Afghanistan e talebani: le difficili trattative
Come proseguono i negoziati tra Afghanistan e Talebani mentre gli Stati Uniti affrontano un momento di grande fragilità politica?
Il rapporto tra Afghanistan e Talebani: una trama intricata da decenni
L’Afghanistan è un paese che si trova in uno stato di guerra praticamente costante da molto prima della nota invasione americana. Già nel 1979 viene invaso dall’Unione Sovietica nell’ottica di una Guerra Fredda ormai prossima al suo epilogo. Il gruppo dei Talebani nasce già nel lontano 1989 nel contesto della guerra civile in atto in Afghanistan, ma è nel 1994 che assumono notorietà per il loro promesso impegno nel combattere la corruzione, migliorare la sicurezza del paese, un paese del resto distrutto dal conflitto interno. Fin dal principio emerge la loro affiliazione con la versione più austera e intransigente della Shari’a, ma il culmine si ha in seguito al 2001, quando l’aver dato rifugio a taluni militanti di al-Qaeda li rende immediatamente bersaglio degli Stati Uniti e delle forze internazionali alleate, incluso lo stesso Afghanistan, dopo l’attentato alle Torri Gemelle.
Come mai questo conflitto tra Aghanistan e Talebani si è protratto per oltre un ventennio? Le ragioni in realtà sono molteplici: sicuramente si annoverano la tenace resistenza e organizzazione dei Talebani sul territorio, a cui corrisponde invece una debolezza sistemica delle forze afgane, che si trova a dipendere dalle truppe straniere, prime fra tutte quelle americane. Con il progressivo ritiro delle milizie straniere, con il passare degli anni i Talebani hanno progressivamente riacquistato porzioni di territorio e, con esso, potere. Dopo più di vent’anni, tutte le parti coinvolte – e nello specifico, il logorato governo afgano, gli Stati Uniti usciti non vittoriosi dal conflitto e la controparte talebana rinvigorita – sembrano per la prima volta voler far convergere i loro interessi su un obiettivo comune: la pace?
Talebani e Stati Uniti: pace fatta dopo un ventennio travagliato?
Il primo accordo di pace tra le delegazioni talebana e statunitense è stato firmato lo scorso 29 febbraio a Doha[1]. Questo storico accordo, dal titolo “Agreement for Bringing Peace to Afghanistan”[2], firmato tra mullah Abdul Ghani Baradar a capo della delegazione talebana, e Zalmay Khalilzad dal lato americano, prevede quattro punti principali:
- il rilascio di un certo numero di detenuti sia da lato talebano che afgano,
- l’impegno da parte dei Talebani di rompere con al-Qaeda e rinunciare ad ogni legame e relazione con i gruppi jihadisti sul territorio,
- la promessa di inizio dei dialoghi con il governo afgano, sinora rimasto escluso dal tavolo negoziale dato il carattere esclusivamente bilaterale delle trattative USA-Talebani, e la discussione con quest’ultimo su un cessate il fuoco prolungato e, in ultimo,
- il ritiro delle truppe straniere dalle basi militari.
Infatti, il Pentagono ha recentemente confermato che è prevista una riduzione progressiva delle truppe americane da Afghanistan e Iraq a partire dal 15 gennaio 2021 – potrebbe essere questa l’ultima mossa in politica estera del Presidente Trump, una sua promessa elettorale importante fatta in opposizione al dispiegamento di forze (circa 140.000 militari)[3] avvenuto durante la precedente presidenza Obama. Si rammenta che la presenza militare americana risale al 2001 per l’Afghanistan e al 2003 per l’Iraq.
È inevitabile domandarsi, in questo momento, che cosa cambierà – o meglio se ci sarà qualche cambiamento – nel travagliato rapporto che intercorre tra questi due paesi una volta insediatasi la Presidenza Biden alla Casa Bianca. Biden, in quanto futuro presidente degli Stati Uniti, dovrà fare i conti con i lasciti dell’amministrazione uscente e tentare di riequilibrare i rapporti tra Afghanistan e Talebani: il primo, un governo marginalizzato e fragile; i secondi, forti della legittimità e delle concessioni fatte da Trump. La negoziazione bilaterale con i Talebani voluta da Trump, un evento senza precedenti, ha assicurato agli Stati Uniti la fine delle ostilità, suggellata dal ritiro delle truppe e dal rilascio di prigionieri, ma ha ulteriormente indebolito il governo afgano. A proposito delle elezioni americane, i Talebani hanno recentemente dichiarato che l’accordo di Doha è un “documento eccellente” e che “attuarlo è lo strumento più efficace e ragionevole per mettere fine alla guerra”. Sembra dunque che i margini di manovra per Biden siano in realtà piuttosto ridotti nel gestire i rapporti tra Afghanistan e Talebani: la sostanza, ossia, probabilmente non cambierà. Del resto, Biden stesso è a favore di un progressivo disimpegno e di una presenza più leggera e snella delle truppe sin dal 2008-2009, con compiti soprattutto di contro-terrorismo.
Qual è la situazione attuale delle trattative tra Afghanistan e Talebani?
Sempre in Qatar, lo scorso settembre sono stati avviati i negoziati tra il governo dell’Afghanistan e i Talebani. Il 12 settembre si è tenuta una cerimonia ufficiale a Doha che ha visto partecipi Abdullah Abdullah, recentemente nominato a capo del neonato Alto Consiglio per la Riconciliazione Nazionale e il già citato mullah Abdul Baradar, alla presenza di Mike Pompeo, Segretario di Stato americano. Di fatto, l’incontro ha seguito lo stesso modello dei negoziati tra gli Stati Uniti e i Talebani e si inserisce nel lungo processo di pace che prevede diverse fasi. L’accordo precedentemente siglato con Washington pone inevitabilmente la delegazione talebana in una posizione di forza: la controparte americana consolida una certa legittimità politica fornita alla controparte talebana, oltre che, di fatto, mettere l’autorità afgana di fronte ad una decisione già presa. Al confronto, invero, la compagine afgana si mostra divisa, con profonde spaccature legate, tra le altre concause, al conteso esito delle elezioni presidenziali del settembre 2019.
Al momento sembra sia stata avviata una prima fase di negoziato tra Afghanistan e Talebani incentrata sul cessate il fuoco duraturo, ma si è ancora lontani dall’aver trovato un punto d’accordo sull’agenda, né sulle procedure. Il vero nodo sta nel rapporto dei Talebani con la politica e la società afghana, che si declina secondo diversi paradigmi: ad esempio, i Talebani si sono dichiarati contrari alla Costituzione afgana attuale e vogliono invece discutere della forma di governo da adottare, benché abbiano dichiarato allo stesso tempo di non volere il monopolio del potere politico ma di esser pronti a condividerlo. Il passaggio più complesso in questo lungo processo negoziale sarà per i Talebani quello di dimostrare di volere davvero la pace e di non essere all’esclusiva ricerca di un vantaggio militare dovuto al disengagement americano. Per i rappresentanti afgani invece si tratterà di dimostrare di saper realmente rappresentare una società plurale ma coesa nei suoi obiettivi e nelle sue richieste. Ciononostante, la circostanza in cui sono iniziati i dialoghi tra Afghanistan e Talebani (o intra-afgani), per la prima volta in modo diretto e senza altri mediatori, rimane indubbiamente un’occasione e un’opportunità storica.
Considerazioni finali
Quello che emerge dai negoziati tra Afghanistan e Talebani che si sono svolti sino ad ora è il delinearsi, di fatto, di un equilibrio precario: il progressivo ma costante disimpegno degli Stati Uniti finisce con il soddisfare sia gli americani che i Talebani, appagati dall’opportunità di poter avere più libertà d’azione a scapito dell’incerto governo di Kabul, che vede opporsi le leadership di Abdullah Abdullah e del Presidente Ashraf Ghani.
Mentre a Doha si conclude il coinvolgimento americano nei complicati negoziati, si apre ora la difficile fase di transizione, che prevede da parte dei Talebani una riorganizzazione della struttura statale dell’Afghanistan e fa dunque presumere una progressiva riconquista talebana del controllo sullo stato afgano. Di fatto, il numero di violenze e attacchi terroristici riconducibili a o direttamente rivendicati dai Talebani ai danni della popolazione afgana non sembra aver subito alcuna battuta d’arresto. Più recentemente, diverse figure politiche, giornalisti e attivisti, incluso il Vice Governatore di Kabul Mahboobullah Mohebi[4] sono state recentemente uccise da attacchi mirati, per i quali si sospetta un coinvolgimento talebano.
Un altro dato che sembra chiaramente indicare che una conclusione pacifica per il popolo afgano sia ancora lontana dal realizzarsi è il fatto che, secondo uno studio del Costs of War Project della Brown University, il numero di civili afgani uccisi da attacchi aerei è aumentato del 300% dal 2017. Un tale aumento è stato parzialmente attribuito al progressivo disengagement delle truppe americane sul luogo, e parzialmente attribuito all’obiettivo di voler mettere pressione ai talebani e convincerli a negoziare una trattativa di pace. Solo nella prima metà del 2020, 86 civili sono stati uccisi e altri 103 feriti[5].
I negoziati tra Afghanistan e Talebani sono stati attualmente sospesi, e riprenderanno a gennaio 2021. Tra i nodi da sciogliere troviamo naturalmente i dettagli del cessate il fuoco e un accordo sulla condivisione del potere tra Talebani e governo afgano. Tra mille difficoltà e complicazioni, queste trattative sono lontane dall’essere concluse, e l’auspicata stabilità e durevolezza dei loro effetti rimane incerta.
Informazioni
Battiston, Accordo storico USA-Talebani, ma la pace è ancora incerta, ISPI Online, 28 febbraio 2020. Ultimo accesso 13/11/2020. https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/accordo-storico-usa-talebani-ma-la-pace-e-ancora-incerta-25246
Battiston, G., Afghanistan: prove di accordo tra governo e Talebani, ISPI Online, 18 settembre 2020. Ultimo accesso 12/11/2020. https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/afghanistan-prove-di-accordo-tra-governo-e-talebani-27524
Battiston, G., In Afghanistan Biden eredita un processo già avviato e gli errori di Trump, ISPI Online, 16 novembre 2020. Ultimo accesso 16/11/2020. https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/afghanistan-biden-eredita-un-processo-gia-avviato-e-gli-errori-di-trump-28289
BBC News team, Afghanistan: Kabul deputy governor killed in ‘sticky bomb’ attack on car, BBC News, 15 dicembre 2020. Ultimo accesso 17/12/2020. https://www.bbc.com/news/world-asia-55300357
BBC News team, Civilians killed in air strikes in Afghanistan soars by more than 300%, BBC News, 8 dicembre 2020. Ultimo accesso 13/12/2020. https://www.bbc.com/news/world-asia-55225827
BBC News team, Who are the Taliban?, BBC News, 27 febbraio 2020. Ultimo accesso 17/12/2020. https://www.bbc.com/news/world-south-asia-11451718
Bertolotti, C., I negoziati in Qatar verso un solo esito: la riconquista talebana dell’Afghanistan, AffariInternazionali, 15 settembre 2020. Ultimo accesso 1/12/2020. https://www.affarinternazionali.it/2020/09/negoziati-qatar-afghanistan-riconquista-talebani-paese/
Bertolotti, C., L’accordo di Trump è una vittoria per i talebani?, AffarInternazionali, 29 febbraio 2020. Ultimo accesso 3/12/2020. https://www.affarinternazionali.it/2020/02/laccordo-di-trump-e-una-vittoria-per-i-talebani/
Crawford, N. C., Afghanistan’s Rising Civilian Death Toll Due to Airstrikes, 2017-2020, Watson Institute International & Public Affairs, Brown University, 7 dicembre 2020. Ultimo accesso 13/12/2020. https://watson.brown.edu/costsofwar/files/cow/imce/papers/2020/Rising%20Civilian%20Death%20Toll%20in%20Afghanistan_Costs%20of%20War_Dec%207%202020.pdf
Di Marco, D., Afghanistan: una firma che non ferma la guerra, Il Caffè Geopolitico, 13 maggio 2020. Ultimo accesso 10/11/2020. https://ilcaffegeopolitico.net/123093/afghanistan-una-firma-che-non-ferma-la-guerra
Pioppi, S., Il ritiro dall’Afghanistan aiuterà Biden su Iran e Cina. La lettura di Carlo Jean, Formiche.net, 18 novembre 2020. Ultimo accesso 18/11/2020. https://formiche.net/2020/11/afghanistan-usa-iran-cina-jean/
Qazi, S., Talks between Afghan government and Taliban open in Qatar, Al-Jazeera, 12 settembre 2020. Ultimo accesso 12/11/2020. https://www.aljazeera.com/news/2020/09/12/talks-between-afghan-government-and-taliban-open-in-qatar/
Rutigliano, M. G., Afghanistan: tra violenze e negoziati, SicurezzaInternazionale, 16 settembre 2020. Ultimo accesso 10/11/2020. https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2020/09/16/afghanistan-violenze-negoziati/
[1] Questo passaggio è già stato affrontato in dettaglio nel seguente articolo: http://www.dirittoconsenso.it/2020/03/12/un-nuovo-ordine-internazionale-i-rapporti-usa-afghanistan/
[2] Il testo integrale dell’accordo si può consultare qui: https://www.state.gov/wp-content/uploads/2020/02/Agreement-For-Bringing-Peace-to-Afghanistan-02.29.20.pdf
[3] Bertolotti, C., I negoziati in Qatar verso un solo esito: la riconquista talebana dell’Afghanistan, AffariInternazionali, 15 settembre 2020. Ultimo accesso 1/12/2020.
[4] BBC News team, Afghanistan: Kabul deputy governor killed in ‘sticky bomb’ attack on car, BBC News, 15 dicembre 2020. Ultimo accesso 17/12/2020. https://www.bbc.com/news/world-asia-55300357
[5] BBC News team, Civilians killed in air strikes in Afghanistan soars by more than 300%, BBC News, 8 dicembre 2020. Ultimo accesso 13/12/2020. https://www.bbc.com/news/world-asia-55225827
Il Sahara Occidentale tra dispute territoriali e un popolo dimenticato
Il Sahara Occidentale è un vasto territorio conteso tra Marocco, Algeria e Mauritania, oltre alle aspirazioni indipendentistiche del popolo Saharawi
Saharawi: di chi si tratta?
Prima di essere colonizzati dagli spagnoli, i Saharawi sono in origine un popolo nomade, tradizionalmente diviso in tribù che sono tuttavia disposte a riunirsi in momenti di difficoltà o necessità, riconoscendo la loro origine comune e il profondo senso di appartenenza collettivo. Condividono molti valori: le varie tribù infatti parlano la stessa lingua, l’hassanya, e professano la stessa religione, l’Islam. Da un punto di vista etnico, la maggioranza della popolazione si compone come una fusione tra il popolo berbero e quello arabo.
La colonizzazione spagnola inizia nel XV secolo ma viene formalmente riconosciuta solo più tardi, con la Conferenza di Berlino del 1884-1885, quando le potenze europee si divisero a tavolino i territori africani tracciando linee di confine artificiose. La dominazione spagnola è responsabile di una serie di bruschi cambiamenti nella struttura e organizzazione sociale del popolo Saharawi, conseguenza soprattutto dello sviluppo di centri urbani nel territorio. I Saharawi vengono progressivamente relegati nelle zone più povere delle città, vengono discriminati e vengono a loro preclusi i livelli salariali più alti. È in questo contesto che si sviluppa in maniera graduale tra i Saharawi una coscienza nazionale, nata di fatto come reazione alle strutture repressive dell’amministrazione spagnola, unita a sentimenti anti-colonialisti che negli anni sessanta accendono gli animi e le aspirazioni indipendentistiche, in linea con il resto del continente africano.
Nascono in questo periodo le prime forme di nazionalismo Saharawi e i primi tentativi pragmatici di ribellione contro il dominio coloniale. In seguito, all’inizio degli anni sessanta, emerge a Rabat una realtà rivoluzionaria clandestina, capitanata da Mustafa Sayed Al Ouali e formata da studenti, intellettuali e militanti, tutti accomunati dal forte sentimento anti-spagnolo e che entra presto in contatto con la diaspora Saharawi. È l’embrione di quello che diventerà il Fronte Polisario, organismo militante prima, e movimento politico poi, che ha come obiettivo l’autodeterminazione del popolo[1] Saharawi e la conseguente fine del colonialismo.
Il 1974 è un anno fondamentale per queste terre: la Spagna opta finalmente per la decolonizzazione e determina – sotto l’egida dell’ONU – la necessità di un referendum per decretare l’autodeterminazione del popolo Saharawi. Tuttavia, il Marocco si dichiara fortemente contrario a questo referendum. Ha così origine la “Marcia Verde”. Dopo l’appello del re Hassan II (padre dell’attuale re del Marocco), più di 300.000 marocchini riescono nell’intento di allontanare definitivamente il colonizzatore spagnolo. La marcia, rivelatasi estremamente efficace nel costringere gli spagnoli a ritirarsi, è seguita nel 1975 dalla formulazione di accordi di pace tra Spagna, Marocco e Mauritania – tutti e tre gli stati rivendicavano infatti diritti storici sul Sahara occidentale – che stabiliscono la divisione dei territori assegnando due terzi di territorio meridionale al Marocco e un terzo di territorio settentrionale alla Mauritania. I Saharawi vedono così il referendum e il loro sogno indipendentista andare in fumo, e nasce da qui la controversia territoriale ad oggi ancora senza soluzione.
L’origine della controversia territoriale nel Sahara Occidentale
La diatriba territoriale ha origine proprio nel 1975, con l’annessione di una buona parte del territorio contestato da parte del Marocco (circa l’80%). Con l’occupazione marocchina inizia per i Saharawi una fase di progressiva denaturazione di ciò che è l’identità culturale Saharawi, di guerra e violenze sistematiche. Durante questo prolungato periodo di occupazione, migliaia di rifugiati Saharawi trovano protezione in Algeria, in particolare a Tindouf, città di confine che ancora oggi ospita la maggior parte dei rifugiati Saharawi. Come reazione, il Fronte Polisario annuncia nel 1976 la nascita della Repubblica Democratica Araba dei Saharawi (SADR), il cui governo viene instaurato, in esilio, a Tindouf (Algeria) e stabilisce la propria sovranità sul restante 20-25% del territorio. Il conflitto che ne consegue assume le fattezze di una guerriglia per l’indipendenza, che si protrae fino al 1991 con la stipula degli accordi di pace, guidata dalla mediazione della Nazioni Unite. Il piano prevede il cessate il fuoco, che viene associato alla promessa di un referendum di autodeterminazione nel Sahara Occidentale, chiaramente mai realizzatosi.
Il territorio del Sahara Occidentale rimane ad oggi conteso, in un contesto che richiama nostalgicamente gli scenari delle divisioni delle sovranità territoriale durante l’era della decolonizzazione, tra il Marocco, che rivendica la sua sovranità territoriale, il Fronte Polisario, che lotta per l’autodeterminazione del popolo Saharawi, e l’Algeria che ospita il governo della SADR e dunque non riconosce l’autorità del Marocco. La Mauritania, che in passato aveva anch’essa avanzato pretese di rivendicazione, si ritira definitivamente dalle zone occupate nel 1979 in seguito alla formulazione di un accordo di pace con il Fronte Polisario.
Attualmente, la Repubblica Araba Democratica dei Saharawi, nonostante sia membro dell’Unione Africana, rimane uno stato a riconoscimento limitato – sono circa 82 gli stati che ne hanno riconosciuto la legittimità – e continua ad aspirare alla sovranità nazionale e ad un riconoscimento in toto da parte della comunità internazionale.
La questione Saharawi ai sensi del diritto internazionale
Il Consiglio di Sicurezza viene interpellato per la prima volta sull’argomento dalla Spagna nel 1975, subito dopo la Marcia Verde che interpreta come una minaccia alla pace regionale. Il Consiglio dichiara di deplorare l’accaduto che tuttavia non valuta come una violazione dell’integrità territoriale e invita le parti a negoziare una soluzione pacifica. Di lì a poco vengono firmati gli Accordi di Madrid tra Spagna, Mauritania e Marocco con i quali la regione viene spartita senza prendere in considerazione le rivendicazioni Saharawi. Il Consiglio di Sicurezza emana allora nel 1979 una risoluzione con la quale condanna l’invasione marocchina e legittima la lotta del Fronte Polisario.
Il 1988 è un anno di svolta. Le Nazioni Unite propongono il Settlement Plan come parte del già menzionato Piano di Pace. Il piano comprende, assieme al cessate il fuoco, anche l’implementazione del referendum per l’autodeterminazione, già richiesto dall’Assemblea Generale nel 1966. Il quesito referendario prevede l’alternativa tra integrazione al Marocco e indipendenza. Il Consiglio di Sicurezza istituisce così con la risoluzione 69/91 la MINURSO – la Missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale, operazione che ha come compito, oltre al mantenimento della pace e dell’ordine pubblico, quello di preparare le operazioni di voto. In questa fase sorge immediatamente un problema che diventerà fondamentale negli anni a seguire, e che sarà la causa principale di continui rinvii del referendum: identificare gli aventi diritto al voto rappresenta una sfida insuperabile.
La complicazione è dovuta sicuramente al carattere nomade dei Saharawi e alla difficoltà di identificare gli aventi diritto sia tra i rifugiati all’interno dei campi profughi che tra i membri della diaspora, rendendo intricato stilare il censimento. Si tenterà negli anni di aggirare questo ostacolo con numerosi piccoli escamotage giuridici, senza però mai riuscire a sbloccare la situazione.
Più recentemente, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è espressa in merito alla questione Saharawi nella causa C-104/16, dove ha stabilito che il Sahara occidentale non sia da considerarsi parte della sovranità territoriale del Marocco, e che di conseguenza ogni accordo UE-Marocco non possa applicarsi al territorio del Sahara occidentale senza il consenso della popolazione autoctona. Questa importante sentenza si fonda sul principio di autodeterminazione dei popoli per quanto riguarda la popolazione Saharawi. Tuttavia, l’Unione Europea, intesa come soggetto politico, ha affermato che “lo Status definitivo del Sahara occidentale rimane oggetto dei negoziati condotti sotto l’egida delle Nazioni Unite, sul cui esito è prematuro pronunciarsi”[2]. Questo atteggiamento dell’Unione Europea esemplifica il rapporto di buon vicinato che ha con il Marocco, e la sua intenzione di mantenerlo tale, rimanendo in una inerzia giuridica che sembra voler favorire il consolidamento della situazione di fatto, benché sorta illecitamente per il diritto internazionale.
Gli ultimi sviluppi
Il 22 gennaio 2020, il governo marocchino ha approvato una serie di normative con cui ha deliberatamente stabilito la propria giurisdizione sulle acque territoriali del Sahara occidentale e la creazione di una zona economica esclusiva[3] in queste acque contese da tempo, già fonte di tensione persino tra Marocco e Spagna in passato e che rimangono evidentemente una questione irrisolta. Questa decisione è stata duramente criticata sia dal Fronte Polisario che dall’Algeria, che come già menzionato guarda favorevolmente alle istanze auto-deterministiche Saharawi, pur volendo continuare ad intrattenere rapporti amichevoli e proficui con il vicino Marocco. I due paesi stanno infatti cercando di riparare le loro relazioni, che fin dai tempi dell’indipendenza dal potere coloniale sono state piuttosto tese. Un motivo di contrasto che rimane insoluto tra i due paesi è proprio la questione del Sahara Occidentale.
La situazione attuale appare dunque come cristallizzata in uno stallo, una impasse sia politica che giuridica, dove nessuna delle parti coinvolte ha desiderio di recedere. Da parte della popolazione Saharawi vi è un generale sentimento di disincanto verso l’inerzia dell’ONU e la lentezza delle sue operazioni, una progressiva perdita di fiducia nell’istituzione in sé e perdita di speranza nell’attuazione del referendum tanto agognato. Questa stasi è indubbiamente dovuta anche alla ferma volontà del Marocco di non volere assolutamente nessun cambiamento in questo senso, spesso con il supporto di altri attori internazionali, primo fra tutti la Francia.
La rilevanza mediatica assunta dalle numerose testimonianze delle condizioni critiche in cui i Saharawi vivono all’interno dei campi profughi – tra malnutrizione e numerosi episodi di discriminazione sistematica e violenza – favorita anche dalla minuziosa campagna di sensibilizzazione alla questione del popolo Saharawi da parte del Fronte Polisario, rappresenta oggi uno dei pochi sforzi effettivi compiuti nell’ottica di riavviare il percorso di pace interrottosi in passato e per l’attuazione del tanto desiderato referendum.
Ad oggi, tuttavia, il Sahara occidentale risulta ancora essere considerato un “territorio non autonomo” dall’ONU. La speranza è che in futuro anche questo piccolo angolo d’Africa possa superare una volta per tutte il suo travagliato trascorso coloniale ed affrontare in modo efficace la questione dell’autodeterminazione.
Informazioni
I Saharawi e il Sahara Occidentale, Sahara Marathon. Ultimo accesso 12/09/2020. http://www.saharamarathon.org/it/aboutsaharawi_it/#:~:text=Lo%20status%20internazionale%20del%20Sahara,che%20occupa%20illegalmente%20il%20Sahara.
Interrogazione parlamentare E-000814/2017, risposta della Vicepresidente Federica Mogherini a nome della Commissione. 29 marzo 2017. https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/E-8-2017-000814-ASW_IT.html
Laurenza, P., Il Marocco espande i suoi confini marittimi, aumentano le tensioni con il Fronte Polisario, SicurezzaInternazionale, LUISS, 23 gennaio 2020. Ultimo accesso 10/09/2020. https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2020/01/23/marocco-espande-suoi-confini-marittimi-aumentano-le-tensioni-fronte-polisario/
Laschi, G., Il sistema internazionale alla prova: il caso del Sahara Occidentale, pubblicazione CISP – Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli e Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri. Disponibile su https://developmentofpeoples.org/
[1] Per approfondire ulteriormente il significato di questa espressione, si consiglia la lettura di “Il principio di autodeterminazione dei popoli: profili attuali”, http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/15/principio-di-autodeterminazione-dei-popoli-profili-attuali/
[2] Interrogazione parlamentare E-000814/2017, risposta della Vicepresidente Federica Mogherini a nome della Commissione. 29 marzo 2017. https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/E-8-2017-000814-ASW_IT.html
[3] Su cosa sia la Zona Economica Esclusiva invito a leggere “Il diritto internazionale marittimo: la zona economica esclusiva”, http://www.dirittoconsenso.it/2020/09/03/diritto-internazionale-marittimo-zona-economica-esclusiva/
Etiopia nel caos: le tensioni etniche non sembrano arrestarsi
Le tensioni intra-etniche in Etiopia peggiorano dopo l’uccisione del cantante oromo Haachaaluu Hundessaa. Cosa sta succedendo? Chi sono gli oromo?
Haachaaluu Hundessaa: attivismo in musica
Haachaaluu Hundessaa, rinomato cantante etiope di etnia oromo, è stato ucciso lo scorso 29 giugno a soli 34 anni nella capitale Addis Abeba. Hundessaa era considerato simbolo e portavoce delle rivendicazioni di autodeterminazione[1] della popolazione oromo, etnia maggioritaria in Etiopia ma continuamente soggetta a discriminazione e marginalizzazione. Attraverso la sua musica, si prefiggeva di dare voce alle istanze e afflizioni del suo popolo. Giovane dalla forte personalità e grande carisma, aveva un vissuto da attivista: a soli 17 anni era stato incarcerato per aver partecipato alle proteste contro il regime tigrino e per sospetti legami con il Fronte di Liberazione Oromo, un’organizzazione politica – considerata fuorilegge fino al 2018 – che si batte contro il dominio coloniale e l’oppressione della cultura e del popolo oromo.
La sua scomparsa ha tuttavia innescato una serie di reazioni ben oltre le aspettative: raccoglimenti, proteste e manifestazioni si sono susseguite nei giorni immediatamente successivi alla morte, accostando il dolore sincero dei fan al rancore dei più per la costante discriminazione dell’etnia oromo. I manifestanti, infervorati dalla dolorosa circostanza, hanno ripreso a gran voce a reclamare più diritti per la propria etnia e chiedere al governo centrale la fine delle ingiustizie e vessazioni perpetuatesi sinora. Inoltre, alcuni gruppi di attivisti oromo hanno decapitato la statua di Ras Makonnen nella città di Harar, padre del ben più noto imperatore Hailé Selassié I e di etnia amhara: la rimozione o danneggiamento di una statua è sempre un atto di grande impatto simbolico, peraltro di una certa attualità anche nel mondo occidentale, che in questo contesto vuole sottolineare ancora una volta come l’egemonia coloniale (soprattutto amhara) sia percepita come una delle principali responsabili dell’assoggettamento dell’etnia oromo. La risposta delle forze dell’ordine a questi disordini è stata esemplarmente severa e ha provocato la morte di più di 200 dimostranti nel giro di una settimana.
Queste vicende costituiscono un’ulteriore conferma della presenza e persistenza di radicate tensioni etniche in Etiopia, ben lontane dall’essere risolte, che proveremo ora ad analizzare.
Chi sono gli oromo?
L’Etiopia è uno dei paesi più eterogenei al mondo e conta circa 80 gruppi etnici. Le etnie principali sono gli oromo, gli amhara, i somali e i tigrini, che insieme compongono più del 70% della popolazione. A questi si aggiungono più di 100.000 rifugiati provenienti prevalentemente da Somalia, Eritrea e Sudan, e gruppi non autoctoni stranieri che, tra gli altri, comprendono indiani, armeni, yemeniti, greci e italiani. Fra tutte, la comunità amhara ha economicamente e politicamente avuto più rilievo, testimoniato dal fatto che l’amarico sia attualmente lingua ufficiale dell’Etiopia. Come si può facilmente comprendere, in un tale contesto dove decine di etnie, lingue e dialetti si trovano a coabitare, è inevitabile che si presentino (e si siano presentati, nel corso della storia) importanti ostilità fra le diverse comunità.
Gli oromo, in particolare, sono diffusi sia in Kenya che in Etiopia, dove costituiscono circa il 34% della popolazione. Persino al loro interno sono molto eterogenei: esistono infatti 12 diversi sottogruppi che racchiudono islam, cristianesimo e waaq, la religione tradizionale. Nonostante rappresentino il gruppo etnico maggioritario in Etiopia, rivendicano un passato caratterizzato da marginalizzazione, oppressione ed esclusione da qualsivoglia incarico statale, e dunque la totale incapacità di far valere i propri diritti ed il proprio status di cittadini. Oltre al mancato accesso alla rappresentanza politica, gli oromo denunciano problematicità nel tracciamento dei confini, che è avvenuto e continua ad avvenire in modo illegittimo e a scapito delle istanze della comunità. Nel dettaglio, l’Addis Abeba Master Plan del 2015, un nuovo piano di espansione del territorio della capitale, prevedeva una serie di interventi a scapito delle aree circostanti ove risiedevano contadini oromo, senza risarcimenti previsti. Queste circostanze gettarono il paese nel caos e innescarono mutamenti politici profondi che hanno portato in ultimo all’elezione dell’attuale Primo Ministro.
È importante sottolineare che questa caratteristica multietnicità del paese è centrale e si riflette nella composizione dell’impianto istituzionale. Ciò avvenne a partire dagli anni 90 con la destituzione del regime del Derg – Governo militare provvisorio dell’Etiopia socialista, il consiglio militare precedentemente al potere che prediligeva un governo fortemente centralizzato. Da allora l’etnicità divenne il nuovo fondamento politico dello stato, a cui fece seguito un graduale processo di destrutturazione della narrativa incentrata sull’etnia amhara e l’istituzionalizzazione dei vari nuclei etnici e delle rispettive rivendicazioni. Questa evoluzione culminò nel 1994 con l’adozione di una Costituzione federale e con la creazione di stati regionali i cui confini erano stati tracciati seguendo criteri etno-linguistici per rappresentare la maggioranza dei gruppi etnici presenti.
La posizione del Primo Ministro Abiy Ahmed
La reazione alle manifestazioni da parte delle forze di sicurezza è stata, come già detto, piuttosto violenta e ha causato centinaia di vittime. Ma il governo non si è fermato qui: ha inoltre oscurato internet nel tentativo di arginare le proteste e arrestato esponenti politici e giornalisti che si pongono in primo piano nella difesa dei diritti oromo. Tra gli arrestati di più alto profilo figurano Jawar Mohammed per la Oromia Media Network e Bekele Gerba del partito Congresso Federalista Oromo. Questa risposta così rigida da parte del governo centrale, che altro non produce se non un ulteriore acuirsi delle tensioni, può sembrare paradossale se si considera che Abiy Ahmed Ali, il Primo Ministro, è il primo di etnia oromo a ricoprire una carica di così alto livello.
Abiy Ahmed Ali, leader del Partito Democratico Oromo e con un passato militare, viene nominato Primo Ministro nel 2018 in uno scenario politico infuocato, al culmine di tre anni di intense manifestazioni di piazza contro l’ex Primo Ministro Hailé Mariàm Desalegn, di etnia tigrina, che hanno determinato la morte di centinaia di dimostranti e la dichiarazione dello stato di emergenza. Dal momento della sua elezione inizia una vigorosa stagione di riforme per l’Etiopia. Primo fra tutti il processo di riappacificazione con l’Eritrea: con la promozione dell’accordo di pace promosso dall’ONU nel lontano 2000, con la rinuncia alle rivendicazioni territoriali nella zona contesa di Badme, e culminato con due momenti di grande rilevanza, la ripresa ufficiale dei commerci e la riapertura delle rispettive ambasciate. Oltre a ciò, viene tolta la censura da centinaia di siti internet e canali tv, vengono privatizzate importanti aziende statali, liberati prigionieri politici e per la prima volta viene intavolato il processo di riconciliazione con le componenti armate e più intransigenti nell’universo dell’attivismo oromo. Proprio per questo esempio di buongoverno, Abiy Ahmed è stato insignito del premio Nobel per la pace nel 2019[2].
Ciononostante, dopo un’iniziale entusiasmo tra la comunità oromo nella speranza che il nuovo Primo Ministro potesse definitivamente porre fine a decenni di marginalizzazione politica ed economica, i suoi sforzi nel contrastare tale oppressione sono stati giudicati a dir poco carenti da parte di alcune sezioni del suo stesso popolo. Lo stesso omicidio del giovane cantante rappresenta un episodio increscioso, così come la risposta decisamente sproporzionata delle forze dell’ordine. Questa apertura democratica portata avanti da Abiy Ahmed con le sue riforme non è stata sufficiente a produrre i risultati sperati; al contrario, questa liberalizzazione (seppur limitata) dello spazio pubblico ha inaspettatamente avuto come effetto collaterale[3] l’aver donato nuovo vigore alle rivendicazioni politiche ed economiche delle varie etnie coabitanti, spingendole a sollecitare maggiormente le proprie istanze, finendo così per esacerbare quelle tensioni inter-etniche con cui il paese fa i conti da tanto tempo, in particolare le ostilità oromo-amhara. Più recentemente, la decisione del Primo Ministro di rinviare le elezioni previste per questo agosto a causa della pandemia di Covid-19, con la conseguenza non trascurabile di dover estendere il proprio mandato oltre il limite costituzionale dei cinque anni, ha contribuito ulteriormente ad alimentare il clima di diffidenza e sfiducia della ormai esile base elettorale oromo.
Una crisi lontana dal risolversi
Questi avvenimenti testimoniano che le profonde fratture etniche e sociali sono ancora lontane dalla via di risoluzione, ed evidenziano la comprensibile disillusione, se non delusione, dell’etnia oromo in toto nei confronti del proprio Primo Ministro. Abiy Ahmed appare sempre più distante dalla sua (ormai ex) base sociale di riferimento. Il suo ambizioso progetto di riforme per arrivare in ultima istanza a superare le divisioni intra-etniche presenti a favore di un superiore concetto di “cittadinanza pan-etiopica”[4] sembra non voler affrontare le vere ragioni alla base delle tensioni etniche. La diversità, parte integrante della storia e della società etiope, viene ancora considerata come fonte di conflitto e non di arricchimento, a causa della disuguaglianza politica ed economica consolidata nel tessuto istituzionale e culturale del paese.
Questa instabilità interna cronica che sembra affliggere l’Etiopia fa sicuramente riferimento alle cospicue rivendicazioni di autodeterminazione delle diverse etnie, ma non solo: un altro importante fattore, come già menzionato, è costituito dalla grave crisi umanitaria che il paese deve gestire tra rifugiati e richiedenti asilo (provenienti soprattutto da Sudan, Somalia ed Eritrea) e sfollati interni, dovuti alle continue espropriazioni territoriali e ai continui scontri etnici tra le varie comunità nella loro convivenza forzata. Questo fatto si riflette in maniera negativa su un altro dato importante: il tasso di disoccupazione in Etiopia, segnale di un’economia rallentata in chiara difficoltà.
Inoltre, questa fragilità incide inevitabilmente sulla diatriba con Egitto e Sudan a proposito della Grande Diga della Rinascita Etiopica, un progetto tanto grandioso quanto temerario in un territorio in cui le risorse idriche non sono sempre immediatamente fruibili. La diga, opera progettata tra l’altro dall’azienda italiana Salini Impregilo, ha come obiettivo quello di porre l’Etiopia come attore regionale fondamentale nell’esportazione di energia elettrica e di sostenere le spese per un gran numero di progetti di sviluppo e di industrializzazione. Dall’altro lato, invece, Egitto e Sudan si trovano nella situazione di essere fortemente dipendenti dal Nilo per il loro approvvigionamento idrico, la cui portata potrebbe subire un calo significativo una volta che la diga sarà terminata e operativa. Lungi dall’essere risolto, il contenzioso assume toni sempre più accesi: si registrano scontri al confine tra Etiopia e Sudan[5], e la decisione da parte etiope di cominciare a riempire la diga lo scorso luglio a prescindere dal trovare un accordo con Il Cairo è stata accolta con ferma contrarietà, e rischia di rovinare il lungo lavoro diplomatico svolto finora.
Il percorso di governo del Primo Ministro Abiy Ahmed si fa sempre più tortuoso, e rischia di collassare sotto le pressioni sia interne che esterne, di intensità sempre maggiore.
Informazioni
Aricò, R. M., Non solo in Occidente: l’Etiopia tra statue decapitate e rivendicazioni etniche, AffarInternazionali.it, 17 luglio 2020. Ultimo accesso 31/07/2020 https://www.affarinternazionali.it/2020/07/non-solo-in-occidente-letiopia-tra-statue-decapitate-e-rivendicazioni-etniche/
Bieber, F., Tadesse Goshu W., Don’t Let Ethiopia Become the Next Yugoslavia, Foreign Policy, 15 gennaio 2019. Ultimo accesso 3/08/2020 https://foreignpolicy.com/2019/01/15/dont-let-ethiopia-become-the-next-yugoslavia-abiy-ahmed-balkans-milosevic-ethnic-conflict-federalism/
Casola, C., Il mosaico etnico dell’Etiopia: le tensioni non si sciolgono, ISPI Online.it, 20 settembre 2019. Ultimo accesso 3/08/2020 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/il-mosaico-etnico-delletiopia-le-tensioni-non-si-sciolgono-23964
Gerth-Niculescu, M., Ethiopia’s ethnic violence shows Abiy’s vulnerability, Deutsche Welle, 1 luglio 2019. Ultimo accesso 3/08/2020 https://www.dw.com/en/ethiopias-ethnic-violence-shows-abiys-vulnerability/a-49413165
Puddu, L., Etiopia: tornano le tensioni tra governo e comunità oromo, ISPI Online.it, 6 luglio 2020. Ultimo accesso 3/08/2020 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/etiopia-tornano-le-tensioni-tra-governo-e-comunita-oromo-26862
Toelgyes, C., Etiopia: manifestazioni, morti e feriti dopo l’uccisione di un popolare cantante oromo, Africa Express, 1 luglio 2020. Ultimo accesso 3/08/2020 https://www.africa-express.info/2020/07/01/etiopia-situazione-tesa-in-tutto-il-paese-dopo-luccisione-di-un-popolare-cantante-oromo/
Tamene, T., Guerra dell’Acqua, diga Gran Rinascita: ennesimo tiro mancino dell’Etiopia, L’Indro, 30 giugno 2020. Ultimo accesso 4/08/2020 https://www.lindro.it/guerra-dell-acqua-diga-gran-rinascita-ennesimo-tiro-mancino-dell-etiopia/
Zelalem, Z., Hachalu Hundessa’s murder sparks unrest in Ethiopia, Mail & Guardian, 1 luglio 2020. Ultimo accesso 3/08/2020 https://mg.co.za/africa/2020-07-01-hachalu-hundessas-murder-sparks-unrest-in-ethiopia/
The Nobel Peace Prize for 2019 – Announcement https://www.nobelprize.org/prizes/peace/2019/press-release/
[1] Per approfondire il significato di questo termine, si consiglia la lettura di “Il principio di autodeterminazione dei popoli: profili attuali”, http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/15/principio-di-autodeterminazione-dei-popoli-profili-attuali/
[2] The Nobel Peace Prize for 2019 – Announcement https://www.nobelprize.org/prizes/peace/2019/press-release/
[3] Gerth-Niculescu, M., Ethiopia’s ethnic violence shows Abiy’s vulnerability, Deutsche Welle, 1 luglio 2019. Ultimo accesso 3/08/2020 https://www.dw.com/en/ethiopias-ethnic-violence-shows-abiys-vulnerability/a-49413165
[4] Puddu, L., Etiopia: tornano le tensioni tra governo e comunità oromo, ISPI Online.it, 6 luglio 2020. Ultimo accesso 3/08/2020 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/etiopia-tornano-le-tensioni-tra-governo-e-comunita-oromo-26862
[5] Tamene, T., Guerra dell’Acqua, diga Gran Rinascita: ennesimo tiro mancino dell’Etiopia, L’Indro, 30 giugno 2020. Ultimo accesso 4/08/2020 https://www.lindro.it/guerra-dell-acqua-diga-gran-rinascita-ennesimo-tiro-mancino-dell-etiopia/
Il Medio Oriente alle prese con il Covid-19
Quali sono le criticità messe in luce dal Coronavirus in Medio Oriente, una regione notoriamente fragile e instabile?
Medio Oriente e Covid-19: nuovi ostacoli, vecchi problemi
Il Medio Oriente, una regione tradizionalmente turbolenta dal punto di vista politico, sociale ed economico, non è stato risparmiato dalla pandemia di Covid-19. Nonostante le casistiche non raggiungano vette elevatissime, il numero di contagi ha ormai superato gli 880.000 casi. Il Golfo Persico rimane l’area più colpita: l’Iran contribuisce da solo per più di 200.000 casi, mentre nel mondo arabo il paese più danneggiato è l’Arabia Saudita.
L’Iran è stato il primo centro di diffusione del Coronavirus, nella città di Qom dallo scorso febbraio, probabilmente diffuso da commercianti che avevano precedentemente viaggiato in Cina. Ciò non deve sorprendere se si considera che l’Iran si rivolge spesso al colosso cinese per un supporto economico a causa dell’embargo di buona parte della comunità occidentale. Da allora si è rapidamente diffuso, dapprima tra gli stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo, e in particolare Arabia Saudita, Kuwait e Qatar, e in seguito nel Nord Africa. Al momento l’Egitto è il terzo paese per numero di contagi, e precede l’Iraq.
Le problematiche principali per quanto riguarda il monitoraggio sono:
- le statistiche rese pubbliche dai governi, ritenute spesso inaffidabili,
- la difficoltà di somministrare tamponi e test in zone ad alto rischio a causa di conflitti preesistenti, a cui si aggiungono migliaia di rifugiati e sfollati che vivono in condizioni di insalubrità;
- tutta una serie di usanze culturali e religiose locali che di norma non prevedono alcun distanziamento sociale.
Emblematico, in questo senso, è stato il mese del Ramadan in questo 2020, per la prima volta non all’insegna della condivisione, che ha visto sospesi i pellegrinaggi alla Mecca, un caso senza precedenti, e mostrato la Ka’ba completamente deserta.
Ma se è vero che il Coronavirus ha avuto il potere di far emergere le criticità persino delle democrazie più solide, analizziamo nel dettaglio le problematiche emerse in un’area manifestamente instabile come il Medio Oriente.
L’oro nero in caduta libera
I paesi del Golfo sono stati duramente colpiti dal Coronavirus, non tanto in termini di crisi sanitaria, per la quale le strategie di contenimento e monitoraggio del contagio si sono rivelate abbastanza efficienti, seppur abbiano sofferto ritardi per mancanza di coordinazione tra singoli paesi, ma soprattutto per quanto riguarda l’industria petrolifera. Il repentino calo della domanda ha indotto a predisporre ingenti tagli alla produzione giornaliera (circa il 10% mondiale)[1] per cercare di contrastare lo squilibrio di mercato generatosi. Più di ogni altra cosa, il prezzo al barile ha subito un crollo consistente che ha allarmato buona parte della comunità occidentale poiché, se prolungato nel tempo, può finire per danneggiare alcune strutture estrattive in maniera permanente.
Inoltre, i paesi del Golfo rappresentano un importante snodo aereo e commerciale, due componenti che sono stati altresì severamente colpiti. Il settore dei trasporti appare infatti in crisi, in particolare le compagnie aeree Emirates e Etihad. Arabia Saudita, Qatar e UAE hanno annunciato sostanziosi pacchetti di finanziamenti per stimolare l’economia, ma si vedrà se saranno sufficienti a compensare la diminuzione delle esportazioni di petrolio e, soprattutto, se queste circostanze eccezionali genereranno un effetto più profondo nei precari equilibri regionali.
Protezione umanitaria: una crisi nella crisi
Come evidenzia l’ultimo rapporto di Refugees International[2], la situazione diventa drammatica se i soggetti interessati sono cittadini sfollati, profughi, rifugiati. All’interno dei campi le condizioni di vita insalubri, l’eccessiva densità di popolazione, la condivisione forzata di spazi e utensili, nonché la scarsità di risorse disponibili fanno sì che il contagio sia specialmente celere. Oltre a ciò, spesso sono presenti malattie preesistenti dovute all’ambiente malsano come tubercolosi o malnutrizione, il che li rende ancora più esposti al contagio. In un simile contesto, e generalmente inquadrando il Medio Oriente, avere accesso a servizi sanitari basilari per il trattamento dei sintomi è molto difficoltoso, così come risulta ostico anche fare i tamponi e dunque avere un’idea precisa dell’estensione del contagio.
Questa situazione non rappresenta una circostanza eccezionale ed isolata, ma è bensì una realtà quotidiana per diversi territori:
- in primis lo Yemen, che ancora prima dell’emergenza sanitaria stava attraversando la crisi umanitaria più grave degli ultimi decenni,
- altri paesi come Libia, Siria e Iraq, devastati da anni di conflitti prolungati e intenti a ricostruire infrastrutture e il tessuto politico-sociale,
- paesi come la Giordania, il Libano e la Turchia si trovano a dover affrontare scenari similari in quanto paesi ospitanti di un grande numero di rifugiati e richiedenti asilo.
Le misure adottate fino ad ora sono state lacunose: sono state distribuite mascherine e gel sanificante, ma nulla di più. Al contrario, Human Rights Watch[3] ha riportato episodi in cui la pandemia viene sfruttata dai governi centrali per aumentare l’isolamento e la ghettizzazione di queste categorie di persone.
La grande sfida alla società civile
Quando i governi hanno vietato gli assembramenti, includendo fra questi le manifestazioni di piazza, queste misure sono sembrate ragionevoli se non necessarie per tutelare la salute dei cittadini, come ad esempio è stato disposto in Algeria lo scorso marzo, a un anno di distanza dall’inizio delle proteste pacifiche organizzate dal movimento pro-democrazia Hirak che erano riuscite a sovvertire il regime precedente. Tuttavia, la reazione alle manifestazioni da parte della polizia poco prima del lockdown è stata esemplarmente severa, con un singolare dispiegamento di forze armate per fermare i dimostranti.
Se a ciò si aggiunge il fatto che le misure restrittive previste (coprifuoco, multe e detenzioni brevi per i trasgressori) si applicano anche ai giornalisti, pur venendo ricondotte sempre al contenimento del contagio, non stupisce dunque che queste modalità siano state accolte con scetticismo, fino ad arrivare a parlare di “confinamento dei mass media”[4].
Un simile scenario si è profilato in Libano, dove, oltre alla gravissima crisi economica (il paese ha infatti dichiarato default finanziario lo scorso marzo[5]) si aggiunge l’elevata quantità di profughi provenienti dal confine siriano, il cui conflitto è un ulteriore fattore destabilizzante per la tenuta politica e sociale, e responsabile di tensioni interne significative.
L’Egitto si trova nella medesima situazione, aggravata dal fatto che si trovi ad affrontare problematiche ulteriori come le condizioni impietose dei centri di detenzione dovute al sovraffollamento, alla scarsità di igienizzanti e spesso al rifiuto di concedere assistenza medica di base ai detenuti. Si ricorda, inoltre, che la già fragile economia egiziana è fortemente dipendente dal settore del turismo, che ogni anno impiega migliaia di lavoratori stagionali, locali e stranieri, settore che quest’anno ha visto i propri introiti calare bruscamente.
L’Iraq è l’ennesimo esempio che mostra come un governo in piena crisi di consenso abbia sfruttato il Covid-19 come pretesto per impedire alle proteste di proseguire ulteriormente, proteste mirate ad opporsi ai livelli di corruzione dell’anzidetto e alla negligenza con cui è stata gestita la pandemia. L’Iraq è un paese che stenta a riprendersi da decenni di conflitto prolungato e lacerante, dove tutt’ora mancano servizi sanitari basilari e forniture adeguate. Un ulteriore fattore di instabilità è rappresentato dal fenomeno dei lavoratori migranti, provenienti soprattutto dalle zone più povere del Bangladesh, che durante la pandemia si sono ritrovati senza la possibilità di rientrare e senza la prospettiva di poter lavorare nuovamente. Ultimo ma non per importanza, l’Iraq è il sesto al mondo per produzione di petrolio, il secondo tra i paesi OPEC, e subisce tutte le ripercussioni economiche del crollo del prezzo del petrolio.
La geopolitica: il Medio Oriente è sempre più instabile
In Libia, il generale Haftar ha approfittato del fatto che il resto del mondo fosse momentaneamente distratto dal diffondersi incontrollato della pandemia per portare avanti il loro massiccio assalto a Tripoli, che di fatto procede dall’aprile 2019, con una serie di bombardamenti mirati. L’escalation di violenza rende praticamente impossibile affrontare la crisi sanitaria in modo efficace, le infrastrutture sono compromesse da anni di conflitto, e l’accesso alle risorse è eccezionalmente limitato. Le misure adottate dal governo per contenere il contagio sono deboli e inefficienti, quarantene e coprifuoco finiscono per intrappolare i cittadini delle città poi bersagliate da Haftar. Questa peculiare combinazione di virus e guerra si sta rivelando particolarmente nociva per la già ingente porzione di profughi, ora più vulnerabili che mai.
Sono passati leggermente meno inosservati, sebbene l’opposizione sia stata flebile, i piani di annessione da parte di Israele di circa il 30% di territorio della Cisgiordania, in cambio di finanziamenti ingenti promessi ai palestinesi. Era inizialmente prevista per luglio ma, al momento dell’articolo, non ancora cominciata per molteplici motivi: primo il Covid-19, che ha sorpreso anche un sistema sanitario relativamente efficiente come quello israeliano, e in secundis le controversie suscitate dalla natura del piano, giudicato illegittimo persino dall’Onu[6], e accolto con distacco dalle monarchie petrolifere, hanno imposto una riflessione ulteriore a Netanyahu.
Nel mentre, i Territori Palestinesi sono stati incapaci di far fronte alla crisi sanitaria nel contesto di occupazione. Tuttavia, ciò che inquieta maggiormente è il quadro economico, per il quale è prevista una contrazione importante dovuta anche all’impossibilità per molti palestinesi di attraversare i checkpoint per poter lavorare e che rischia di raddoppiare il tasso di povertà che si attesta ora intorno al 14%, secondo la Banca Mondiale.
La sfida del Covid-19: una catastrofe oppure un’opportunità?
Senza dubbio, la crisi provocata dal Coronavirus – una crisi prima sanitaria, poi economica, poi sociale – ha accentuato le fragilità e accelerato dinamiche che erano nondimeno già in corso, sottolineando la profonda crisi che il Medio Oriente attraversa da almeno un decennio.
La crisi sanitaria è stata fin da subito evidente, sia per quanto riguarda paesi già comprendenti estreme complessità interne e conflitti in corso come Siria e Yemen[7] che hanno stentato a fornire anche i servizi sanitari più basilari, che per quanto riguarda i paesi in difficoltà economica come Libano e Algeria dove sono invero emerse criticità profondamente radicate a livello politico e sociale ed è stata sostanzialmente resa evidente l’inadeguatezza dei suddetti governi a gestire fattori di crisi.
Ma la crisi sanitaria ha presto lasciato il passo alla crisi economica e petrolifera, il cui bilancio appare più preoccupante sia nel breve che nel lungo termine, in particolare per quanto riguarda le monarchie del Golfo, per le quali il repentino e drastico calo del prezzo del petrolio, unito ad una conseguente diminuzione degli investimenti nel settore energetico e dei consumi dei privati, se prolungato nel tempo, porterà inevitabilmente all’instaurarsi di nuovi meccanismi e sviluppi di carattere geopolitico. Un altro fattore che è ormai dato per certo sarà la crescita importante del tasso di disoccupazione, in particolare quella giovanile.
Ciò che preoccupa maggiormente sono tuttavia le ripercussioni che le economie al collasso, il disagio e l’emergenza sociale, il calo occupazionale e l’accentramento di poteri portato avanti da quei governi disfunzionali che hanno deciso di sfruttare le circostanze eccezionali in questo senso avranno sulla società civile nel lungo periodo. Nel Medio Oriente, l’instabilità sembra essere contagiosa almeno quanto il Covid-19. Come si è visto, il virus colpisce anche la libertà di pensiero, di stampa, di manifestazione e, con esse, la speranza per una democrazia compiuta e completa. Evidenzia la necessità di riformulare il contratto sociale e i modelli di democrazia che, allo stato attuale, sono oltremodo fallaci.
Ciò nonostante, si può auspicare che la pandemia, questo momento di pausa forzata, possa costituire un’opportunità per i governi e per le società civili di occuparsi delle criticità rese lampanti dalla veemenza del Coronavirus, di ripensare i modelli di welfare esistenti o di implementarne di nuovi, di promuovere un sistema sanitario più equo, di prevedere politiche più inclusive e misure a tutela della popolazione al di sotto della soglia di povertà, marginalizzata, discriminata.
Informazioni
Dacrema E., Talbot V. (2020). The Mena Region vs. Covid-19: One Challenge, Common Strategies? ISPI Dossier. https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/mena-region-vs-covid-19-one-challenge-common-strategies-25649
Refugees International Report, Covid-19 and the displaced: Addressing the threat of the novel Coronavirus in humanitarian emergencies, Refugees International, March 30, 2020 https://www.refugeesinternational.org/reports/2020/3/29/covid-19-and-the-displaced-addressing-the-threat-of-the-novel-coronavirus-in-humanitarian-emergencies
Malek, C., Will Coronavirus pandemic intensify of defuse Middle Eastern conflicts?, Arab News, 09/06/2020. Ultimo accesso 05/07/2020 https://arab.news/vny2z
Aissani, L., Aboelkhir S., Saudi E., Rachidi I., Cherif Y., Coronavirus threatens Freedom in North Africa, Carnegie Endowment for International Peace, 2020. Ultimo accesso 5/07/2020 https://carnegieendowment.org/2020/04/24/coronavirus-threatens-freedom-in-north-africa-pub-81625#comments
Samrani, A., Coronavirus au Moyen-Orient : le calme avant la tempête ?, L’Orient-Le-Jour, May 15, 2020. Ultimo accesso 03/07/2020 https://www.lorientlejour.com/article/1218116/coronavirus-au-moyen-orient-le-calme-avant-la-tempete-.html
International Finance Corporation, Covid-19 Economic Impact: Middle East and North Africa, May 2020
Bongiorni, R., Libano, ecco come la “Svizzera del Medio Oriente” è finita in default, IlSole24Ore, 11 marzo 2020. Ultimo accesso 05/07/2020
Human Rights Watch, Lebanon: Refugees at Risk in COVID-19 Response, April 2, 2020. Ultimo accesso 05/07/2020 https://www.hrw.org/news/2020/04/02/lebanon-refugees-risk-covid-19-response
Massolo, G., Israele: l’annessione dipenderà dal prezzo politico che pagherà Netanyahu, ISPI, 03/07/2020. Ultimo accesso 06/07/20 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/israele-lannessione-dipendera-dal-prezzo-politico-che-paghera-netanyahu-26833
UN Chief urges Israel to back away from West Bank Annexion, Associated Press, The Guardian, 24/06/2020. Ultimo accesso 06/07/20 https://www.theguardian.com/world/2020/jun/24/un-chief-urges-israel-to-back-away-from-west-bank-annexation
Franza, L. Il petrolio al tempo del coronavirus, AffarInternazionali, Istituto Affari Internazionali (IAI), Aprile 2020. Ultimo accesso 07/07/2020 https://www.affarinternazionali.it/2020/04/i-negoziati-sul-petrolio/
[1] Franza, L. Il petrolio al tempo del coronavirus, AffarInternazionali, Istituto Affari Internazionali (IAI), aprile 2020. Ultimo accesso 07/07/2020 https://www.affarinternazionali.it/2020/04/i-negoziati-sul-petrolio/
[2] Refugees International Report, Covid-19 and the displaced: Addressing the threat of the novel Coronavirus in humanitarian emergencies, Refugees International, March 30, 2020
[3] Human Rights Watch, Lebanon: Refugees at Risk in COVID-19 Response, April 2, 2020. Ultimo accesso 05/07/2020 https://www.hrw.org/news/2020/04/02/lebanon-refugees-risk-covid-19-response
[4] Dacrema E., Talbot V. (2020). The Mena Region vs. Covid-19: One Challenge, Common Strategies? ISPI Dossier
[5] Bongiorni, R., Libano, ecco come la “Svizzera del Medio Oriente” è finita in default, IlSole24Ore, 11 marzo 2020. Ultimo accesso 05/07/2020
[6] UN Chief urges Israel to back away from West Bank Annexion, Associated Press, The Guardian, 24/06/2020. Ultimo accesso 06/07/20 https://www.theguardian.com/world/2020/jun/24/un-chief-urges-israel-to-back-away-from-west-bank-annexation
[7] Dello Yemen se ne è parlato in merito alle attività del Consiglio di Sicurezza nel pieno della diffusione del Covid in Europa: http://www.dirittoconsenso.it/2020/04/25/consiglio-di-sicurezza-e-covid-19/