dotati di sufficiente strutturazione ma, al tempo stesso, soddisfacenti i fabbisogni finanziari di più soggetti richiedenti[11].
In particolare, l’aggravante della transanzazionalità
Con attenzione, invece, alle modalità spaziali di funzionamento del fenomeno, è prassi che gli hawaladar si trovino ad operare in due contesti territoriali differenti. Ciò significa che, molto spesso, l’ordinante può trovarsi al di fuori del territorio dello Stato, ubicandosi invece gli altri soggetti (mediatore e beneficiario) su suolo italiano. Ai fini di colpire in modo più rigoroso alcune condotte (tra cui quelle in esame), caratterizzate da transnazionalità, il legislatore, con l’art. 4 della legge n. 146 del 2004, ha introdotto una specifica circostanza aggravante, che aumenta la pena prevista dall’art. 131-ter T.u.b. nella misura di un terzo fino alla metà.
È di tutto rilievo come la giurisprudenza di legittimità abbia inteso qualificare tale circostanza come avente natura oggettiva (Cass. Pen., sez. II, 15/10/2020, n. 5241). Di talché, questa risulta estensibile a tutti i concorrenti nel reato di hawala << sulla base degli ordinari criteri di valutazione previsti dall’art. 59, comma 2, c.p., ovvero se conosciuta, ignorata per colpa o ritenuta inesistente per errore determinato da colpa>>[12]. L’utilità di tale aggravante è di tutta evidenza. Con attenzione alla giurisprudenza di merito, il più delle volte, le condotte contestate e ricostruite in sede giudiziale denunciavano una notevole articolazione internazionale, coinvolgente soggetti residenti anche in più Stati esteri (Siria, Iraq, Sudan, Eritrea ecc.)[13]. La Corte d’Assise di Brescia[14] si è espressa di recente su un caso coinvolgente una pluralità di soggetti che avevano dato luogo ad una triangolazione, avente lo scopo di realizzare illeciti movimenti finanziari tramite hawala, operante tra Italia, Svezia e Siria. Nondimeno, non si può che escludere che il fenomeno interessi – sia pure in misura minore – soggetti ubicati tutti all’interno dello Stato italiano, ipotesi quest’ultima che renderebbe inapplicabile la circostanza aggravante di cui all’art. 4 della l. n. 146 del 2004.
Concorso o assorbimento con altri profili di reato
Il fatto che hawala possa essere impiegata al fine di commettere altri reati, ulteriori e di maggiore gravità rispetto a quello testé descritto, pone una questione interpretativa di non secondaria rilevanza. Allorché le condotte qualificabili come hawala vengano si inseriscano (come sovente accade) in contesti delittuosi caratterizzati da una molteplicità di prospettabili illeciti, si profila un’ipotesi di concorso di reati ovvero di assorbimento? La risposta è, certamente: dipende. Ma la questione non è meramente teorica, giacché la corretta qualificazione giuridica dei fatti attiene al rispetto del principio del ne bis in idem sostanziale. Ciò posto, conviene preliminarmente interrogarsi sulla natura di hawala, calata in contesti in cui si profilino le ipotesi di finanziamento del terrorismo e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il reato in se diviene, in tali casi, un reato-mezzo, realizzato al fine di perseguire altre finalità ulteriori, oltre alla illecita intermediazione.
In primo luogo, il possibile impiego di hawala ai fini del finanziamento di attività terroristiche[15] (di matrice islamista), rileverebbe nello specifico ai sensi dell’art. 270-quinquies.1 c.p., come osservato dalla giurisprudenza di merito, che evidenzia un’ipotesi di concorso di reati[16]. Si può però asserire d’altro canto che, al fine di evitare una duplicazione della qualificazione penale dei fatti, il reato di hawala potrebbe ritenersi assorbito (in ragione del suo carattere ancillare) nel più grave reato di cui all’art. 270-quinquies.1 c.p. L’unitarietà normativo – sociale dei fatti (necessaria ai fini dell’assorbimento e ricomprendente la condotta meno grave nell’alveo di quella più grave) non pare ricorrere, tuttavia, in questo caso, dovendosi considerare come fattore dirimente la diversità di bene giuridico tutelato dalla norme in esame. Se infatti le disposizioni richiamate fino ad ora in tema di illecita intermediazione hanno il fine di tutelare la sicurezza e la stabilità del sistema bancario e finanziario, la norma poc’anzi richiamata ha, invece, il fine precipuo di tutelare l’integrità dello Stato italiano da potenziali condotte terroristiche (il cui sostentamento economico la norma in esame mira a punire). Essendo quello di cui all’art. 270-quinquies.1 un reato a forma libera, può ben essere che l’approvvigionamento di risorse avvenga tramite circuiti hawala, senza che questo determini però un’ipotesi di assorbimento. Essendo, d’altro canto, evidente come tali reati possano presentare un elevato grado di interdipendenza funzionale, le condotte in questione possono essere ricondotte nell’ambito di un medesimo disegno criminoso ex art. 81 cpv c.p.[17]
Optando per questa ricostruzione, non si può non evidenziare un dato a proposito del <<compimento di condotte con finalità di terrorismo>> di cui all’art. 270-quinquies.1 c.p., peraltro riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità. In tema di concorso, infatti, la Cassazione ha osservato che, ai fini della punibilità ai sensi della summenzionata norma, l’hawaladar deve necessariamente essere a conoscenza dell’impiego (ovvero della destinazione ultima) delle somme movimentate[18]. Dacché, la sola circostanza che uno o più soggetti esterni alla rete criminale abbia inteso impiegare od abbia altrimenti impiegato somme mosse tramite hawala ai fini del finanziamento di condotte terroristiche, rileva nella misura in cui tale destinazione ultima fosse stata nota agli intermediari al tempo delle operazioni[19].
Secondariamente, va poi considerato il nesso – invero, rilevante – fra l’impiego del sistema hawala e il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel territorio dello Stato italiano, reato previsto e punito dall’art. 12, co. 1 del d.lgs. n. 286 del 1998 (T.u. Imm.), laddove la norma in questione punisce (anche) il <<finanziamento>> del fenomeno migratorio illegale[20]. E’ frequente, infatti, che le somme di denaro impiegate per il pagamento dei viaggi di attraversamento del Mediterraneo, nonché lo spostamento di altre somme tra membri delle organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani, basate in Italia e all’estero, avvenga tramite questa modalità di intermediazione illecita[21]. Va inoltre considerato che, tramite questo sistema di pagamento, è possibile la retribuzione di prestazioni illecite, come, ad esempio, la fornitura di documenti d’identità contraffatti o il pagamento di passeurs alle frontiere. Anche in questo caso, hawala finisce per essere un reato-mezzo e non solo un reato-fine.
Optando per la qualificazione in termini di concorso fra reati ex artt. 81 cpv, varrebbero considerazioni analoghe a quelle effettuate per il finanziamento di operazioni terroristiche. La diversità dei beni giuridici appare come fattore discretivo sufficiente ad escludere un’ipotesi di assorbimento della fattispecie di hawala nel più grave reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina[22]. Ciò posto, si potrebbe però escludere un’ipotesi di concorso nel reato di cui all’art. 12 T.u. Imm. in capo al mediatore che, partecipando all’illecita movimentazione, ignorasse lo scopo di quelle operazioni[23]. L’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998, dove punisce il <<finanziamento>> di associazioni terroristiche, dovrebbe infatti essere qualificato, ad avviso di chi scrive, alla stregua di dolo specifico, difettando così la colpevolezza ove ignota fosse stata la destinazione o l’impiego ultimo delle somme movimentate tramite hawala. Ciò non toglie, ovviamente, che, ove questa fosse stata nota, a nulla rileverebbe il conseguimento o meno dello scopo perseguito dall’agente[24].
Strategie di contrasto
Come evidenziato in apertura, l’impiego di hawala presenta come fattore caratteristico l’uso di una rete fiduciaria, basata sull’onore e sulla stabile ripetitività delle condotte d’illecita intermediazione. Tanto più le stesse vengono reiterate, tanto più sarà solido il patrimonio di affidabilità dei relativi intermediari. Questo può essere considerato un vantaggio ed uno svantaggio al tempo stesso. Se è vero che l’impiego di hawala ha il beneficio di operare in maniera (quasi) occulta, il rischio di infiltrazioni od intercettazioni è elevato. Con attenzione al primo profilo, l’impiego di agenti sotto copertura da parte della polizia giudiziaria può rivelarsi uno strumento utile nel contrasto delle reti di hawaladar. È tuttavia doveroso osservare che questa strategia rischierebbe di fruttare scarsi risultati alla luce dell’elevato grado di impermeabilità delle reti. A questo va altresì aggiunta la possibile reticenza a testimoniare (da parte di informatori plausibilmente stranieri e ben inseriti nelle comunità etniche di riferimento) sulle attività poste in essere dalla rete hawala. Ciò rileva in quanto l’art. 203 c.p.p. prevede l’inutilizzabilità in sede processuale delle dichiarazioni rese da informatori della polizia giudiziaria, qualora gli stessi non accettino di essere uditi come testimoni nel corso del dibattimento. Un simile grado di esposizione poterebbe infatti scoraggiare collaborazioni utili ad infiltrare le reti di intermediatori.
Il ricorso a mezzi particolarmente pervasivi può essere dunque utile ai fini della ricostruzione dei contatti. Su questo fronte, l’impiego del captatore informatico da parte delle autorità inquirenti può risultare determinante per la ricostruzione di un solido quadro probatorio in vista del rinvio a giudizio. Questo occorrerebbe allorché gli intermediari adoperassero applicazioni di messaggistica istantanea (WhatsApp, Telegram ecc.) per impartire ordini e pattuire i termini delle operazioni. L’impiego del malware, con installazione da remoto, consentirebbe così al P.M. e alla polizia giudiziaria di superare i protocolli di crittografia impiegati dalle app di messaggistica istantanea, accedendo a preziose risorse investigative. Va osservato però, sotto questo profilo, che, allorché le indagini vertessero solamente su reti hawala non inserite nella realizzazione di ulteriori attività delittuose, è necessario che sussistano altri e più gravi profili di reato concorrenti con quello di cui all’art. 131-ter T.u.b. per l’impiego di tale tecnologia. Infatti, la mera sussistenza di una rete hawala non finalizzata al finanziamento del terrorismo o non strutturata a guisa di associazione per delinquere, non giustifica l’impiego di una tecnologia tanto pervasiva, giacché i limiti edittali previsti dalla norma predetta sono inferiori rispetto al requisito di cui all’art. 266, co. 1, lett. (a. c.p.p.
Va però rilevato che, qualora si avesse motivo di sospettare la sussistenza di una rete hawala avente, ad esempio, lo scopo di finanziamento del terrorismo, l’art. 267, co. 2-bis, c.p.p. non solo autorizzerebbe l’impiego del captatore informatico, ma addirittura lo consentirebbe tramite presupposti applicativi più generosi di quelli previsti in linea generale dal co. 2 della norma predetta, rientrando tale tipologia di delitti nell’ambito dei procedimenti di cui all’art. 51, co. 3-quater c.p.p.[25].
Da ultimo, allorché si indaghi solamente su reti hawala non finalizzate a commettere i reati di particolare gravità già menzionati, la misura sanzionatoria massima prevista dall’art. 131-ter T.u.b. (e cioè la reclusione da sei mesi a quattro anni) non consentirebbe l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere per gli indagati del reato di hawala, ove sussistenti le necessarie esigenze cautelari, beninteso. In prospettiva di un auspicabile intervento normativo, ai fini di una migliore eradicazione delle reti di intermediazione illecita, la permanenza predetentiva degli indagati in una struttura carceraria potrebbe risultare utile ai fini dello smantellamento del sodalizio: tale risultato potrebbe essere raggiunto, però, soltanto tramite un intervento legislativo sulla forchetta edittale della norma predetta, con l’innalzamento della pena massima da quattro a cinque anni di reclusione (portando così il massimo in corrispondenza del requisito richiesto dall’art. 280, co. 2, c.p.p. in tema di custodia cautelare in carcere).
Informazioni
COCCIA G., Il finanziamento al sedicente Stato Islamico attraverso l’utilizzo dei servizi informali per il Trasferimento dei Valori. Il caso “Hawala” ed il motivo della sua potenziale maggiore diffusione a seguito della sconfitta militare subita sul territorio dal Califfato, in Rassegna dell’Avvocatura dello Stato, n. 3/2020.
QUATTROCCHI, A., La rilevanza penale del sistema di pagamento hawala nel reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (nota a Trib. Palermo, sent. n. 400/2018, (dep. 18 settembre 2018), in DPC, 2/2019.
Cassazione penale sez. V, 16/01/2015, n.25160.
Cassazione penale sez. II, 15/10/2020, n.5241.
Cassazione penale sez. V, 20/10/2020, n.36034.
Corte d’Assise di Brescia, 4/2019.
Corte d’Appello di Brescia, 26/11/2019.
[1] Cfr. C. App. di Brescia, 26/11/2019.
[2] Il movimentare somme di denaro può portare a nascondere i proventi illeciti e a favorire il riciclaggio di denaro. Per un approfondimento sulle modalità invito a leggere l’articolo di Lorenzo Venezia pubblicato su DirittoConsenso, reperibile a questo link: http://www.dirittoconsenso.it/2019/05/02/alcuni-metodi-di-riciclaggio-di-denaro/
[3] G. COCCIA, Il finanziamento al sedicente Stato Islamico attraverso l’utilizzo dei servizi informali per il Trasferimento dei Valori. Il caso “Hawala” ed il motivo della sua potenziale maggiore diffusione a seguito della sconfitta militare subita sul territorio dal Califfato, in Rassegna dell’Avvocatura dello Stato, n. 3/2020, cit. p. 15. A ben vedere, la movimentazione del denaro non è materiale, bensì solo virtuale. Come afferma Cass. Pen., sez I, 20/10/2020, n. 36034 <<in sostanza il denaro viene trasferito “virtualmente” o meglio viene trasferito solo il “valore” del denaro, senza “trasportare” la somma di denaro dal mittente al destinatario, da un paese all’altro>>.
[4] Sul punto, v. anche C. App. Milano, 28/05/2019, che ha ritenuto la sussistenza del reato di cui all’art. 131-ter T.u.b. realizzato da alcuni soggetti che avevano realizzato, in tempi diversi, tre operazioni hawala.
[5] Cass. Pen., sez. II, 15/10/2020, n. 5241.
[6] A. QUATTROCCHI, La rilevanza penale del sistema di pagamento hawala nel reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (nota a Trib. Palermo, sent. n. 400/2018, (dep. 18 settembre 2018), in DPC, 2/2019, cit., p. 30.
[7] Ibidem.
[8] Inoltre, proprio perché la giurisprudenza di legittimità qualifica il reato di cui all’art. 131-ter T.u.b. come di pericolo presunto, l’anticipazione punitiva qui proposta sarebbe comunque coerente con la qualificazione attribuita a questo delitto dalla Suprema Corte, riprendendo quanto considerato sul punto in Cass. Pen., sez. V, 16/01/2015, n. 25160.
[9] Cass. Pen., sez. V, 16/01/2015, n. 25160.
[10] Contra, (ed apprezzabilmente), C. App. Torino, 03/04/2014.
[11] L’apparente contrasto si potrebbe risolvere in senso “cronologico”, accordando preferenza all’arresto giurisprudenziale più recente: secondo Cass. Pen., sez. II, 15/10/2020, n. 5241, non dovendo necessariamente sussistere la continuatività degli atti, si dovrebbe propendere per la punibilità anche di operazioni compiute una tantum nell’ambito di una sufficiente strutturazione, rilevando così più la dimensione organizzativa piuttosto che il “volume” delle operazioni.
[12] Cass. Pen., sez. II, 15/10/2020, n. 5241.
[13] Come ricorda Cass. Pen., sez. I, 23/11/2017, n.57440, a proposito della sussistenza dell’aggravante de qua <<è specificamente necessario che la commissione del reato sia stata determinata, o anche solo agevolata, in tutto o in parte, da un gruppo criminale organizzato impegnato in attività illecite in più di uno Stato>>.
[14] Corte d’Assise di Brescia, 4/2019, K. e altri.
[15] Cfr. l’art. 270-sexies c.p. per la tipizzazione di “condotte con finalità di terrorismo”.
[16] C. Assise di Brescia, 4/2019.
[17] Inoltre, l’applicazione della continuazione di cui all’art. 81 cpv c.p. consentirebbe di irrogare una risposta sanzionatoria più severa di quella riconducibile ad un’ipotesi di mero assorbimento, applicando così la pena prevista per il più grave reato di cui all’art. 270-quinquies.1 c.p., aumentata ai sensi del predetto art. 81 c.p. (sia pure con i limiti di cui all’art. 81, ult. co.). Secondariamente, ai fini di una più profonda eradicazione della rete, l’art. 270-septies c.p. consentirebbe nello specifico la confisca delle somme movimentate.
[18] Cass. Pen., sez. I, 20/10/2020, n. 36034.
[19] L’elemento psicologico potrebbe essere ricostruito (anche) in termini di dolo eventuale laddove, anche nella ragionevole prevedibilità di un siffatto impiego, il mediatore avesse comunque agito, accettando così le possibili implicazioni del suo gesto, ancorché non ne avesse avuto contezza assoluta.
[20] Non va dimenticato che il reato in questione potrebbe configurarsi nella sua fattispecie aggravata, con attenzione al co. 3-bis, lett. B) dell’art. 12 T.u. Imm. Infatti, l’esercizio della illecita intermediazione comporta per gli intermediatori il guadagno di un (pur modesto) profitto in forma di percentuale sulla somma movimentata a titolo di commissione. Tale utilità, percepita o promessa, potrebbe aggravare il reato di favoreggiamento contestato in relazione al summenzionato co. 1.
[21] Cfr. Trib. Palermo, G.u.p., sent. n. 400/2018 (dep. 18/09/2018).
[22] Valgono le stesse considerazioni in tema di dosimetria sanzionatoria di cui alla nota 13. La pena prevista dall’art. 12 T.u. Imm. è la reclusione da uno a cinque anni e la multa di 15.000 euro per ogni persona fatta entrare in Italia.
[23] Vale però quanto detto alla nota 17.
[24] A tal proposito, <<il delitto di cui all’art. 12 d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286 […] ha natura di reato di pericolo o a consumazione anticipata ed è del tutto irrilevante il conseguimento dello scopo: il reato, cioè, si perfeziona per il solo fatto che l’agente pone in essere, con la sua condotta, una condizione, anche non necessaria, teleologicamente connessa al potenziale ingresso illegale dello straniero nel territorio dello Stato o di altro Stato, e indipendentemente dal verificarsi dell’evento>>. Così Cass. Pen., sez. I, 13/05/2016, n.9636.
[25] Giova ricordare che, in riferimento ai luoghi di cui all’art. 614 c.p., l’art. 266, co. 2, c.p.p. richiede che vi sia <<fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa>>.
Il quadro giuridico delle relazioni russo-europee
L’evoluzione storica e giuridica delle relazioni russo-europee
Dalla caduta dell’URSS alla prima Presidenza Putin: le basi per un dialogo
Alla fine del 1991, la caduta dell’Unione Sovietica lasciava un profondo vuoto di potere. La neonata Federazione Russa si trovava a fronteggiare problemi di natura interna ed esterna. Sorvolando sulla complessa situazione nazionale, giova porre l’attenzione sulla proiezione estera della Russia negli anni della Presidenza Eltsin. In particolare, l’azione politica russa aveva cercato di governare l’indipendenza delle ex Repubbliche sovietiche – ottenuta, in alcuni casi, in modo molto turbolento – tramite la creazione della CSI (Comunità degli Stati indipendenti). L’organizzazione in questione rispondeva principalmente alla necessità di gestire le conseguenze del collasso dell’URSS ma fu, in realtà, un’occasione mancata per la Russia di recuperare un vero e proprio ruolo egemone nelle relazioni con i nuovo Stati dello spazio post-sovietico[1]. In questo contesto complicato, in un divenire costante, la CE avvertì la necessità di costruire un dialogo con la Russia, che mediasse fra due fattori antitetici. Da una parte, la volontà di rispettare le dinamiche interne al nuovo Stato, cogliendo le opportunità derivanti dall’apertura del mercato russo. Dall’altra, però, pesava la situazione connessa al conflitto ceceno e alla condizione dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani. Se la Russia aveva cessato di essere la grande potenza della Guerra fredda, restava comunque un soggetto politico di primaria rilevanza, sia per la disponibilità di ingenti risorse energetiche sia per il suo potenziale militare, all’epoca in via di obsolescenza, ma pur sempre minaccioso. L’influenza, pur mitigata, che era ancora in grado di esercitare tramite la CSI la rendeva inoltre interlocutore privilegiato per le questioni attinenti alla gestione dello spazio post-sovietico. Due erano così per la Commissione europea le tematiche con cui approcciare la Russia all’epoca del primo conflitto ceceno: sicurezza e commercio. Alla luce di queste premesse, la CE e la Federazione Russa stipularono, nel 1994, un Accordo di partenariato e cooperazione (Partnership and Cooperation Agreement – Pca), entrato in vigore nel dicembre 1997. Il merito del trattato in questione è quello di essere il primo atto a stabilire un quadro generale di riferimento per lo sviluppo delle relazioni russo-europee.
Non bisogna dimenticare che nel 1995 la Finlandia divenne membro della Comunità europea: per la prima volta, la Russia si trovò a confinare con lo spazio europeo. Questa condizione poneva con estrema urgenza la necessità di porre le basi per lo sviluppo di relazioni normali, se non amichevoli. Non a caso, la durata del Pca venne ottimisticamente fissata in dieci anni, con clausola di rinnovo automatico. Se tuttavia il quadro poteva apparire prodromico allo sviluppo di buoni rapporti di partenariato, è da sottolineare come, fin dai primi anni della sua vigenza, le parti si trovarono spesso a parlare “due lingue diverse”. A ben vedere, uno degli obiettivi dell’accordo, era quello di <<consolidare la democrazia, lo Stato di diritto e l’integrazione della Russia nello spazio comune (europeo), sia sociale sia economico>>[2]. Se l’adesione di Mosca era dipesa (anche) dai possibili vantaggi che avrebbe potuto ricavare dalla cooperazione con la CE in termini economici, assai più problematico risultava il versante legato al rispetto degli standard europei in tema di democrazia e diritti umani. La politica estera europea, infatti, è basata sulla promozione di principi fondamentali che rappresentano un sostrato valoriale comune per gli Stati membri. Mosca, tuttavia, è tradizionalmente poco propensa ad accettare ingerenze di questo tipo, che interferiscano con le sue politiche interne[3].
Peraltro, il quadro delle relazioni russo-europee appena costruito subì due duri colpi nel 1999. Il primo di essi avvenne in marzo, e non riguardò direttamente la CE, bensì l’intervento NATO in Kosovo. In secondo luogo, il vertice di Madrid del luglio 1997 segnò la decisione di invitare Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca a far parte della NATO a partire dal 1999. Per quanto le ambizioni russe potessero risultare ridimensionate rispetto all’epoca sovietica, in ragione delle diminuite capacità economico – militari, è importante ricordare che difficilmente Mosca avrebbe accettato supinamente una simile ingerenza, in quelle stesse aree dove, fino ad un decennio prima, aveva esercitato la sua influenza. Con specifico riferimento al contesto militare, il repentino passaggio in pochi anni dal Patto di Varsavia alla NATO di alcuni Paesi dell’Europa orientale – chiaro segni di emancipazione e rottura con il passato – non poteva che tradursi in uno shock per la Russia.
Gli anni 2000 e il progressivo distanziamento
Nel 1999, Vladimir Putin divenne Presidente della Federazione Russa, con l’ambizione di restituire al Paese il suo protagonismo sullo scenario internazionale. In tale contesto, nonostante le tensioni pregresse, le relazioni russo-europee vennero messe alla prova, ma non troncate. L’amministrazione Putin cercò, infatti, di dare nuovo slancio al dialogo con la CE sulla base del quadro istituzionale delineato dal Pca. Ma anche qui, la diversità di vedute riemerse con prepotenza. In occasione del vertice di San Pietroburgo del 2003 vennero creati quattro spazi di cooperazione comune (economico; sicurezza, giustizia e libertà; sicurezza esterna; educazione e ricerca). Il problema di fondo continuava, però, ad essere lo stesso emerso solo alcuni anni prima, sia pure osservato sotto due punti di vista diversi. Per la CE, Mosca non si impegnava (e non lo avrebbe fatto nel futuro) ad adeguare progressivamente il suo ordinamento giuridico ad alcuni degli standard europei in tema di diritti fondamentali, e, soprattutto, avrebbe procrastinato (se non evitato del tutto) l’adozione di uno strumento giuridico più dettagliato, volto a regolare al millimetro tutti i settori di collaborazione. Per la Russia, d’altro canto, una cooperazione prevalentemente economica non avrebbe avuto motivo di essere “disturbata” da fastidiose ingerenze europee in tema di rule of law e tutela dei diritti fondamentali, preferendo la permanenza di un accordo-quadro generico da arricchire, di volta in volta, con specifici atti esecutivi, dedicati a singoli profili di cooperazione[4]. Quest’ultima scelta era in effetti quella più conveniente per il Cremlino: così facendo, avrebbe evitato di legare settori vantaggiosi (come, ad esempio, quello dell’energia) alle sorti di ambiti in cui Mosca preferiva (e preferisce) “fare da sé”, come, appunto, il tema dei diritti umani[5].
Va poi considerato che nel 2004 la CE ampliò i suoi confini. In quell’anno aderirono alla UE le Repubbliche baltiche, la Polonia, l’Ungheria, la Repubblica Ceca e quella Slovacca. Tutti questi Paesi erano stati sotto controllo diretto od indiretto dell’URSS fino a non molto tempo prima e il loro nuovo posizionamento nello spazio europeo non poté che essere visto negativamente da Mosca. Il Pca, tra l’altro, arrivò a scadenza nel 2007 (ma rimaneva in vigore in relazione alla clausola di rinnovo tacito). Quell’anno entravano, peraltro, a far parte dell’Unione anche Romania e Bulgaria, nonostante i relativi processi di piena democratizzazione risultassero ancora in fieri.
A questo si aggiunga la decisiva frattura legata alla crisi georgiana del 2008. Il riconoscimento accordato dalla Federazione Russa alle Repubbliche secessioniste di Abcasia e Ossezia del Sud e l’intervento militare a fianco degli osseti nell’agosto del 2008 contro la Georgia segnò un punto di non ritorno per le relazioni russo-europee. In quel periodo la presidenza georgiana, guidata da Mikhail Saakashvili, guardava apertamente a Bruxelles, stante la sua volontà di avvicinare progressivamente la Georgia alla UE.
In effetti, il tema degli equilibri di potere nelle zone tradizionalmente soggette all’influenza russa è uno dei principali nodi che impedivano (e impediscono tuttora) un consolidamento delle relazioni russo-europee. Va detto, però, che sul punto, l’atteggiamento dell’UE non è stato particolarmente lungimirante. Se infatti la leadership europea aveva pensato un canale di dialogo esclusivo con la Russia (tramite il Pca), pareva al tempo stesso non avere compreso che quest’ultima intendeva continuare a ricoprire un ruolo più che significativo nelle dinamiche interne di molte ex Repubbliche sovietiche. Nel 2009, in occasione del vertice di Praga, la proposta polacca, svedese e delle Repubbliche baltiche, di creare uno spazio di collaborazione fra UE e Armenia, Georgia, Ucraina e Bielorussia (noto come Partenariato orientale[6]) segnò un passo falso nelle già precarie relazioni russo-europee. In particolare, la posizione polacca interpretava tale organizzazione come prodromica all’avvio di un percorso di progressiva integrazione all’interno dell’UE delle ex Repubbliche sovietiche coinvolte[7]. Il che avrebbe significato per il Cremlino una chiara estromissione. E comunque la si interpretasse, non poteva sfuggire a nessuno, appunto, che la creazione di un doppio canale di dialogo avesse lo scopo di tagliare fuori Mosca da aree che essa avvertiva (e ancora oggi, in buona misura, avverte) come zone di propria influenza[8].
La guerra nel Donbass e le sanzioni economiche
Tuttavia, l’incidente più significativo occorse in occasione degli eventi in Crimea del febbraio-marzo del 2014. Dopo il referendum tenutosi il 16 marzo 2014, la Duma di Stato approvò ufficialmente il passaggio della Repubblica autonoma di Crimea alla Federazione Russa[9]. Conviene osservare che dopo il congelamento delle discussioni sul rinnovo del Pca nel 2007, l’UE ha ufficialmente deciso come reazione di sospendere qualsiasi dialogo in merito all’accordo, congelando di fatto la primaria base giuridica su cui si basavano le relazioni russo-europee.
L’Ucraina si trova in una posizione spinosa. Da una parte, storicamente legata alla Russia per eredità storica e vincoli politico – economici. Dall’altra, una parte del Paese guarda all’UE come strumento di progresso e di affrancamento dall’influenza russa. Non a caso gli eventi di Piazza Maydan, a Kiev, nel dicembre 2013 occorsero proprio in occasione di una serie di scelte politiche poste sul tavolo dell’allora Presidente Janukovič, qui (doverosamente) semplificabili con l’aut aut “o la Russia, o l’Europa”. Sarebbe eccessivamente complesso ricostruire il quadro delle relazioni bilaterali fra l’Ucraina e la Russia e quelle europee – ucraine. Basti qui considerare che la composizione etnica del Paese, con ampie zone ad est a maggioranza russofona, contribuisce a creare una vera e propria spaccatura etno-linguistica, oltre che politica.
Va detto però che la posizione della UE, unitamente a quella della comunità internazionale, ritiene l’annessione della Crimea “illegale”, disconoscendo la legittimità dell’incorporamento entro i confini russi e continuando a considerare l’area ancora facente parte dello Stato ucraino secondo il diritto internazionale[10]. Come conseguenza degli eventi crimeani, venne varato da parte del Consiglio dell’UE e dal Parlamento europeo il primo pacchetto di sanzioni economiche contro la Federazione Russa e contro la Repubblica autonoma di Crimea, periodicamente rinnovato[11]. In risposta alla crisi ucraina, sono state altresì intraprese altre misure diplomatiche, come la sospensione dei prestiti BEI e BERS alla Russia e la sua estromissione dal G8 (oggi G7, appunto).
I fattori attualmente ostativi al ripristino di uno spazio giuridico di cooperazione
Due possono quindi essere considerati i fattori che ostacolano la costruzione di un solido dialogo UE – Russia. La differenza di vedute in tema di diritti fondamentali e rule of law è sicuramente un grande fattore ostativo, ma non è l’unico. Ciò che ostruisce lo sviluppo di relazioni amichevoli sono i “nodi irrisolti” ascrivibili ai rapporti bilaterali fra molti Stati membri dell’UE di “recente” ingresso e la Russia.
A ben vedere, infatti, negli scorsi decenni il dialogo era proseguito semplicemente aggirando il primo ostacolo e concentrandosi sui vantaggi di natura economica della cooperazione. Chiaramente, a fonte di talune vicende recenti (come, ad esempio, il caso Navalny) la posizione dell’UE non avrebbe potuto che essere di forte condanna. Le sanzioni con cui il legislatore europeo ha colpito alcune persone fisiche e relativi patrimoni, coinvolte nel processo e nella detenzione del blogger sono un potente segnale di riaffermazione della posizione europea in materia di diritti fondamentali[12]. A ciò si aggiunga che la guerra di sanzioni in corso ormai dal 2014 mina dal profondo la percorribilità di un sentiero di collaborazione sereno, quantomeno nell’immediato. Va detto inoltre, che la situazione in Crimea (e, a fortiori, della Crimea) non può che permanere come fattore ostativo. L’UE infatti continua a ritenerla suolo ucraino, mentre per la Russia, ormai da sette anni, quello crimeano è territorio soggetto alla sovranità di Mosca. Ancora, la posizione dell’Ucraina, in bilico fra Europa e Russia, non può che essere un (altro) pomo della discordia, anche alla luce delle recenti tensioni militari (marzo-aprile 2021).
Da ultimo, ciò che preclude lo sviluppo di positive relazioni russo-europee riguarda, nello specifico, i cattivi rapporti bilaterali fra la Russia e alcuni Paesi membri della UE. Peculiare risulta in primis la posizione (controversa) della Germania. Pur essendo il Paese UE maggiormente impegnato nella promozione delle sanzioni economiche contro Mosca e Sebastopoli, il governo di Berlino trarrebbe molti benefici dalla (prossima) conclusione del gasdotto Nord Stream 2, che collegherebbe Vyborg con la Germania, quale canale di approvvigionamento del gas russo, nonostante le pressioni internazionali per arrestare il completamento dell’opera.
In secondo luogo, la presenza di Stati ostili a Mosca in seno alla UE preclude la costruzione di un dialogo veramente positivo, fintanto che permarranno tensioni nelle rispettive relazioni bilaterali. A titolo esemplificativo, basti qui solo ricordare che alla scadenza del Pca nel 2007 la Polonia si oppose al suo rinnovo[13]. Inoltre, va considerata anche la posizione delle Repubbliche baltiche. In varia misura, la composizione etnica risente del passato sovietico, e ciò si comprende alla luce della percentuale di russi[14] che vivono entro i confini di tali Stati sul totale della popolazione residente al 2020 (24,8% in Estonia, 25,2% in Lettonia, 6% in Lituania). Dal momento che tali minoranze affrontano un trattamento palesemente discriminatorio posto in essere dalle amministrazioni dei Paesi di residenza, tale atteggiamento non può non costituire un ostacolo alla costruzione di solide relazioni Russia – UE, specie alla luce del fatto che non sempre le istituzioni europee hanno avuto cura di richiamare le Repubbliche baltiche al rispetto dei diritti fondamentali delle minoranze russe residenti entro i loro confini[15].
In chiusura, una postilla. Se la situazione dei rapporti russo-europei appariva oramai deteriorata per gli effetti del lungo protrarsi del conflitto nel Donbass e della mancata attuazione completa degli Accordi di Minsk del 2015, la situazione politica conseguente alle elezioni presidenziali in Bielorussia del novembre 2020 e la gestione delle conseguenti proteste ha aggiunto ulteriore distanza fra Mosca e Bruxelles. Ciò è dovuto da una parte al legame a doppio filo intercorrente fra Minsk e la Russia[16] e dall’altra alla risposta europea ai risultati elettorali in base ai quali il Presidente Lukashenko è stato riconfermato alla guida del Paese. Secondo l’UE, il procedimento elettorale è stato caratterizzato da brogli e questo ha portato all’adozione di ulteriori sanzioni, specialmente a carico di alti funzionari della Milizia (polizia) e della Commissione elettorale centrale di Minsk[17]. Insomma, ogni sanzione pare generare una risposta eguale e contraria e costituire, al tempo stesso, un colpo d’ascia contro un tronco ormai privato (per ora) di solide radici.
Informazioni
MARCHAND, P., La Russia in 100 mappe, LEG edizioni, Gorizia, 2016.
Servizio Studi del Senato della Repubblica italiana, XVI Legislatura, (a cura di) ALCARO R. – BRIANI V., Le Relazioni della Russia con la NATO e l’Unione Europea, n. 103, novembre 2008.
AA. VV., Servizio Affari Internazionali del Senato della Repubblica Italiana, L’Assemblea Parlamentare della NATO, n. 6, febbraio 2006.
[1] Basti qui ricordare che l’auspicio di una integrazione diretta, che abbracciasse tanto profili politici quanto economici, era e rimase a lungo una prospettiva solamente russa, condivisa da pochi Stati, come Armenia e Tagikistan. Molti membri intesero l’organizzazione in termini di cooperazione meramente economica, gelosi della indipendenza da poco conseguita. Va poi aggiunto che in molte occasioni i governi degli Stati aderenti non si ritennero vincolati da accordi o trattati adottati in senso alla CSI e che vi sono stati casi in cui i Parlamenti nazionali evitarono di ratificare trattati. Sul punto, cfr. P. MARCHAND, La Russia in 100 mappe, LEG edizioni, Gorizia, 2016, p. 126-127.
[2] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex%3A21997A1128%2801%29
[3] Servizio Studi del Senato della Repubblica italiana, XVI Legislatura, Le Relazioni della Russia con la NATO e l’Unione Europea, (a cura di) R. ALCARO – V. BRIANI, n. 103, novembre 2008, cit., p. 11.
[4] Le Relazioni, cit., p. 11.
[5] Ibidem.
[6] Sull’azione esterna dell’Unione Europea si rimanda ad un altro articolo pubblicato su DirittoConsenso: http://www.dirittoconsenso.it/2020/06/23/politiche-di-vicinato-unione-europea/ .
[7] In pratica, una sorta di pre-adesione alla Ue. Ivi, cit., p. 10. Cfr., anche, P. MARCHAND, La Russia, cit., p. 115.
[8] Ibidem.
[9] Con il Trattato di adesione della Crimea alla Russia (Договор между Российской Федерацией и Республикой Крым о принятии в состав Российской Федерации Республики Крым) firmato nel Cremlino di Mosca il 18 marzo 2014 e ratificato dalla Duma di Stato il 20 marzo con un solo voto a sfavore.
[10] https://www.corriere.it/esteri/14_marzo_06/ucraina-diplomazia-lavoro-consiglio-ue-vertice-onu-8d432028-a511-11e3-8a4e-10b18d687a95.shtml
[11] Per una cronistoria delle sanzioni economiche, dalla loro adozione ad oggi, v. https://www.consilium.europa.eu/it/policies/sanctions/ukraine-crisis/history-ukraine-crisis/
[12] Regolamento di esecuzione (UE) 2021/371 del Consiglio del 2 marzo 2021 che attua il regolamento (EU) 2020/1998 relativo a misure restrittive contro gravi violazioni e abusi dei diritti umani; Decisione (PESC) 2021/372 del Consiglio del 2 marzo 2021 che modifica la decisione (PESC) 2020/1999 relativa a misure restrittive contro gravi violazioni e abusi dei diritti umani.
[13] Insieme alle Repubbliche baltiche e alla Svezia.
[14] Il dato tiene conto tanto dei titolari di cittadinanza russa quanto degli apolidi russofoni.
[15] Per un inquadramento dell’argomento, si rimanda a C. GIRONI, Essere russi nei Baltici: l’odissea di una minoranza “aliena”, in www.osservatoriorussia.it, 1 dicembre 2020.
[16] Un esempio di ciò è l’unione fra i due Stati (Союзное государство), siglata nel 1996 che dovrebbe essere prodromica ad una integrazione sempre più significativa tra le due realtà statali.
[17] Regolamento di esecuzione (UE) 2020/2129 del Consiglio del 17 dicembre 2020 che attua l’articolo 8 bis, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 765/2006 relativo a misure restrittive nei confronti della Bielorussia; Decisione di esecuzione (PESC) 2020/2130 del Consiglio del 17 dicembre 2020 che attua la decisione 2012/642/PESC relativa a misure restrittive nei confronti della Bielorussia.
I "controlimiti" secondo la Corte Costituzionale Russa
Il difficile bilanciamento tra inviolabilità dei principi costituzionali e adempimento degli obblighi assunti in sede internazionale secondo la Corte costituzionale russa in un recente caso
Corti contro Corti: quando la Costituzione viene prima
L’intangibilità dei principi costituzionali è certamente esigenza fondamentale ma lo è anche assicurare la proficua interazione fra l’ordinamento nazionale e quelli sovranazionali a cui lo Stato ha scelto di aderire. È possibile infatti che da tale appartenenza possano scaturire degli obblighi per lo Stato che, se ottemperati, potrebbero tradursi in una lesione di principi supremi su cui si regge l’architettura costituzionale. È cosa nota. In tempi recenti la Corte costituzionale italiana, con le sentt. nn. 238/2014 e 115/2018 ha invocato, rispettivamente, i principi supremi della inviolabilità del diritto di difesa (24 Cost.) e della legalità penale (25 Cost.) quali “scudi” per bloccare, rispettivamente, l’esecuzione di una sentenza della CIG, pronunciata nel 2012, e una lettura costituzionalmente incompatibile dell’art. 325 TFUE[1].
Nell’ordinamento italiano non esiste, però, una norma che, a chiare lettere, positivizzi questo “divieto di transito” per sentenze pronunciate da organi giurisdizionali sovranazionali quando il loro contenuto contrasti con i principi costituzionali. A monte, lo stesso concetto di “principio supremo” non è positivizzato: la Consulta lo ha infatti ricostruito in via pretoria, tratteggiandolo a partire dalla (storica) sent. n. 1146/1988[2].
Vale un discorso in parte differente per la Corte costituzionale Russa. Il 14 dicembre 2015 è stato modificato l’art. 104 della legge costituzionale (ФКЗ – 1/21-07-1994) sulla Corte costituzionale, finalizzata ad autorizzare il Giudice delle leggi (su proposta, in questo caso, del Ministro della Giustizia) a dichiarare “l’impossibile esecuzione” di una sentenza (o comunque di un provvedimento giurisdizionale) reso da un organo sovranazionale deputato alla tutela dei diritti fondamentali qualora il contenuto di tale decisione si sostanzi in una interpretazione di norme internazionali, formulata dall’organo giudicante, contrastante con la Costituzione della Federazione Russa. La norma in questione non riguarda solamente le sentenze della Corte di Strasburgo, ma può potenzialmente bloccare il passo a qualsiasi decisione resa da un organo internazionale, incluse quelle, per esempio, del Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite.
C’è da preoccuparsi? In realtà non molto, a prestar fede alle dichiarazioni del delegato russo rese al Comitato di Venezia[3]. Se, in effetti, una sentenza è contraria alla Costituzione, il fine della norma è quello di riservare alla Corte costituzionale, che ha il monopolio dell’interpretazione della Carta fondamentale, il compito di ravvisare l’incompatibilità. Tralasciando il profilo di responsabilità dello Stato russo, a fronte dell’inadempienza dell’obbligo di eseguire una sentenza internazionale, giova rilevare che, per altro verso, se l’accertato contrasto è risolvibile soltanto tramite un emendamento costituzionale, la Corte non può ovviamente provvedere a comporre l’incompatibilità, ma può soltanto dichiararla. In qualsiasi ordinamento la revisione costituzionale è, a ben vedere, una strada non semplice, che richiede maggioranze elevate e, a monte, l’effettiva volontà delle forze politiche (non solo di maggioranza) di adeguare l’ordinamento nazionale per renderlo compatibile con le statuizioni adottate in sede internazionale. Il rischio è che le considerazioni testé effettuate possano tradursi in un alibi per rinviare sine die il problema. Ciò nonostante, in altri Paesi è talora accaduto che il legislatore abbia messo mano alle Carte costituzionali per renderle rispettose di norme internazionali come interpretate dagli organi giurisdizionali a ciò deputati[4].
La sentenza del 19 aprile 2016 (12-П/2016) segna la prima applicazione della nuova norma e riguarda l’esecuzione di una decisione della Corte di Strasburgo. Comprendere meglio i termini della questione originaria aiuterà, però, a cogliere gli sviluppi conseguenti.
Il caso Anchugov e Gladkov v. Russia
L’art. 32, par. 3, della Costituzione russa del 1993 preclude l’esercizio del diritto di voto per tutti coloro che si trovino in stato di privazione della libertà per effetto di una sentenza pronunciata da una corte. Si tratta di una scelta effettuata dai costituenti che esclude così tutti i detenuti dal diritto di esprimere la propria volontà politica. Come noto, la Russia ha aderito alla Cedu nel 1998. L’art. 3 del I Protocollo addizionale impegna gli Stati aderenti a rendere effettivo il diritto di voto per i loro cittadini, tramite l’organizzazione periodica di libere elezioni a scrutinio segreto.
Nel caso Anchugov e Gladkov v. Russia del 2013 la Corte Edu ha ritenuto che la formulazione della norma costituzionale testé richiamata fosse contrastante con l’art. 3 del Protocollo, configurando così una violazione del diritto internazionale per la quale la Russia è stata condannata. Le indicazioni dei giudici di Strasburgo sono quelle di dare adeguata effettività al principio di proporzionalità in relazione a tale restrizione, limitando la portata del divieto soltanto per i condannati per reati gravi, consentendo, per converso, l’esercizio del diritto di voto per i detenuti ristretti per reati meno gravi. La sentenza della Corte costituzionale Russa è però chiara nello statuire che la previsione della sua Carta fondamentale impedisce di dar seguito ai contenuti della sentenza europea[5].
Il giudice delle leggi ammette che il legislatore potrà intervenire in futuro, magari identificando categorie di detenuti condannati per reati di non particolare gravità per i quali la privazione potrebbe venir meno. Ma questo non potrebbe che avvenire attraverso una revisione del testo costituzionale che temperasse il rigore del principio espresso dall’art. 32, par. 3, Cost. russa.
Ciò nonostante, il legislatore russo ha in qualche modo dato seguito alle rimostranze contenute nella sentenza del 2013. Infatti, poco meno di un anno fa, nel giugno 2019, il Codice penale è stato modificato attraverso l’introduzione di una nuova pena extracarceraria, i “lavori collettivi”[6] che si applicherebbe ai condannati per reati di particolare tenuità o di non eccessiva gravità ovvero nei casi di delitti gravi commessi da soggetto incensurato. Sottoposto a tale misura il condannato può così esercitare il suo diritto di voto.
Secondo il legislatore russo, le modifiche legislative apportate sarebbero sufficienti per dare esecuzione al giudicato europeo. Ad avviso di chi scrive, ciò è in buona misura corretto: il testo della Costituzione russa si riferisce testualmente a <<местах лишения свободы>> (luoghi di privazione della libertà personale) tra i quali possono rientrare le carceri, ma anche luoghi esecutivi di altre pene che, in ogni caso, sono comunque “privazioni della libertà personale” a prescindere dalla struttura dove si svolge la fase esecutiva della sanzione principale. Se è vero che la condanna dei giudici di Strasburgo era dipesa dalla esclusione totale dei soggetti ristretti dall’esercizio dei diritti politici, allora l’auspicio della Corte Edu sarebbe stato ascoltato e la portata assoluta del bando costituzionale sarebbe stata pro parte attenuata. Sicché l’incompatibilità tra la Cedu e l’ordinamento russo sarebbe stata in parte ricomposta tramite l’azione del legislatore ordinario. Viene però da interrogarsi sulla compatibilità di una deroga apportata in via legislativa a fronte di una norma costituzionale immodificata: forse agire sulla Carta fondamentale avrebbe “cementificato” meglio il risultato?
È stato osservato[7], però, che la sentenza si sarebbe dovuta intendere nel senso che viola l’art. 3, I Prot. addiz., la privazione, indifferenziata in base al tipo di reato, del diritto di voto per i condannati alla pena della reclusione, rispetto ai quali la privazione continua in toto ad operare. Il fatto cioè che a coloro a cui è garantita la pena extramuraria possano esercitare i propri diritti politici non soddisferebbe per nulla le richieste della Corte Edu. A fronte di ciò, inoltre, è stato segnalato che la scelta dei “lavori collettivi” è discrezionalmente rimessa al giudice e che tale pena verrebbe concessa di rado[8]. Data la sua recente introduzione, parrebbe però affrettato azzardare pronostici di natura statistica sulla sua incidenza.
La posizione della Corte costituzionale russa
A prescindere dalla querelle rispetto al seguito del giudicato europeo, giova soffermarsi sulle motivazioni che la Corte costituzionale Russa ha addotto per invocare il (nuovo) art. 104 della legge sulla Corte costituzionale, introdotto nel 2015[9]. Come osservato in apertura, la disposizione consente di “bloccare” gli effetti (interni) della sentenza internazionale in quanto incompatibili con la Costituzione. Ciò ha però come conseguenza la responsabilità dello Stato inadempiente, che rifiuta di dare esecuzione al giudicato. La Corte nel caso di specie ha ritenuto che il merito della decisione violasse la natura intangibile dell’art. 32, par. 3, della Costituzione. Sicché, sulla base del combinato disposto fra gli artt. 15, parr. 1 e 4 della Costituzione e 104 della legge sulla Corte costituzionale, ha statuito che l’interpretazione data dalla Corte Edu all’art. 3 del I Protocollo addizionale, in quanto contraria alla Carta fondamentale del Paese, non potesse ricevere alcuna implementazione, poiché avrebbe determinato l’ingresso nell’ordinamento russo di effetti testualmente contrari al precetto costituzionale violato. Servendosi così della norma richiamata, azionata dal Ministro della Giustizia per sollecitare la pronuncia in esame, è stata bloccata l’efficacia interna della sentenza Anchugov e Gladkov v. Russia.
È interessante notare come nella (di poco precedente) sentenza 14-П/2015 la Corte costituzionale Russa avesse “bloccato” un’altra sentenza della Corte Edu. Dato che all’epoca non esisteva ancora la norma impiegata nel caso Anchugov, il giudice di San Pietroburgo ha ritenuto di fondare su tre argomentazioni la propria chiusura rispetto alla decisione della Corte di Strasburgo.
- In primo luogo, invocando gli artt. 26 e 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969. In forza del primo, uno Stato non sarebbe tenuto ad adeguarsi alle previsioni di una sentenza europea laddove l’interpretazione di una o più norme sia <<contraria all’ordinario senso dei termini impiegati nella Convenzione e al loro significato alla luce dell’oggetto e dello scopo delle norme medesime>>[10].
- Inoltre, le decisioni della Corte Edu non potrebbero trovare esecuzione laddove contrastassero con principi che, secondo la Corte costituzionale Russa, sarebbero ius cogens, come quello del rispetto della parità fra Stati e quello di non interferenza negli affari interni.
- Da ultimo, l’argomentazione forse più decisiva riguarderebbe l’art. 46, par. 1, per la quale il consenso prestato dalla Federazione Russa aderendo alla Cedu non la renderebbe vincolata allorché gli effetti di quel consenso comportassero la lesione di una <<norma di fondamentale importanza del [proprio] diritto interno>>.
È stato osservato[11] però che, contrariamente a quanto asserito, l’art. 27 della Convenzione di Vienna impedirebbe alla Federazione Russa di invocare una sentenza della Corte costituzionale per sottrarsi alla esecuzione di una sentenza del giudice europeo o di altro provvedimento internazionale[12].
Ciò posto, non stupisce che a seguito di tali argomentazioni il legislatore russo abbia scelto di “positivizzare” questi controlimiti attraverso il potere della Corte costituzionale di dichiarare l’inefficacia interna di una sentenza della Corte Edu (o di un altro organo giurisdizionale per la tutela dei diritti fondamentali).
La reazione del Consiglio d’Europa e qualche considerazione finale
La reazione del Consiglio d’Europa, prevedibilmente, non poteva che essere allarmata. Nell’apposito rapporto del giugno del 2016[13] esprime preoccupazione per gli effetti a lungo termine della scelta normativa compiuta dal legislatore russo nel 2015, che, però, pare non essere nulla di così innovativo, quanto piuttosto la positivizzazione di qualcosa già praticato.
Dalla adesione della Russia nel 1998 alla Cedu, la Corte di Strasburgo è intervenuta più volte riscontrando incompatibilità nell’ordinamento russo e provvedendo in più occasioni a tutelare i diritti dei suoi cittadini. E’ stato osservato[14], però, è che la norma in questione potrebbe potenzialmente essere impiegata per impedire l’adeguamento della legislazione russa al decisum del giudice europeo, privando le relative sentenze di portata obbligatoria e demandando al legislatore la scelta circa il quando e il quomodo della armonizzazione, ma soprattutto, in definitiva, quella sul “se” conformarsi o meno.
Allo stato attuale, tuttavia, il seguito dato all’auspicio della Corte costituzionale Russa nella sentenza 12-П/2016 ha mostrato comunque la volontà del legislatore russo di porre, per quanto possibile, un primo rimedio rispetto alle criticità segnalate dalla Corte Edu: nel 2012, rilevavano i giudici di Strasburgo, nessuno dei circa 734.000 detenuti russi poteva infatti esercitare il proprio diritto di voto[15]. Al 2019, con l’implementazione della pena extramuraria, un certo numero di condannati potrà esercitare i propri diritti politici. Forse non saranno moltissimi, ma un certo numero potrà farlo.
È un inizio, ed il legislatore ha comunque mostrato di non desiderare una chiusura totale, ma un adeguamento alle sue condizioni. Per quanto questo diritto internazionale “à la carte”[16] possa apparire strano, non bisogna dimenticare che, bene o male, molti altri Stati europei hanno talvolta ritenuto opportuno invocare l’integrità dei propri ordinamenti costituzionali per “bloccare” l’accesso agli effetti derivanti da provvedimenti giurisdizionali pronunciati da Corti sovranazionali, Italia in primis. La supremazia della Costituzione (e dei suoi principi supremi) è irrinunciabile; la tutela dei diritti fondamentali, anche. Quale via sceglierà per il futuro la Russia?
Informazioni
M. AKSENOVA, Anchugov and Gladkov is not Enforceable: the Russian Constitutional Court Opines in its First ECtHR Implementation Case, in , 25 aprile 2016.
G. BOGUSH – A. PADSKOCIMAITE, Case closed, but what aboute the execution of the judgement? The closure of Anchugov and Gladkov v. Russia, in European Journal of Internationl Law, 30 ottobre 2019.
N. CHAEVA, The Russian Constitutional Court and its Actual Control over the ECtHR Judgement in Anchugov and Gladkov, in European Journal of Internationl Law, 26 aprile 2016.
P. PUSTORINO, Russian Constitutional Court and the execution ‘à la carte’ of ECtHR judgments, in QIL, Zoom-in 32 (2016), 5-18
Il testo della sentenza del 19 aprile 2016 può essere letto (in inglese) a questo link: 2016_April_19_12-P.pdf (ksrf.ru)
Costituzione della Federazione Russa (testo in italiano): www.art3.it/Costituzioni/cost RUSSA.pdf
Legge sulla Corte costituzionale russa (Federalnij Konstitutionalnij Zakon o Konstituzionnije Sude Rossiskoi Fedratsii) testo in inglese reperibile a questo link: http://www.ksrf.ru/en/Info/LegalBases/FCL/Documents/Law.pdf
A. ACCORDATI, La libera manifestazione del pensiero in Russia e la storia, in DirittoConsenso, 2 marzo 2021. Link: http://www.dirittoconsenso.it/2021/03/02/libera-manifestazione-del-pensiero-in-russia-storia/
G. CASAVECCHIA, L’ergastolo ostativo nella giurisprudenza CEDU, in DirittoConsenso, 28 febbraio 2020. Link: http://www.dirittoconsenso.it/2020/02/28/ergastolo-ostativo-cedu/
R. GIORLI, Il nullum crimen europeo, in DirittoConsenso, 17 febbraio 2021. Link: http://www.dirittoconsenso.it/2021/02/17/il-nullum-crimen-europeo/
[1] I riferimenti riguardano, rispettivamente, l’esecuzione della sentenza della CIG pronunciata nel caso Italia v. Germania nel 2012 e alla (complessa) vicenda nota come “saga Taricco”, originata dal rinvio pregiudiziale avente ad oggetto la compatibilità con l’art. 325 del TFUE della normativa italiana in materia di prescrizione.
[2] Nella sentenza in questione, la Corte costituzionale ha statuito che: <<la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali>>.
[3] RUUSSIAN FEDERATION FINAL OPINION ON THE AMENDMENTS TO THE FEDERAL CONSTITUTIONAL LAW ON THE CONSTITUTIONAL COURT (Adopted by the Venice Commission at its 107th Plenary Session, Venice, 10-11 June 2016), cit., p. 7 ss. www.venice.coe.int/webforms/documents/default.aspx?pdffile=CDL-AD(2016)
[4] Ivi, cit., p. 5.
[5] Sent. n. 12-П/2016, par. 4.1, (traduzione non ufficiale in inglese) a proposito delle richieste della Corte Edu di differenziare il trattamento in relazione alla gravità del reato. Una soluzione di questo tipo: <<do not accord with the indicated constitutional imperative, unconditionally extending to all convicted persons serving penalty in places of deprivation of liberty under a court sentence>>.
[6] In inglese, nella versione originale del contributo, la denominazione è “community works” che si sostanziano in << (the) placement in correctional centres for community work and may be imposed for committing a small or medium gravity offence or in case of a grave offence is committed for the first time>>, G. BOGUSH – A. PADSKOCIMAITE, Case closed, but what aboute the execution of the judgement? The closure of Anchugov and Gladkov v. Russia, in European Journal of Internationl Law, 30 ottobre 2019, cit., p. 3.
[7] Ivi, cit., p. 4.
[8] Ibidem.
[9] Il testo della norma può essere letto, in inglese, a questo link: www.venice.coe.int/webforms/documents/default.aspx?pdffile=CDL-REF(2016)006-e
[10] R. LUZZATTO – F. POCAR, Codice di diritto internazionale pubblico, VII ed., Giappichelli, Torino, 2016. Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969, cit.
[11] N. CHAEVA, The Russian Constitutional Court and its Actual Control over the ECtHR Judgement in Anchugov and Gladkov, in European Journal of Internationl Law, 26 aprile 2016, cit., p. 3 ss.
[12] Ibidem.
[13] COE, RUUSSIAN FEDERATION FINAL OPINION, p. 1 ss. Consultabile per intero al link: www.venice.coe.int/webforms/documents/default.aspx?pdffile=CDL-AD(2016)
[14] N. CHAEVA, The Russian Constitutional Court, cit., p. 4.
[15] Corte Edu, Anchugov e Gladkov v. Russia, 4 luglio 2013, par. 104.
[16] P. PUSTORINO, Russian Constitutional Court and the execution ‘à la carte’ of ECtHR judgments, in QIL, Zoom-in 32 (2016), 5-18, cit., p. 1.
La corte costituzionale russa
Qualche riflessione sulle origini della corte costituzionale russa e sulle modalità di accesso al sindacato di costituzionalità
Dal Comitato di supervisione costituzionale dell’URSS alla Corte costituzionale Russa
Nel 1988, a pochi anni dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, che era stata definita il “grande malato del XX secolo”[1], Gorbačёv (in piena perestrojka e nel clima della glasnost’) ritenne opportuno dotare lo Stato sovietico di un organo deputato al controllo di costituzionalità sulle leggi federali dell’URSS. Va detto, in apertura, che una forma di controllo sulla conformità degli atti legislativi del Soviet Supremo alla Costituzione era già previsto dall’art. 124 della Costituzione dell’Unione Sovietica del 1977. Tuttavia, dalla sua adozione, poche volte la norma in questione aveva trovato applicazione. Il 1 febbraio 1988, l’istituzione del Comitato di supervisione costituzionale dell’URSS[2] poneva le basi per lo sviluppo della giustizia costituzionale nell’esperienza giuridica sovietica (e, successivamente, russa).
Le ragioni per cui l’URSS, nei settant’anni della sua esistenza, non si era mai dotata di una Corte costituzionale, modellata sulle omologhe esistenti in Europa occidentale, sono complesse ed articolate, ma in buona misura riconducili ad un postulato. La teoria marxista – leninista del diritto assume come incompatibile la coesistenza, nello stesso ordinamento, di un organo legislativo, che è espressione dei Soviet popolari – quindi legislatore supremo – ed un organo tecnico, sganciato dal circuito della legittimazione popolare, quale un tribunale costituzionale[3]. Di più: un apparato del genere non avrebbe ragion d’essere poiché l’atto legislativo è, in ultima analisi, prodotto supremo e intangibile, manifestazione insindacabile di volontà, cardine della legalità socialista. Certo, questo non implica che gli atti normativi (federali o delle singole repubbliche federate) non dovessero essere conformi alla Costituzione Sovietica, ma tale conformità veniva definita in fase di elaborazione del prodotto normativo, in una sinergia fra organi dello Stato (Soviet Supremo dell’URSS e il suo Presidium) e organi del Partito (in prevalenza, il Comitato Centrale del PCUS). Peraltro, l’attività giudiziale svolta dalla Corte Suprema dell’URSS garantiva, in buona misura, l’aderenza del diritto vivente ai principi socialisti sanciti ed incarnati nella Costituzione Sovietica. Tali premesse giuridiche, qui necessariamente accennate, finirono inevitabilmente per riverberarsi sulle funzioni del Comitato di supervisione, che la legge istitutiva ridusse a compiti meramente consultivi, ben distanti dalla concezione kelseniana (e “occidentale”) del sindacato di costituzionalità delle leggi.
Il 12 dicembre 1991 il Soviet Supremo della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa proclamava l’indipendenza dello Stato, ratificando gli accordi di Belaveža e ritirando i propri deputati dal Soviet Supremo dell’URSS. La bandiera rossa era stata definitivamente ammainata dalla cupola del Cremlino, sulla quale aveva sventolato per settant’anni. Il nuovo Stato russo, guidato da Boris Eltsin, attraversava però un momento di profonda incertezza e crisi sociale: il passaggio dall’economia pianificata al mercato aveva avuto effetti drammatici. Le stesse istituzioni del Paese andavano costruite (o ricostruite) sulle ceneri di quelle della RSFSR. Fu in questo clima che, nel 1993, venne approvata la Costituzione tuttora vigente. Infatti, prima dell’adozione di tale Carta fondamentale, la Costituzione era rimasta quella della RSFSR del 1978 e il potere legislativo risiedeva ancora nel Soviet Supremo, ereditato dall’assetto costituzionale socialista. L’attuale configurazione della Corte costituzionale Russa si basa sulla struttura elaborata nel 1993. Invero, il Tribunale costituzionale era già in funzione dal 1991 e aveva giocato un ruolo decisivo nella crisi costituzionale del 1993 e nella coeva adozione della attuale Costituzione della Federazione Russa[4].
La Corte oggi
Ad oggi, la Corte costituzionale Russa è ubicata a San Pietroburgo, nell’oblast’ di Leningrado (fino al 2008 i suoi uffici si trovavano a Mosca). La composizione attuale prevede 19 giudici, da un originario numero di 15. I giudici sono nominati dal Consiglio Federale (la camera alta del Parlamento) su proposta del Presidente della Federazione Russa. Tra di essi figurano il Presidente della Corte, dotato di considerevoli poteri disciplinari e di allocazione delle controversie fra le Camere di cui si compone la Corte. Tra i requisiti, oltre alla cittadinanza russa, la legge richiede particolari meriti accademici in ambito giuridico e l’esercizio dell’avvocatura per almeno 15 anni.
L’esistenza e le funzioni della Corte sono previste dall’art. 125 della Costituzione. Le modalità di funzionamento dell’organo, le prerogative dei giudici ed altri aspetti di dettaglio sono, poi, disciplinati in dettaglio dalla legge costituzionale sulla Corte costituzionale Russa (ФКЗ-1/21-07-1994). Il sindacato di costituzionalità in Russia è di tipo accentrato, prevalentemente successivo. Con attenzione alle modalità di accesso al giudizio della Corte, in parte il sindacato ha natura incidentale, in parte principale. Nel rapido approntamento di un organo di giustizia costituzionale, il legislatore russo si ispirò profondamente alle esperienze tedesca ed austriaca, con particolare riferimento all’accesso individuale al giudizio di costituzionalità in via diretta.
Le tipologie di atti soggetti al controllo di costituzionalità
I giudici di San Pietroburgo hanno, primariamente, il compito di pronunciarsi sulla conformità delle leggi e degli atti aventi forza di legge al dettato costituzionale. Tra gli atti in questione rientrano, anzitutto, le leggi federali, i decreti presidenziali (ukase) e quelli del Governo federale. Inoltre, anche le stesse leggi di revisione costituzionale possono essere scrutinate. Per fare qualche esempio, guardando all’attualità, la Corte costituzionale Russa si è pronunciata a proposito della legittimità della riforma costituzionale promossa dal Presidente Putin, e suffragata da un referendum, nel 2020[5].
In secondo luogo, oggetto del giudizio possono essere gli Statuti e le leggi dei soggetti federati, dotati di potere legislativo in alcune materie di loro competenza (ad es., le Repubbliche autonome). La Corte ha infatti il compito di vigilare sul rispetto del riparto di competenze esistente fra la Federazione ed i soggetti federati, risolvendo in via principale i conflitti di competenza fra il governo federale e le entità federate, nonché fra i soggetti federati medesimi. Giova qui ricordare che la Federazione Russa è composta da 86 soggetti federati[6], che dispongono in diversa misura di potere legislativo.
A tal proposito, la Corte vigila con particolare attenzione sul rispetto delle prerogative federali, specie nel caso di macroscopiche violazioni del dettato costituzionale. Ad esempio, alcuni anni fa, in una celebre sentenza[7] la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime una serie di disposizioni previste da leggi locali, promulgate da alcune entità costituenti della Federazione Russa (la città di Mosca, le oblast’ di Mosca e Voronež e il kraj di Stavropol) che prendevano limitazioni della libertà di movimento dei cittadini nell’ambito dei loro territori, avendo queste ultime invaso una competenza di pertinenza federale. Lo stesso anno, peraltro, il giudice delle leggi aveva dichiarato incostituzionali le disposizioni della Carta della Repubblica autonoma dell’Altaj, che attribuiva all’assemblea legislativa della Repubblica il diritto di nominare e revocare il governatore[8]. Pochi anni dopo, in un giudizio riguardante la stessa Carta dell’Altaj (e successivamente quelle di un certo numero di altre Repubbliche autonome), la Corte ha colpito le norme che proclamavano la “sovranità” di queste repubbliche, violando così i diritti della Federazione, unico soggetto “sovrano”[9].
Il discorso si inserisce in una complessa dialettica centro – periferia, giacché il riparto di competenze, fissato dagli artt. 72 e ss. della Costituzione Russa del 1993, interessa ambiti territoriali molto distanti tra loro, geograficamente e culturalmente. La corretta osservanza del riparto di competenze fra governo centrale soggetti federati è cruciale in un Paese che si estende per migliaia di chilometri ed esercita la sua sovranità su territori diversi e plurime etnie, tra le quali aleggiano, talora, tendenze centrifughe[10]. L’interesse del Governo centrale è così quello di mantenere un perenne raccordo tra centro e periferia e, sul punto la Corte è sensibile, salvaguardando però al tempo stesso le dinamiche territoriali, in un costante (e pragmatico) bilanciamento fra interessi locali e nazionali, spesso frutto di delicati equilibri[11]. Nel 2005, ad esempio, la Corte costituzionale Russa ha confermato la costituzionalità di una legge federale, adottata su iniziativa del Presidente della Federazione, volta a garantire un maggiore protagonismo del governo centrale nelle procedure di nomina degli alti funzionari delle entità costitutive della Federazione Russa[12].
Nondimeno, il sindacato di legittimità non concerne soltanto i provvedimenti legislativi già in vigore. È possibile infatti per la Corte pronunciarsi anche sulla conformità costituzionale prioritaria (e cioè puramente potenziale) del contenuto di un Trattato internazionale a cui la Federazione Russa abbia aderito. Si tratta, in quest’ultimo caso, di una forma molto particolare di sindacato preventivo perché non riguarda atti legislativi ma trattati internazionali.
I soggetti abilitati ad adire la Corte costituzionale e caratteristiche delle pronunce
Giova ricordare che, analogamente ad altri ordinamenti dell’Europa orientale, è previsto un rimedio analogo al Verfassungsbeschwerde per consentire al singolo, che assume lesi i suoi diritti fondamentali, di rivolgersi al giudice costituzionale una volta esperiti gli altri rimedi legali previsti dall’ordinamento. Inoltre, quale particolare modalità di actio popularis, anche organizzazioni e persone giuridiche possono promuovere il giudizio di costituzionalità. Accanto agli altri soggetti contemplati dalla legge ed abilitati a sollevare la questione di legittimità, un ruolo di primo piano spetta ai cittadini (e a loro associazioni), che possono rivolgersi direttamente al giudice costituzionale in relazione ad un caso concreto. Il principale carico di lavoro della Corte costituzionale Russa proviene, infatti, dall’esame delle denunce riguardanti presunte violazioni dei diritti costituzionali e delle libertà dei cittadini. Ogni anno, la Corte riceve da 14.000 a 19.000 reclami da parte dei cittadini, a testimonianza della fiducia del popolo nei confronti della Corte Costituzionale[13]. La forza di questo istituto risiede nell’elevato grado di tutela che esso offre ai ricorrenti.
Oltre a quelli appena visti, i soggetti abilitati a promuovere il giudizio di costituzionalità possono essere suddivisi in soggetti appartenenti al potere giudiziario e soggetti politici. I primi sono costituiti, ad esempio, dalle Corti distrettuali, dalle Corti d’appello, dai tribunali amministrativi e dalla Corte Suprema. I soggetti politici, d’altra parte, che possono rivolgersi alla Corte, sono il Presidente della Federazione Russa, il Presidente del Consiglio della Federazione (Senato), quello della Duma di Stato (Camera bassa) oppure un quinto dei Membri dei Consiglio della Federazione o dei Deputati della Duma di Stato, o, da ultimo, il Governo della Federazione Russa (art. 125, co. 2, Cost.)[14].
Dal punto di vista della tipologia delle decisioni, la Corte costituzionale Russa può pronunciare, anzitutto “sentenze”. Queste sono sentenze vere e proprie, mediante le quali la Corte accerta o rigetta la questione di legittimità sollevata dai soggetti a ciò abilitati. In secondo luogo, vengono in rilievo le “conclusioni” (zachluchenije), quali atti a carattere consultivo che la Corte pronuncia solo in caso di procedimento in cui il Presidente della Federazione si trovi in stato di accusa (art. 125, co. 7, Cost.). Da ultimo, ed è questa la tipologia decisoria maggiormente ricorrente, vi sono i “chiarimenti” che consistono in ordinanze con cui la Corte costituzionale chiarisce in modo estensivo le motivazioni in base alle quali aveva precedentemente rigettato un ricorso individuale presentato da un cittadino. Sono previsti, poi, provvedimenti “interlocutori” per lo svolgimento del processo costituzionale.
Dal punto di vista degli effetti delle sentenze della Corte costituzionale Russa, la pronuncia annulla la norma impugnata e ne preclude l’applicazione (art. 125, co. 6, Cost.[15]). Tuttavia, quantomeno nel caso di ricorsi individuali al giudice costituzionale, il positivo esperimento del ricorso, (traducendosi in un rimedio successivo alla pronuncia della sentenza del giudice ordinario) attribuisce diritto al ricorrente di ottenere la revisione del provvedimento di primo o di secondo grado, senza che dal provvedimento della Corte derivino effetti annullatori ipso iure. Ciò avviene tramite la presentazione, entro un termine, della domanda di revisione alla Corte che ha emesso il giudizio ottenendo, così, la revisione della res iudicata in linea con le statuizioni del tribunale costituzionale[16].
Da ultimo, la Corte può anche spingersi fino a lambire la discrezionalità legislativa. In un caso recente, nella sentenza dell’11 dicembre 2014, la Corte costituzionale ha ordinato al legislatore federale di apportare alcune modifiche all’articolo 159, par. 4, codice penale della Federazione Russa entro sei mesi dalla pronuncia della sentenza. Allo stesso tempo, la Corte ha stabilito che <<se, dopo la scadenza di un periodo di sei mesi dalla data di promulgazione della presente risoluzione, il legislatore federale non avrà apportato modifiche appropriate al codice penale della Federazione Russa, articolo 159.4 la norma in questione non sarà più valida>>[17]. La tecnica decisoria impiegata ricorda, in buona misura, la soluzione adottata dalla Corte costituzionale italiana con l’ord. n. 207/2018 nel noto “caso Cappato” e, più di recente, con l’ord. n. 132/2020, in tema di diffamazione aggravata e a mezzo stampa.
Informazioni
ABRAMOVA M., Constitutional Justice of Russia within the judicial landscape of contemporary Europe, in Rivista Derecho del Estado, n. 40, gennaio 2018, 1 ss.
Costituzione della Federazione Russa (testo in italiano): : www.art3.it/Costituzioni/cost RUSSA.pdf.
GANINO M., Tempi e modi rituali della revisione costituzionale di Putin. Continuità e varianti?, in NAD (Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società), n. 1/2020, 178 ss.
HAUSMANINGER H., The Committee of Constitutional Supervision of the USSR, in Cornell International Law Journal, Volume 23, Issue 2 Symposium 1990, Article 5.
Legge costituzionale federale sulla Corte costituzionale (Federalnij Konstitutsionnij Zakon o Konstitutsionne Sude Rossiskoi Federatsii), traduzione in inglese: http://www.ksrf.ru/en/Info/LegalBases/FCL/Documents/Law.pdf.
Sito ufficiale della Corte costituzionale Russa (con relativa banca dati): http://www.ksrf.ru/en/Info/Pages/default.aspx.
ACCORDATI A., La libera manifestazione del pensiero in Russia e la storia, in DirittoConsenso, 02 marzo 2021. Link: http://www.dirittoconsenso.it/2021/03/02/libera-manifestazione-del-pensiero-in-russia-storia/
ACCORDATI A., La custodia cautelare in Russia, in DirittoConsenso, 26 marzo 2021. Link: http://www.dirittoconsenso.it/2021/03/26/custodia-cautelare-in-russia/
FEDERICO A., L’articolo 117 della Costituzione tra sussidiarietà e adattamento, in DirittoConsenso, 04 novembre 2020. Link: http://www.dirittoconsenso.it/2020/11/04/articolo-117-costituzione-sussidiarieta-adattamento/
[1] L’espressione è tratta da M. S. BAISTROCCHI, Ex – Urss. La questione delle nazionalità in Unione Sovietica da Lenin alla CSI, Ugo Mursia Editore, 1992, cit., p. 2.
[2] Più diffusamente, sull’argomento, si rinvia a H. HAUSMANINGER, The Committee of Constitutional Supervision of the USSR, in Cornell International Law Journal, Volume 23, Issue 2 Symposium 1990, Article 5.
[3] Per un approfondimento della tematica, si rinvia all’opera di U. CERRONI, Il pensiero giuridico sovietico, Editori Riuniti, Roma, 1969.
[4] Il 21 settembre 1993, Boris Eltsin dichiarò il Soviet Supremo della Federazione Russa disciolto, non riuscendo più a far fronte al crescente ostruzionismo politico in Parlamento, generato dalle sue impopolari misure economiche. Secondo la Costituzione della Federazione Russa (recte: della RSFSR del 1978, modificata ma ancora in vigore all’epoca) al Presidente Eltsin non sarebbe spettato quel potere. Ciò diede luogo ad una serie di scontri tra fiancheggiatori dell’opposizione e forze di sicurezza, teatro dei quali fu la “Casa Bianca”, sede del Parlamento. La crisi si concluse solo con l’intervento delle forze armate il 4 ottobre 1993.
[5] http://www.consultant.ru/document/cons_doc_LAW_347691 (Заключение Конституционного Суда РФ от 16.03.2020 N 1-З). Più diffusamente, v. M. GANINO, Tempi e modi rituali della revisione costituzionale di Putin. Continuità e varianti?, in NAD (Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società), n. 1/2020, p. 178 ss.
[6] L’articolazione dei soggetti federati è costituita da: Repubbliche autonome, oblast’(regioni), oblast’ autonome, kraj (territori) e Città federali.
[7] ПОСТАНОВЛЕНИЕ Конституционного Суда Российской Федерации от 04.04.1996 N 9-П.
[8] ПОСТАНОВЛЕНИЕ Конституционного Суда Российской Федерации от 18.01.1996 N 2-П.
[9] ПОСТАНОВЛЕНИЕ Конституционного Суда Российской Федерации от 07.06.2000 N 10-П.
[10] Basti qui ricordare, per tutte, la Repubblica Cecena, teatro di due conflitti nel 1994 e nel 1999.
[11] Un esempio recente a proposito di quanto detto. Nel 2018, la Corte costituzionale ha confermato la costituzionalità dell’accordo sull’istituzione delle frontiere tra la Repubblica di Inguscezia e la Repubblica cecena, firmato dai governatori di queste regioni. La Corte ha concluso che i confini tra le entità costituenti della Federazione Russa possono essere stabiliti senza necessariamente indire un referendum, tenendo conto dell’opinione della popolazione residente interessata, e ha riconosciuto la validità dell’accordo e della legge della Repubblica di Inguscezia sulla sua approvazione. Contrariamente a tale accordo e alla sua legge esecutiva si era precedentemente pronunciata la Corte costituzionale della Repubblica di Inguscezia (soggetto federato con lo status di Repubblica autonoma). Sulla controversia, si rimanda a https://meduza.io/en/feature/2018/10/31/ingushetia-s-constitutional-court-says-the-controversial-border-deal-with-chechnya-is-unconstitutional-does-that-mean-the-protesters-have-won.
[12] ПОСТАНОВЛЕНИЕ Конституционного Суда Российской Федерации от 21.12.2005 N 13-П.
[13] M. ABRAMOVA, Constitutional Justice of Russia within the judicial landscape of contemporary Europe, in Rivista Derecho del Estado, n. 40, gennaio 2018, cit., p. 10.
[14] In ordine di importanza, però, i ricorsi individuali o collettivi sono (e restano) quantitativamente la parte più significativa delle sentenze pronunciate. Con attenzione ai dati del 2014, la Corte costituzionale ha emesso 33 decisioni, di cui 20 su reclami di cittadini, 4 su reclami di persone giuridiche, 2 su istanze dei tribunali, 2 su richieste dei parlamenti regionali, 1 su richieste del Presidente della la Federazione Russa, e solo 1 su richiesta di un gruppo di deputati della Duma di Stato. Dati presenti in: http://www.ksrf.ru/ru/Decision/Pages/default.aspx.
[15] Stabilisce così il par. 6 dell’art. 125 Cost. <<Gli atti, o le loro singole disposizioni, riconosciuti incostituzionali perdono efficacia; i Trattati internazionali della Federazione Russa che non sono conformi alla Costituzione della Federazione Russa non sono soggetti all’entrata in vigore ed all’applicazione>>. Traduzione italiana in www.art3.it/Costituzioni/cost RUSSA.pdf.
[16] La casistica offre molti esempi. Uno per tutti, sent. № 19-П от 18.07.2013 con la quale la Corte costituzionale ha esaminato e si è pronunciata sul ricorso individuale della ricorrente, K. M. Shrebina. Dopo la pronuncia della sentenza, questa ha esercitato il suo diritto alla revisione del processo di primo grado, ed ha ottenuto la reintegrazione nel posto di lavoro, con il pagamento dell’assenza forzata e un parziale risarcimento delle spese di lite sostenute nel precedente giudizio, in cui era risultata soccombente.
[17] Traduzione non ufficiale dal russo. V. originale: http://doc.ksrf.ru/decision/KSRFDecision181691.pdf.
La custodia cautelare in Russia
Perché la custodia cautelare in carcere in Russia è stata oggetto di critiche?
La custodia cautelare in Russia
La custodia cautelare in carcere è la più afflittiva delle misure cautelari contemplate da un sistema penale perché è quella che maggiormente limita la libertà personale di in indagato che, fino alla sentenza definitiva di condanna, si presume innocente.
I presupposti, la durata, le modalità di esecuzione e di presentazione delle istanze di riesame sono un buon modo per tastare il polso di un ordinamento penale e coglierne tratti illiberali. Tanto più un istituto sensibile come la custodia cautelare presenta presupposti operativi poco stringenti, tanto più esso si presta a poter essere impiegato come mezzo di repressione (quand’anche non di prevenzione) del crimine, rischiando di dar luogo a veri e propri abusi. Dei requisiti di impiegabilità molto deboli possono infatti spingere ad utilizzare tale misura cautelare come un comodo strumento di controllo sociale. Una buona “spia” del possibile uso illiberale della custodia cautelare è rappresentato dal catalogo di reati per i quali è possibile richiedere la restrizione anticipata della libertà. Perché, dunque, proprio la custodia cautelare in Russia?
Talora la Federazione Russa è stata accusata di strumentalizzare il potere giudiziario favorendo un uso politicizzato dei procedimenti penali e del sistema sanzionatorio. Senza prendere posizione su questa affermazione, concentrarsi sulla custodia cautelare in Russia può essere d’interesse. Secondo il recente dato aggiornato al gennaio 2021 la popolazione carceraria russa è pari a 482.888 individui. Di questi il 21,6 % si trova in custodia cautelare per un numero pari a 104.220 soggetti ristretti[1]. Sempre secondo i medesimi dati 72 persone ogni 100.00 abitanti in Russia si trovano attualmente soggetti alla misura restrittiva carceraria in attesa di sentenza definitiva di condanna. Sicché, il dato non deve spaventare: la percentuale di detenuti in cautelare in Italia è, per il 2020, pari al 31,8% della popolazione carceraria. Perciò il dato numerico non pare, a primo avviso, preoccupante.
Una situazione controversa
Attualmente l’amministrazione delle carceri russe, che si serve in parte di strutture ereditate dal sistema carcerario sovietico (il più famoso è la celebre Butyrka, a Mosca), in parte di strutture di nuova costruzione, è attribuita al Servizio Penitenziario Federale (Federalnaya Sluzhba Ispolneniya Nakazaniy). Dal 1996 è posto sotto la direzione del Ministero della Giustizia, a seguito delle pressioni del Consiglio d’Europa: fino ad allora era stato infatti diretto dal Ministero degli Interni, dando luogo ad accuse di eccessivi condizionamenti politici nella gestione delle carceri del nuovo Stato russo. L’organizzazione dell’ente, le piante organiche, il personale ed altri aspetti amministrativi sono stati oggetto di profonde riforme nel 1998, in una delicata era di passaggio fra le presidenze di Eltsin e di Putin.
Tuttavia, prima di osservare la disciplina normativa, qualche premessa di attualità. Il sistema penitenziario e, in più nello specifico, le strutture destinate ad accogliere i soggetti ristretti in regime di custodia cautelare in Russia sono oggetto di critiche da parte della stampa e di parte dell’opinione pubblica qualificata del Paese (ONG, giuristi, avvocati, parte della stampa). In primo luogo, le voci critiche lamentano il sovraffollamento delle strutture. Secondo l’organo rappresentativo dall’avvocatura penale russa il problema sarebbe connesso anzitutto all’elevato numero di reati per i quali le porte delle carceri si spalancano in via preliminare. L’inclusione di crimini di poco conto, soprattutto per violazioni delle leggi in materia di immigrazione, avrebbe portato spesso cittadini stranieri nelle strutture destinate alla custodia cautelare, frequentemente uzbeki, georgiani e tagiki. Quest’ultima affermazione non sembra corretta: secondo le statistiche indipendenti, la percentuale di reclusi stranieri non eccederebbe il 3,8% sul totale dei detenuti al 2021.
In secondo luogo è stata oggetto di critica la difficoltà di comunicazione fra i soggetti ristretti e le loro famiglie e i loro legali: sarebbe molto difficile talora anche per gli stessi avvocati ottenere incontri con i loro assistiti. Discorso analogo varrebbe a proposito delle misure cautelari extramurarie. Dal 2002 il Codice di procedura penale è stato innovato con l’implementazione della misura cautelare domiciliare, ma questa misura viene di rado concessa dai giudici (e, a monte, richiesta dalle autorità inquirenti), anche se dai rapporti giudiziari successivi al 2010 si nota un miglioramento, con un incremento delle misure domiciliari. Peraltro, ampi passi sono stati compiuti in questa direzione, specie ad oggi, per cercare di limitare i contagi da Covid-19 nelle carceri. Pare in ogni caso che la custodia cautelare in Russia sia la misura maggiormente impiegata nonostante la disponibilità di altre meno afflittive. Secondo uno studio, la richiesta dei procuratori viene accolta il 90,7% delle volte[2].
L’istituto nella legge russa
Ciò posto, analizziamo da vicino la custodia cautelare in Russia. In premessa, l’art. 21 della Costituzione del 1993 sancisce l’inviolabilità della libertà personale e il divieto di trattamenti inumani e degradanti.
I presupposti per la richiesta di tale misura sono definiti dagli artt. 97 e 98 del Codice di procedura penale della Federazione Russa (legge federale n. 174/18-12-2001). Il procuratore distrettuale può chiedere la custodia cautelare dell’indagato se vi sono “sufficienti indizi idonei a supporre” che:
- l’indagato si darà alla fuga se sottoposto a misure cautelari meno pervasive.
- l’indagato continuerà a commettere ulteriori attività delittuose.
- l’indagato potrebbe minacciare o attentare alla vita o all’incolumità fisica dei testimoni o di altre parti del processo.
- l’indagato potrebbe distruggere, disperdere, rendere del tutto od in parte inservibili prove od altre tracce del reato necessarie per il processo.
- l’indagato potrebbe sottrarsi in un successivo momento all’esecuzione della sentenza o alla estradizione disposta a norma dell’art. 466 del Codice.
L’art. 108, par. 1, del Codice stabilisce che la custodia cautelare in carcere può essere richiesta dal procuratore distrettuale quando il reato per cui si procede è punito con la reclusione pari o superiore a due anni, a condizione che una misura cautelare meno afflittiva non possa essere applicata. Il termine di due anni ricomprende un numero davvero molto consistente di reati contemplati dal Codice penale federale e dalle leggi speciali, rendendo praticabile la restrizione anticipata della libertà una scelta possibile (e molto probabile) anche per coloro che abbiano commesso delitti ad offensività ridotta. Inoltre, il periodo successivo della norma stabilisce che la misura può essere disposta da un giudice anche nell’ipotesi in cui si proceda per un delitto punito con la pena della reclusione inferiore a due anni:
- se l’indagato non è legalmente soggiornante nel territorio della Federazione Russa.
- se non è stato possibile identificare l’indagato.
- se l’indagato ha violato i termini di una misura cautelare meno afflittiva.
- se l’indagato, al momento dell’arresto, ha tentato di fuggire dalla polizia giudiziaria e/o dalla caserma o dalla struttura ove tradotto per essere identificato ed interrogato.
L’art. 108, par. 2, prevede l’esclusione di una serie di reati multiforme, dalla bancarotta al furto di materiale d’interesse storico-artistico. Il catalogo pare, però, abbastanza composito e privo di una particolare logica. Sarebbe, piuttosto, il risultato di una stratificazione normativa. Per quanto concerne la durata della detenzione cautelare l’art. 109 del codice prevede che nel corso delle indagini preliminari l’indagato non possa permanere ristretto per un periodo superiore a due mesi. Questo a condizione però che le indagini possano essere concluse entro due mesi: se ciò non fosse e non emergessero ragioni per l’archiviazione del procedimento, il giudice della Corte distrettuale competente può prorogare la custodia per ulteriori sei mesi.
Nel caso di “reati gravi” il termine può essere esteso per ulteriori dodici mesi. Solo in “casi eccezionali” la detenzione base di due mesi può essere prorogata fino a diciotto mesi. In questo caso servirebbe l’assenso delle autorità inquirenti. Le richieste di proroga (così come la stessa prima richiesta) della magistratura requirente devono essere però formulate in un’apposita udienza monocratica ove siano presenti l’indagato ed il suo difensore, per una adeguata tutela dei diritti difensivi dell’indagato. Secondo i dati, la proroga sarebbe concessa nel 97,8% dei casi in cui è richiesta[3].
Qualche considerazione in chiusura
Quanto al riesame, il procedimento è disciplinato dagli artt. 123 e seguenti del codice. Il direttore della struttura carceraria ha il dovere di trasmettere alla Corte distrettuale competente l’istanza di riesame formulata dall’indagato. Le censure possono riguardare tanto il difetto dei presupposti per l’imposizione della custodia cautelare quanto vizi di carattere procedurale. Il soggetto ristretto ha diritto ad ottenere un provvedimento di accoglimento o di rigetto del giudice entro cinque giorni dal ricevimento dell’istanza da parte degli ufficiali della Corte (art. 125). Il termine non è, tuttavia, perentorio.
Nel 2012 la Corte di Strasburgo ha condannato la Russia (caso Ananyev e altri v. Russia) avendo accertato che le condizioni detentive nei centri di custodia cautelare violassero l’art. 3 della Convenzione per la sottoposizione dei soggetti trattenuti a trattamenti inumani e degradanti. La sentenza è particolarmente importante poiché, trattandosi di sentenza – pilota, contiene una serie di preziose indicazioni che il legislatore russo potrà seguire per rendere maggiormente compatibili con la Cedu le strutture penitenziarie del Paese. Queste spaziano da indicazioni di carattere generale fino a più puntuali raccomandazioni di adeguamento della metratura delle celle, della funzionalità dei servizi igienici, delle condizioni delle brande e delle ore di riposo per i carcerati. Inoltre le indicazioni riguardano i meccanismi per garantire con maggiore effettività la sicurezza degli indagati (e condannati) e la formazione del personale di custodia. Qualche anno fa l’avvocatura penale ha invocato profonde riforme del sistema penitenziario: segno che, forse, c’è ancora qualcosa da fare per soddisfare i giudici della Corte Edu e migliorare la situazione della custodia cautelare in Russia[4].
Informazioni
Per un panorama generale sulla custodia cautelare in Russia: http://www.pretrialrights.org/russia/
Dati sulla popolazione carceraria: www.prisonstudies.org/country/russian-federation
Costituzione della Federazione Russa (in italiano): www.art3.it/Costituzioni/cost RUSSA.pdf
Codice di procedura penale russo (in inglese): www.wipo.int/edocs/lexdocs/laws/en/ru/ru065en.pdf
Per un approfondimento su alcune criticità dell’ordinamento penale russo: I. V. PONKIN, Indirizzi e tendenze di sviluppo nella legislazione penale russa, in Diritto Penale Contemporaneo, 2/2016, p. 1 ss.
G. VENTURIN, Le indagini preliminari e la tutela dell’indagato, in www.dirittoconsenso.it 04 gennaio 2021
E. CANCELLARA, I poteri della polizia giudiziaria, in www.dirittoconsenso.it 15 febbraio 2021
[1] www.prisonstudies.org/country/russian-federation
[2] Sul punto: R. DEMBER, Russia’s Pretrial Prisons Vulnerable as COVID-19 Spreads,www.hrw.org/news/2020/03/24
[3] R. DEMBERG, Russia’s Pretrial, cit.
[4] L’articolo può essere letto per esteso, in inglese: Russia’s prison dilemma As the Russian penitentiary system considers its first major reforms in 20 years, human rights advocates don’t like what they see, 19 luglio 2019, in www.meduza.io (link: https://meduza.io/en/feature/2019/07/19/russia-s-prison-dilemma )
La libera manifestazione del pensiero in Russia e la storia
Dal 2014 è reato la libera manifestazione del pensiero in Russia?
Libera manifestazione del pensiero (storiografico) in Russia
Gli anni della presidenza Putin, iniziata nel 1998, sono stati segnati da un progressivo recupero del ruolo della Russia nello scacchiere internazionale. L’apparato ideologico a sostegno di tale ambizioso progetto è rappresentato da una sinergia fra la riscoperta di elementi tradizionalisti e conservatori, come il rapporto fra lo Stato e il Patriarcato di Mosca, e il recupero della passata grandezza sovietica. La strategia perseguita passa anche per una adesione ad un discorso storiografico “ufficiale”. In particolare, la versione approvata di alcune vicende storiche è tesa a proporre al pubblico un ruolo positivo ricoperto dall’Unione Sovietica nel corso del secondo conflitto mondiale, tacendo in tutto od in parte o rivisitando alcuni episodi controversi del periodo bellico.
La salvaguardia della versione storiografica ufficiale, approvata dal governo, ha spinto nel 2009 alcuni deputati della Duma a proporre alcune modifiche alla legge penale introducendo un’aggiunta all’articolo 354 del Codice penale federale (Riabilitazione del nazismo). A causa di questo espediente la libera manifestazione del pensiero in Russia è ulteriormente minacciata. La norma, nella versione aggiornata al 2014 dopo i fatti di Yevromaidan, punisce l’apologia o la negazione (pubblica) di fatti riconosciuti come crimini di guerra dal Tribunale di Norimberga e la diffusione di notizie false idonee a porre in cattiva luce l’operato sovietico durante la seconda guerra mondiale. La scelta del legislatore russo è quella di evitare che il dibattito storiografico possa mettere in dubbio la versione ufficiale e predominante delle vicende, colpendo indirettamente i presupposti ideologici su cui si fonda il recupero della grandezza nazionale. La celebrazione dei successi sovietici contro il nazifascismo in Europa è tratto caratteristico del corpus identitario russo: il “giorno della Vittoria” (Dnёm Pobedi) celebrato ogni 9 maggio con spettacolari parate sulla Piazza Rossa e nel resto del Paese ricorda l’anniversario della vittoria dell’URSS sulla Germania nazista. Il popolo russo può a buon diritto essere orgoglioso dei sacrifici sostenuti dai suoi antenati nel corso della seconda guerra mondiale: il tributo in termini di vite umane è stato il più elevato fra tutti i paesi belligeranti. Ciò che però ancora oggi in Russia è precluso è un maturo dibattito sui lati oscuri della vittoria. È innegabile che anche da parte sovietica si registrarono episodi qualificabili come crimini di guerra, che tuttavia tendono ad essere relegati sullo sfondo dalla storiografia ufficiale oggetto d’insegnamento, quand’anche del tutto taciuti.
Il caso Luzgin: una condivisione su Vkontakte incauta
Nel luglio 2016 la Corte distrettuale di Perm’ ha condannato un trentottenne, Vladimir Luzgin, ad una multa di 200.000 rubli per aver postato sul social network russo vkontakte due post che, secondo il tribunale di primo grado, integravano gli estremi della fattispecie punita dall’art. 354 del c.p.f. In particolare, il contenuto dei post può essere riassunto così. Secondo l’autore dei contenuti (l’imputato si era limitato a diffondere i link ad alcuni articoli online) le forze sovietiche avrebbero congiuntamente con le armate tedesche attaccato la Polonia nel settembre 1939 facendo scoppiare la seconda guerra mondiale. Che i termini del Patto Moltov – von Ribbentrop del 23 agosto 1939 fossero quelli di spartire la Polonia conquistata, è cosa nota. Quanto al contenuto dell’asserzione, senza compiere giudizi di valore, può essere considerato una riproposizione critica della storiografia ufficiale. Inoltre, sempre nei medesimi contenuti digitali si affermava che i comunisti sovietici avrebbero tramato al pari (e con la complicità) del Terzo Reich per spartirsi l’Europa. Seguivano contenuti a difesa dei nazionalisti ucraini che combatterono a fianco dei tedeschi nel 1941. Proponeva l’imputato ricorso alla Corte Suprema chiedendo di riformare il verdetto di prima istanza. Le censure, di merito e di legittimità, attenevano alla non punibilità della condotta per legittimo esercizio del diritto di manifestazione del pensiero, riconosciuto, oltre che dalla Costituzione russa, anche dall’art. 10 della Cedu (a cui la Russia aderisce). Tuttavia i giudici di San Pietroburgo hanno confermato le statuizioni della Corte distrettuale nei seguenti termini. La diffusione dei link di accesso del materiale online che, secondo la procura, aveva portato almeno venti utenti a leggerli, si connotava per sufficiente offensività, data l’idoneità dei contenuti a porre in cattiva luce l’immagine dell’URSS e a contribuire alla formazione nel pubblico di una considerazione negativa dell’operato sovietico. Inoltre, la visibilità delle informazioni diffuse tramite social network integrava la condizione obiettiva di punibilità richiesta dall’art. 354 c.p.f. e cioè la manifestazione “pubblica” del pensiero dissidente. Di conseguenza il ricorrente è stato riconosciuto colpevole di “riabilitazione del nazismo” ai sensi della sopracitata norma. Ciò che maggiormente rende critico il caso, oltre all’incriminazione in se, è l’assoluta mancanza di un dibattito processuale sulla sostenibilità della tesi storica dell’imputato. La Corte Suprema non ha infatti minimamente criticato o accettato una contestazione giudiziale delle conclusioni probatorie del procuratore di Perm’ secondo cui le affermazioni riportate da Luzgin sarebbero state sbagliate, antistoriche e fasulle. Peccato che tali asserzioni non fossero nemmeno corroborate da idonei mezzi di prova, giacché tanto il giudice di prime cure quanto quello d’appello riconoscono che la versione dell’imputato è a priori “contraria alla realtà dei fatti generalmente riconosciuta a livello internazionale”.
Una norma critica: l’art. 354 del codice penale russo
La Costituzione russa del 1993 tutela la libertà di manifestazione del pensiero. Nello specifico, l’art. 29, co. 4, sancisce che: “Ciascuno ha diritto di cercare, ricevere, trasmettere, produrre e diffondere liberamente l’informazione con ogni mezzo legale”. La legge fondamentale del Paese offre peraltro un aggancio significativo ad un altro testo di pari importanza e cioè la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). L’art. 10 tutela anch’esso la libera manifestazione del pensiero e, nel caso di specie, anche del pensiero storiografico. La norma penale analizzata presenta l’incriminazione di condotte diverse. Mentre quelle riconducibili alla prima parte della norma possono essere assimilate a rimedi legali presenti anche in altri Stati europei e finalizzati ad evitare l’esaltazione e l’apologia di crimini di guerra o ideologie antidemocratiche, è la parte finale della disposizione (quella del 2014) a prestare il fianco a più di una critica. Per quanto concerne il divieto legale di diffondere idee antistoriche o palesemente false, come ad esempio il negazionismo della Shoah o l’apologia del nazismo, la Corte Edu ha ritenuto che costituisca una <<irrinunciabile esigenza sociale quella di sanzionare idee antistoriche radicali>>[1] che possono essere pericolose per un società democratica.
La norma impiegata però nel caso di specie presenta molte criticità, anzitutto per la sua formulazione vaga, contraria ai principi di tassatività – determinatezza: cosa significa “notizie dichiaratamente fasulle”? Dalla recente giurisprudenza – peraltro la prima applicazione giudiziale in Russia dal 2014 – parrebbe di capire che la risposta sia: “scomode”. Ciò che può mettere in cattiva luce una certa versione dei fatti diventa in se pericolosa perché screditante. Una cosa è mettere in pericolo la tenuta di un ordinamento democratico tramite la diffusione e la propaganda di idee oggettivamente idonee a turbare l’ordine pubblico: su questo i primi due periodi dell’art. 354 c.p.f. sono in linea con altri Paesi europei, Italia inclusa[2]. È lo stesso art. 10 della Cedu ad ammettere limitazioni alla libera manifestazione del pensiero quando queste si rendano necessarie a tutela dell’ordine pubblico, della sicurezza nazionale o del rispetto degli altrui diritti. Altra cosa però è punire una critica ad una certa versione dei fatti che, in linea di principio, dovrebbero essere patrimonio comune. E questo non è sfuggito a molti storici russi, che hanno accolto criticamente la norma idonea a sterilizzare il dibattito storico nella società civile e a minare ulteriormente la libera manifestazione del pensiero in Russia[3].
Conclusioni
In conclusione, due considerazioni. L’una schiettamente giuridica, l’altra più generica.
Per quanto concerne l’accusa di negazione di fatti statuiti dal Tribunale di Norimberga, a ben vedere, le atrocità commesse dai nazionalisti ucraini non sono state oggetto di giudizio da parte del Tribunale Internazionale Militare. Sicché, il primo capo d’accusa sarebbe un’applicazione analogica della norma, contraria ai principi generali del diritto penale[4]. Quanto alla collaborazione fra URSS e Germania nazista nel periodo 1939 – 1941, è difficile sostenerne la falsità tanto che si potrebbe parlare processualmente di fatto notorio. È piuttosto l’idoneità a minare un certo tipo di retorica a renderla punibile, ma non la sua inconsistenza storica. Almeno nell’immediato non pare immaginabile un overruling. La modifica al codice penale si configura come una risposta normativa a quei Paesi, ex Repubbliche sovietiche (ad es. Ucraina, Lettonia, Lituania) dove con maggior vigore i governi tendono a volersi liberare dell’eredità socialista attraverso letture della storia recente tacciate di “revisionismo” da parte Mosca. Le recenti proteste di gennaio mostrano però una Russia non del tutto allineata, anche se Putin ed il suo apparato ideologico restano ancora dominanti nella nazione.
In uno Stato di diritto proteggere la società da pericolose ideologie totalitarie, come il nazismo, è obiettivo che costituisce una comprensibile ed auspicabile limitazione della manifestazione del pensiero. Ma diverso è sterilizzare la ricerca storiografica che è patrimonio comune, compromettendo il già precario stato della libertà di manifestazione del pensiero in Russia. Ad umile avviso di chi scrive una versione non ideologizzata della storia, che non chiudesse gli occhi dinanzi ai crimini dello stalinismo, potrebbe paradossalmente stimolare un’adesione più sincera della popolazione al suo passato, proprio perché critica e liberamente formata. E questo senza nulla togliere alle centinaia di pagine di eroismo scritte dal popolo sovietico nel corso della grande guerra patriottica. Si tratta di un traguardo possibile, ma non ancora probabile, quantomeno nel contesto russo. Il perseguimento di progetti di potenza e di protagonismo sulla scena internazionale rendono indispensabile una narrativa univoca, un’adesione incondizionata al discorso ufficiale. E in tutto ciò il diritto penale diviene, suo malgrado, un utile esecutore. Si spera in un futuro più roseo per la libera manifestazione del pensiero in Russia.
Informazioni
G. BOGUSH – I. NUSHOV, Russia’s Supreme Court Rewrites History of the Second World War, in Blog of European Journal of International Law, 28 ottobre 2016, www.ejiltalk.org/russias-supreme-court-rewrites-history-of-the-second-world-war
H. COYNASH, Russia’s Supreme Court rules that the USSR did not invade Poland in 1939, in, Kharkiv Human Rights Protection Group, 2 settembre 2016, http://khpg.org/en/1472775460
Costituzione della Federazione Russa, traduzione italiana in: www.art3.it/Costituzioni/cost RUSSA.pdf
Codice penale russo (trad. inglese) www.wipo.int/edocs/lexdocs/laws/en/ru/ru080en.pdf
P. IASUOZZO, Il reato di apologia del fascismo, in DirittoConsenso, 29 gennaio 2021, www.dirittoconsenso.it/author/pasqualeiasuozzo
S. GRECO, Libertà di espressione su internet: fra anarchia e censura, in DirittoConsenso, 11 novembre 2020, www.dirittoconsenso.it/2020/11/11/liberta-di-espressione-su-internet-fra-anarchia-e-censura
[1] Corte Edu, Grande Camera, sentenza 17 dicembre 2013, Perinçek v. Switzerland (a proposito del genocidio armeno del 1915). Vedi inoltre Corte Edu, sentenza 1 febbraio 2000, Schimanek v. Austria; Corte Edu, sentenza 14 settembre 2010, Dink v. Turkey.
[2] Cfr. l’art. 604-bis c.p. o la legge n. 654 del 1952 (c.d. legge Scelba) in tema di apologia del fascismo.
[3] Per leggere il preoccupato parere OCSE: www.osce.org/fom/103121
[4] L’analogia in diritto penale è vietata dall’art. 4, par. 2, del Codice penale federale russo.