Consiglio di Sicurezza

Consiglio di Sicurezza e Covid-19

Il seguente scritto intende offrire una breve analisi del ruolo che il Consiglio di Sicurezza ha svolto, rebus sic stantibus, durante l’emergenza sanitaria in corso

 

Covid 19 e relazioni internazionali: cenni preliminari

Nel 2020 l’ONU, quale organizzazione internazionale a vocazione universale, si accinge a festeggiare il settantacinquesimo anniversario dalla sua istituzione[1]. Da allora vi è stato un evidente mutamento delle relazioni internazionali, le quali, proprio nell’anno in corso, subiscono gli effetti dell’emergenza sanitaria data dal Covid 19. E’ indispensabile, dunque, valutare l’intensità con cui le Nazioni Unite si inseriscono nell’assetto attuale, in particolare il Consiglio di Sicurezza che – ai sensi del capo VII della Carta ONU – è l’organo competente ratione materiae per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Il lockdown pressoché mondiale, che ha seguito la dichiarazione di pandemia da parte della World Health Organization[2], ha provocato la sospensione – in alcuni casi anche arbitraria ed ingiustificata[3] – delle libertà fondamentali garantite dalle Costituzioni occidentali e da numerose Carte internazionali disciplinanti i diritti umani[4]. A questo si aggiunge la scelta di molti Stati di affrontare lo stato di eccezione sulla base del particolarismo nazionale. E’ innegabile che ciò costituisca l’inizio di una nuova era delle relazioni nella Comunità internazionale la quale, sempre più, torna ad essere radicata in ragione di quella koinonìa[5] di aristotelica memoria.

Può tutto questo incidere sul mantenimento della pace e della sicurezza internazionale?

 

Covid 19 e la sostanziale (in)attività del Consiglio di Sicurezza

L’attuale emergenza sanitaria non può prescindere da un intervento incisivo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite[6], quale organo competente ad adottare decisioni vincolanti per gli Stati membri al fine di non alterare ovvero aggravare l’assetto della pace internazionale.

Innanzitutto l’esigenza di prevenzione del contagio ha necessitato l’adozione di manifestazioni alternative del voto in seno al CdS, tali da garantire la prosecuzione dell’attività consiliare da remoto piuttosto che in presenza. In sintesi, dopo che i membri del Consiglio di Sicurezza – tra i quali, si ricorda, Cina, USA, Russia, Gran Bretagna e Francia sono membri permanenti titolari del diritto di veto – propongono un progetto di risoluzione, il Presidente pro tempore apre la votazione avvisando gli altri membri con una lettera telematica; la votazione deve avvenire nelle 24 ore successive alla notifica, ad opera del rappresentante dello Stato, mediante lettera presentata elettronicamente al Director of the Security Council Affairs Division (SCAD). Questi comunicherà l’esito della votazione al Presidente del CdS che, a sua volta, informerà gli Stati membri in una call conference nelle successive 12 ore. Il rappresentante che non provvederà all’invio della lettera-voto sarà considerato assente. La pubblicità della votazione è assicurata dalla pubblicazione delle lettere e dei risultati sul sito internet del Consiglio di Sicurezza[7].

Sebbene il CdS si sia munito di una tale procedura, l’unica risoluzione adottata dallo stesso – nell’ambito dell’emergenza Covid 19 – è la 2518/2020 del 30 marzo in materia di sicurezza dei peacekeepers[8].

Con tale decisione il Consiglio di Sicurezza intende tutelare la salute dei 110.000 operatori di pace ONU attualmente attivi in 13 missioni nel mondo, mediante l’elaborazione di piani di evacuazione rapidi e l’attuazione di procedure adeguate di indagini “on improving safety and security[9]” dei peacekeepers. La risoluzione in esame è stata approvata all’unanimità su proposta della Cina con altri 43 paesi, tra i quali anche la Russia.

Un aspetto procedurale non di poco conto è la Presidenza cinese del Consiglio di Sicurezza nel mese di marzo, in onore della quale il termine “COVID 19” non è mai stato utilizzato nell’atto 2518. Tale ultima considerazione rende evidente l’inerzia del Consiglio di Sicurezza nell’ambito dell’emergenza sanitaria in corso che – palesemente – provoca un mutamento nelle relazioni tra gli Stati e si configura quale fonte di minaccia alla sicurezza internazionale, materia di elezione e competenza proprio di questo organo delle Nazioni Unite.

In supplenza del Consiglio di Sicurezza sono intervenuti altri organi ONU, in particolare il Segretariato e l’Assemblea Generale. Il primo, nella persona di Antonio Guterres, pubblica sui propri siti ufficiali, quasi quotidianamente, video con i quali invita gli Stati ad adottare tutte le misure di sicurezza necessarie per limitare il contagio nel rispetto dei diritti umani di tutte le categorie di persone (cittadini, stranieri, bambini, lavoratori). Ancor più eloquente era apparso l’appello, datato 23 marzo, dell’organo esecutivo con cui si invitavano gli Stati in conflitto a cessare il fuoco. In Yemen e nelle Filippine le parti belligeranti hanno immediatamente adottato accordi di pace temporanei, ma nulla è poi avvenuto nel resto del mondo. Anzi, a dispetto di ciò, alcune fonti diplomatiche dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza hanno avanzato l’idea di un progetto di risoluzione sull’impatto del Coronavirus nei teatri di guerra ma, rebus sic stantibus, non è registrabile alcuna iniziativa del CdS in tal senso.

L’Assemblea Generale, dal canto suo, ha approvato all’unanimità, sempre da remoto, una risoluzione sulla solidarietà globale e la cooperazione internazionale contro la pandemia da Covid 19, col fine di impegnarsi nella protezione dei Paesi più poveri ed evitare qualsiasi forma di discriminazione.

La sostanziale inattività del Consiglio di Sicurezza durante l’emergenza sanitaria in corso ha riportato alla luce i difetti strutturali di tale organo, soprattutto in ordine al diritto di veto dei cinque membri permanenti a fronte del fatto che le relazioni diplomatiche tra gli Stati vincitori della seconda guerra mondiale sono da allora mutate, affermandosi una sensazione di reciproca diffidenza, perché mutati sono gli interessi ed i particolarismi dei singoli Paesi.

Se e quando sarà possibile una riforma della Carta delle Nazioni Unite, essa non potrà prescindere dall’istituzione di sistemi efficienti per la prevenzione delle grandi emergenze tra cui quelle climatiche.

Informazioni

[1] Il 26 giugno 1945 a San Francisco viene firmata la Carta delle Nazioni Unite, la quale entra in vigore il 24 ottobre dello stesso anno.

[2] Istituto specializzato delle Nazioni Unite, il quale ha poteri vincolanti nei confronti degli Stati membri in tema di malattie epidemiche e prodotti farmaceutici, con l’obiettivo di un omogeneo e, quanto più possibile, elevato stato di salute di tutti i popoli.

[3] Un esempio è offerto dalla situazione in Ungheria. Per approfondimenti si veda http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/01/costituzione-ungherese-e-assunzione-dei-pieni-poteri-emergenza-sanitaria-o-fine-della-democrazia/

[4] Ex multis, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e, a livello regionale, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo

[5] Essa si configura come la comunità politica data dalla singola polis greca.

[6] Come accaduto nel corso dell’epidemia causata dell’ebola, che il Consiglio di Sicurezza – ai sensi della risoluzione 2177/2014 – aveva qualificato come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale e chiesto agli Stati di provvedere con aiuti sanitari, censurando però la chiusura delle frontiere dei Paesi coinvolti.

[7] Come è possibile consultare sul sito del Consiglio di Sicurezza

[8] Per una lettura integrale della risoluzione in esame si rimanda a https://undocs.org/S/RES/2518(2020).

[9] Così nel testo della risoluzione.


costituzione ungherese

Costituzione ungherese e assunzione dei pieni poteri: emergenza sanitaria o fine della democrazia?

Il presente lavoro intende offrire una breve panoramica dei principi fondamentali e delle norme in materia di organizzazione dello Stato disciplinati dalla Costituzione ungherese, alla luce delle misure nazionali adottate in ragione del Covid-19

 

Costituzione ungherese e politiche conservatrici

Può uno Stato dell’Unione europea trasformarsi de facto in una dittatura? È in corso un cambiamento interno che viola le disposizioni della Costituzione ungherese? È quanto sembra stia accadendo in queste ore in Ungheria, con il pretesto di fronteggiare al meglio l’emergenza sanitaria causata dal Covid-19.

Il premier Victor Orbàn, con una legge votata dal Parlamento ungherese il 30 marzo 2020, ha assunto pieni poteri senza limiti temporali. In verità molti parlamenti europei, come quello francese, hanno votato lo “stato di emergenza” deferendo poteri eccezionali ai governi nazionali ma, a differenza dell’esperienza ungherese, individuandone un congruo termine che, presumibilmente, coincida con la fine della pandemia[1].

La nuova Costituzione ungherese (Magyarország Alaptörvénye) è entrata in vigore il 1 gennaio 2012 ed all’art. B dei principi fondamentali definisce l’Ungheria quale Stato di diritto indipendente e democratico. Il funzionamento dello Stato ungherese accoglie il principio liberale della separazione dei poteri, in ragione del quale nessuno dei tre può mirare alla conquista o all’esercizio violento ovvero al suo possesso esclusivo: avverso simili pretese, chiunque può legittimamente intervenire per porvi fine[2]. Ancorché siano presenti tali statuizioni, alle quali si aggiunge che l’Assemblea Nazionale è l’organo supremo per la rappresentanza popolare[3], la Costituzione ungherese è stata oggetto di numerose critiche da parte delle opposizioni proprio perché spesso strumentalizzata per la realizzazione delle recenti politiche governative sovraniste.

Desta infatti maggiori preoccupazioni l’art. 15 del capo dedicato allo Stato, nel quale si legge che le competenze del Governo si estendono a tutto quanto non sottoposto a quelle degli altri organi dalla Costituzione ungherese o da altre norme giuridiche. Quest’ultimo principio giustifica l’adozione di decreti governativi su materie non regolate dalla legge ma, con l’ulteriore precisazione, di non contraddirla. Alla luce di questi brevi cenni alle norme della Costituzione ungherese, sembra registrarsi un assetto ordinamentale formalmente democratico, se non fosse per le numerose contraddizioni del governo Orbàn e della sua maggioranza sul piano sostanziale. Si pensi, ex multis, alla limitazione della libertà di stampa, alla politica migratoria di natura conservatrice, allo spoil system, alla c.d. “legge schiavitù” che aumenta le ore di straordinario e ne ritarda il pagamento. Tutte politiche, queste, che sembrano contra Constitutionem. E’ noto infatti che l’art. I, inserito nel capo dedicato a “Libertà e responsabilità”, impegna lo Stato alla protezione dei diritti inviolabili ed inalienabili dell’uomo sia individuali che collettivi; la Costituzione ungherese ammette una loro limitazione solo in via eccezionale quando è necessario il bilanciamento con altri diritti. Alcuni di questi diritti sono esplicitati, tra cui la libertà di pensiero e di coscienza[4]. L’art. IX riconosce, inoltre, la libertà di manifestare la propria opinione, la libertà e la pluralità di stampa, assicurando le condizioni necessarie alla libera informazione in vista della realizzazione di un’opinione pubblica democratica.

Come si giustifica, dunque, tra le altre, una limitazione della libertà di stampa nel Paese? Sebbene la Costituzione ungherese disciplini in linea teorica il principio fondamentale, il governo conservatore ha adottato leggi e regolamenti che hanno alterato il mercato dell’informazione, affinchè privati o società vicini al potere acquistassero giornali e reti televisive, anche attraverso finanziamenti governativi.

 

Pandemia e pieni poteri

La pandemia in corso ha realizzato la limitazione di alcune tra le più importanti libertà fondamentali. Nella maggior parte dei casi, le Costituzioni europee prevedono che ciò sia possibile solo attraverso riserva di legge e/o giurisdizione. Un’ormai annosa questione riguarda la natura dell’atto legislativo che contiene la limitazione: uno Stato democratico imporrebbe una scelta fisiologica verso la legge parlamentare o, al più, un atto ad essa equiparata.

Dato che il Parlamento ungherese, la cui prima forza politica è il Fidesz – guidato dallo stesso Orbàn – ha  conferito al Primo Ministro pieni poteri[5], tali limitazioni saranno adottate con la forma del decreto. Esso, data la sospensione de facto dei poteri parlamentari, non sarà mai sottoposto al vaglio dell’Assemblea nazionale, la quale in teoria svolge un ruolo di controllo sul Governo. In particolare, le nuove disposizioni riconoscono al Capo di Governo la possibilità di prolungare discrezionalmente e senza definizione temporale lo stato di emergenza[6]; ciò potrebbe comportare la sospensione per decreto di alcune leggi e l’introduzione di altre, senza che venga mai richiesto l’intervento parlamentare, a cui si aggiunge la reclusione fino ad 8 anni per chi viola il coprifuoco. Inoltre è stato approvato che, nel caso vengano diffuse notizie false sul virus o sulle decisioni del governo, l’autore della condotta rischi da 1 a 10 anni di prigione: ciò riapre la già analizzata questione della limitazione della libertà di stampa in Ungheria, oggetto di misure europee contro lo Stato.

A parte le ragioni di ordine formale circa l’organizzazione dello Stato sancite dalla Costituzione ungherese, appare inaccettabile che un Capo di Governo possa assumere pieni poteri, esautorando quelli del Parlamento: una tale misura ricorda pericolosamente la legge tedesca del 1933 grazie alla quale, nel 1934, Hitler potè emanare un decreto con cui sanciva l’unificazione delle funzioni di presidente e di cancelliere del Reich assumendole entrambe in qualità di Fuhrer. Nella peggiore delle ipotesi, Orbàn, vista l’assenza di qualsiasi limite temporale, potrebbe non rilasciare mai quella porzione di potere assunto in questa situazione di emergenza sanitaria. Ciò si configurerebbe come una piena violazione dell’art. 2 TUE[7], incrinando i già poco rosei rapporti con l’Unione europea[8], ancorché la Costituzione ungherese promuova l’unità europea in vista del completamento della libertà, del benessere e della sicurezza dei popoli e vincoli lo Stato al diritto europeo[9].

Informazioni

[1] Per tornare al paradigma francese, il termine dello “stato d’urgenza” è stato individuato in due mesi.

[2] Cfr. art. C, capo “Principi fondamentali”, Costituzione ungherese.

[3] Cfr. art. 1, capo “Lo Stato”, Costituzione ungherese.

[4] Ex art. VII, capo “Libertà e responsabilità”, Costituzione ungherese. Nello stesso articolo viene esplicitata anche la libertà di religione.

[5] Con 137 voti a favore e 53 contrari.

[6] Già in vigore dall’11 marzo 2020.

[7] Ai sensi del quale “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

[8] Data l’attivazione di una procedura di infrazione per violazione delle disposizioni in materia di asilo.

[9] Cfr. art. E, capo “Principi fondamentali”, Costituzione ungherese.


Ordine internazionale

Un nuovo ordine internazionale? I rapporti USA-Afghanistan

Il presente lavoro intende offrire una breve analisi dell’ordine internazionale risultante dal conflitto tra gli Stati Uniti d’America e l’Afghanistan in seguito all’attentato dell’11/9/2001, per giungere poi all’accordo tra U.S.A. e Talebani del 29/2/2020, passando dal divieto dell’uso della forza sancito dall’art. 2, par. 4, Carta ONU

 

Le relazioni USA – Afghanistan

L’11 settembre 2001, considerata ormai dalla dottrina la data che segna un nuovo (dis)ordine internazionale, gli Stati Uniti d’America furono colpiti in due di tre punti nevralgici per la loro esistenza. Due aerei di linea, appartenenti alle maggiori compagnie americane, furono dirottati contro le Torri Nord e Sud del World Trade Center, centro della finanza statunitense; un altro aereo venne fatto schiantare contro il Pentagono, centro del sistema militare americano; un quarto aereo, con molta probabilità, si sarebbe dovuto abbattere contro la Casa Bianca o altro simbolo della vita politica del Paese presso Washington ma, in seguito ad una rivolta dei passeggeri ostaggi dei terroristi, precipitò.

Fino ad allora, gli U.S.A., pur avendo partecipato ad entrambe le guerre mondiali, non furono mai oggetto di una minaccia esterna diretta, né furono teatro di battaglie combattute sul loro territorio. Con l’attentato terroristico dell’11 settembre, si affermò, nell’ordine internazionale ed interno, il riconoscimento degli Stati Uniti come “bersaglio di guerra, anzi il principale bersaglio di guerra che i nemici di ciò che essi rappresentano intendono combattere”[1].

Gli U.S.A., infatti, dopo la fine del c.d. “sistema bipolare” a seguito del dissolvimento dell’Unione Sovietica avvenuto nel 1991, divennero, con non poche difficoltà interne, emblema dell’internazionalizzazione e della globalizzazione. Nasceva così un nuovo ordine internazionale il quale presuppone l’azione clandestina del nemico: non più uno scontro aperto sul campo di battaglia per ottenere l’espansione territoriale, ma un conflitto, spesso solo virtuale, che ha ad oggetto il modo di concepire lo stato delle cose e da ciò deriva la difficoltà di qualificare il nemico. Tuttavia in seguito all’attacco del 2001, il governo di Washington individuò come responsabile, e dunque quale potenziale nemico, Osama bin Laden e, più in generale, il fondamentalismo islamico che si esprimeva attraverso episodi di terrorismo attuati dall’organizzazione di al-Qāʿida. Pochi giorni dopo, l’allora presidente George W. Bush lanciò un ultimatum ai Talebani con cui chiedeva, tra le altre, la consegna dei leader dell’organizzazione agli U.S.A. e la liberazione di tutti i prigionieri stranieri. Il suo mancato seguito e l’esito negativo di altri tentativi di negoziazione determinarono, il 7 ottobre 2001, il primo bombardamento aereo sul territorio di Kabul da parte di forze armate statunitensi e britanniche. È noto ai più che questo fu solo il primo di altri numerosi attacchi.

 

L’uso della forza nel diritto internazionale

Ma ciò che in questa sede interessa è innanzitutto verificare la legittimità dell’intervento militare statunitense in Afghanistan. Il divieto dell’uso della forza viene qualificato quale norma di ius cogens[2], quindi inderogabile, secondo il tenore dell’art. 2, par. 4, Carta ONU.

L’unico caso in cui è ammesso l’uso della forza è l’ipotesi di self defence ex art. 51 Carta ONU, in seguito ad un attacco diretto e già sferrato ma nei limiti della proporzionalità e in attesa che il Consiglio di Sicurezza adotti le misure necessarie. Proprio a quest’organo delle Nazioni Unite il capo VII della Carta affida il controllo esclusivo e vincolante sul sistema di sicurezza collettiva: in buona sostanza, l’ONU, da una parte impone il divieto assoluto della forza, dall’altra accentra nel Consiglio il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Ai sensi dell’art. 39 Carta ONU[3] rispetto ad eventuali situazioni di minaccia della pace, violazione della pace e atti di aggressione, al Consiglio di Sicurezza è data una certa discrezionalità per l’adozione delle misure previste dagli artt. 40 e ss della Carta ONU[4], sia quando l’accertamento riguardi guerre internazionali sia quando riguardi guerre interne.

Dunque alla luce di quanto appena esposto, l’unica deroga al divieto dell’uso della forza sarebbe rappresentata dalla legittima difesa. Tale nozione è stata oggetto di ampia estensione da parte della c.d. “dottrina Bush”, la quale fa capo al documento presentato, nel settembre 2002 dall’omonimo Presidente degli Stati Uniti, intitolato “National Security Strategy of the United States of America”. Esso contiene la nozione di “legittima difesa preventiva” la quale, stando al tenore di tale atto, potrebbe essere esercitata dagli U.S.A. per prevenire, oltre che le imminenti minacce con uso di armi di distruzione di massa, anche atti terroristici. Fermo restando che sulla legittimità dell’uso della preventive self defence la Corte Internazionale di Giustizia si è sempre guardata bene dal pronunciarsi[5], l’attacco degli Stati Uniti sul territorio afgano, se si seguisse questo filone interpretativo, sarebbe riconducibile a tale dottrina.

In realtà non sfugge all’evidenza dei fatti che lo schianto degli aerei, sulle Torri del World Trade Center e sul Pentagono, si potrebbe qualificare formalmente come “attacco diretto e già sferrato”, il quale consentirebbe un uso della forza, proporzionata all’attacco, quale espressione della legittima difesa tout court. A ben vedere, condividendo la tesi offerta da autorevole dottrina[6], ancorché si faccia fatica a qualificare il terrorismo internazionale quale crimen iuris gentium, esso è riconducibile all’azione di un gruppo ristretto di individui e non di uno Stato. Questa conclusione configurerebbe il bombardamento statunitense sul territorio di Kabul come illegittimo, perché ha realizzato effetti disastrosi su un intero Stato e quindi anche e soprattutto sulla popolazione civile, a fronte, invece, di un crimine individuale, determinando così un diverso ordine internazionale. Tanto è vero che una risoluzione ONU del 14 novembre 2001 prevedeva una condanna dei Talebani per avere permesso che l’Afghanistan venisse utilizzato come base per l’esportazione del terrorismo attraverso la rete al-Qāʿida ed altri gruppi terroristici e per aver garantito sicuro asilo a Osama Ben Laden, al-Qāʿida e altri loro associati, e in questo contesto, si chiedeva il supporto alla popolazione afghana per rimpiazzare il regime talebano.

 

L’accordo USA – Talebani: i primi passi verso un nuovo ordine internazionale?

Un buon manuale di storia avrebbe analizzato nel dettaglio ogni singolo episodio accaduto nel corso di poco più di 18 anni di presenza statunitense nell’area afgana. Ovviamente non è questa la sede per farlo, anche per mancanza di competenze specifiche in materia da parte di chi scrive. Ciò che invece si vuole trattare è, si spera, l’esito finale di tale vicenda che, per anni, ha investito l’ordine internazionale.

Il 29 febbraio 2020 le delegazioni statunitense e talebana hanno firmato a Doha, in Qatar, un accordo di pace al fine di avviare una fase di negoziazione tra le due parti. Al momento non vi sono ancora fonti giuridiche autorevoli in materia ma, dalle dichiarazioni rilasciate[7], l’accordo è sottoposto a reciproche condizioni:

  • gli Stati Uniti ritireranno le loro truppe e quelle delle forze alleate dal territorio afgano entro quattordici mesi e, a breve termine, entro centotrentacinque giorni dalla firma vi sarà una riduzione della presenza americana fino ad un massimo di 8600 uomini;
  • in cambio i Talebani eviteranno di ospitare in Afghanistan organizzazioni terroristiche.

 

Non è ancora chiaro quale sarà il ruolo del governo di Kabul, laddove il fatto che la firma sia stata apposta dal mullah Baradar implica che gli Stati Uniti riconoscano nel sistema islamico-talebano un ordinamento statuale. Che questo possa dar causa a nuovi conflitti interni? Fa ben sperare che una delle clausole dell’accordo prevede che si dia avvio ai negoziati tra il Governo di Kabul e i Talebani già a partire dal 10 marzo presso Oslo[8], con il rilascio di migliaia di persone detenute illegittimamente dai due fronti intra-afgani[9]; ovviamente gli U.S.A. non hanno omesso di sottolineare che il mancato rispetto degli impegni assunti determinerebbe la risoluzione dell’accordo. Inoltre alla sua definizione hanno partecipato anche alcuni rappresentanti della N.A.T.O., i quali hanno chiesto l’inserimento di una clausola al fine di migliorare la condizione delle donne nel Paese[10].

È evidente che l’accordo in esame, nonostante la sua auspicata portata storica nell’ambito delle relazioni internazionali, non è di immediata e piena attuazione: i negoziati richiederanno dei mesi, la trasformazione dello status hic et nunc in un ordinamento civile degli anni. L’obiettivo è quello di raggiungere un ordine internazionale ed interno, stabile e duraturo, che sia presupposto per il mantenimento della pace e che eviti lo scontro tra le fazioni presenti sul territorio afgano. Il controllo in tal senso dovrebbe essere, dunque, affidato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in conformità alle prerogative sancite dal capo VII della Carta.

Sostanzialmente ciò avverrà? Ai posteri l’ardua sentenza!

Informazioni

Canestrini, 2001, Terrorismo, diritto internazionale e ordine mondiale: riflessioni a caldo sull’11 settembre 2001 in Pubblicazioni Centro Studi per la Pace.

Conforti, 2014, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica.

Di Nolfo, 2004, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale nel XX secolo, Bari, Editori Laterza.

https://www.agi.it/estero/news/2020-02-29/afghanistan-usa-talebani-accordo-7269205/

https://dailyworker.it/a-doha-lo-storico-accordo-tra-usa-e-talebani/

https://www.lapresse.it/esteri/afghanistan_firmato_accordo_di_pace_tra_usa_e_talebani-2424726/video/2020-02-29/

https://www.repubblica.it/esteri/2020/02/29/news/afghanistan_passi_verso_la_pace-249865362/

[1] Cfr. DI NOLFO, 2004, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale nel XX secolo, Bari, Editori Laterza, p. 384.

[2] Non vi sono norme scritte di diritto cogente ma gli studiosi sono concordi nell’individuarne almeno tre a partire dall’art. 2 della Carta delle Nazioni Unite: tutela dei diritti umani e della dignità umana; mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; diritto all’autodeterminazione dei popoli. Parte della dottrina individua anche una quarta norma cogente nel divieto di ledere irrimediabilmente l’economia di un Paese ma tale principio viene spesso derogato. Si veda inoltre un articolo di DirittoConsenso sul tema delle fonti del diritto internazionale, tra cui le consuetudini: http://www.dirittoconsenso.it/2019/10/28/le-fonti-del-diritto-internazionale-e-i-cambiamenti-della-comunita-internazionale/

[3] Ai sensi del quale “Il Consiglio di Sicurezza accerta l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione, e fa raccomandazione o decide quali misure debbano essere prese in conformità agli articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”.

[4] Art. 40: misure provvisorie (come il “cessate il fuoco”, che è una misura di soft law finalizzata a non aggravare la situazione); art. 41: misure non implicanti l’uso della forza (come l’embargo, al fine di isolare lo Stato che ha violato i principi della Carta); art. 42: misure implicanti l’uso della forza (utilizzo di contingenti nazionali allo scopo di togliere agli Stati la discrezionalità dell’uso della forza; a tale norma, oggi, si ricollegano le peace keeping operations).

[5] Non lo ha fatto, ex multis, nel famoso caso Militer and paramiliter activities in and against Nicaragua (Nicaragua vs U.S.A., sent. 27/06/1986).

[6] Cfr. CONFORTI, 2014, Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica, pp 416 e ss.

[7] Fonte: https://www.repubblica.it/esteri/2020/02/29/news/afghanistan_passi_verso_la_pace-249865362/

[8] Fonte: https://www.lapresse.it/esteri/afghanistan_firmato_accordo_di_pace_tra_usa_e_talebani-2424726/video/2020-02-29/

[9] Fonte: https://www.agi.it/estero/news/2020-02-29/afghanistan-usa-talebani-accordo-7269205/

[10] Fonte: https://dailyworker.it/a-doha-lo-storico-accordo-tra-usa-e-talebani/


Costituzione e cittadinanza italiana e europea

Una ricostruzione dell’istituto della “cittadinanza” nell’ordinamento costituzionale, anche alla luce dell’adesione dell’Italia all’Unione europea, prospettandosi così un diritto ad una cittadinanza italiana ed europea

 

Gli elementi costitutivi dello stato moderno e la cittadinanza

Lo Stato moderno trova i suoi fondamenti nel “popolo”, nella “sovranità” e nel “territorio”. In particolare il primo si delinea quale insieme di uomini che formano una collettività politica capace di autodeterminarsi per il raggiungimento di determinati fini (i.e. “sovranità”); è inoltre indispensabile la condizione di convivenza per un certo tempo in uno stesso luogo (i.e. “territorio”)[1]. È tuttavia il potere costituito che individua i soggetti che possono formare il proprio “popolo”, attraverso l’istituto della “cittadinanza”.

Essa è definibile come l’appartenenza degli individui allo Stato attraverso un criterio scelto da quest’ultimo: l’afferenza può essere data dallo ius soli, cioè da una mera interdipendenza territoriale. In un’altra prospettiva la connessione si realizza attraverso lo ius sanguinis, ovverosia un legame di parentela che permette il passaggio della cittadinanza di padre in figlio. L’attualità, inoltre, ci pone innanzi ad un ulteriore criterio,  quello dello ius culturae, quale acquisizione della cittadinanza in base a percorsi di istruzione e formazione in quel determinato Stato: in buona sostanza è necessaria la prova della condivisione di determinati valori, i quali non sono quelli di un costituzionalismo interno bensì universale, derivante – per l’appunto – dai principi della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo[2] e che vengono recepiti dall’ordinamento attraverso gli artt. 10 e 11 Cost.[3]

Tale ultima soluzione, dunque, riconosce un concetto di appartenenza sociale ed assiologica, la quale consente la partecipazione alla vita politica del Paese come governante e non solo come governato. Il fenomeno dell’immigrazione – declinatosi in diversi modi nei millenni e che oggi è oggetto di acuti dibattiti politici – ha iniziato ad espandersi rispetto alla dimensione regionale con la globalizzazione.

Già in epoca romana, Caracalla introdusse un suo Editto nel 212 d.C. in ordine alla “cittadinanza espansiva”[4]: è pur vero che quest’ultima aveva prima facie una finalità speculativa volta all’allargamento della base contributiva, ma trovava comunque un suo fondamento nel valore della tolleranza. Ecco che l’imperialismo classico è da considerarsi un leading case rispetto a quello moderno di tipo anglosassone: tale ultimo si caratterizza per il fatto che i cittadini delle colonie hanno il diritto di voto ma non possono accedere all’elettorato passivo, venendo meno – dunque – quella condizione di appartenenza politica piena allo Stato.

Un riconoscimento diversificato della cittadinanza se da un lato è giustificato perché si pone come strumento per la difesa dei valori nazionali, dall’altro si configura quale ossimoro in quanto limita quegli stessi valori che intende difendere.

 

La cittadinanza nell’ordinamento costituzionale italiano

La Costituzione italiana non disciplina espressamente le vicende inerenti all’acquisto, al mantenimento ed alla perdita della cittadinanza, in quanto questa si configura come nozione presupposta dato l’art. 22 Cost. ai sensi del quale nessuno ne può essere privato per motivi politici. La norma si prospetta quale applicazione diretta del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. il quale diviene vincolante per il legislatore nel momento in cui deve – seppur discrezionalmente – disciplinare il regime della cittadinanza. Essa rileva come uno dei diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost. e dunque elemento imprescindibile dell’antropocentrismo che permea la Carta repubblicana.

Questa ricostruzione permette di considerare la cittadinanza come una sorta di capacità giuridica di diritto pubblico in virtù di un tendenziale legame con fattori storici, culturali, etnici di quella Nazione. L’essere cittadino – come è noto – implica la titolarità di diritti e doveri in conformità al carattere unitario della Costituzione: essa può essere considerata Legge fondamentale dello Stato, tra le altre, proprio perché contiene una clausola di supremazia – riconosciuta dai soggetti istituzionali e dai cittadini – che regola in modo efficiente i rapporti tra Stato e Persona e tra questa e l’intera Società.

Una tutela del cittadino-Persona in una prospettiva relazionale non può prescindere anche dall’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Ciò è espressione del dovere di fedeltà alla Repubblica enucleato nell’art. 54 co.1 Cost.: tale principio implica l’adesione ai valori su cui si fonda il “patto costituente”.  Diversamente la titolarità dei diritti inviolabili ex art. 2 Cost. non implica lo status di cittadino italiano, in quanto essi sono riconosciuti e garantiti ad ogni essere umano in quanto tale.

A tale conclusione si giunge anche in ordine ad alcuni diritti esplicitati in Costituzione: si pensi all’art. 3 Cost. il quale – benchè affermi la pari dignità sociale e l’uguaglianza di tutti i <<cittadini>> – è da considerarsi quale principio applicabile ad ogni persona, interpretazione – questa – facilmente ricavabile dal prosieguo nella lettura della norma; contrariamente, invece, a quanto previsto per il diritto di voto ex art. 48 Cost, il quale – impiegando il termine <<cittadini>> – intende riferirne la titolarità solo ed esclusivamente a questi ultimi. Dunque la cittadinanza si prospetta come diritto fondamentale e come tale è irretrattabile.

Alla luce di ciò è da condividersi la giurisprudenza della Corte costituzionale[5] secondo la quale le bandiere – quali emblemi nazionali della natura giuridica della cittadinanza – “designano simbolicamente un certo Paese, l’identità d’un determinato Stato e, se mai, anche l’ideologia che la maggioranza del popolo di quest’ultimo accetta e propone al confronto internazionale”, ma poiché lo Stato liberale non possiede contenuti ideologici “le bandiere valgono soltanto quale simbolo identificatore d’un determinato Stato e, se mai, di precisi, inconfondibili ideali dai quali muove il popolo e, conseguentemente, la sua sovranità”. Di modo che la cittadinanza sia configurabile come istituto necessariamente anche internazionale e non solo interno, tanto da essere sintomatico di un “ordinamento aperto”, così come impongono gli artt. 10 e 11 Cost.

A tal proposito una successiva pronuncia del Giudice delle Leggi[6] ha chiarito che la posizione del cittadino è ontologicamente diversa da quella dello straniero, poiché il primo ha un legame fisiologico con la comunità nazionale che diviene anche e soprattutto nesso giuridico ma non la condicio sine qua non per il godimento delle libertà fondamentali.

 

La disciplina ordinaria in materia

La legge ordinaria dello Stato italiano in ordine alle modalità di acquisto, perdita e riacquisto della cittadinanza è da ravvisarsirebus sic stantibusnella n. 91 del 1992 e nel d.P.R. n. 572/1993 quale suo regolamento di esecuzione.

Tale legislazione individua come criteri di acquisto della cittadinanza lo ius sanguinis e lo ius soli: dunque è cittadino italiano rispettivamente chi è figlio di padre o madre italiani e chi è nato nel territorio della Repubblica italiana da genitori entrambi ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono; è considerato cittadino per nascita, inoltre, il figlio di ignoti ritrovato sul territorio della Repubblica, se non viene provato il possesso di altra cittadinanza[7]. Essa, poi, a determinate condizioni tassativamente previste, può essere concessa anche dal Ministro dell’Interno o dal Presidente della Repubblica, su istanza presentata da un privato legittimato dalla legge[8].

La perdita della cittadinanza può avvenire per rinunzia ovvero automaticamente. La prima ipotesi si configura quale atto spontaneo di un soggetto che acquista una cittadinanza straniera decidendo di sostituirla e non affiancarla a quella italiana; a ciò deve contestualmente seguire la residenza all’estero. La perdita automatica, invece, è prospettabile quando il cittadino italiano accetta un incarico da altro Stato o ente pubblico e/o internazionale di cui l’Italia non è parte, ovvero presta servizio militare per uno Stato estero e non dà seguito all’intimazione del Governo di lasciare la carica ovvero il servizio[9].

Nonostante la perdita della cittadinanza, la l. 91/1992 consente di riacquistarla – previa manifestazione di volontà in tal senso – prestando servizio militare per lo Stato, assumendo un incarico pubblico alle dipendenze italiane, stabilendo entro un anno la residenza nel territorio della Repubblica (nel caso di perdita per aver accettato un incarico pubblico da Stato straniero ovvero per aver prestato servizio militare a favore di questo, il termine è di due anni)[10].

Nel 2015, alcuni parlamentari avevano proposto l’introduzione dello ius culturae nell’ordinamento italiano: più precipuamente si sarebbe voluta garantire la cittadinanza italiana a minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni e che avevano frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni e superato almeno un ciclo scolastico, nella specie le scuole elementari o medie; inoltre i nati all’estero ma arrivati in Italia fra i 12 e i 18 anni avrebbero potuto ottenere la cittadinanza dopo aver abitato in Italia per almeno sei anni e avere superato un ciclo scolastico. La Camera approvò il disegno di legge il quale, invece, si arenò irrimediabilmente al Senato[11]. Ma la questione è tornata ad essere discussa tra i banchi delle Camere recentemente con una proposta – all’esame della commissione “Affari costituzionali” -, la quale prevede che: “L’acquisto della cittadinanza si configura [pertanto] come un diritto sottoposto a una condizione sospensiva, consistente nel compimento di un corso di istruzione che certifica l’avvenuta acquisizione delle conoscenze culturali e della formazione civica necessarie per una piena integrazione del giovane nella società italiana”.

Proprio per la già richiamata vocazione internazionale del diritto di cittadinanza è da auspicarsi che l’iter legislativo in materia di ius culturae, declinato in tal senso, continui fino alla promulgazione da parte del Capo di Stato.

 

Definire i cittadini europei

L’affermazione di principio contenuta nell’art. 11 Cost. ha consentito la partecipazione dell’Italia a numerose organizzazioni internazionali volte ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Tra queste ha un ruolo di primo piano, sicuramente, quella che è nata come Comunità europea e che oggi è divenuta Unione Europea. Proprio l’art. 20 del Trattato sul Funzionamento dell’UE riconosce la cittadinanza europea a chiunque sia cittadino di uno Stato membro. La cittadinanza europea, dunque, deriva da quella nazionale ed è complementare ad essa perché non la sostituisce.

Autorevole dottrina[12] sostiene che quella europea – proprio per quest’ordine di ragioni –  si profila come cittadinanza di secondo grado. Alla pari della cittadinanza di uno Stato-nazione, quella europea implica l’esercizio di diritti e l’adempimento di obblighi: ex multis, la libera circolazione in tutto il territorio dell’UE, l’elettorato attivo e passivo per le elezioni del Parlamento europeo e per quelle comunali del luogo di residenza, il diritto di petizione al Parlamento europeo e di ricorrere al Mediatore, la protezione diplomatica[13].

Il passo successivo, pertanto, è di tipo culturale in ragione del fatto che il cittadino italiano deve riconoscersi non solo come tale ma anche come europeo: ciò implica un sentimento di appartenenza storica, etnica, politica, ordinamentale non rilegata alla propria Nazione ma che si apre all’esterno in un’ottica cooperativa e propositiva.

Informazioni

Castorina, 1997, Introduzione allo studio della cittadinanza. Profili ricostruttivi di un diritto, Milano, Giuffrè Editore

Catania, 2000, Stato, cittadinanza, diritti, Torino, Giappichelli Editore.

Grosso, 1997, Le vie della cittadinanza, Padova, CEDAM.

Lippolis, 1994, La cittadinanza europea, Bologna, Il Mulino.

Modugno (a cura di), 2019, Diritto pubblico, Torino, Giappichelli Editore.

Sessa, 2014, Cittadinanza espansiva ed espansione della cittadinanza. Politiche di integrazione e motivazione culturale al reato tra la Roma antica e il mondo attuale in Studia et documenta historiae et iuris, vol. LXXX, pp 171 e ss.

Tesauro, 2012, Diritto dell’Unione europea, Padova, CEDAM.

Zolo (a cura di), 1994, La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Editori Laterza.

[1] Cfr. MODUGNO (a cura di), 2019, Diritto pubblico, Torino, Giappichelli Editore, pp 51-52.

[2] Proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 10 dicembre 1948.

[3] Definite “disposizioni costituzionali internazionalistiche” dal prof. Massimo PANEBIANCO in seno al Convegno “Diritti e democrazia”, 5-6 dicembre 2019, Università degli Studi di Salerno.

[4] Per approfondimenti sul tema si veda SESSA, 2014, Cittadinanza espansiva ed espansione della cittadinanza. Politiche di integrazione e motivazione culturale al reato tra la Roma antica e il mondo attuale in Studia et documenta historiae et iuris, vol. LXXX, pp 171 e ss.

[5] Cfr. sentenza n. 189 del 1987.

[6] Cfr. sentenza n. 62 del 1994.

[7] Cfr. art. 1 l. 91/1992.

[8] Cfr. artt. 7, 8, 9 l. 91/1992.

[9] Cfr. artt. 11, 12 l. 91/1992.

[10] Cfr. artt. 13, 14, 15 l. 91/1992.

[11] “La Commissione affari costituzionali della Camera, all’inizio della legislatura, aveva avviato in sede referente l’esame di 25 proposte di legge e svolto un’indagine conoscitiva in sede istruttoria, valutando dapprima un’ipotesi molto ampia di riforma. Nel corso dell’istruttoria il perimetro della discussione è stato successivamente limitato all’estensione dei casi di acquisizione della cittadinanza per i minori nati o formati in Italia. La proposta di riforma è stata approvata dall’Assemblea della Camera il 13 ottobre 2015, per poi essere trasmessa al Senato dove tuttavia l’esame non ha concluso il proprio iter entro lo scioglimento delle Camere”. Fonte:https://www.camera.it/leg17/465?tema=integrazione_cittadinanza

[12] Cfr. MODUGNO (a cura di), 2019, Diritto pubblico, Torino, Giappichelli Editore, p. 54.

[13] Per approfondimenti sul tema, si veda LIPPOLIS, 1994, La cittadinanza europea, Bologna, Il Mulino.