La fusione societaria e il matrimonio FCA-PSA
Le finalità e la disciplina dell’istituto della fusione societaria. Uno sguardo alla fusione delle due iconiche marche automobilistiche Fiat Chrysler Automobiles e Peugeot S.A.
Cos’è la fusione societaria e quante tipologie ne esistono
La fusione è un’operazione straordinaria attraverso la quale due o più società si unificano in una sola. Esistono due tipi di fusione societaria:
- Fusione in senso stretto o per unione, la quale comporta l’estinzione delle società preesistenti e la costituzione di una nuova società che prende il posto di tutte le società che si fondono, acquisendone i patrimoni e subentrando nella titolarità di tutti i loro rapporti. I soci delle varie società diventano soci dell’unica società risultante dalla fusione.
- Fusione per incorporazione, che determina l’assorbimento in una società preesistente di una o più altre società. Attraverso tale operazione la società incorporante conserva la propria soggettività giuridica mentre quella incorporata si estingue. Le azioni o le quote di quest’ultima vengono annullate e, in sostituzione, vengono assegnate ai soci azioni o quote delle società incorporanti. La fusione per incorporazione è la più diffusa nella pratica.
La fusione societaria è:
- omogenea quando si realizza fra società dello stesso tipo (società di persone con società di persone, o società di capitali con società di capitali),
- eterogenea quando coinvolge società di tipo diverso (ad esempio, società di persone con società di capitali e viceversa).
Gli scopi della fusione e la disciplina codicistica
La fusione societaria è una operazione realizzata sempre più assiduamente al giorno d’oggi, dati gli evidenti vantaggi che se ne possono trarre. È possibile individuare diverse ragioni atte a giustificare la realizzazione di tale operazione. Tra gli altri, occorre soffermarsi sugli scopi produttivi della fusione, la quale garantisce in particolare un maggior grado di utilizzo della capacità produttiva delle società fuse ed una più intensa integrazione delle rispettive fasi produttive.
Da un punto di vista commerciale, la fusione determina la riduzione della concorrenza tramite l’acquisizione di un competitor, nonché l’acquisto di maggior competitività e potere contrattuale da parte della società risultante dalla fusione. Quest’ultima, inoltre, può giovarsi dell’acquisizione di marchi, brevetti, licenze, know–how, nonché di una riduzione dei costi amministrativi.
Nell’ordinamento giuridico italiano l’istituto, disciplinato dagli artt. 2501 e seguenti del codice civile, è stato introdotto nel 1991 con il d.lgs. n. 22, emanato in attuazione della terza e sesta direttiva Cee in materia societaria. L’attuale disciplina è tuttavia il risultato dell’intervento di riforma del 2003, di cui al decreto legislativo n. 6 che, nel rispetto dei vincoli di derivazione comunitaria, pur lasciando inalterati i tratti essenziali dell’istituto, ha apportato semplificazioni al complesso procedimento delineato nel 1991. Ulteriori semplificazioni sono state introdotte nel 2012. Inoltre il d. lgs. n. 108/2008 ha regolato la fusione transfrontaliera.
Ai sensi dell’articolo 2504-bis, 1° comma del codice civile, “la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione”.
È chiaro come a seguito della novella apportata dal D. Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, la fusione fra società non comporta l’estinzione di un soggetto e correlativa creazione di un diverso soggetto, ma determina una vicenda evolutiva-modificativa dello stesso soggetto, in virtù del principio della continuità dei rapporti giuridici, anche processuali. I creditori delle società estinte, pertanto, potranno far valere i loro diritto sull’unitario patrimonio della società risultante dalla fusione. Anche per i soci si ha continuazione – e non estinzione – del contratto sociale presso una rinnovata ed unitaria struttura organizzativa.
Le fasi del procedimento di fusione
L’obiettivo finale dell’operazione di fusione societaria viene raggiunto mediante lo sviluppo di alcune fasi essenziali.
In principio gli organi amministrativi delle società conducono, con estrema riservatezza, le trattative, riguardo la fattibilità o meno dell’operazione di fusione. Durante tale fase, può venire in rilievo la figura del merge advisor. Si tratta di un soggetto che, in forza del suo consolidato bagaglio di conoscenze ed esperienze, si occupa di garantire la bontà dell’operazione di fusione. L’attività svolta dal merge advisor è nota come due diligence review e consiste nello svolgimento di un’attenta analisi sulle imprese che partecipano all’operazione di fusione, al fine di attestare l’effettiva convenienza dell’operazione, nonché i relativi rischi e potenzialità correlate.
In esito alle trattative, gli amministratori delle diverse società partecipanti alla fusione devono redigere un progetto di fusione, indicante le condizioni e le modalità dell’operazione così come convenute in sede di trattative. L’articolo 2501 – ter del codice civile fissa il contenuto minimo del progetto di fusione, garantendone la conoscibilità preventiva da parte dei soci e dei terzi. Il progetto di fusione deve essere pubblicato mediante iscrizione nel registro delle imprese del luogo ove hanno sede le società partecipanti alla fusione o, in alternativa, nel sito internet della società almeno 30 giorni prima della data fissata per la delibera di fusione, salvo che i soci rinuncino con consenso unanime.
Oltre al progetto di fusione, è prescritta la redazione preventiva di altri tre documenti:
Il progetto di fusione, le relazioni degli amministratori e degli esperti, insieme con le situazioni patrimoniali di tutte le società partecipanti alla fusione ed i bilanci degli ultimi tre esercizi delle stesse devono restare depositati in copia nelle sedi di ciascuna delle società partecipanti alla fusione (ovvero pubblicati sul sito internet delle stesse) durante i 30 giorni[4] che precedono l’assemblea e finché la fusione sia deliberata[5]. “La fusione è decisa da ciascuna delle società che vi partecipano mediante approvazione del relativo progetto.”[6].
Ai fini dell’approvazione del progetto di fusione, nelle società di persone è sufficiente la maggioranza dei soci calcolata secondo la parte attribuita a ciascuno negli utili. Al socio che non abbia consentito alla fusione è garantito il diritto di recesso dalla società. Nelle società di capitali la fusione deve essere deliberata dall’assemblea[7] straordinaria con le normali maggioranze[8]. Se la fusione è eterogenea (la società risultante dalla fusione è di tipo diverso), nelle società non quotate dovranno essere osservate le maggioranze rafforzate stabilite per la trasformazione ed i soci che non hanno concorso alla deliberazione avranno diritto di recesso[9].
Le delibere di fusione delle singole società sono infine iscritte nel registro delle imprese, previo controllo di legalità da parte del notaio verbalizzante se la società risultante dalla fusione è una società di capitali.
Il procedimento di fusione si conclude con la stipulazione dell’atto di fusione da parte dei legali rappresentanti delle società interessate. L’atto di fusione ha valenza di atto costitutivo della nuova società e deve, pertanto, essere sempre redatto per atto pubblico[10].
La fusione tra FCA-PSA
Fiat Chrysler Automobiles (Fca) e Psa, produttore di veicoli a marchio Peugeot, hanno firmato un accordo vincolante per la fusione societaria a dicembre 2019, modificato successivamente per tenere conto dell’impatto economico-finanziario della pandemia di Covid-19.
Il 21 dicembre 2020 la Commissione Europea ha approvato il progetto di fusione[11] tra le due società subordinatamente al rispetto di una serie di condizioni per garantire la libera concorrenza. Il 4 gennaio 2021 le assemblee dei due gruppi automobilistici hanno approvato il progetto di fusione. I primi a riunirsi sono stati i soci di Psa che, in mattinata, con il 99,85% dei voti hanno dato il via libera all’aggregazione. Dagli azionisti di Fiat Chrysler l’approvazione è arrivata nel pomeriggio, con il 99,15% dei favorevoli.
Il 16 gennaio 2021, dal matrimonio tra la francese Psa ed il gruppo italoamericano Fiat Chrysler Automobiles nasce Stellantis N.V. “uno dei principali costruttori automobilistici al mondo, guidato da una mission ben precisa: offrire libertà di movimento a tutti attraverso soluzioni di mobilità accattivanti, vantaggiose, versatili e sostenibili”[12].
Ma quali sono le ragioni dietro la fusione Fca – Peugeot?
La decisione di unire le due aziende scaturisce da una forte esigenza di sopravvivere all’attuale rivoluzione del settore automobilistico e di rispondere ad un mercato sempre più internazionale che richiede ingenti investimenti, in particolare per compiere la transazione alle auto elettriche.
La fusione Fca – Peugeot è una fusione alla pari, una soluzione win–win da cui ognuna delle partecipanti trae vantaggio:
- Fiat infatti, in occasione delle nozze, porta in dote a Peugeot l’opportunità di entrare nel mercato USA e conquistare un business nordamericano altamente redditizio, in particolare con il forte marchio Jeep.
- Peugeot, in cambio, mette a disposizione le piattaforme elettriche. Il ritardo italiano nella transazione al motore elettrico passa proprio da Fiat – Chrysler, un ritardo che potrebbe avere impatto sullo sviluppo economico e industriale del Paese. Grazie a questa alleanza con Peugeot, il gruppo italo – americano potrà mettersi al passo in materia di auto a zero emissioni.
Nel primo semestre 2021, Stellantis registra ricavi netti pari a 75,3 miliardi di euro, in crescita del 46%, ed un utile netto di 5,9 miliardi di euro. Stellantis compirà il suo prossimo passo nell’ambito dell’elettrificazione, prevedendo che il 70% delle immatricolazioni del gruppo in Europa sarà rappresentato da veicoli elettrificati.
Se da un lato i risultati del primo semestre sono stati formidabili, d’altro lato Stellantis si trova a fronteggiare le minacce derivanti dalla “chip crunch”, la crisi della produzione di microchip, componenti elettronici, centraline e ricambi collegati, che sta mettendo in ginocchio l’industria automobilistica mondiale con a rischio anche posti di lavoro. Un panorama che spaventa i sindacati, tra cui la Fiom: “Stellantis consolida i risultati finanziari ma è alta la preoccupazione per il futuro delle lavoratrici e dei lavoratori e degli stabilimenti in Italia.”[13].
Informazioni
G. F. Campobasso, Diritto commerciale vol.1, Utet Giuridica, 7a ed., 2015.
Official Global Website | Stellantis https://www.stellantis.com/it
Il Sole 24 Ore – Quotidiano – Fca e Psa completano la fusione: Stellantis pronta al debutto, 17 gennaio 2021 http://0-bdprof.ilsole24ore.com.lib.unibocconi.it/MGRBD24/Default.aspx#87
Il Sole 24 Ore – Finanza – Stellantis: volano ricavi semestre, +46% a 75,3 miliardi. Link: https://www.ilsole24ore.com/art/stellantis-volano-ricavi-semestre-46percento-753-miliardi-AErWJya
Sky TG24 Business – Stellantis, quali sono le ragioni dietro la fusione Fca-Peugeot https://tg24.sky.it/economia/2021/01/05/stellantis-fusione-fca-peugeot–skytg24-business
La Repubblica – Fca-Peugeot, tutte le tappe della fusione: https://www.repubblica.it/economia/2021/01/04/news/fusione_fca_peugeot_le_tappe-281047242/
FIOM – CGIL Comunicato stampa: https://www.fiom-cgil.it/net/attachments/article/8754/CS%20STELLANTIS%203%20AGOSTO%202021.pdf
[1] Art. 2501 – quarter, codice civile
[2] Art. 2501 – quinquies, codice civile
[3] Art. 2501 – sexies, codice civile
[4] Quindici se alla fusione non partecipano società azionarie.
[5] I soci possono prendere visione e, con consenso unanime, possono anche rinunciare al termine.
[6] Art. 2502, codice civile
[7] Sulle conseguenze dell’esplosione del virus COVID-19 sullo svolgimento delle assemblee societarie v. http://www.dirittoconsenso.it/2020/07/24/covid-19-riflessi-sulle-assemblee-societarie/
[8] Art. 2368, codice civile
[9] In caso di fusione omogenea tale diritto è riconosciuto solo per la s.r.l. (art. 2473, codice civile)
[10] Anche se la società risultante dalla fusione è una società di persone.
[11] Sul ruolo dell’Antitrust europeo v. http://www.dirittoconsenso.it/2021/04/26/introduzione-diritto-antitrust-europeo/
[12] https://www.stellantis.com/it . Il gruppo opera con i brands Abarth, Alfa Romeo, Chrysler, Citroen, Dodge, DS Automobiles, Fiat, Fiat Professional, Jeep, Lancia, RAM, Maserati, Opel, Peugeot, Vauxhall, Free2move, Leasys e Mopar. Svolge attività industriali nel settore automobilistico in 30 paesi e ha una presenza commerciale in oltre 130 paesi. Stellantis NV, con John Elkann presidente e Carlos Tavares amministratore delegato, ha sede legale in Amsterdam ed è quotata a Parigi, Milano e New York.
[13] FIOM – CGIL Comunicato stampa https://www.fiom-cgil.it/net/attachments/article/8754/CS%20STELLANTIS%203%20AGOSTO%202021.pdf
Chi è l'institore?
Cosa fa l’institore? E chi rappresenta? Tra rappresentanza commerciale e differenze con procuratori e commessi
L’institore e la sua posizione nell’impresa
L’institore è il direttore generale dell’impresa, di una filiale o di un settore produttivo. Ai sensi dell’articolo 2203 c.c. “è institore colui che è preposto dal titolare all’esercizio di un’impresa commerciale. La preposizione può essere limitata all’esercizio di una sede secondaria o di un ramo particolare dell’impresa”[1].
Si tratta dunque di un lavoratore subordinato con qualifica di dirigente, il quale opera al vertice dell’impresa in forza di un atto di preposizione dell’imprenditore[2].
Se preposto all’intera impresa (vertice assoluto), l’institore dipende solo dall’imprenditore e solo a lui deve rendere conto del suo operato. Se preposto ad una filiale o ad un ramo dell’impresa (vertice relativo) potrebbe trovarsi in posizione subordinata rispetto ad altro institore (tipicamente al vertice assoluto).
L’institore è investito dall’imprenditore di un potere di gestione generale e non circoscritto ad un determinato settore funzionale dell’impresa.
Ammettendo la coesistenza di più institori preposti all’esercizio dell’impresa, l’art. 2203, 3° comma dispone che in tal caso questi possano “agire disgiuntamente, salvo che nella procura sia diversamente disposto”.
L’articolo 2205 c.c. delinea gli obblighi che, alla luce della sua posizione nell’impresa, fanno capo all’institore. Congiuntamente con l’imprenditore, l’institore è tenuto all’adempimento degli obblighi di iscrizione nel registro delle imprese e di tenuta delle scritture contabili della impresa o della sede secondaria cui è preposto.
In forza dell’articolo 227 della Legge Fallimentare, l’institore è suscettibile di applicazione delle sanzioni penali gravanti sull’imprenditore, in caso di fallimento di quest’ultimo. Solo l’imprenditore, tuttavia, potrà essere dichiarato fallito ed esposto alle conseguenze personali e patrimoniali del fallimento.
La rappresentanza commerciale: rappresentanza sostanziale e processuale dell’institore
Se il fenomeno della rappresentanza è regolato in via generale dagli artt. 1387 ss. del codice civile, l’istituto della rappresentanza commerciale è regolato da norme speciali in quanto avente ad oggetto il compimento di atti inerenti all’esercizio di impresa commerciali da parte di ausiliari subordinati (institori, procuratori e commessi), destinati ad entrare costantemente in contatto con i terzi e a concludere affari per l’imprenditore.
La disciplina generale della rappresentanza prevede che, affinché un soggetto possa essere incaricato di agire in nome dell’interessato con imputazione diretta degli effetti degli atti posti in essere, sia necessario l’espresso conferimento del potere di rappresentanza con specifica dichiarazione di volontà: la procura.
Quando si tratta di rappresentanza commerciale, tuttavia, secondo la disciplina speciale fissata dagli articoli 2203-2213 c.c., institori, procuratori e commessi sono automaticamente investiti del potere di vincolare direttamente l’imprenditore. Tale potere di rappresentanza non si fonda, quindi, sulla presenza di una valida procura ma è l’effetto naturale della collocazione dell’ausiliario nell’impresa ad opera dell’imprenditore, il quale può modificare il contenuto legale del potere di rappresentanza con atto specifico, opponibile ai terzi solo se portato a loro conoscenza nelle forme stabilite dalla legge.
Tale disciplina speciale mira a facilitare le contrattazioni dell’impresa riducendo i rischi a cui è esposto chi conclude affari con gli ausiliari dell’imprenditore. Il terzo contraente non ha, infatti, l’onere di verificare il conferimento della rappresentanza, dovendo assicurarsi unicamente che l’imprenditore non abbia modificato i naturali poteri rappresentativi dell’ausiliario.
L’ampiezza del potere di rappresentanza facente capo agli ausiliari subordinati varia a seconda della rispettiva posizione funzionale nell’impresa. L’institore esercita un ampio e generale potere di rappresentanza, sia sostanziale che processuale.
Ai sensi dell’articolo 2204 del codice civile, l’institore può compiere in nome “dell’imprenditore tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa” o della sede o del ramo di impresa cui è preposto. Si tratta di rappresentanza sostanziale, il cui contenuto, tuttavia non si estende al compimento di atti che esorbitano dalla gestione dell’impresa.
L’institore dunque non è legittimato, ad esempio, a modificare l’oggetto dell’attività, a vendere o affittare l’azienda e gli è espressamente vietato di alienare o ipotecare beni immobili del preponente salvo specifica autorizzazione. Tale divieto non opera quando oggetto dell’impresa è proprio il commercio di immobili.
Per quanto riguarda la rappresentanza processuale, l’institore può stare in giudizio sia come attore (rappresentanza processuale attiva), sia come convenuto (rappresentanza processuale passiva), non solo per gli atti da lui compiuti, ma anche per quelli posti in essere dall’imprenditore o a quest’ultimo imputabili.
L’imprenditore può ampliare o limitare i poteri rappresentativi dell’institore, sia all’atto della preposizione sia successivamente. Le limitazioni sono opponibili ai terzi solo se la procura originaria o il successivo atto di limitazione siano stati pubblicati nel registro delle imprese. In assenza di tale pubblicità legale, la rappresentanza si reputa generale, salvo prova da parte dell’imprenditore che i terzi erano a conoscenza di tali limitazioni al momento della conclusione dell’affare[3].
Parimenti, la revoca dell’atto di preposizione è opponibile ai terzi solo se pubblicata o se l’imprenditore prova la loro effettiva conoscenza.
Responsabilità dell’institore
La disciplina generale in materia di rappresentanza prevede il cosiddetto principio della contemplatio domini, in forza del quale il rappresentante deve rendere noto al terzo con cui contratta la sua veste affinché l’atto compiuto ed i relativi effetti siano imputabili al rappresentato. In caso di mancato rispetto di tale regola, il rappresentante obbliga solo sé stesso ed il terzo non può far valere i propri diritti nei confronti del rappresentato.
In materia di rappresentanza institoria, invece, l’articolo 2208 del codice civile detta una disciplina in parte diversa. L’institore che ometta di render noto al terzo che tratta per il preponente, è personalmente responsabile per gli atti compiuti. In particolare però, alla responsabilità personale dell’institore si aggiunge quella dell’imprenditore preponente allorché gli atti posti in essere dall’institore “siano pertinenti all’esercizio dell’impresa a cui è preposto”[4].
L’intento del legislatore è stato quello di rafforzare la tutela dell’affidamento dei terzi che concludono affari con gli ausiliari dell’imprenditore. La disposizione, infatti, tutela il terzo contraente sottraendolo al rischio di comportamenti dell’institore volti a generare incertezze relative al soggetto realmente interessato all’affare. Se l’atto è pertinente all’esercizio dell’impresa, nei confronti del terzo risponderanno solidalmente sia l’institore che l’imprenditore. Sarà poi questione interna a questi ultimi stabilire a chi debbano essere imputati gli obblighi derivanti dall’atto compiuto.
Differenze tra institore ed altre figure tipiche di ausiliari subordinati
Oltre agli institori sono ausiliari subordinati all’imprenditore anche i procuratori ed i commessi.
- I procuratori sono ausiliari di grado inferiore rispetto all’institore in quanto non sono posti a capo dell’impresa o di un ramo o di una sede secondaria. Il potere decisionale dei procuratori, inoltre, è circoscritto ad uno specifico settore operativo dell’impresa o ad una serie specifica di atti. In mancanza di specifiche limitazioni iscritte nel registro delle imprese, così come gli institori, anche i procuratori sono investiti di diritto di un potere di rappresentanza generale dell’imprenditore (generale rispetto alla specie di operazioni per cui hanno potere decisionale). Diversamente dall’institore, il procuratore non ha rappresentanza processuale dell’imprenditore, neppure per gli atti da lui stesso posti in essere, se tale potere non è stato espressamente conferito. Il procuratore, inoltre, non è tenuto all’adempimento degli obblighi di iscrizione nel registro delle imprese e di tenuta delle scritture contabili cui invece è tenuto l’institore e non è soggetto alla disciplina di cui all’articolo 2208 del codice civile: non si configura responsabilità solidale dell’imprenditore in caso di atti pertinenti all’esercizio dell’impresa compiuti da un procuratore senza spendita del nome dell’imprenditore rappresentato.
- I commessi sono ausiliari subordinati incaricati dello svolgimento di mansioni esecutive e materiali. Si pensi, ad esempio, al commesso di negozio, all’impiegato di banca, al cameriere di ristorante. Il potere di rappresentare l’imprenditore riconosciuto a tali soggetti è decisamente più limitato rispetto a quello degli institori e dei procuratori. I commessi, ai sensi dell’art. 2210 del codice civile, sono legittimati al compimento di atti che “ordinariamente comporta la specie di operazioni di cui sono incaricati”. L’imprenditore può sempre ampliare o limitare i poteri dei commessi, per i quali tuttavia non è previsto un sistema di pubblicità legale. Tali limitazioni, dunque, sono opponibili a terzi solo se rese note agli stessi con mezzi idonei o se si prova l’effettiva conoscenza.
In conclusione, è evidente come institore e procuratore siano le figure più vicine all’imprenditore, dotate di poteri decisionali e di rappresentanza sostanziale di gran lunga più consistenti rispetto a quelli di cui è investito il commesso. L’institore inoltre, proprio perché a differenza del procuratore è posto al vertice dell’impresa, di una sede secondaria o di un ramo di essa, è soggetto ad un maggior carico di responsabilità ed è pertanto considerato l’alter ego dell’imprenditore.
Informazioni
G. F. Campobasso, Diritto commerciale vol.1, Utet Giuridica, 7a ed., 2015
[1] Art. 2203 1° e 2° comma, codice civile.
[2] Sulla figura dell’imprenditore e del concetto di impresa si rinvia all’approfondimento di Leonardo Rubera per DirittoConsenso. Link all’articolo: http://www.dirittoconsenso.it/2021/09/08/imprenditore-e-impresa/ .
[3] Articolo 2207 del codice civile.
[4] Articolo 2208 del codice civile.
La Convenzione n. 190 OIL sull'eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro
La Convenzione n.190 OIL: un passo storico verso la giustizia sociale e le pari opportunità nel mondo del lavoro
La Convenzione n. 190 OIL: un ponte tra il presente ed il passato
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) è l’Agenzia specializzata delle Nazioni Unite che si occupa della promozione della giustizia sociale e dell’”opportunità per donne e uomini di ottenere un lavoro dignitoso e produttivo, in condizioni di libertà, equità, sicurezza e dignità”[1] incentivando altresì il dialogo sociale sulle questioni inerenti al lavoro. La Convenzione n. 190 dell’OIL rappresenta il frutto di oltre otto anni di un duro lavoro che ha tratto legittimità ed impulso dal movimento femminista contro le molestie sessuali “#MeToo”. In particolare, il Consiglio di Amministrazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha preso atto di come quello della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro sia un fenomeno riguardante tutti, pur colpendo in modo particolare le donne.
Consapevoli dell’esigenza forte ed incalzante di intraprendere un’azione a livello internazionale al fine di estirpare dal mondo del lavoro ogni forma di violazione della dignità umana, i costituenti dell’OIL hanno adottato la Dichiarazione del Centenario dell’OIL sul Futuro del Lavoro, esprimendo un chiaro impegno per la configurazione di un mondo del lavoro immune da abusi e condotte aberranti. Nel medesimo giorno, una larga maggioranza dei votanti della Conferenza, tra cui il governo italiano e le parti sociali italiane, ha suggellato tale impegno accogliendo con commozione ed entusiasmo l’adozione della Convenzione n. 190 sulla violenza e le molestie e la relativa Raccomandazione n. 206, volte ad arricchire il codice internazionale del lavoro e promuovere il rafforzamento della legislazione, delle politiche e delle istituzioni nazionali al fine di rendere effettivo il diritto di ognuno ad un mondo del lavoro libero da violenza e molestie.
La Convenzione n.190 OIL è un trattato internazionale avente efficacia vincolante in tutti i Paesi che decidano di ratificarla[2]. La Raccomandazione n.206, per contro, non è vincolante ma fornisce interessanti spunti sulle modalità di esecuzione degli obblighi derivanti dalla Convenzione.
Le parole del Direttore Generale OIL relative all’adozione di tale Convenzione tradiscono il suo entusiasmo: “… i rappresentanti del mondo del lavoro hanno fatto la storia. Essi hanno agito con determinazione e la loro azione può e deve avere un impatto duraturo e di lungo periodo. Per la prima volta, il diritto a un mondo del lavoro libero da violenza e molestie è espresso in un trattato internazionale. Oggi esiste un quadro normativo chiaro e comune per prevenire e affrontare la violenza e le molestie che si poggia su un approccio inclusivo, integrato e sensibile alla prospettiva di genere”[3].
Principi ed ambito di applicazione della Convenzione n. 190 OIL
Nella redazione della Convenzione, la Conferenza Generale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha tratto ispirazione dalla Dichiarazione di Filadelfia, in cui si afferma che “tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla razza, dalla religione e dal sesso a cui appartengono hanno il diritto di tendere al loro progresso materiale ed al loro sviluppo spirituale in condizioni di libertà, di dignità, di sicurezza economica, e con possibilità eguali”[4].
La violenza e le molestie sul luogo di lavoro, come precisato anche nel preambolo della Convenzione, integrano una violazione dei diritti umani, rappresentando una intollerabile minaccia alle pari opportunità ed hanno “ripercussioni sulla salute psicologica, fisica e sessuale, sulla dignità e sull’ambiente familiare e sociale della persona”[5] e possono precludere, in particolare alle donne, di entrare, rimanere e progredire nel mercato del lavoro.
Violenza e molestie nel mondo del lavoro, comprese quelle basate sul genere, da sempre rappresentano una piaga globale totalmente incompatibile con il lavoro dignitoso e la giustizia sociale.
Tali condotte riprovevoli possono estrinsecarsi in diverse forme e contesti. In particolare, ai sensi dell’art. 1 della Convenzione n. 190, l’espressione “violenza e molestie” nel mondo del lavoro “indica un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione, sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico”. Questo concetto include la violenza e le molestie di genere che sono definite dalla stessa Convezione come quelle perpetrate “nei confronti di persone in ragione del loro sesso o genere, o che colpiscano in modo sproporzionato persone di un sesso o genere specifico, ivi comprese le molestie sessuali”[6].
La Convenzione adotta un approccio totalmente inclusivo tutelando contro violenza e molestie tutte le lavoratrici, i lavoratori, indipendentemente dal loro status contrattuale, e le altre persone che popolano il mondo del lavoro (coloro che seguono un corso di formazione, lavoratrici e lavoratori licenziati, volontari e persone in cerca di un impiego o candidate al lavoro), come pure gli individui che esercitano l’autorità, i doveri e le responsabilità di datrice o datore di lavoro.
La Convenzione n. 190 OIL tutela tali soggetti dalle violenze e molestie poste in essere “in occasione di lavoro, in connessione con il lavoro o che scaturiscano dal lavoro”[7]. Le molestie infatti possono prodursi non solo nei luoghi in cui viene svolta la prestazione lavorativa, come gli uffici, le fabbriche o i campi, le strade per i venditori ambulanti, o la casa per le collaboratrici domestiche, ma anche in luoghi in cui si svolge la pausa pranzo oppure nei luoghi di utilizzo di servizi igienico-sanitari così come nel tragitto casa-lavoro o quando si partecipa a corsi di formazione, eventi o attività sociali in ambienti diversi dai luoghi di lavoro.
Da ultimo, la Convenzione non ignora come anche la tecnologia abbia contribuito ad esacerbare il fenomeno delle violenze e molestie nel mondo del lavoro, potendo queste essere agevolmente perpetrate nei confronti di colleghi, lavoratori subordinati o superiori inviando e-mail, sms o messaggi WhatsApp, caricando video o immagini a sfondo sessuale a danno della loro reputazione.
Gli obblighi del datore di lavoro: la valutazione dei rischi
L’art. 8 della Convenzione impone a ciascun membro di adottare misure idonee a prevenire la violenza e le molestie nel mondo del lavoro, tra cui l’individuazione di settori o professioni e modalità di lavoro rispetto ai quali vi è maggiore esposizione del lavoratore (o di altri soggetti coinvolti) al rischio di subire violenze e molestie, nonché l’adozione di misure volte a garantire una tutela efficace di tali soggetti.
E ancora, in relazione agli obblighi del datore di lavoro, l’art. 9 dispone che “ciascun Stato membro dovrà adottare leggi e regolamenti che richiedano ai datori di lavoro di intraprendere misure adeguate” ai fini della prevenzione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro, tra cui:
- “l’inclusione della violenza e delle molestie, come pure dei rischi psicosociali correlati, nella gestione della salute e sicurezza sul lavoro; l’identificazione dei pericoli e la valutazione dei rischi relativi alla violenza e alle molestie, con la partecipazione dei lavoratori e dei rispettivi rappresentanti, e l’adozione di misure per prevenirli e tenerli sotto controllo;
- l’erogazione di informazioni e formazione ai lavoratori (…) in merito ai pericoli e ai rischi identificati di violenza e di molestie e alle relative misure di prevenzione e di protezione (…).”
È chiaro come gli strumenti a cui la Convenzione propone di ricorrere sono quelli tipici dei sistemi di gestione della salute e della sicurezza sul lavoro: prevenzione e protezione. Quello della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro è un rischio che va anzitutto identificato e valutato, nonché, in secondo luogo, contrastato con misure adeguate, compresi gli interventi di formazione nei confronti dei lavoratori.
A partire dal momento dell’entrata in vigore della Convenzione, ratificata in Italia con legge n. 4 del 15 gennaio 2021, il datore di lavoro e il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (c.d. RSPP) dovranno esaminare e fronteggiare il rischio di violenza e molestie anche di genere esattamente come ogni altro rischio connesso all’ambiente lavorativo. Nell’ordinamento italiano, il Documento di Valutazione dei Rischi di cui al d. lgs. 81/2008, sarà pertanto arricchito dal capitolo specificamente dedicato a tale rischio, così come dovranno essere indicate le relative misure di prevenzione e protezione.
Occorre comunque considerare che per eliminare la violenza e le molestie non è sufficiente intervenire unicamente sui sintomi, ma è necessario agire anche sulle radici, sulle cause soggiacenti e sui fattori di rischio, ivi compresi pregiudizi di genere e squilibri nei rapporti di potere dovuti al genere.
Questo conduce all’imposizione indefettibile dell’obbligo di dare reale applicazione al principio di non-discriminazione e di uguaglianza per le donne, così come per altri gruppi sociali soggetti a multiple discriminazioni.
Conclusioni
Dai dati presentati da EU-OSHA[8] ed Eurofound[9] emerge come fenomeni di intimidazione, violenza e molestie sul luogo di lavoro interessino una significativa quota di lavoratori europei: la percentuale oscilla dal 5% al 20% per le aziende che hanno più di 10 dipendenti.
Gli effetti della violenza subita sul luogo di lavoro si spiegano tanto sullo stato psicologico della vittima quanto sulla qualità dell’ambiente di lavoro e dell’organizzazione dell’impresa coinvolta.
Tali conseguenze, in particolare se trascurate, si rivelano trasversali, profonde e di lungo periodo.
Per contrastare tale fenomeno sono state intraprese, anche a livello domestico, una serie di iniziative tra cui l’emanazione di linee guida, buone prassi e raccomandazioni da parte di Associazioni di categoria, del Ministero della Salute e così via. Significativo è il ruolo rivestito dalla recentissima legge n. 4, 15 gennaio 2021 che, come sopra accennato, ratifica e dà “piena ed intera esecuzione”[10] alla Convenzione n. 190 OIL, a decorrere dalla data della sua entrata in vigore, conformemente a quanto disposto dall’articolo 14 della Convenzione stessa.
Com’è noto, la mancata valutazione del rischio espone il datore di lavoro a responsabilità colposa in caso di infortunio sul lavoro. È chiaro che a partire dall’entrata in vigore della Convenzione il perimetro di responsabilità del datore di lavoro si estenderà anche ai casi di danni ai lavoratori derivanti da violenza e molestie sul luogo di lavoro.
Allo stato non è ancora individuabile un percorso logico-giuridico in forza del quale violenza e molestie sul luogo di lavoro possano configurarsi come infortunio sul lavoro, ciò che è certo, tuttavia, è che tale rischio dovrà essere soggetto a specifica valutazione, in mancanza della quale saranno applicabili le sanzioni previste in generale per l’incompletezza del Documento di Valutazione dei Rischi dall’art. 55 del D. Lgs. 81/2008.
L’auspicio è che la Convenzione n. 190 dell’OIL possa davvero porre fine all’angoscia dei lavoratori moralmente indotti a dover decidere se proseguire nello svolgimento dell’attività lavorativa o smettere di farlo per non essere più vittime di molestie e violenze sul luogo di lavoro.
Informazioni
Convenzione sull’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro. Link: https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—europe/—ro-geneva/—ilo-rome/documents/normativeinstrument/wcms_713379.pdf
Dichiarazione riguardante gli scopi e gli obbiettivi dell’organizzazione internazionale del lavoro. Link: https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—europe/—ro-geneva/—ilo-rome/documents/publication/wcms_151915.pdf
Articolo rivista 231: “violenza e molestie sui luoghi di lavoro diventano rischi da valutare e prevenire nel sistema di salute e sicurezza sul lavoro”
https://www.studiolegalepellerino.it/pubblicazioni/articolo-rivista-231-violenza-e-molestie-sui-luoghi-di-lavoro-diventano-rischi-da-valutare-e-preveni.html#:~:text=Dunque%20la%20violenza%20e%20le,compresi%20gli%20interventi%20di%20formazione
OIL: https://www.ilo.org/rome/ilo-cosa-fa/lang–it/index.htm
Workplace Violence and Harassment: a European Picture – European Agency for Safety and Health at Work. Link: https://osha.europa.eu/en/publications/workplace-violence-and-harassment-european-picture
Violence and Harassment in European Workplaces: Extent, impacts and policies – Eurofound. Link: https://www.eurofound.europa.eu/sites/default/files/ef_comparative_analytical_report/field_ef_documents/ef1473en.pdf
Igeam – La violenza sul luogo di lavoro. Link: https://igeam.it/blog/salute-e-sicurezza/la-violenza-sul-luogo-di-lavoro-come-valutare-il-rischio-di-aggressioni-esterne/#Violenza
Ingenere – Molestie sul lavoro, cosa prevede la convenzione internazionale. Link: https://www.ingenere.it/articoli/molestie-lavoro-convenzione-internazionale
Eliminare la violenza e le molestie nel mondo del lavoro – OIL https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—europe/—ro-geneva/—ilo-rome/documents/publication/wcms_737774.pdf
[1] https://www.ilo.org/rome/norme-del-lavoro-e-documenti/lang–it/index.htm
[2] Sulla ratifica di trattati internazionali: http://www.dirittoconsenso.it/2021/04/14/differenza-tra-firma-e-ratifica-trattato/
[3] Eliminare la violenza e le molestie nel mondo del lavoro – OIL https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—europe/—ro-geneva/—ilo-rome/documents/publication/wcms_737774.pdf
[4] Dichiarazione riguardante gli scopi e gli obbiettivi dell’organizzazione internazionale del lavoro (ii. lett. a)
[5] Convenzione sull’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro – preambolo. Link: https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—europe/—ro-geneva/—ilo-rome/documents/normativeinstrument/wcms_713379.pdf
[6] Art. 1 Convenzione n.190 OIL
[7] Art. 3 Convenzione n.190 OIL
[8] Workplace Violence and Harassment: a European Picture – European Agency for Safety and Health at Work
https://osha.europa.eu/en/publications/workplace-violence-and-harassment-european-picture
[9] Violence and Harassment in European Workplaces: Extent, impacts and policies – Eurofound https://www.eurofound.europa.eu/sites/default/files/ef_comparative_analytical_report/field_ef_documents/ef1473en.pdf
[10] Art. 2 Legge 15 gennaio 2021, n. 4
Critica al d.lgs. 231/2001: un affronto ai principi costituzionali
Una critica al d. lgs. 231/2001 che muove dall’analisi di alcuni istituti la cui disciplina si discosta dai binari garantistici tracciati dal codice di procedura penale
Scelte di politica criminale e critica al d. lgs. 231/2001
L’introduzione nell’ordinamento italiano dell’inedita figura della responsabilità da reato delle società, con d. lgs. 231/2001, scaturisce dalla consapevolezza del dilagante fenomeno dei c.d. white collar crimes. Si tratta di reati funzionalmente economici integrati da condotte illecite poste in essere, nel contesto di attività economiche legittime, da esponenti dell’impresa nell’interesse o a vantaggio di quest’ultima.
Per quanto il fenomeno della criminalità economica d’impresa sia diffuso, esso è, nondimeno, misconosciuto: in una realtà d’impresa mediamente strutturata, il delitto economico non è quasi mai il risultato dell’agire di una sola persona ma è l’esito di una successione di comportamenti e, pertanto, facilmente occultabile nei processi decisionali interni all’organizzazione complessa.
L’esigenza di deviare da un sistema punitivo ormai obsoleto, nonché la forte spinta derivante dal panorama internazionale, hanno guidato la scelta di politica criminale del legislatore del 2000: integrare il tradizionale modello sanzionatorio, rivolto esclusivamente alle persone fisiche, con un sistema punitivo che colpisse direttamente anche l’impresa quale autonomo centro di interessi e reale beneficiario dell’attività illecita.
L’innovativa disciplina processuale delineata, in attuazione della legge delega, dal d. lgs. 8 giugno 2001 n. 231, è rivolta “ad enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica”[1], andando così a demolire il principio per cui societas delinquere non potest e ad introdurre una nuova forma di responsabilità delle persone collettive che non si sostituisce ma si aggiunge alla responsabilità delle persone fisiche.
Sebbene etichettata come “responsabilità amministrativa”, da un punto di vista processuale, il legislatore ha preferito affidare alla giurisdizione penale l’accertamento di fatti illeciti da cui deriverebbe la responsabilità dell’ente e la conseguente irrogazione della sanzione.
Le almeno dichiarate ragioni dell’affidamento della materia alla giurisdizione penale sono di matrice garantistica: centrale è l’art. 35 del d. lgs. 231/2001, il quale estende all’ente le disposizioni codicistiche relative all’imputato, in quanto compatibili, in ossequio alla prescrizione della legge – delega[2] che richiedeva di “equiparare sostanzialmente l’ente all’imputato, così da metterlo nella condizione di poter fruire di tutte le garanzie che spettano a quest’ultimo”[3]
La critica al d.lgs. 231/2001 pone in luce gli esiti sconcertanti di tale disciplina, la quale finisce puntualmente per derogare e rendere inconsistenti le principali garanzie e i principi costituzionali su cui si dovrebbe imperniare lo sviluppo del procedimento penale.
Archiviazione “diretta” del pubblico ministero e art. 112 della Costituzione
La fase delle indagini preliminari, nel procedimento penale a carico dell’ente, è regolata da quattro disposizioni (contenute negli articoli da 55 a 58) del d.lgs.231/2001.
Le prime tre disposizioni del decreto, dedicate rispettivamente all’annotazione dell’illecito amministrativo nel registro ex art. 335 c.p.p., al “termine per l’accertamento dell’illecito amministrativo nelle indagini preliminari” e alla informazione di garanzia non divergono dal modello delineato dal codice. Al contrario, l’art. 58 diverge in modo lampante dai binari tracciati dalla disciplina codicistica dal momento che sottrae dalla sede giurisdizionale il controllo sul mancato esercizio dell’azione sanzionatoria amministrativa, lasciando emergere dubbi e perplessità in ordine alla compatibilità di detta disciplina con le norme costituzionali che presidiano la materia.
L’art. 112 della Costituzione pone il principio dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, a tutela dei principi di legalità, uguaglianza, e soggezione del giudice soltanto alla legge.
La disciplina codicistica, proprio per evitare tensioni con la Costituzione, prevede che la proposta archiviativa del pubblico ministero sia soggetta ad un controllo giurisdizionale.
Spetterà poi al giudice per le indagini preliminari pronunciare, se condivide le ragioni del p.m., decreto (o ordinanza) di archiviazione.
In materia di responsabilità degli enti, diversamente, il pubblico ministero può, se non ritiene sussistenti i presupposti per l’esercizio dell’azione sanzionatoria amministrativa, disporre direttamente l’archiviazione.
Come sottolineato dalla relazione di accompagnamento al decreto, le esigenze di controllo sull’operato del pubblico ministero sono comunque affidate ad un sistema meno articolato di tipo gerarchico.
In effetti l’art. 58 dispone che “se non procede alla contestazione dell’illecito amministrativo a norma dell’art. 59, il pubblico ministero emette decreto motivato di archiviazione degli atti, comunicandolo al procuratore generale presso la corte d’appello.”
Dunque a valle dell’adozione del decreto di archiviazione è previsto un controllo, invero solo eventuale e discrezionale, da parte del procuratore generale presso la corte d’appello, il quale ha la facoltà di svolgere gli accertamenti che ritiene indispensabili e, qualora ritenga sussistano i presupposti per l’esercizio dell’azione sanzionatoria amministrativa, procede alla contestazione entro sei mesi dalla comunicazione da parte del p.m., pena l’improcedibilità dell’azione.
Agli occhi dei compilatori del decreto, tale sistema si giustificherebbe in ragione della natura amministrativa della responsabilità dell’ente, tale da non rendere necessario il controllo sul corretto esercizio dell’azione penale da parte del p.m.
Larga parte della dottrina, tuttavia, considera tale ragione meramente formalistica, sospettandone l’illegittimità rispetto all’art. 112 Cost.: è innegabile che siffatto congegno, così blando, faccia sì che nella prassi l’azione sia ritenuta e gestita come assolutamente discrezionale, tanto è vero che la responsabilità delle persone giuridiche viene perseguita in una esigua minoranza di casi, così mortificando non solo il principio di legalità della sanzione, ma anche la stessa funzione specialpreventiva che il legislatore assegna alla giurisdizione penale.
Limiti all’autodifesa
Per quanto la disciplina della fase procedimentale delineata dal decreto 231/2001 risulti sostanzialmente allineata al modello forgiato dal legislatore del 1988, cionondimeno non passa inosservato come le peculiarità del processo a carico dell’ente veda quest’ultimo in una posizione fortemente compromessa da un punto di vista dei diritti soggettivi, non solo nella fase preliminare ma anche nel cuore del processo penale.
Anzitutto perché l’autodifesa del soggetto collettivo risulta naturalmente problematica, non potendo pretendere di estendere il diritto al silenzio[4] a tutti coloro che operano nel contesto della società, nonostante quest’ultima, nel suo insieme, rivesta lo status processuale di soggetto sottoposto alle indagini e poi, eventualmente, di imputato.
Non solo, ma la società nel suo complesso rappresenta un “terreno di caccia” ideale per l’inquirente, il quale ha agevole accesso a tutte le fonti informative aziendali.
Per non tacere di come tale diritto risulti maggiormente soffocato dall’art. 44 sull’incompatibilità a testimoniare[5], dalla quale emerge, secondo una interpretazione letterale, che il rappresentante dell’ente è incompatibile solo se era tale anche al momento della commissione del fatto e, dunque, non sembrerebbe escludere, a contrariis, la compatibilità con l’ufficio di testimone del rappresentante attuale che, pur rappresentando l’ente nel processo, non fosse in carica all’epoca dei fatti contestati.
Una possibile lettura correttiva, nonché costituzionalmente orientata, sarebbe quella di riferire l’obbligo testimoniale non già al rappresentante dell’ente nel procedimento (che deve sempre essere ritenuto incompatibile in quanto equiparato all’imputato) bensì al rappresentante dell’ente in carica all’epoca dei fatti, oggi avvicendato.
In effetti la ratio della norma è quella di evitare la dispersione del contributo probatorio potenzialmente rilevante di chi si trovava alla guida dell’ente al momento della commissione del reato.
Modello di imputazione della responsabilità e principio di presunzione di innocenza
Uno dei capisaldi dello statuto di garanzia dell’accertamento penale è la regola di giudizio dell’art. 27 comma 2 della Costituzione, secondo cui “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”.
La sottigliezza insita in questa norma consiste nella presunzione di innocenza che vieta al giudice di condannare se non è pienamente provata la responsabilità dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio. Come già accennato, il decreto da un lato invoca queste garanzie ma d’altro lato puntualmente le nega.
L’art. 6 del d.lgs. 231/2001, infatti, pone un’inversione dell’onere della prova a carico dell’ente in caso di reato commesso dal “vertice” della società.
Il pubblico ministero, in tali circostanze, non è dunque gravato dall’onere fornire piena prova della lacuna organizzativa che ha consentito, agevolato o non impedito la commissione del reato presupposto da parte dell’esponente di vertice dell’ente.
È l’ente stesso, invece, a dover impegnarsi nella prova della perfezione del sistema prevenzionistico dimostrando, ai sensi del summenzionato art. 6, l’adozione tempestiva del modello organizzativo e gestionale e la sua efficace attuazione, nonché l’istituzione di un organismo di vigilanza e l’elusione fraudolenta dell’organizzazione da parte dell’autore del reato, dunque l’assenza di colpa di organizzazione quale elemento costitutivo dell’illecito amministrativo derivante da reato.
Secondo taluni la colpa di organizzazione non andrebbe configurata quale elemento costitutivo dell’illecito amministrativo, sottraendo così il pubblico ministero dal dovere di contestarla. In tal caso, l’ente è comunque gravato dall’onere di addurre in giudizio elementi impeditivi quali, in particolare, l’idoneità prevenzionistica del proprio modello organizzativo, da configurarsi come causa esimente. Così, come affermato dalle Sezioni Unite nel caso Thyssenkrupp, “l’ente ha semmai una chance di prova liberatoria dimostrando l’adozione e l’efficace attuazione del modello.”[6].
Quand’anche fosse questa la soluzione prospettabile, la violazione del principio di presunzione di innocenza persisterebbe, fornendo così un ulteriore spunto alla critica al d.lgs. 231/2001: secondo la disciplina codicistica, in linea con il principio costituzionale in questione, il dubbio sulla sussistenza dell’esimente impone la assoluzione dell’imputato[7], poiché non è provata, al di là di ogni ragionevole dubbio, in tal caso, l’antigiuridicità della sua condotta e dunque, la sua responsabilità.
Misure cautelari come sanzioni anticipate
Com’è noto, nell’impianto codicistico sono ammessi interventi limitativi della libertà personale da parte dell’autorità giudiziaria purché nel rispetto delle regole normativamente fissate e solo ed esclusivamente per finalità diverse da quella punitiva.
Le misure cautelari non possono essere utilizzate come strumenti per aggirare il divieto di anticipazione della pena che si pone a tutela del principio di presunzione di innocenza. Sono interventi, dunque, che si legittimano in quanto strumentali al soddisfacimento di esigenze diverse da quella punitiva e che non presuppongono la ritenuta colpevolezza del destinatario della misura.
L’art. 11 lett. o) della legge delega, imponendo al legislatore delegato di prevedere che le sanzioni interdittive indicate alla lett. l) dello stesso art. 11 siano applicabili “anche in sede cautelare”, sembrerebbe ammette un impiego delle misure cautelari in funzione puramente anticipatoria della sanzione interdittiva e ciò risulterebbe in aperto contrasto rispetto alla dichiarata intenzione del legislatore del 2000 di assicurare all’ente tute le garanzie del processo penale.
Il legislatore delegato, proprio per escludere una volontà legislativa particolarmente indulgente rispetto all’applicazione anticipata delle sanzioni, apporta alla disposizione di cui all’art. 45 d.lgs.231/2001 una variante lessicale consistente nella sostituzione della locuzione “in sede cautelare” con “quale misura cautelare” che varrebbe a legittimare l’adozione dei medesimi interventi interdittivi in sede sanzionatoria ma in modo strettamente compatibile con quelle che sono le regole e i principi della disciplina cautelare.
D’altro canto, in relazione alle misure cautelari interdittive, l’unica esigenza cautelare valorizzata dal legislatore è stata quella di più difficile conciliabilità con il principio di presunzione di innocenza, ovverosia l’esigenza di evitare pericolo di reiterazione del reato: temere che l’indagato o l’imputato possa commettere delitti della stessa specie significa necessariamente ritenerlo colpevole del delitto per cui si procede.
Il Giudice delle leggi ha, tuttavia, avuto modo di ribadire come questo contrasto sia meramente apparente [8] .
Le sanzioni interdittive richiamate dall’art. 45 sono indicate all’art. 9 d.lgs. 231/2001 e sono:
- l’interdizione dall’esercizio dell’attività;
- la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito;
- il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;
- l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi;
- il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
Se la misura cautelare consiste in un intervento preventivo rispetto all’esito del giudizio, necessariamente deve avere carattere non solo eccezionale ma anche temporaneo.
Dunque non tutte le sanzioni indicate all’art. 9 si prestano all’impiego quale strumento cautelare: la revoca di una autorizzazione, licenza o concessione così come la esclusione da agevolazioni, contributi e revoca di quelli già concessi sono misure idonee a risolvere in modo definitivo il rapporto e dunque tutt’altro che provvisorie.
Conclusione
Alla luce di tali considerazione, allora, occorre riflettere sulle possibili esigenze che hanno indotto il legislatore a configurare un modello in cui la responsabilità dell’ente sia accertata in sede penale anziché amministrativa.
La dichiarata esigenza di calare l’ente incolpato in un contesto maggiormente garantito viene smentita dalla disciplina speciale del d.lgs. 231/2001 che, come dimostrato, puntualmente svuota di consistenza le garanzie fondamentali e tipiche del procedimento penale.
Non sarà, piuttosto, la forza intimidatrice del processo penale ad aver persuaso il legislatore? Non possiamo ignorare, infatti, che la relazione di accompagnamento, nel giustificare la preferenza per la giurisdizione penale, fa altresì leva su esigenze di efficacia, attendibilità e affidabilità del risultato soddisfatte dagli strumenti di accertamento propri del procedimento penale “nettamente più incisivi e penetranti rispetto all’arsenale di poteri istruttori contemplato nella legge 689/1981” [9].
Informazioni
M. Ceresa-Gastaldo, Procedura penale delle società, G. Giappichelli Editore, Torino, 3 edizione, 2019
Relazione ministeriale al D.Lgs. 231/2001 https://www.aodv231.it/pagina_sezione.php?id=10
[1] Art. 1 comma 2 d.lgs. 231/2001
[2] Legge 29 settembre 2000, n. 300
[3] Relazione ministeriale al D.Lgs. 231/2001 https://www.aodv231.it/pagina_sezione.php?id=10
[4] Inteso come possibile declinazione del diritto di difesa ex art. 24 Costituzione
[5] http://www.dirittoconsenso.it/2021/02/19/rappresentante-legale-art44-dlgs2312001/
[6] Cass., sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343
[7] Art. 530 comma 3, c.p.p.
[8] Corte cost. n.64 del 1970; Corte cost. n. 1 del 1980; Corte cost. n. 265 del 2010
[9] Relazione ministeriale al D.Lgs. 231/2001 https://www.aodv231.it/pagina_sezione.php?id=10