Gli addetti all'Ufficio per il Processo
Le mansioni dei funzionari addetti all’Ufficio per il Processo spiegate da uno di loro
L’Ufficio per il Processo
L’Ufficio per il Processo è una struttura organizzativa istituita nell’ambito delle riforme sulla Giustizia Digitale. L’art. 16 octies del decreto legge n. 179 del 2012[1] prevedeva l’istituzione di strutture di tal specie presso le Corti d’Appello e i Tribunali ordinari, allo scopo di garantire la ragionevole durata del processo[2]. La norma, infatti, si inseriva in quella serie di riforme del processo, soprattutto civile, volte all’innovazione dei modelli organizzativi e a rendere più efficiente l’impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Istituita la struttura organizzativa dell’Ufficio per il Processo, il legislatore ha anche individuato il personale da impiegare in essa. In particolare, allora venivano assegnati all’Ufficio solo una quota parte del personale di cancelleria, i giovani neolaureati che svolgono i tirocini formativi a norma dell’art. 73 del decreto legge n. 69/2013 e dell’art. 37 co. 5 del decreto legge n. 98/2011 e i giudici ausiliari e onorari assegnati rispettivamente alle Corti d’Appello e ai Tribunali.
Successivamente, con l’adozione – al livello europeo – del Recovery Plan, sono stati fissati diversi obiettivi finalizzati alla riorganizzazione della macchina giudiziaria e amministrativa, in un’ottica soprattutto di digitalizzazione e smaltimento dell’arretrato. Si prevede che tali obiettivi vengano raggiunti con il rafforzamento della capacità amministrativa del sistema che valorizzi le risorse umane, integri il personale delle cancellerie e sopperisca alla carenza di professionalità tecniche diverse da quelle giuridiche. Pertanto, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha individuato nell’Ufficio per il Processo la struttura organizzativa deputata ad “offrire un concreto ausilio alla giurisdizione così da poter determinare un rapido miglioramento della performance degli uffici giudiziari per sostenere il sistema nell’obiettivo dell’abbattimento dell’arretrato e ridurre la durata dei procedimenti civili e penali”[3].
La figura del funzionario addetto all’Ufficio per il Processo
Al fine di dare attuazione al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza[4], è emersa la necessità di potenziare lo staff del magistrato con professionalità in grado di collaborare in tutte le attività connesse alla giurisdizione, quali la ricerca, lo studio, la gestione del ruolo e la preparazione di schede e bozze di provvedimenti.
Tali figure professionali sono proprio personificate dai cc.dd. funzionari addetti all’Ufficio per il Processo, che, a seguito di concorso pubblico per titoli ed esami indetto con bando pubblicato nella G.U. del 6 agosto 2021, sono stati reclutati e assunti a tempo determinato per due anni e sette mesi dal Ministero della Giustizia a partire dal 21 febbraio 2022. Alle risorse umane reclutate nell’ambito del Recovery Plan verranno riconosciuti titoli preferenziali e di riserva di quota nei concorsi che verranno indetti dal Ministero e dalle altre pubbliche amministrazioni, tanto che sarà possibile il rilascio di un’attestazione di lodevole servizio al termine del rapporto di lavoro.
Va osservato che il mansionario dei funzionari in questione è molto vasto. Gli addetti all’Ufficio per il Processo, infatti, sono assegnati a quei servizi giudiziari ove il Capo dell’Ufficio ritiene vi siano le maggiori carenze. In particolare, i funzionari assunti nell’ambito di questa struttura organizzativa sono stati assegnati tanto a mansioni collaterali alla funzione giurisdizionale quanto a mansioni connesse ai servizi di cancelleria.
Più nello specifico, la prassi degli ultimi nove mesi mostra che i funzionari in questione, assegnati ad uno o più giudici del proprio Ufficio giudiziario, stiano svolgendo, prioritariamente, le mansioni che seguono[5]:
- Redazione delle bozze dei provvedimenti giurisdizionali, in particolare sentenze, con il precipuo scopo di abbattere l’arretrato pendente e rendere più ragionevole la durata del processo. Ciò trova un terreno fertile soprattutto nel processo civile, caratterizzato da un elevatissimo numero di procedimenti i quali, sebbene riportino un numero di iscrizione a ruolo molto risalente nel tempo, non sono ancora stati presi in decisione dal giudice, a causa dell’elevatissimo carico di lavoro gravante sul ruolo. Non deve, comunque, sottovalutarsi il contributo alla redazione delle bozze dei provvedimenti nell’ambito dei procedimenti penali, là dove si assiste talvolta alla contrazione massima dei diritti e delle libertà personali tanto da necessitare una conclusione rapida, ma anche “giusta”, dei processi in corso.
- Studio dei fascicoli del ruolo (verifica della completezza del fascicolo, accertamento della regolare costituzione delle parti, controllo delle notifiche e del rispetto dei termini, individuazione dei difensori nominati, etc.): quest’attività, sia per i procedimenti civili sia per quelli penali, assume un rilievo sostanziale in un’ottica di ragionevole durata del processo ed efficienza della giustizia. Ed invero, da un lato la rilevazione di eventuali criticità formali, dall’altro lo studio degli atti che formano il fascicolo costituiscono un importante ausilio al giudice, e talvolta anche alla cancelleria, i quali possono intervenire direttamente per risolvere eventuali irregolarità formali ovvero per concludere più rapidamente il procedimento, residuando così del tempo di lavoro da dedicare ad altre funzioni.
- Partecipazione all’udienza e verbalizzazione di quanto accade nel corso della stessa, attività che sgrava non di poco la cancelleria, già oberata di un lavoro che le risorse umane che la compongono non riescono a smaltire a causa della scarsità numerica del personale. Questa attività, inoltre, favorisce anche il giudice che, in udienza, potrà contare sulla professionalità e la competenza dei funzionari addetti all’Ufficio per il Processo che, avendo anche studiato già i fascicoli nel merito, potranno velocizzare le operazioni di verbalizzazione e offrire un loro contributo “tecnico” all’attività giurisdizionale vera e propria.
- In molti casi, alla verbalizzazione in udienza seguono anche gli adempimenti che ne derivano, quali deposito delle sentenze, notifiche e digitalizzazione del fascicolo. Anche tali mansioni sgravano oltremodo il personale delle cancellerie, il quale potrà impiegare quel tempo “risparmiato” nel compimento di altre attività a cui pure è deputato ovvero nello smaltire adempimenti arretrati.
- Raccordo tra il giudice assegnatario e la propria cancelleria di riferimento, una funzione mai svolta prima da nessuna delle risorse umane assunte dal Ministero della Giustizia. L’utilità di questo raccordo è costituita da una più rapida ed efficiente gestione del fascicolo che consente alle parti del procedimento una più agevole intellegibilità dello stesso.
- Digitalizzazione del fascicolo, soprattutto quello penale, ove il fondamentale principio dell’oralità che contraddistingue il relativo procedimento è stato tradotto negli anni, erroneamente, con l’esigenza di mantenere il fascicolo cartaceo. L’esigenza costituzionale dell’oralità, infatti, non sarebbe pregiudicata dalla formazione di un fascicolo penale telematico che, per altro, consentirebbe alle parti il deposito e la visione degli atti in tempo reale, senza bisogno di recarsi in cancelleria.
- Redazione di statistiche, al fine di monitorare l’attività giurisdizionale svolta all’interno dell’Ufficio giudiziario, soprattutto nell’ottica di realizzare gli obiettivi fissati dal Recovery Plan.
Va, comunque, sottolineato che si è dato conto solo delle principali mansioni svolte dai funzionari addetti all’Ufficio per il Processo, residuando in capo a questi altre funzioni che il Capo dell’Ufficio ritiene di assegnare loro ora per sopperire alle carenze organiche ora per il potenziamento di alcuni servizi.
Prospettive future
Il diligente svolgimento delle mansioni sopra richiamate da parte dei funzionari addetti all’Ufficio per il Processo ha dato già i suoi frutti. Ed invero, i rilevamenti effettuati dagli Uffici giudiziari nel primo semestre di attività registrano un incremento delle sentenze emesse rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, quando ancora gli addetti all’Ufficio per il Processo non erano stati assunti, con un già considerevole abbattimento dell’arretrato[6].
L’importanza di questa struttura organizzativa, in realtà, era già stata percepita dal legislatore, tanto che il Parlamento ha adottato delle leggi[7] con cui ha delegato il Governo ad elaborare un compiuto corpus normativo sulla struttura dell’Ufficio per il Processo. Ed invero, il decreto legislativo n. 151 del 10 ottobre 2022 ha definitivamente istituzionalizzato questo Ufficio, richiamando le finalità previste già nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Il Decreto, entrato in vigore l’1 novembre 2022, è parte di un’articolata riforma del processo civile e penale e disciplina specificatamente le funzioni e le mansioni del personale addetto all’Ufficio per il Processo civile ovvero penale, a seconda che lo stesso sia incardinato presso i Tribunali ordinari, le Corti d’Appello, la Corte di Cassazione o il neoistituito Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie[8].
Ebbene, i compiti normativamente ora previsti non costituiscono altro che la ricezione legislativa delle mansioni che i funzionari addetti all’Ufficio per il Processo, attualmente assunti per il tramite del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, stanno già svolgendo in virtù di note e circolari ministeriali e sulla base degli ordini di servizio emanati dai Capi degli Uffici giudiziari.
A questo punto, ci si chiede cosa accadrà alla scadenza del contratto di questo personale, dotato di professionalità e competenze giuridiche e tecniche, che il Ministero della Giustizia ha dall’inizio provveduto a formare, impiegando risorse umane e materiali, anche in ragione del fatto che l’art. 11 del decreto legge 80/2021 prevede un’ulteriore tranche di assunzioni per il medesimo profilo nel 2024.
Tenendo in considerazione che anche dopo il 2024 sarà necessario reclutare e/o assegnare del personale all’Ufficio per il Processo, appare del tutto ragionevole l’ipotesi di stabilizzazione dei funzionari già assunti.
Informazioni
D.l. 179/2012
L. 134/2021
L. 206/2021
D.l. 80/2021 conv. dalla L. 113/2021
D. l.vo 151/2022
Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza
[1] Ora abrogato, come si vedrà di seguito.
[2] Cfr. art. 111 Cost. Per un approfondimento sulla norma si rinvia a questo articolo: Il giusto processo in Italia – DirittoConsenso.
[3] Così a p. 59 del P.N.R.R..
[4] Più nello specifico, si veda l’art.12 d.l. 80/2021 conv. dalla L. 113/2021.
[5] Occorre precisare che quanto segue è frutto di esperienza diretta della scrivente, la quale ricopre la funzione di addetta all’Ufficio per il Processo presso la sezione penale del Tribunale di Castrovillari (CS).
[6] A titolo esemplificativo, si prenda in considerazione lo studio statistico effettuato dal Presidente della Terza Sezione Civile del Tribunale di Brescia, consultabile al seguente link https://www.cfnews.it/avvocatura/prima-misurazione-dell-ufficio-per-il-processo/
[7] Sul punto si vedano la L. 206/2021 e la L. 134/2021.
[8] Cfr. artt. 5-13 d. l.vo 151/2022.
Germania contro Italia: una disputa internazionale in tema di giurisdizione
La disputa Germania contro Italia per comprendere il tema dell’immunità degli Stati e dei loro beni dalla giurisdizione straniera
L’immunità degli Stati e dei loro beni dalla giurisdizione straniera e i motivi del ricorso Germania contro Italia
Nell’ambito del diritto internazionale generale si è consolidato il principio “Par in parem non habeat iudicium”, in virtù del quale uno Stato non può essere sottoposto alla giurisdizione di un suo omologo straniero. Ne è derivato che, oltre allo Stato in quanto persona giuridica, tale principio si estendesse anche ai beni di proprietà dello stesso.
Pertanto, sulla base del principio sopra richiamato, nell’ambito della comunità internazionale classica qualunque atto dello Stato compiuto sul piano internazionale fosse coperto da immunità.
Tuttavia, su impulso soprattutto della giurisdizione italiana e belga, si è assistito ad un’erosione dell’immunità assoluta riconosciuta in precedenza allo Stato. In particolare, si è cominciato a distinguere gli atti compiuti dallo Stato cc.dd. iure imperii da quelli cc.dd. iure privatorum:
- i primi ricomprendono tutte le attività poste in essere dallo Stato nell’esercizio dei propri poteri sovrani per i quali è pacifico il riconoscimento dell’immunità dalla giurisdizione straniera;
- diversamente, tutte le altre attività dello Stato devono essere ricomprese nel secondo gruppo di atti, per i quali la gran parte degli Stati non riconosce più l’immunità.
Approdati a questa nuova prassi internazionale, la questione che ha destato maggiori complessità è stata quella di individuare un criterio condiviso che venisse utilizzato da tutta la comunità internazionale al fine di distinguere le due categorie di atti.
Più nello specifico, vi sono Stati che operano tale valutazione sulla base del tipo di atto utilizzato[1], altri sulla base della finalità pubblicistica ovvero privatistica dell’atto[2]. Anche la giurisprudenza italiana ha, per così dire, partecipato al dibattito, ritenendo che la valutazione circa la natura dell’atto compiuto dallo Stato dovesse avvenire in base allo strumento utilizzato dallo Stato straniero per operare nell’ordinamento italiano[3].
A questo punto, si è reso necessario che gli Stati operassero una sintesi rispetto ad una delle questioni che maggiormente incide sul proprio dominio riservato. Pertanto, nel 2004, a seguito di una conferenza internazionale svoltasi a New York, è stata adottata una Convenzione che codifica soprattutto il diritto internazionale generale in materia. Tuttavia, essa non è in vigore, non avendo raggiunto il numero minimo delle ratifiche, fissato a trenta[4], proprio in ragione di alcune parti che contengono sviluppo progressivo del diritto internazionale.
La Convenzione di New York prevede quale regola generale l’immunità degli Stati dalla giurisdizione straniera, salvo poi individuare delle eccezioni che la fanno venir meno.
Fermo restando che il diritto all’immunità è disponibile per il suo titolare che può rinunciarvi espressamente[5] o tacitamente[6], appare opportuno analizzare brevemente proprio le eccezioni previste dalla Convenzione suddetta, atteso che è sulla base di queste che vengono a crearsi le controversie tra gli Stati.
In primo luogo, l’immunità dello Stato dalla giurisdizione straniera viene meno in presenza di transizioni commerciali tra Stato straniero e persona fisica dello Stato del foro[7].
Una seconda eccezione riguarda i contratti di lavoro conclusi tra Stato straniero e persona fisica dello Stato del foro, a patto che gli stessi vengano eseguiti – in tutto o in parte – sul territorio dello Stato del foro[8].
Ultima, e più dibattuta, eccezione – prevista dall’art. 12 della Convenzione – attiene alla possibilità di esperire un’azione di risarcimento del danno nei confronti dello Stato straniero per morte o lesione di un cittadino dello Stato del foro ovvero per distruzione o danneggiamento di un bene che si trova sul territorio dello Stato del foro. È proprio sul fatto che taluni Stati neghino la vigenza di tale norma nell’ambito del diritto internazionale generale – accusando, così, i relatori della Convenzione di New York di aver inserito nella stessa uno sviluppo progressivo del diritto internazionale – che si fonda il ricorso presentato nel 2008 dalla Germania contro l’Italia davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, di cui si parlerà di seguito.
Il caso Germania contro Italia davanti alla Corte Internazionale di Giustizia
Dopo la caduta del muro di Berlino[9], gli eredi degli italiani morti a causa delle barbarie compiute dal Terzo Reich sul territorio della penisola oppure i superstiti catturati dai nazisti durante l’occupazione tedesca iniziano a citare la Germania, ormai riunificata, davanti ai Tribunali repubblicani per ottenere il risarcimento del danno rispettivamente per la morte dei propri congiunti o per le lesioni subite.
I giudici italiani, senza esitazioni, accertano il danno e liquidano il risarcimento. La questione viene affrontata anche dalla giurisprudenza di legittimità che, nell’ormai famosa sentenza Ferrini del 2004, non riconosce l’immunità dalla giurisdizione italiana alla Germania poiché la domanda di risarcimento dei cittadini italiani trova il suo fondamento nella commissione di crimini iuris gentium da parte del Terzo Reich.
Ne è derivato che, passate in giudicato, le sentenze dovevano essere messe in esecuzione. Alla luce del mancato ristoro della Germania, lo Stato italiano inizia ad individuare beni tedeschi sul territorio della penisola al fine di poterli pignorare.
Tale atto, nel 2008, conduce la Germania a presentare, davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, un ricorso contro l’Italia per violazione della norma generale relativa all’immunità degli Stati dalla giurisdizione straniera.
Nella propria memoria difensiva, lo Stato italiano solleva principalmente quattro eccezioni:
- le violazioni poste in essere dal Terzo Reich integrano crimina iuris gentium e, pertanto, l’immunità alla Germania va negata;
- le norme in materia di crimina iuris gentium sono inderogabili; diversamente, la norma sull’immunità è derogabile;
- l’art. 12 della Convenzione di New York codifica diritto internazionale generale e si applica anche alle forze armate;
- se all’attore viene opposta l’immunità, egli non avrà alcun altro rimedio giurisdizionale per poter far valere la sua pretesa.
Ebbene, la Corte dell’Aja, con una sentenza del 2012, accoglie le istanze tedesche, intimando all’Italia di adottare una legge che impedisca alle decisioni giudiziarie lesive dell’immunità tedesca di produrre i propri effetti.
In particolare, la Corte Internazionale di Giustizia rigettava le quattro eccezioni sollevate dall’Italia utilizzando – rispettivamente – le seguenti argomentazioni:
- nessuna norma di diritto internazionale parametra l’immunità sulla base della gravità del fatto;
- le norme in materia di crimina iuris gentium hanno natura sostanziale, mentre quelle in materia di immunità hanno natura procedurale; pertanto, proceduralmente devono affrontarsi prima le questioni in rito e poi, eventualmente, quelle in merito;
- l’Italia non può invocare l’art. 12 della Convenzione di New York, in quanto la stessa non è in vigore; inoltre, anche qualora fosse in vigore, la norma non si applicherebbe alle forze armate;
- il riconoscimento o meno dell’immunità ad uno Stato non dipende dai mezzi giurisdizionali a disposizione del ricorrente.
Le conseguenze della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia in Italia
All’esito della pronuncia di condanna da parte della Corte Internazionale di Giustizia, l’Italia – ai sensi dell’art. 94 Carta ONU – è tenuta ad adottare tutti i mezzi necessari per far cessare gli effetti delle sentenze italiane nei confronti dello Stato tedesco.
Proprio in ragione del fatto che alcuni di questi provvedimenti erano già passati in giudicato, l’art. 3 co. 2 della l. 5/2013 ha introdotto un’ipotesi di revocazione straordinaria delle sentenze contrarie alla pronuncia della Corte dell’Aja.
Tuttavia, il Tribunale di Firenze solleva tre distinte questioni di legittimità costituzionale con cui, in buona sostanza, considerava la norma sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione straniera nel caso di commissione di crimina iuris gentium contraria agli artt. 2 e 24 della Costituzione[10]. Ebbene, la Corte Costituzionale con sentenza 238/2014 ha ritenuto infondata la questione sollevata dal giudice a quo, atteso che la norma sull’immunità degli Stati, così come interpretata dalla Corte Internazionale di Giustizia, non è mai entrata a far parte dell’ordinamento italiano attraverso lo strumento dell’art. 10 co.1 Cost.[11] perché contraria ai principi fondamentali di cui agli artt. 2 e 24 Cost.
Gli ultimi sviluppi della saga
La sentenza 238/2014 della Corte Costituzionale ha nuovamente incentivato i cittadini italiani, lesi dai crimini commessi dal Terzo Reich tra il 1943 e il 1945 sul territorio della penisola, a citare in giudizio la Germania per ottenere il risarcimento dei danni subiti[12]. Ne è derivato che l’Italia ha attivato le procedure per mettere in esecuzione le sentenze di condanna passate in giudicato rese dai propri giudici.
Il pericolo di vendita di alcuni dei beni tedeschi presenti sul territorio italiano ha condotto la Germania, nell’aprile 2022, a presentare un ricorso cautelare contro l’Italia davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, lamentando il mancato rispetto della sentenza del 2012 da parte di Roma e chiedendo la sospensione immediata delle procedure esecutive attivate.
Il giorno successivo alla presentazione del ricorso cautelare, il 30 aprile 2022, l’Italia adotta un decreto legge con cui istituisce un fondo per il ristoro dei cittadini italiani lesi dai crimini commessi dai nazisti durante il periodo di occupazione.
Questo inaspettato atto dell’Italia ha indotto la Germania a ritirare il ricorso presentato davanti ai giudici dell’Aja.
Può dirsi che stiamo vivendo l’ultimo atto dell’annosa saga Germania contro Italia che ha appassionato i giuristi di tutto il mondo?
Informazioni
FOCARELLI, 2019, Diritto internazionale, Wolters Kluwer CEDAM.
NIGRO, 2018, Le immunità giurisdizionali dello stato e dei suoi organi e l’evoluzione della sovranità nel diritto internazionale, CEDAM.
SINAGRA-BARGIACCHI, 2019, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Giuffré Francis Lefebvre.
[1] A titolo esemplificativo, secondo questa impostazione, se lo Stato era contraente di una locazione, allora l’atto poteva definirsi iure privatorum; diversamente, una legge è un atto iure imperii.
[2] A titolo esemplificativo, secondo questa impostazione, se il contratto di locazione concluso dallo Stato avesse ad oggetto i locali di una propria missione diplomatica, allora l’atto era da considerarsi comunque iure imperii.
[3] Cfr. Cass., Sez. Un., sent. 145/1990; Cass., Sez. Un., sent. 5092/1990.
[4] L’Italia ha ratificato la Convenzione di New York nel 2013.
[5] Mediante dichiarazione unilaterale dello Stato titolare ovvero accordo bilaterale tra Stato titolare e Stato straniero.
[6] Mediante presentazione di domanda riconvenzionale.
[7] Cfr. art. 10 Convenzione di New York.
[8] Cfr. art. 11 Convenzione di New York.
[9] Convenzionalmente fatta risalire al 9 novembre 1989.
[10] Rispettivamente disciplinanti la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo e il diritto di difesa. Sul punto, si rimanda a: I diritti costituzionali – DirittoConsenso.
[11] Norma che consente l’adattamento del diritto interno al diritto internazionale generale.
[12] Tra le tante, Cass., Sez. Un., sent. n. 20442/2020.
Il ricorso Ucraina contro Russia dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia
Il procedimento cautelare davanti alla Corte Internazionale di Giustizia a seguito del ricorso presentato dall’Ucraina contro la Russia
Il ricorso Ucraina contro Russia davanti alla Corte Internazionale di Giustizia
A seguito dell’attacco delle forze armate della Federazione Russa contro l’integrità territoriale dell’Ucraina[1], il 25 febbraio 2022 quest’ultima ha presentato ricorso davanti alla Corte Internazionale di Giustizia[2].
L’atto introduttivo ha ad oggetto l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948. In particolare, ai sensi dell’art. 41 dello Statuto della CIG e degli artt. 73, 74 e 75 del Regolamento di procedura, l’Ucraina ha chiesto ai giudici dell’Aja l’adozione di misure urgenti affinché entro una settimana Mosca ponesse fine all’invasione del territorio ucraino.
A tal riguardo, nel proprio ricorso, il governo di Kiev ha spiegato le ragioni che l’hanno indotto ad individuare la Convenzione del 1948 come fonte normativa oggetto di violazione da parte della Federazione Russa. Ed invero, il 24 febbraio 2022, il presidente Putin ha avviato una “operazione militare speciale” contro l’Ucraina con lo scopo di porre fine al “genocide of the millions of people who live in the Luhansk and Donetsk”[3], atteso che i cittadini di queste due regioni ucraine avrebbero subito umiliazioni e atti di genocidio da parte del “regime” di Kiev. Mosca, inoltre, ha affermato di voler denazificare l’Ucraina.
Pertanto, alla luce delle dichiarazioni rese dal governo di Mosca e delle operazioni militari avviate, l’Ucraina ha deciso di depositare ricorso davanti alla CIG contro la Federazione Russa, in quanto la violazione della sua integrità territoriale è causa di una catastrofe umanitaria per l’Ucraina e la sua popolazione[4].
Poiché entrambi gli Stati in controversia hanno ratificato la Convenzione del 1948, sia la Federazione Russa sia l’Ucraina sono obbligate al rispetto delle disposizioni contenute in essa ed, in particolare, ad adottare tutte le misure necessarie per prevenire e reprimere il crimine di genocidio. Nel caso di specie, secondo quanto contenuto nel ricorso ucraino, Mosca ha posto in essere una violazione della Convenzione, dal momento che la stessa non autorizza gli Stati parte, i quali hanno il sospetto che un altro Stato contraente abbia violato il Trattato, ad invadere il territorio del presunto autore della violazione. Né, tantomeno, lo Stato che abbia ravvisato l’inadempimento ha il diritto di qualificare unilateralmente l’atto come “genocidio”.
L’art. IX della Convenzione del 1948, infatti, prevede che: “Le controversie tra le Parti contraenti, relative all’interpretazione, all’applicazione o all’esecuzione della presente Convenzione, comprese quelle relative alla responsabilità di uno Stato per atti di genocidio o per uno degli altri atti elencati nell’articolo III[5], saranno sottoposte alla Corte internazionale di Giustizia, su richiesta di una delle parti alla controversia”. Pertanto, conclude l’Ucraina, qualora il governo di Mosca avesse ravvisato eventuali atti di genocidio nelle due regioni ucraine del Luhansk e del Donetsk, che la Russia riconosce come indipendenti, avrebbe dovuto rimettere la questione alla CIG e non agire unilateralmente, commettendo una violazione di una norma internazionale imperativa, e dunque inderogabile, quale il divieto dell’uso della forza[6].
Le misure cautelari richieste dall’Ucraina in breve
Alla luce di quella che nel suo ricorso l’Ucraina definisce “a large scale invasion”[7], Kiev ha chiesto alla CIG l’adozione di una serie di misure cautelari, atteso che l’operazione militare russa sta causando numerose vittime tra i civili e tra i militari a seguito dei bombardamenti occorsi in molte città ucraine, conseguenza ulteriore dei quali è l’abbandono del Paese da parte della popolazione superstite.
Pertanto, ravvisandosi le condizioni formali del periculum in mora e del fumus boni iuris, al paragrafo 20 del suo ricorso, l’Ucraina ha rassegnato le proprie conclusioni, chiedendo alla CIG di disporre le seguenti misure:
- La sospensione immediata delle operazioni militari intraprese dalla Federazione Russa il 24 febbraio 2022.
- La sospensione immediata del supporto, del controllo e della direzione delle unità armate militari e irregolari da parte di Mosca affinchè non commettano genocidio in Ucraina.
- L’adozione di assicurazioni da parte della Federazione Russa di non aggravare o estendere la controversia.
- L’adozione da parte delle Federazione Russa di un report contenente le modalità di esecuzione dell’ordinanza cautelare della CIG.
L’atto difensivo depositato dalla Federazione Russa
Il 7 marzo 2022, la Federazione Russa, dopo aver ricevuto la notifica del ricorso ucraino, ha depositato nella cancelleria della CIG la propria memoria difensiva. Nella stessa, Mosca dichiara che non intende partecipare alla fase orale del procedimento davanti alla CIG[8], in quanto ritiene che la Corte dell’Aja non abbia competenza per giudicare sulla controversia.
In primo luogo, la Federazione Russa ritiene le conclusioni contenute nel ricorso ucraino troppo generali, mancando, prima facie, le basi giuridiche che consentono di cristallizzare la giurisdizione della CIG.
In secondo luogo, la Convenzione del 1948, che all’art. IX rimette le questioni interpretative ed applicative alla CIG, non regola né l’uso della forza tra gli Stati né l’istituto del riconoscimento degli Stati di nuova indipendenza. La regolazione di questi fenomeni è rimessa piuttosto alla Carta ONU e al diritto internazionale consuetudinario. Nel caso di specie, infatti, secondo quanto sostenuto da Mosca, l’operazione speciale militare avviata nel territorio ucraino sarebbe inquadrabile più correttamente nell’istituto della legittima difesa di cui all’art. 51 Carta ONU.
In conclusione, la Convenzione del 1948 non fornisce alcuna base normativa circa le operazioni militari e il riconoscimento delle “Donetsk and Lugansk Peoples’ Republics”[9] è un atto sovrano politico della Federazione Russia, al fine di valorizzare il principio di autodeterminazione dei popoli sancito dalla Carta ONU, dal diritto internazionale consuetudinario e individuato come uno dei principi di diritto internazionale dalla Risoluzione dell’Assemblea Generale n. 2625/1970.
L’ordinanza cautelare della Corte Internazionale di Giustizia
Il 16 marzo 2022, la CIG ha depositato l’ordinanza cautelare che accoglie il ricorso presentato dall’Ucraina.
Preliminarmente, i giudici dell’Aja rigettano l’eccezione sollevata dalla Federazione Russa circa la mancanza di competenza della Corte. Più nello specifico, la CIG spiega che, in base allo Statuto e al Regolamento di procedura, è competente a decidere sui ricorsi cautelari quando, qualora si giunga alla fase di merito, lo sarebbe anche su tale stato del procedimento. Ebbene, nel caso di specie, l’art. IX della Convenzione del 1948 costituisce una clausola compromissoria a favore della stessa CIG per tutte le controversie concernenti l’interpretazione e l’applicazione del Trattato. Quanto accaduto in Ucraina determina l’esistenza di una controversia di tal genere tra Kiev e Mosca, giacché le parti mostrano disaccordo[10] circa la nozione stessa di “genocidio”.
Premesso ciò, i giudici dell’Aja discettano sul c.d. “periculum in mora”. Ed invero, a parere della CIG, quanto sta accadendo in Ucraina è suscettibile di causare un pregiudizio irreparabile al diritto alla vita e al diritto di proprietà dei cittadini ucraini e all’ambiente del Paese.
Dunque, tenendo conto delle circostanze del caso, la CIG ordina alla Federazione Russa di sospendere, in pendenza del procedimento, le operazioni militari avviate il 24 febbraio 2022 nel territorio ucraino.
Inoltre, richiamando lo statement del Rappresentante Permanente di Mosca alle Nazioni Unite circa la situazione della “Donetsk People’s Republic” e della “Lugansk People’s Republic”, i giudici dell’Aja ordinano al governo di Mosca di non supportare, controllare e dirigere le unità armate militari o irregolari che combattono sul territorio. Tuttavia, la CIG rigetta la richiesta ucraina volta ad obbligare la Federazione Russa a fornire un report alla stessa Corte circa l’esecuzione delle misure provvisorie.
È necessario sottolineare che tale decisione è stata adottata con una maggioranza di tredici voti contro due. Ed invero, il giudice russo Gevorgian (uno dei vicepresidenti della CIG) e il giudice cinese Xue hanno espresso voto contrario: non occorre approfondirne le motivazioni!
Per ragioni di completezza e con la speranza di una celere risoluzione diplomatica del conflitto, va comunque chiarito che con ordinanza del 23 marzo 2022 la CIG ha fissato l’avvio della fase scritta di merito fissando il 23 settembre prossimo quale termine di deposito della memoria per l’Ucraina e il 23 marzo 2023 quale termine di deposito della contromemoria per la Federazione Russa, al fine dell’adozione della sentenza.
Informazioni
Ricorso ucraino: https://www.icj-cij.org/public/files/case-related/182/182-20220227-APP-01-00-EN.pdf
Memoria difensiva russa: https://www.icj-cij.org/public/files/case-related/182/182-20220307-OTH-01-00-EN.pdf
Ordinanza cautelare: https://www.icj-cij.org/public/files/case-related/182/182-20220316-ORD-01-00-EN.pdf
Ordinanza di fissazione termini per l’avvio della fase scritta di merito: https://www.icj-cij.org/public/files/case-related/182/182-20220323-ORD-01-00-EN.pdf
[1] Che il presidente russo Putin ha definito “special military operation”.
[2] Da ora in poi, CIG.
[3] “Genocidio di milioni di cittadini che vivono nelle regioni di Luhansk e Donetsk”.
[4] Così nel ricorso: “On the basis of these claims of genocide, the Russian Federation immediately commenced an unprovoked invasion throughout Ukrainian territory, which is already causing catastrophic harms to Ukraine and its people, both military and civilian”.
[5] La norma individua le fattispecie riconducibili al genocidio.
[6] Cfr. art. 2 par. 4 Carta ONU e CIG, Nicaragua c. USA, 1986.
[7] “Un’invasione su larga scala”.
[8] Per la procedura applicata dalla CIG, si veda A. FEDERICO, “La Corte Internazionale di Giustizia: una guida pratica”, consultabile a questo link: La Corte Internazionale di Giustizia: una guida pratica – DirittoConsenso.
[9] Così al par. 17 della memoria difensiva.
[10] Cfr. CPGI, Mavrommatis, 1924.
La separazione tra Corea del Nord e Corea del Sud
Le misure del Consiglio di Sicurezza e questione della soggettività internazionale nella guerra di Corea: la separazione tra Corea del Nord e Corea del Sud
La guerra di Corea
Un tempo vi era un unico grande Stato di Corea. La separazione tra Corea del Nord e Corea del Sud affonda le sue radici all’inizio della Guerra Fredda[1].
Ed invero, sul fine della Seconda Guerra Mondiale, l’8 agosto 1945, l’Unione Sovietica invase il Giappone passando per la Corea settentrionale in quanto territorio confinante; gli Stati Uniti, invece, entrarono nel Paese del Sol Levante passando dalla Corea meridionale.
Le due potenze della coalizione delle Nazioni Unite[2] riuscirono ad annientare militarmente e politicamente[3] il Giappone. Ciò portò in Corea alla creazione di una linea di divisione degli eserciti statunitense e sovietico lungo il trentottesimo parallelo che con l’intensificarsi della Guerra Fredda divenne confine tra due Stati: la Corea del Nord con un governo filosovietico guidato da Kim Il Sung e la Corea del Sud con un governo filoamericano guidato da Rhee.
Tuttavia la Corea era sempre stata considerata dalla comunità nazionale ed internazionale come un unicum e, dunque, entrambi i governatori avevano come progetto quello della riunificazione. In particolare, Kim Il Sung, su consiglio del sovietico Stalin, propose al leader cinese Mao Zedong di attuare tale progetto di riunificazione.
Il 25 giugno 1950 la Corea del Nord attaccò la Corea del Sud che immediatamente deferì la questione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
L’intervento del Consiglio di Sicurezza
Si è detto che, allo scoppio della guerra, la questione venne immediatamente posta al vaglio del Consiglio di Sicurezza che, di fatto, si trovò ad affrontare la prima crisi militare internazionale dopo la sua istituzione.
La Carta delle Nazioni Unite[4], all’art. 24, prevede che il Consiglio di Sicurezza ha la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale[5]. Pertanto, qualora accerti un’ipotesi di minaccia alla pace, violazione della pace o di atto di aggressione[6], può adottare una delle misure previste dagli artt. 40, 41 o 42 della Carta ONU. Si tratta di misure che devono essere adottate senza il voto contrario di nessuno dei membri permanenti, quali gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica, il Regno Unito, la Repubblica Popolare Cinese e la Francia[7].
Ebbene, nel caso di specie, l’Unione Sovietica in quel periodo non partecipava all’attività dell’organo onusiano per protestare contro il fatto che il seggio permanente era ancora occupato dalla Cina nazionalista[8] e, pertanto, allo scoppio della guerra in Corea rinunciò all’esercizio del diritto di veto sulle decisioni assunte dal Consiglio di Sicurezza.
In particolare, con la Risoluzione del 25 giugno 1950 i membri presero atto dell’attacco della Corea del Nord nei confronti della Corea del Sud qualificandolo, ai sensi dell’art. 39 Carta ONU, come una violazione della pace. Quarantotto ore dopo, con la Risoluzione del 27 giugno 1950, il Consiglio di Sicurezza invitò gli Stati della comunità internazionale a conferire parte dei loro contingenti sotto il comando del generale americano MacArthur, che si trovava nel vicino Giappone appena sconfitto.
L’azione onusiana in Corea diede avvio alla prassi dell’autorizzazione all’uso della forza agli Stati, in mancanza di una piena attuazione degli artt. 42 e seguenti della Carta ONU che, invece, prevedono l’istituzione di un esercito delle Nazioni Unite attraverso contingenti permanenti conferiti dagli Stati membri mediante accordi speciali.
In Corea, dunque, si ebbe la prima forma di peacekeeping operation: si tratta di un modello ampiamente utilizzato come forma di intervento militare per ristabilire o mantenere la pace che, nella prassi più recente, mira a coinvolgere anche la società civile e a rieducare la classe dirigente dello Stato che ha subito una violazione della pace[9].
Dunque, i cc.dd. “caschi blu” arrivarono in Corea del Sud e sul finire del 1950 riuscirono a far retrocedere i soldati della Corea del Nord oltre il trentottesimo parallelo. Tuttavia, anche il generale MacArthur avrebbe voluto riunificare la Corea e, pertanto, i combattimenti non cessarono, anche perché la Corea settentrionale venne sostenuta militarmente dalla Cina popolare.
La separazione tra Corea del Nord e Corea del Sud e l’attuale situazione
Nel luglio 1951, a combattimenti ancora in corso, l’Unione Sovietica chiese agli Stati Uniti l’avvio dei negoziati per giungere alla pace. Tuttavia, le trattative si arenano per la questione del trattamento dei prigionieri, soprattutto quelli della Corea del Nord che Washington accusava di indottrinare al comunismo. I negoziati ripresero nel 1952, dopo la vittoria di Eishenower alle elezioni presidenziali americane.
Il 27 luglio 1953 venne firmato a Panmujeom un armistizio provvisorio il quale prevedeva che la questione sarebbe stata affrontata nella conferenza di Ginevra del 1954. Essa, però, si risolse con un nulla di fatto, atteso che esistono ancora due Coree.
Dal punto di vista giuridico, la questione è inquadrabile nell’istituto della separazione che, di fatto, si verifica quando da uno Stato sovrano se ne formano due altrettanto indipendenti. Si tratta di un fenomeno che spesso, come nel caso della Corea, non si realizza pacificamente, tanto da incidere sulla soggettività dello Stato da cui avviene la separazione e dello Stato che si è separato.
A tal riguardo, deve preliminarmente osservarsi che la soggettività è la condizione fondamentale affinché uno Stato possa essere destinatario di diritti e obblighi sul piano internazionale e, quindi, possa interagire con gli altri Stati. Alla luce di ciò, è soggetto internazionale quell’ente che esercita in maniera effettiva il potere di imperio sul territorio e sui cittadini che ivi insistono e che è indipendente rispetto agli altri Stati.
Nel caso in esame, non ci si è mai posto il problema della soggettività di entrambi gli Stati coreani, dal momento che sia Pyongyang sia Seul hanno sempre avuto due governi, che seppure molto distanti ideologicamente, hanno mantenuto e continuano a mantenere le proprie prerogative sovrane.
Da quanto detto, dunque, non appare prospettabile una riunificazione politica della penisola coreana. Tuttavia, bisogna fare cenno ai tentativi diplomatici di avvicinamento tra Corea del Nord e Corea del Sud al fine, quanto meno, di mantenere relazioni di buon vicinato: a seguito della partecipazione alle Olimpiadi invernali di Pyeongchang del 2018 da parte della Corea del Nord, nell’aprile dello stesso anno i due Stati firmarono una Dichiarazione per la pace, la prosperità e l’unificazione della penisola coreana.
Informazioni
Carta ONU
DI NOLFO, 2020, Storia delle Relazioni Internazionali, Laterza.
CONFORTI, 2014, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica
DEL VECCHIO, 2003, Giurisdizione internazionale e globalizzazione, Giuffrè Editore
FOCARELLI, 2019, Diritto internazionale, Wolters Kluwer CEDAM
SINAGRA-BARGIACCHI, 2019, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Giuffré Francis Lefebvre
[1] Il giornalista Walter Lippmann definì così il secondo dopoguerra per indicare la guerra frontale tra le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica.
[2] Il primo gennaio 1942, USA, URSS, Gran Bretagna ed altri Stati minori adottarono la “Dichiarazione delle Nazioni Unite” con cui si impegnavano a prendere tutte le misure necessarie per sconfiggere il Nazismo.
[3] Trattasi di debellatio.
[4] Adottata a seguito della Conferenza di San Francisco nel giugno 1945 ed entrata in vigore nell’ottobre dello stesso anno.
[5] Cfr. CIG, 1962, Certe spese delle Nazioni Unite.
[6] Cfr. art. 39 Carta ONU.
[7] Cfr. art. 27, par. 3, Carta ONU.
[8] Nel 1949, a seguito della guerra civile in Cina, la guida del Paese era passata al partito comunista cinese.
[9] Per un approfondimento, si veda A. FEDERICO, “Le operazioni di peacekeeping”, consultabile al seguente link: Le operazioni di peacekeeping – DirittoConsenso.
L'arbitrato nelle controversie internazionali
Dall’arbitrato internazionale all’arbitrato transnazionale: come si risolvono le controversie tra Stati?
L’arbitrato internazionale: un metodo di risoluzione delle controversie
L’arbitrato internazionale può qualificarsi quale metodo giudiziale di risoluzione delle controversie. A differenza dei metodi diplomatici[1], infatti, il ricorso all’arbitrato internazionale da parte degli Stati permette agli stessi di giungere ad una soluzione vincolante per la parte soccombente, tale da poter essere messa in esecuzione. Tuttavia, diversamente della procedura utilizzata davanti alle Corti internazionali[2], l’iter e le decisioni arbitrali presentano connotati quasi del tutto differenti, come si avrà modo di riscontrare di seguito.
In primo luogo, deve osservarsi che l’arbitrato internazionale trova la sua fonte nel c.d. compromesso arbitrale, quale accordo che gli Stati stipulano al sorgere della controversia e attraverso il quale gli stessi individuano il numero degli arbitri, cioè le persone fisiche che svolgeranno tale funzione, e la procedura da utilizzare. Da ciò emergono le prime differenze con l’iter di risoluzione delle controversie davanti alle Corti internazionali. In particolare, l’arbitrato internazionale implica che né gli arbitri né la procedura abbiano natura permanente, atteso che sono gli Stati che al momento del sorgere della controversia nominano gli arbitri e decidono quale diritto applicare al fine della sua risoluzione, optando, talvolta, anche per il diritto interno di una delle parti.
All’esito, il collegio arbitrale, formato minimo da tre individui che manifestano le prerogative dell’imparzialità rispetto alla controversia e dell’indipendenza rispetto agli Stati, adottano un lodo arbitrale. Esso costituisce la decisione assunta dagli arbitri che lo Stato soccombente deve eseguire.
Genesi ed evoluzione
Operate delle considerazioni di carattere generale sull’arbitrato internazionale, appare necessario chiarire che, rispetto alla procedura arbitrale, la prassi ha subito notevoli evoluzioni nel passaggio dalla comunità internazionale classica a quella moderna.
Ed invero, nel corso del XIX secolo, gli Stati stipulavano il compromesso arbitrale solo dopo il sorgere della controversia: trattasi del c.d. arbitrato isolato. Ciò implicava che in concreto gli Stati non sempre stipulassero il compromesso, poiché, qualora la controversia fosse risultata oggetto di ferme pretese delle parti, le stesse non sarebbero riuscite ad addivenire ad un accordo funzionale alla nomina del collegio arbitrale. Ne derivava che gli Stati stipulassero il compromesso arbitrale solo per controversie minori, prevedendo, tra l’altro, procedure sommarie che non garantivano un’attenta analisi da parte degli arbitri. Questo trova conferma anche nel fatto che, all’epoca, il lodo non era motivato ma era formato solo dal dispositivo, cioè l’ordine imposto allo Stato soccombente.
Con il passare dei decenni e con il progressivo affermarsi della norma di diritto internazionale generale in materia di risoluzione pacifica delle controversie, si è assistito ad un’evoluzione di tale metodo. Si pensi all’introduzione, all’interno dei trattati internazionali, della clausola compromissoria c.d. non completa. Essa può configurarsi come una clausola finale che gli Stati inserivano all’interno degli accordi con cui gli stessi si impegnavano a stipulare un compromesso arbitrale nel caso in cui fosse sorta una controversia sull’interpretazione o l’applicazione del trattato. Allo stesso modo, era invalsa la prassi di stipulare veri e propri trattati internazionali con i quali gli Stati individuavano una serie di materie che, qualora avessero dovuto essere oggetto di controversia, si impegnavano a sottoporre al giudizio di un collegio arbitrale. Tanto la clausola compromissoria quanto il trattato di arbitrato, seppur non completi rispetto alla prassi più recente, configuravano in capo agli Stati un obbligo de contrahendo in relazione al compromesso arbitrale. Vieppiù che nei trattati più moderni, al fine di non frustrare tale obbligo, gli Stati prevedevano già in via preliminare il numero degli arbitri e la procedura da seguire.
Da ultimo, la comunità internazionale moderna ha fatto esperienza dell’adozione di clausole compromissorie e trattati generali di arbitrato completi. Essi si differenziano dai loro “predecessori” per il fatto che, già in sede di stipula, gli Stati prevedono che le eventuali future controversie siano devolute ad una determinata Corte internazionale. Il metodo giurisdizionale, infatti, proprio perché si basa sul consenso degli Stati che ne hanno accettato la giurisdizione, assume natura essenzialmente arbitrale e può qualificarsi come lo sviluppo più moderno dell’arbitrato internazionale tradizionale.
Dall’arbitrato internazionale all’arbitrato transnazionale: alcuni esempi
Prima dell’istituzione delle Corti internazionali, la più importanti delle quali è sicuramente la Corte Internazionale di Giustizia, il metodo più invalso per ottenere una risoluzione della controversia di carattere vincolante era sicuramente l’arbitrato. Corre l’obbligo, dunque, di analizzarne alcuni esempi.
Un primo ed importante riferimento deve essere fatto sicuramente alla Corte Permanente di Arbitrato. Essa è una vera e propria organizzazione internazionale fondata nel 1899 con il fine precipuo di facilitare la risoluzione delle controversie fra gli Stati membri nelle materie più diverse[3]. Ha la sua sede centrale a L’Aja nel Palazzo della Pace, proprio come la Corte Internazionale di Giustizia, ma ha recentemente aperto un suo Ufficio anche a Vienna. Il suo Report Annuale, pubblicato il 26 aprile 2022, mostra un aumento delle controversie tra investitori e Stati[4].
Tale ultimo dato permette di operare una rilevante considerazione: la maggior parte delle controversie arbitrali hanno natura commerciale e spesso non si consumano tra Stati ma tra Stati e persone fisiche o giuridiche straniere. In quest’ultimo caso appare più corretto parlare di “arbitrato transnazionale” e non di “arbitrato internazionale”. Lo scopo sarà, infatti, quello di risolvere controversie sorte in merito agli investimenti diretti esteri fatti dalle imprese in uno Stato straniero.
A tal riguardo, un importante esempio di Corte arbitrale è l’ICSID (International Centre for Settlement of Investment Disputes – Centro internazionale per il regolamento delle controversie relative ad investimenti). Essa, istituita nel 1965, ha sede a Washington presso la Banca Mondiale ed eroga servizi di arbitrato e conciliazione relativamente alle controversie concernenti gli investimenti che i privati di uno Stato parte hanno fatto in un altro Stato parte. Affinché l’ICSID possa attivarsi, è necessario che la controversia sia giuridica e che la giurisdizione sia accettata per iscritto dalle parti. Inoltre, tale corte arbitrale, ai fini della decisione, applicherà il diritto indicato nel contratto di investimento o, in mancanza e nel caso di disaccordo, il diritto interno dello Stato parte della controversia.
Infine, deve osservarsi che in materia commerciale, l’intervento della Corte Internazionale di Arbitrato è oggi, secondo le statistiche[5], il più diffusamente richiesto a livello internazionale per la risoluzione delle controversie. Essa, con sede a Parigi, è stata fondata nel 1923 e la sua attività di mediazione ha coinvolto 142 Stati.
Ebbene, alla luce di quanto rappresentato, emerge una nuova prassi: la risoluzione delle controversie tra gli Stati oggi appare più orientata verso il ricorso alle Corti internazionali; diversamente, la risoluzione tra persone fisiche o giuridiche e Stati stranieri appare più orientata verso il ricorso ai collegi arbitrali, soprattutto in materia commerciale. Tale trend trova la sua origine più remota nell’importanza che l’individuo ha assunto e continua ad assumere nelle relazioni internazionali.
Informazioni
CONFORTI, 2014, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica
DEL VECCHIO, 2003, Giurisdizione internazionale e globalizzazione, Giuffrè Editore
FOCARELLI, 2019, Diritto internazionale, Wolters Kluwer CEDAM
SINAGRA-BARGIACCHI, 2019, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Giuffré Francis Lefebvre
[1] Cfr. art. 33 par. 1 Carta ONU.
[2] Sul punto, si veda A. FEDERICO, Come gli Stati risolvono le controversie internazionali, consultabile al seguente link: Come gli Stati risolvono le controversie internazionali? – DirittoConsenso .
[3] A titolo esemplificativo, si ricordi la delimitazione di confini terrestri e marini, la tutela dei diritti umani, gli investimenti internazionali, le controversie commerciali.
[4] Il Report annuale è visibile sul sito della Corte Permanente di Arbitrato, https://pca-cpa.org/en/home/
I trattati di amicizia
I trattati di amicizia: dalla comunità internazionale classica alla comunità internazionale moderna
I trattati di amicizia: una tradizione centenaria
I trattati di amicizia costituiscono una peculiare categoria della vasta gamma dei trattati internazionali. In generale, un trattato internazionale può definirsi come l’accordo tra due o più soggetti del diritto internazionale al fine di creare, modificare, estinguere una norma obbligatoria internazionale. La vincolatività del contenuto della convenzione trova la sua fonte nel principio generale “pacta sunt servanda”[1] codificato all’art. 26 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969. L’art. 2 della medesima convenzione rinviene nell’accordo in forma scritta l’elemento costitutivo del trattato[2].
Più nel particolare, rispetto al tema che qui interessa, i trattati di amicizia si configurano come accordi attraverso i quali le Parti si impegnano al rispetto reciproco dell’indipendenza e dell’integrità politica e all’avvio di una cooperazione in uno o più settori. Vi sono, infatti, trattati di amicizia strumentali all’instaurazione di una cooperazione economica, politica, commerciale, culturale, tecnica tra le Parti.
Si deve segnalare che la maggior parte dei trattati di amicizia sono bilaterali, ovverosia conclusi da soli due Stati. Ed invero, la natura di questi accordi implica un sostegno e una collaborazione tali da poter giustificare lo sforzo nei confronti di una sola Parte. In questo caso, il sinallagma, che sta alla base di tutti i trattati internazionali, è rappresentato dall’impegno alla cooperazione che uno Stato promette all’altro. In molte circostanze, il patto di amicizia viene concluso a seguito di una controversia, di solito grave, tra le Parti contraenti: si configura, dunque, come una forma più blanda dei trattati di pace[3] che seguivano lo stato di guerra.
Alla luce di tali ultime considerazioni, si intuiscono facilmente le ragioni che inducono gli Stati a concludere un trattato di amicizia. Esse, infatti, sono riconducibili alla fine del contenzioso diplomatico e alla volontà delle Parti di riprendere o iniziare reciproche relazioni, scevre da qualsiasi turbamento o impedimento.
I trattati di amicizia nell’ambito della comunità internazionale classica
Nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento i trattati di amicizia si configuravano come forme di garanzia tra gli Stati al fine di evitare una guerra di aggressione di uno nei confronti dell’altro. La maggior parte di essi, infatti, erano denominati “patti di amicizia e non aggressione” e assicuravano alle Parti contraenti una forma di lealtà reciproca.
Questa natura così peculiare che i trattati di amicizia assumevano allora era da ascriversi alla instabilità delle relazioni internazionali e alla mancanza di una norma di diritto internazionale generale che obbligava gli Stati alla risoluzione pacifica delle controversie e al rispetto del divieto dell’uso della forza. In ragione di tale lacuna, l’alternativa per gli Stati era quella di costituire uno strumento, altrettanto vincolante, con valore inter partes.
A titolo esemplificativo, si pensi al trattato di amicizia e non aggressione concluso tra il Ministro degli Esteri sovietico Molotov e il suo omologo tedesco Von Ribbentrop il 23 agosto 1939, all’alba dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Questo trattato, così come formulato, assicurava alla Germania di Hitler di non dover combattere su un doppio fronte, quello anglo-francese e quello sovietico, durante le ostilità.
Tuttavia, la stessa Storia mostra come l’equilibrio precario, su cui si fondavano queste fonti pattizie, ne aumentava il rischio di violazione in base agli interessi che, ora da una parte ora dall’altra, determinavano la volontà degli Stati. Ed invero, prendendo nuovamente ad esempio il trattato di amicizia e non aggressione Molotov-Von Ribbentrop, questo risulta essere stato formalmente violato il 22 giugno 1941, circa due anni dopo dalla sua conclusione, quando Hitler, dando esecuzione all’Operazione Barbarossa, invade l’URSS e, dunque, viola la sua integrità territoriale.
Da questo si evince che la violazione del trattato di amicizia da parte di uno Stato fa venir meno l’interesse ad adempiere anche dell’altro Stato: si tratta, infatti, di accordi che costituiscono convenzioni sinallagmatiche tra le Parti contraenti per le quali il mancato rispetto degli obblighi da parte di uno fa conseguire l’estinzione del trattato.
I trattati di amicizia nell’ambito della comunità internazionale moderna
Il disastro delle Due Grandi Guerre impose un cambiamento di rotta agli Stati in ordine alla gestione delle ostilità. Soprattutto con l’adozione della Carta delle Nazioni Unite, si è affermato sul piano del diritto internazionale generale il divieto dell’uso della forza[4]. Questa norma ha portato al cristallizzarsi di un altro obbligo internazionale quale suo corollario, cioè quello di risolvere pacificamente le controversie tra Stati[5]. Ne deriva che anche i trattati di amicizia sono tornati ad assumere la loro natura originaria, quali accordi di cooperazione in diversi settori tra le Parti contraenti. Come si sosteneva in apertura, la tendenza più moderna è quella di stipulare un unico trattato bilaterale con cui gli Stati si impegnano ad attuare una collaborazione in ambito economico, commerciale, tecnico e culturale.
A titolo esemplificativo, per ciò che concerne l’Italia, si consideri l’Accordo Italia-Libia del 2008 che ha avviato un importante partenariato tra i due Stati[6]. Esso è intervenuto per porre fine ad una controversia durata decenni che coinvolgeva le due Parti: da un lato, l’Italia aveva colonizzato la Libia fin dal 1911; dall’altro, questa fu accusata dall’Italia di terrorismo internazionale quando, dopo un bombardamento statunitense sulle città di Tripoli e Bengasi, la Libia lanciò un missile che cadde nelle acque adiacenti a Lampedusa. Risolto il contenzioso, il trattato di amicizia è il culmine di altri accordi bilaterali Italia-Libia e di una serie di documenti politici in materia di turismo, protezione degli investimenti, cooperazione culturale, relazioni consolari.
Un esempio ancora più avanzato di trattato di amicizia è costituito dall’Accordo del Quirinale tra Italia e Francia, firmato il 26 novembre 2021. Si tratta di un trattato bilaterale di cooperazione rafforzata tra i due Stati al fine di far fronte comune rispetto alle sfide che chiedono di essere affrontate nell’attualità del momento. In particolare, dopo aver richiamato nel Preambolo i valori ispiratori della NATO, della Carta delle Nazioni Unite e del Trattato sull’Unione europea, i due Stati si assicurano reciproca assistenza nell’ambito della sicurezza e della difesa, con un attento sguardo alle politiche migratorie, e si impegnano a rafforzare la cooperazione economica, industriale e digitale.
All’esito di quanto detto e degli esempi sopra riportati, si intuisce facilmente come la natura dei trattati di amicizia sia mutata, soprattutto a seguito del passaggio dalla comunità internazionale classica alla comunità internazionale moderna. Vi è stata, dunque, un’evoluzione dei motivi posti alla base della loro conclusione e, quindi, degli obiettivi che essi perseguono.
Informazioni
Carta ONU
DI NOLFO, 2020, Storia delle Relazioni Internazionali, Laterza.
CONFORTI, 2014, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica
DEL VECCHIO, 2003, Giurisdizione internazionale e globalizzazione, Giuffrè Editore
FOCARELLI, 2019, Diritto internazionale, Wolters Kluwer CEDAM
SINAGRA-BARGIACCHI, 2019, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Giuffré Francis Lefebvre
Trattato Italia-Libia del 2008
Trattato Italia-Francia del 2021
[1] I patti devono essere rispettati.
[2] Sulla definizione di trattato internazionale, si veda A. FEDERICO, I trattati di pace, al seguente link: I trattati di pace – DirittoConsenso
[3] Sul tema, si veda A. FEDERICO, I trattati di pace, al seguente link: I trattati di pace – DirittoConsenso
[4] Cfr. art. 2 par. 4 Carta ONU.
[5] Cfr. art. 2 par. 3 Carta ONU. A. FEDERICO, Come gli Stati risolvono le controversie internazionali, al seguente link: Come gli Stati risolvono le controversie internazionali? – DirittoConsenso
[6] Per maggiori approfondimenti su questo trattato, si veda A. FEDERICO, Italia-Libia: il caso dei pescherecci mazaresi, al seguente link: Italia-Libia: il caso dei pescherecci mazaresi – DirittoConsenso
I trattati di pace
I trattati di pace come particolare categoria di trattati internazionali. Come sono cambiati nel tempo?
I trattati di pace, una peculiare categoria dei trattati internazionali
I trattati di pace costituiscono una peculiare categoria della vasta gamma dei trattati internazionali. In generale, un trattato internazionale può definirsi come l’accordo tra due o più soggetti del diritto internazionale al fine di creare, modificare o estinguere una norma obbligatoria internazionale. La vincolatività del contenuto della convenzione trova la sua fonte nel principio generale “pacta sunt servanda”[1] codificato all’art. 26 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969. L’art. 2 della medesima convenzione rinviene nell’accordo in forma scritta l’elemento costitutivo del trattato.
Più nel particolare rispetto al tema che qui interessa, i trattati di pace sono accordi internazionali stipulati tra Stati all’esito di una guerra o, come sembra più opportuno, di un conflitto armato. Ed invero, con il trattato di pace gli Stati vincitori, di concerto con gli Stati vinti ovvero unilateralmente, decidono le condizioni economiche, politiche, militari a cui sottoporre e vincolare gli sconfitti.
È necessario rilevare che, sebbene la Convenzione di Vienna disciplini tutti gli aspetti formali e sostanziali inerenti alla conclusione, alla validità e all’efficacia dei trattati, non fa menzione dei trattati di pace. Essa addirittura esclude dal suo ambito di applicazione anche le conseguenze che lo scoppio delle ostilità può provocare sui trattati già in essere tra le parti del conflitto[2]. Ne deriva che tale aspetto, particolarmente rilevante ai fini dell’andamento delle relazioni internazionali, è rimesso totalmente al diritto internazionale generale. Nello specifico, qualora gli accordi internazionali tra gli Stati in conflitto siano compatibili con lo stato di guerra, la loro efficacia verrà sospesa; alla fine della guerra, essi torneranno ad essere in vigore secondo le modalità previste nel trattato di pace che lo Stato vincitore ha notificato allo Stato vinto. Ecco, infatti, un’altra importante prerogativa di questa peculiare categoria di trattati internazionali. Si tratta, dunque, della fonte giuridicamente più importante per la disciplina vincolante delle relazioni future tra gli Stati ex combattenti, al fine di ripristinare il buon andamento di queste.
Generalmente, l’iter prevede che le potenze in conflitto firmino preliminarmente un armistizio e, a truppe ritirate, si avviino i negoziati per concludere i trattati di pace con l’obiettivo di rispristinare la sicurezza collettiva.
I trattati di pace del XX secolo
La Storia insegna che il XX secolo ha visto il consumarsi delle due Guerre Mondiali con conseguenze sociali, economiche e, anche, giuridiche che hanno stravolto il modo di intendere le relazioni tra gli Stati.
Preliminarmente, occorre considerare che, nell’ambito della comunità internazionale classica, ogni Stato – quale soggetto del diritto internazionale – era titolare dello ius ad bellum, cioè un generale diritto di scatenare una guerra nei confronti di un suo omologo. Il diritto internazionale, infatti, disciplinava solo il c.d. ius in bello, quale complesso di norme giuridiche che disciplinavano le condotte lecite durante le ostilità. Ne derivava, quindi, una certa disinvoltura degli Stati nazionali nel dichiararsi guerra reciprocamente, atteso che non vi era nessuna norma giuridicamente vincolante che obbligava i soggetti a risolvere pacificamente le controversie.
E, anzi, lo scopo della guerra spesso era la debellatio del nemico, ovverosia la distruzione del suo impianto istituzionale tale da renderlo sotto il completo controllo del vincitore che diveniva il detentore del potere sovrano sul territorio conquistato e sui cittadini che ivi abitavano.
La prassi delle due Grandi Guerre del XX secolo mostra che, cessato il conflitto, gli Stati vincitori si riunivano in una grande e maestosa conferenza e, qui, negoziavano le clausole dei trattati di pace. L’aspetto rilevante è che, a differenza di quanto accadeva nel secolo precedente[3], alla conferenza di pace non prendevano parte gli Stati sconfitti. Le decisioni, dunque, venivano prese unilateralmente dai vincitori senza contraddittorio alcuno. A tal riguardo si pensi al Trattato di Versailles del 1919, con cui venne ristabilita la pace tra gli Stati dell’Intesa[4] e la Germania: esso venne presentato ai diplomatici tedeschi con l’ultimatum che, se non lo avessero firmato entro 7 giorni, la guerra sarebbe ricominciata. Da quanto esposto si evince un modus operandi completamente difforme rispetto ai classici negoziati tra Stati per la conclusione di un trattato internazionale tout court.
Ma neppure i negoziati dei trattati di pace della Seconda Guerra Mondiale, scoppiata a seguito della violazione del Trattato di pace della Prima da parte della Germania hitleriana, si svolsero di concerto con le potenze sconfitte. Anzi, ancor di più che nella Prima Grande Guerra, alcuni Stati – Germania e Giappone – furono condannati ad uno stato di debellatio per decenni con decisioni, limitanti la loro sovranità, imposte dalle potenze occupanti.
I trattati di pace più moderni
Il disastro delle Due Grandi Guerre impose un netto cambiamento di rotta agli Stati in ordine alla gestione delle ostilità. Soprattutto con l’adozione della Carta delle Nazioni Unite, si è affermato sul piano del diritto internazionale generale il divieto dell’uso della forza[5]. Questa norma ha portato al cristallizzarsi di un altro obbligo internazionale quale suo corollario, cioè quello di risolvere pacificamente le controversie tra Stati[6].
Da tale nuovo impianto normativo ne è derivata una certa cautela degli Stati a dichiararsi guerra tra loro, se non altro per evitare di incorrere in ipotesi di responsabilità internazionale (cautela che la Federazione Russa pare non aver considerato nelle ultime settimane). A ciò deve aggiungersi che, proprio al fine di scongiurare eventi bellici, la Carta delle Nazioni Unite conferisce al Consiglio di Sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale[7]. Benché i redattori del trattato istitutivo dell’ONU avessero pensato alla costituzione di un esercito onusiano per sottrarre l’iniziativa armata alla facoltà degli Stati, esso non si è mai realizzato. Ma il capo VII della Carta, letto in combinato disposto con l’art. 24, consente – fermo il divieto di uso della forza per gli Stati – la prerogativa di autorizzare i membri al suo uso in circostanze di particolare gravità.
Quanto premesso, tuttavia, non ha escluso il sorgere di nuovi conflitti internazionali, la cui disciplina è totalmente rimessa al diritto internazionale umanitario[8]. Dato il nuovo assetto normativo internazionale, i trattati di pace – a differenza di quanto accadeva prima – vengono negoziati tra le parti in conflitto[9]. L’obiettivo, di solito, è quello di cercare una mediazione per la massima protezione dei civili e per evitare il fallimento dello Stato[10]. È proprio l’obbligo di soluzione pacifica delle controversie che spinge gli Stati ad utilizzare metodi negoziali per risolverle. In tali circostanze, l’accordo raggiunto all’esito del negoziato o della mediazione costituisce una forma sui generis di trattato di pace. Si pensi al recente accordo di Doha tra Talebani e Stati Uniti d’America che nell’agosto 2021 ha portato al ritiro delle forze armate americane dall’Afghanistan.
In definitiva, sebbene il divieto dell’uso della forza sia sancito quale norma inderogabile nel diritto internazionale, ancora oggi si assiste allo scoppio di ostilità tra Stati, come quello in corso tra Federazione Russa e Ucraina. Vero è che, a differenza di quanto accadeva nel passato, gli organismi internazionali si adoperano oggi per una risoluzione rapida della controversia e si propongono come mediatori al fine di offrire dei buoni uffici e giungere alla pace.
Informazioni
Carta ONU. United Nations Charter (full text) | United Nations
DI NOLFO, 2020, Storia delle Relazioni Internazionali, Laterza.
CONFORTI, 2014, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica
DEL VECCHIO, 2003, Giurisdizione internazionale e globalizzazione, Giuffrè Editore
FOCARELLI, 2019, Diritto internazionale, Wolters Kluwer CEDAM
SINAGRA-BARGIACCHI, 2019, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Giuffré Francis Lefebvre
[1] I patti devono essere rispettati.
[2] Cfr. art. 73 Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969.
[3] Si pensi al Congresso di Vienna del 1814-1815 ai cui lavori partecipò anche la Francia sconfitta.
[4] Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Italia.
[5] Cfr. art. 2 par. 4 Carta ONU.
[6] Cfr. art. 2 par. 3 Carta ONU. A. FEDERICO, Come gli Stati risolvono le controversie internazionali, al seguente link http://www.dirittoconsenso.it/2022/02/02/come-gli-stati-risolvono-le-controversie-internazionali/
[7] Cfr. art. 24 Carta ONU.
[8] Convenzioni di Ginevra del 1949 e Primo Protocollo Addizionale del 1977.
[9] Si pensi al trattato di Washington del marzo 1979 tra Egitto e Israele, all’esito del quarto conflitto arabo-israeliano.
[10] Inteso come failed State, cioè Stato privo di governo effettivo.
La Corte Internazionale di Giustizia: una guida pratica
La Corte Internazionale di Giustizia: le funzioni e la prassi di un tribunale internazionale che emette sentenze e pareri
La Corte Internazionale di Giustizia: le ragioni della sua istituzione
La Corte Internazionale di Giustizia è il principale organo giudiziale dell’ONU. Venne istituita a seguito dell’adozione della Carta delle Nazioni Unite nel 1945 e iniziò la sua attività giurisdizionale nell’Aprile dell’anno successivo. Differentemente dagli altri organi dell’organizzazione universale, ubicati presso il Palazzo di Vetro di New York, la Corte Internazionale di Giustizia ha la sua sede all’Aja.
Essa costituisce la prosecuzione naturale della Corte Permanente di Giustizia Internazionale, istituita dalla Carta della Società delle Nazioni del 1919. L’istituzione tanto dell’una quanto dell’altra trova la sua fonte nel superamento dei limiti presentati dal classico metodo di risoluzione vincolante delle controversie, quale è l’arbitrato internazionale. Ed invero, la Corte Internazionale di Giustizia, sebbene abbia natura sostanzialmente arbitrale1, presenta procedure e composizione permanente.
La ragione della sua istituzione è da rintracciarsi primariamente negli obiettivi dell’ONU, così come sanciti dalla sua carta istitutiva. In particolare, l’obbligo di risoluzione pacifica delle controversie di cui all’art. 2 par. 3 Carta ONU è corollario necessario del divieto dell’uso della forza previsto dal par. 3 del medesimo articolo. Inoltre, si è assistito ad un’evoluzione quantitativa della comunità internazionale: si è passati da una comunità classica comprendente pochi Stati la cui personalità giuridica si basava su una logica esclusiva ad una comunità moderna dove molti territori, un tempo sottoposti alla soggezione delle grandi potenze colonizzatrici, hanno conquistato la propria indipendenza. Ne è derivato che la proliferazione dei soggetti di diritto internazionale ha implicato – inevitabilmente – la proliferazione di controversie internazionali tra questi, atteso che ciascuno è portatore dei propri più vari interessi.
In definitiva, l’istituzione di una corte permanente deputata a risolvere le dispute internazionali tra gli Stati fornisce garanzia di una maggiore certezza del diritto internazionale e la possibilità di un suo sviluppo progressivo. E’ evidente, infatti, il ruolo che la Corte Internazionale di Giustizia ha svolto in questi 76 anni in relazione alla rilevazione del diritto internazionale generale2.
Il funzionamento
L’art. 92 Carta ONU definisce la Corte Internazionale di Giustizia quale principale organo giurisdizionale delle Nazioni Unite. Essa esercita le sue funzioni in conformità alla Carta ONU, al proprio Statuto e al Regolamento di Procedura. A tal riguardo, l’art. 93 Carta ONU precisa che gli Stati membri delle Nazioni Unite sono automaticamente aderenti allo Statuto della Corte Internazionale di Giustizia3.
Il tribunale internazionale dell’Aja è composto da 15 giudici, eletti, senza avere riguardo delle loro nazionalità, fra le persone che godono della massima considerazione morale e che soddisfano, nei Paesi di cui sono cittadini, i requisiti per svolgere le alte cariche giurisdizionali ovvero sono importanti conoscitori del diritto internazionale4. I giudici sono eletti dall’Assemblea Generale e dal Consiglio di Sicurezza secondo la procedura prevista dagli artt. 3-12 Statuto CIG. Durano in carica 9 anni e sono rieleggibili; nel collegio, tuttavia, non possono esservi giudici con la medesima nazionalità.
Una importante forma di garanzia è data dal fatto che, salvo le ipotesi tassativamente previste dallo Statuto CIG5, il Tribunale dell’Aja esercita le sue funzioni sempre in seduta plenaria.
Fatte queste premesse preliminari, nel prosieguo verranno analizzate le due principali funzioni della Corte Internazionale di Giustizia: contenziosa e consultiva.
La funzione contenziosa
La funzione contenziosa costituisce la prerogativa più importante tra quelle esercitate dalla Corte Internazionale di Giustizia. Preliminarmente, appare necessario fornire alcune nozioni procedurali inerenti all’attivazione della sua giurisdizione.
Si è detto, infatti, che la Corte Internazionale di Giustizia dirime le controversie tra gli Stati. Il fondamento della sua operatività è da rinvenirsi nella previa accettazione della sua giurisdizione da parte degli stessi. A tal riguardo, l’art. 36 Statuto CIG delinea le diverse opzioni che gli Stati hanno per rendere il loro consenso.
In particolare, il par. 1 del suddetto articolo disciplina le ipotesi di compromesso giurisdizionale e clausola compromissoria completa. Il compromesso giurisdizionale è un trattato tra due o più Stati con il quale essi individuano delle materie le cui eventuali controversie decidono di devolvere alla Corte Internazionale di Giustizia6 e, dunque, a non utilizzare altri metodi di risoluzione pure previsti dal diritto internazionale7.
Diversamente, la clausola compromissoria è una norma inserita in seno ad un trattato internazionale bilaterale ovvero multilaterale con cui le parti si impegnano ad accettare la giurisdizione del Tribunale dell’Aja qualora dovessero sorgere controversie circa l’interpretazione e l’applicazione della convenzione medesima8. Il par. 3 dell’art. 36 Statuto CIG sancisce una terza opzione di accettazione, la clausola facoltativa di giurisdizione obbligatoria: vincolandosi a questa, lo Stato accetta sempre ed in qualunque condizione la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia. Si tratta del metodo più discusso tra i tre perchè, sebbene ci sia la possibilità di ritirare il consenso prestato, rende automatico lo status di convenuto in giudizio. L’Italia nel 2014 ha deciso di accettare la giurisdizione obbligatoria, dopo che Francia e Regno Unito hanno ritirato la loro.
Il metodo di accettazione inficia sulle modalità di avvio del procedimento dinnanzi alla Corte dell’Aja: nel caso di giurisdizione facoltativa è necessario, a pena di inammissibilità, la notifica del compromesso giurisdizionale alla controparte; diversamente, nel caso di giurisdizione obbligatoria, è sufficiente la notifica dell’atto introduttivo unilaterale allo Stato convenuto.
L’aspetto più rilevante che investe la funzione contenziosa della Corte Internazionale di Giustizia attiene alla vincolatività dei provvedimenti adottati dalla stessa. Ed invero, oltre ad adottare ordinanze incidentali per risolvere questioni di giurisdizione ovvero applicare misure cautelari, essa adotta sentenze. Si tratta di un provvedimento giurisdizionale obbligatorio e definitivo per il quale non è ammesso impugnazione, tanto da essere esecutivo al momento della sua emissione. A tal riguardo, l’art. 94 Carta ONU obbliga gli Stati, parti della controversia, ad adeguarsi alle sentenze, dando attuazione alle proprie procedure di adattamento interno9.
Nel caso di inadempimento della parte soccombente, l’altro Stato può chiedere l’intervento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il quale, benché non sia obbligato ad adottare alcuna misura, qualora decida di farlo, utilizza il metodo di votazione di cui all’art. 27 par. 3 Carta Onu. La norma fa riferimento all’adozione delle decisioni con l’ausilio dell’esercizio del diritto di veto da parte dei membri permanenti: ne deriva che questi ultimi, nel caso di soccombenza e conseguente non adempimento, godono di un’immunità di fatto.
Attualmente, secondo l’Annual Report 2020-2021 (aggiornato al 31 luglio 2021), la Corte Internazionale di Giustizia conta 16 ricorsi pendenti, molti dei quali riguardanti la responsabilità degli Stati per violazione dell’obbligo di prevenzione e repressione dei crimini internazionali10.
La funzione consultiva
Diversamente dalla funzione contenziosa, quella consultiva è una prerogativa della Corte Internazionale di Giustizia posta a servizio degli organi delle Nazioni Unite. Sono proprio alcuni di questi i legittimati attivi la cui istanza al Tribunale dell’Aja è volta all’ottenimento di un parere su una determinata questione. In particolare, possono attivare la funzione consultiva il Consiglio di Sicurezza, l’Assemblea Generale e, su autorizzazione di quest’ultima, gli istituti specializzati delle Nazioni Unite11.
I primi due sono legittimati a chiedere pareri su qualsiasi materia; gli istituti specializzati, invece, solo per le materie attinenti alle loro competenze. Riguardo all’oggetto del parere, una rilevante prassi ha riguardato l’uso dell’arma nucleare. Ed invero, l’OMS, quale istituto specializzato in materia sanitaria, aveva chiesto alla Corte Internazionale di Giustizia un parere in merito. Il Tribunale dell’Aja ha ritenuto inammissibile l’istanza, in quanto non è possibile sovrapporre il tema della eventuale liceità dell’uso del nucleare secondo il diritto internazionale vigente a quello degli effetti sanitari che il suo uso ha sulla popolazione civile. All’esito di questa declaratoria di inammissibilità, l’Assemblea Generale, investita della questione, si è fatta carico di presentare tale istanza alla Corte Internazionale di Giustizia che, nel 1996, dichiarata ricevibile la richiesta, si è pronunciata.
A differenza della sentenza, il parere reso dal Tribunale dell’Aja non è obbligatorio, salvo quando la sua vincolatività è espressamente prevista da Convenzioni o atti idonei. Per esempio, la Convenzione sui privilegi e le immunità degli organi ONU del 1946 ne prevede l’esplicita obbligatorietà.
Nonostante tali provvedimenti non siano vincolanti in linea di principio, essi rivestono un’importanza fondamentale per gli Stati, atteso che sono fonti indispensabili per raccordare il diritto applicabile ad una determinata fattispecie e, in molte circostanze, rilevano il diritto internazionale generale12.
Informazioni
Annual Report CIG 2020-2021
Carta ONU
CONFORTI, 2014, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica
DEL VECCHIO, 2003, Giurisdizione internazionale e globalizzazione, Giuffrè Editore
FOCARELLI, 2019, Diritto internazionale, Wolters Kluwer CEDAM
SINAGRA-BARGIACCHI, 2019, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Giuffré Francis Lefebvre
Sito CIG https://www.icj-cij.org/en/court
Statuto CIG
1 Cioè il suo funzionamento si basa sul consenso ovvero accettazione da parte degli Stati. La questione verrà approfondita nel corso della trattazione.
2 Ex multis, CIG, 2019, Isole Chagos in merito al principio di autodeterminazione dei popoli.
3 Da questo momento in poi, Statuto CIG.
4 Cfr. art. 2 Statuto CIG.
5 Si pensi alle ipotesi di cognizione sommaria richiesta dalle parti.
6 Si pensi al trattato tra Libia e Malta del 1982.
7 Per approfondimenti, si veda A. FEDERICO, Come gli Stati risolvono le controversie internazionali, al seguente link: http://www.dirittoconsenso.it/2022/02/02/come-gli-stati-risolvono-le-controversie-internazionali/
8 Si pensi all’art. 66, lett. a, Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969.
9 Nella gerarchia delle fonti internazionali, trattasi di fonti di III°.
10 Ex multis, si pensi al ricorso presentato dal Gambia contro il Myanmar per la mancata applicazione della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del genocidio.
11 Si tratta di quelle organizzazioni internazionali che hanno concluso un accordo di associazione con l’ONU.
12 Si pensi ai pareri del 1949, 1980 e 1996 sulla soggettività delle organizzazioni internazionali.
Come gli Stati risolvono le controversie internazionali?
Strumenti diplomatici e giudiziali di risoluzione delle controversie internazionali
La nozione di controversie internazionali
La soluzione delle controversie attiene alla fase patologica delle relazioni internazionali tra Stati. Ne deriva che i relativi procedimenti hanno lo scopo di armonizzare i rapporti tra i soggetti del diritto internazionale, dal momento che la comunità internazionale ha natura anorganica[1].
In particolare, il fondamento della soluzione delle controversie internazionali è da rinvenirsi nell’accordo tra le parti soggette della stessa. Ed invero, tenendo in considerazione questo principio, nessuno Stato può essere obbligato a sottoporre una controversia di cui è parte ad un determinato mezzo di risoluzione senza il suo consenso[2].
Al fine di discutere l’argomento, appare necessario preliminarmente individuare una nozione, largamente accettata, di controversie internazionali, di modo da qualificare giuridicamente l’andamento di situazioni patologiche che possono venirsi a creare tra gli Stati.
A tal riguardo, secondo l’interpretazione della giurisprudenza maggioritaria, per controversie internazionali si intendono una serie di disaccordi su di un punto di fatto o di diritto, di contraddizioni, ovvero di opposizioni di tesi giuridiche o di interessi[3]. Tuttavia, affinché vi sia una disputa tra Stati, giuridicamente intesa, è necessario che la pretesa di una parte si manifesti come completamente opposta all’altra[4]. Ne discende che non possa parlarsi di controversie internazionali qualora vengano a realizzarsi dei contrasti meramente astratti o pure divergenze su di una questione.
A completamento della panoramica introduttiva deve aggiungersi che si è manifestato un mutamento nel passaggio dalla comunità internazionale classica a quella moderna. Ed invero, nella società pre-1945 l’uso della forza era concepito, secondo diverse gradazioni, come lo strumento più efficace nella soluzione delle controversie internazionali. Diversamente, con l’adozione della Carta delle Nazioni Unite del 1945 viene giuridicizzato in capo agli Stati l’obbligo di risoluzione pacifica delle controversie (art. 2 par. 3 Carta ONU). Tale obbligo, seppur non possa qualificarsi come norma di ius cogens[5], costituisce un corollario del divieto imperativo dell’uso della forza ex art. 2 par. 3 Carta ONU. Dal combinato disposto delle due norme si evince che la comunità internazionale non impone agli Stati in controversia di addivenire alla soluzione della stessa, bensì impone loro un obbligo di comportamento nella fase di confronto.
Tanto ciò premesso, nel prosieguo verranno analizzati i mezzi di risoluzione delle controversie internazionali, sulla base della libertà di scelta dei metodi di cui rimangono titolari gli Stati.
Mezzi di risoluzione delle controversie internazionali
Il metodo più risalente nel tempo, finalizzato alla risoluzione delle controversie internazionali, è da individuarsi nell’utilizzo di forme diplomatiche, scevre da interventi di organi giurisdizionali o paragiurisdizionali.
A tal riguardo, l’art. 33 par.1 Carta ONU, nell’ottica di giungere ad una soluzione pacifica delle controversie tra gli Stati, individua dei mezzi diplomatici che facilitano l’accordo tra le parti.
Il mezzo più utilizzato è il negoziato che si caratterizza per la sola partecipazione degli Stati coinvolti nella controversia. Esso, infatti, si distingue dagli altri procedimenti diplomatici previsti, nei quali vengono coinvolti – in misura più o meno rilevante – gli Stati terzi: buoni uffici, mediazione e conciliazione. Nell’ambito dei primi, lo Stato terzo si limita a favorire la messa in contatto delle parti controvertenti. Nel caso di conciliazione, invece, il terzo partecipa attivamente al negoziato potendo presentare anche proprie soluzioni per porre fine alla controversia. Il mezzo diplomatico, nel quale la partecipazione dello Stato terzo è massima, è sicuramente la conciliazione: lo Stato terzo riceve dalle parti in conflitto l’incarico di proporre una soluzione della controversia.
Tra le procedure diplomatiche si devono considerare anche le commissioni d’inchiesta: esse sono formate da esperti indipendenti e imparziali, designati dalle parti, che devono accertare il fatto relativo alla controversia.
Tenuto in considerazione quanto sopra, deve giungersi alla conclusione che i mezzi diplomatici di risoluzione delle controversie internazionali sono privi di vincolatività delle eventuali soluzioni prospettate per gli Stati parte della disputa. Tuttavia, si caratterizzano per essere dei deterrenti all’uso della forza quale strumento di risoluzione delle controversie internazionali, in misura ancor più rilevante, dato il generale divieto previsto dal diritto internazionale.
Mezzi di risoluzione giudiziale delle controversie internazionali
Con l’intensificarsi delle relazioni internazionali tra gli Stati, essi hanno accresciuto la loro necessità di individuare degli organi giurisdizionali veri e propri che potessero offrire una soluzione alle controversie di cui erano parte. Tale evoluzione, tuttavia, non ha fatto venir meno il carattere anorganico della comunità internazionale, atteso che gli organi di cui sopra necessitano di forme di accettazione, rectius accordo, da parte degli Stati.
A tal riguardo, dunque, vengono in considerazione l’arbitrato e il ricorso alle corti internazionali[6]:
- Nel primo caso, gli Stati scelgono, da una lista predefinita, degli organi che, dopo aver sentito le parti, offrono la propria soluzione.
- Nel secondo, gli Stati presentano ricorso ad una corte permanente che decide sulla controversia.
In entrambe le ipotesi, a differenza di quanto visto per i mezzi diplomatici di risoluzione delle dispute internazionali, la soluzione proposta, mediante lodo ovvero sentenza, è frutto dell’applicazione del diritto internazionale e, come tale, vincolante per gli Stati parte.
Si è detto che il metodo giurisdizionale implica comunque l’accordo tra le parti. Esso si manifesta attraverso una clausola compromissoria ovvero un trattato generale di arbitrato. In particolare, la clausola viene inserita nei trattati tra gli Stati, i quali si impegnano a devolvere la controversia sulla loro applicazione e interpretazione ad un arbitro ovvero ad una corte. Diversamente, il trattato generale è un accordo tra Stati in cui questi disciplinano le materie per le quali, se dovesse sorgere una controversia, accettano la giurisdizione di un arbitro o di una corte.
La funzione conciliativa delle Nazioni Unite
A conclusione di questo primo contributo sulle controversie internazionali, non può non farsi cenno alla funzione conciliativa che gli organi delle Nazioni Unite esercitano nella soluzione delle dispute tra gli Stati.
In particolare, un primo cenno dovrà farsi al Consiglio di Sicurezza. Esso, infatti, ai sensi dell’art. 34 Carta ONU, esercita un potere di indagine su tutte quelle situazioni che potrebbero mettere a rischio la pace e la sicurezza internazionale. Ne deriva, dunque, un ulteriore potere, ovverosia quello di raccomandare l’utilizzo di uno dei mezzi di risoluzione diplomatica di cui all’art. 33 Carta ONU.
Oltre al Consiglio di Sicurezza, anche l’Assemblea Generale, quale organo plenario, ha il potere di discutere di ogni fatto che possa incidere sulle relazioni pacifiche tra gli Stati[7]. Ed invero, salvo che la situazione sia oggetto di discussione presso il Consiglio, l’Assemblea può invitare gli Stati parte di una controversia a tenere un determinato comportamento finalizzato all’armonizzazione delle loro relazioni.
Infine, anche il Segretario Generale svolge una funzione conciliativa molto persuasiva. Sebbene si tratti di un organo di natura meramente esecutiva, la prassi mostra come i vari individui che si sono succeduti in questa carica siano intervenuti nelle dispute internazionali in maniera sempre più determinata, al fine di offrire una soluzione pacifica delle stesse, spesso con risultati più efficaci dei tradizionali metodi di risoluzione.
Informazioni
Carta ONU
CONFORTI, 2014, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica
DEL VECCHIO, 2003, Giurisdizione internazionale e globalizzazione, Giuffrè Editore
FOCARELLI, 2019, Diritto internazionale, Wolters Kluwer CEDAM
SINAGRA-BARGIACCHI, 2019, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Giuffré Francis Lefebvre
Sito CIG: www.icj-cij.org
[1] L’anorganicità della comunità internazionale implica, in questo caso, l’assenza di un organo giurisdizionale mondiale.
[2] Cfr. CPGI, Statuto Carelia Orientale, 1923.
[3] Cfr. CPGI, Mavrommatis, 1924.
[4] Cfr. CIG, Timor Est, 1995.
[5] Per una definizione, si veda l’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.
[6] Per approfondimenti, si veda A. FEDERICO, La risoluzione delle controversie tra gli Stati, al seguente link http://www.dirittoconsenso.it/2020/12/04/risoluzione-delle-controversie-tra-stati/
[7] Cfr. combinato disposto artt. 11 e 35 Carta ONU.
Un'introduzione al diritto internazionale dell'ambiente
Introduzione al diritto internazionale dell’ambiente: norme di soft law o di diritto internazionale generale?
Introduzione al diritto internazionale dell’ambiente: premesse allo sviluppo della materia
Il diritto internazionale dell’ambiente costituisce il corpus di norme poste a protezione del living space, al fine di garantire la qualità della vita e della salute degli esseri umani, soprattutto in relazione alla tutela delle nuove generazioni[1].
Fino agli anni Settanta dello scorso secolo tale materia non aveva conosciuto alcuno sviluppo, dal momento che nel diritto internazionale l’ambiente era tutelato solo rispetto al tema della responsabilità dello Stato per fatti illeciti commessi sul proprio territorio e che producevano danni su quello altrui[2] ovvero con riguardo alla navigazione dei fiumi[3]. Ne derivava, dunque, un disinteresse pressoché totale alle tematiche ambientali da parte della comunità internazionale. Si era consolidato nella prassi, infatti, un mero obbligo dello Stato di garantire che le attività svolte sotto la propria giurisdizione non pregiudicassero l’ambiente di altri Stati.
Una parziale inversione di marcia si ha a partire dagli anni Settanta, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite convocò a Stoccolma la Conferenza sull’ambiente umano (1972). All’esito della stessa venne adottata una Dichiarazione[4] la quale fissava ventisei principi che gli Stati si impegnavano ad attuare sia al livello nazionale sia al livello internazionale, di modo che si consolidassero come diritto internazionale generale ovvero convenzionale[5]. La Conferenza, inoltre, raccomandò all’Assemblea Generale di creare un meccanismo strutturale che si occupasse in modo permanente di ambiente.
A tal riguardo, l’organo onusiano istituì lo United Nations Environment Program (UNEP): si tratta di un organismo sussidiario, con sede a Nairobi, che gestisce i programmi ambientali delle Nazioni Unite e sotto la cui egida vengono conclusi i trattati internazionali in materia.
È proprio da tali premesse che vennero mosse le basi per un’introduzione al diritto internazionale dell’ambiente.
Il diritto allo sviluppo sostenibile
Dopo la decolonizzazione gli Stati ri-affermarono il carattere economico della sovranità nel senso di riconoscersi vicendevolmente un diritto permanente ed inalienabile di sfruttare liberamente, senza ingerenze esterne, le proprie risorse naturali. Tale principio trovò una sua sintesi nel diritto allo sviluppo codificato nella omonima Dichiarazione adottata dall’Assemblea Generale nel 1986.
Si tratta di quel processo economico, sociale, culturale e politico che mira al costante ed equo aumento del benessere della popolazione. Il diritto allo sviluppo già in quell’occasione venne teorizzato come un diritto inalienabile dell’uomo, la cui garanzia di tutela da parte dello Stato presuppone sia la piena ed effettiva sovranità sulle proprie ricchezze e risorse sia il rispetto di obblighi funzionali e prodromici dello Stato quali, per esempio, la promozione e la tutela dei diritti umani.
A partire dagli anni Ottanta il diritto allo sviluppo ha iniziato a riqualificarsi quale diritto allo sviluppo sostenibile. Esso implica l’impegno dello Stato a soddisfare i bisogni e le esigenze delle generazioni correnti senza compromettere quelli delle generazioni future[6]. Da questo momento in poi si assiste alla crescita della sensibilità della comunità internazionale per la materia ambientale, tanto che il Rapporto Brundtland, da cui trae origine la codificazione del diritto allo sviluppo sostenibile, può essere identificato come la fonte – seppur non vincolante – cui ispirarsi per la sistematizzazione del diritto internazionale dell’ambiente.
Gli obiettivi di sviluppo sostenibile nel diritto internazionale dell’ambiente
La Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo svoltasi a Rio de Janeiro nel 1992 (c.d. Vertice della Terra) ha manifestato la volontà degli Stati di riflettere su tutti gli aspetti economici, sociali ed ecologici della sostenibilità, configurandosi così un approccio integrato e multidisciplinare.
In quell’occasione, infatti, gli Stati adottarono una Dichiarazione nella quale vennero delineati gli obiettivi di sviluppo per il nuovo millennio: tra i tanti, si pensi alla responsabilità comune degli Stati nei confronti dell’ambiente ma differenziata in ragione del contributo di ciascuno alle emissioni, alla garanzia di pari opportunità o al dimezzamento della povertà.
Se la Dichiarazione finale è da considerarsi come atto non vincolante, la Conferenza di Rio del 1992 ha portato anche alla conclusione di due importanti trattati internazionali in materia ambientale:
- la Convenzione sulla biodiversità
- la Convenzione quadro sul cambiamento climatico.
La prima si pone l ‘obiettivo di impegnare gli Stati alla conservazione della diversità biologica e alla ripartizione equa dei benefici derivanti dalle risorse genetiche. Ciò che maggiormente stupisce è che la Convenzione sulla biodiversità conta la ratifica di 196 Parti – compresi, dunque, anche enti la cui soggettività internazionale è dubbia – ma non conta la ratifica degli Stati Uniti.
Diversamente, la seconda fissa una serie di obblighi al fine di stabilizzare le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera, differenziando tra quelli che gravano su tutti gli Stati parte e quelli che gravano solo sugli Stati parte più industrializzati. In ragione dell’art. 17 della suddetta Convenzione, il quale prevede di poterla attuare attraverso protocolli successivi, nel 1997 gli Stati adottarono il Protocollo di Kyoto, entrato in vigore solo nel 2005, che fissava gli obiettivi per il periodo 2008-2012 sulla base del principio della responsabilità differenziata. Esso, infatti, istituiva un meccanismo di calcolo e scambio delle emissioni tale da consentire a ciascuno Stato di commerciare con gli altri le singole unità, realizzando così un vero e proprio mercato dell’inquinamento.
In vista della scadenza fissata nel Protocollo di Kyoto, la Conferenza degli Stati parte alla Convenzione quadro adottò un emendamento per il periodo 2013-2020, al fine di stabilire nuovi impegni di riduzione delle emissioni.
Alla luce di quanto sopra, è proprio con la Conferenza di Rio del 1992 che iniziano a delinearsi i primi obblighi vincolanti per gli Stati in materia di diritto internazionale dell’ambiente.
Gli attuali obblighi di sviluppo sostenibile: convenzionali o anche generali?
Volgendo al termine dell’introduzione al diritto internazionale dell’ambiente, si deve infine ricordare che, in prosecuzione dell’attività che gli Stati posero in essere in attuazione della Convenzione quadro di Rio, nel 2015 venne adottato l’Accordo di Parigi.
Esso, entrato in vigore nel novembre 2016, vincola 186 Stati e l’Unione Europea quale organizzazione internazionale dotata di personalità giuridica di diritto pubblico. L’Accordo ha come obiettivo – da raggiungere entro il 2030 – di mitigare gli effetti nocivi derivanti dal cambiamento climatico, attraverso l’individuazione di modelli comportamentali per gli Stati.
Gli obblighi sono stati assunti dagli Stati su base nazionale, il cui singolo contributo realizzerà l’obiettivo comune. L’Accordo di Parigi, dunque, è da ascriversi alle fonti vincolanti, seppur solo per gli Stati che l’hanno ratificato.
Diversamente, l’Assemblea Generale nello stesso anno adottò una Dichiarazione – non vincolante – con gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Si tratta di 17 goals collettivi e non individuali, raggruppati in cinque gruppi di materie dall’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, Banki-Moon: persone, prosperità, pace, alleanze e pianeta.
Tenuto tutto questo in conto, sembra prematuro affermare che i principi contenuti nella Dichiarazione di Rio e nell’Agenda 2030 siano integralmente tradotti in norme di diritto internazionale generale. Tuttavia, molti di questi principi sono stati codificati nelle summenzionate convenzioni internazionali e, come tali, vincolanti per i soli Stati che le hanno ratificate. Si deve, inoltre, evidenziare che il trend attuale va nel senso di recepire i principi del diritto internazionale dell’ambiente nei trattati istitutivi delle organizzazioni internazionali. A tal riguardo, si pensi al Trattato sull’Unione Europea (TUE) al cui art. 3 fissa tra gli obiettivi generali quello di garantire un elevato livello di tutela dell’ambiente e al cui art. 21 inserisce il medesimo tra gli obiettivi dell’azione esterna dell’Ue[7].
In definitiva, i principi di cui all’introduzione del diritto internazionale dell’ambiente hanno trovato ampio accoglimento negli atti di soft law delle Nazioni Unite e in qualche trattato internazionale in materia. Tuttavia, non appaiono maturi i tempi per poter concludere che tali principi costituiscano fonte di diritto internazionale generale[8], pur dovendo dar conto di una progressiva sensibilizzazione degli Stati alla materia ambientale.
Informazioni
Accordo di Parigi
Convenzione quadro sul cambiamento climatico
Dichiarazione sull’ambiente umano
Dichiarazione su ambiente e sviluppo
Protocollo di Kyoto
SINAGRA-BARGIACCHI, 2019, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Giuffré Francis Lefebvre
Trattato sull’Unione Europea (TUE) – In formato pdf: https://eur-lex.europa.eu/resource.html?uri=cellar:2bf140bf-a3f8-4ab2-b506-fd71826e6da6.0017.02/DOC_1&format=PDF
[1] Cfr. CIG, Legalità dell’uso dell’arma nucleare, 1996.
[2] Ex multis, CPA, Caso Fonderia di Trail, 1941.
[3] Ex multis, CPGI, Fiume Order, 1929.
[4] Si tratta di un atto di soft law e dunque non vincolante per gli Stati.
[5] Tra i principi più importanti si ricordano il diritto di vivere in un ambiente che garantisca dignità e benessere, la tutela intergenerazionale e l’approccio integrato sviluppo e ambiente.
[6] Rapporto Brundtland della World Commission on Environment and Development (1987).
[7] Per approfondimenti sul tema, si veda D. VERALDI, La tutela internazionale dell’ambiente, al seguente link http://www.dirittoconsenso.it/2020/11/12/la-tutela-internazionale-ambiente/
[8] Sui caratteri della consuetudine, si veda A. FEDERICO, La consuetudine internazionale, al seguente link http://www.dirittoconsenso.it/2021/09/21/la-consuetudine-internazionale/