Voto maggiorato nelle s.p.a.

Il voto maggiorato nelle s.p.a. ai sensi del d.l. 91/2014

Le caratteristiche, le motivazioni e l’impatto del voto maggiorato nelle s.p.a.

 

Introduzione: lo smantellamento della correlazione tra rischio e potere

Il principio capitalistico, vale a dire la correlazione proporzionale fra entità dell’investimento e potere sociale, è tradizionalmente uno dei pilastri della disciplina delle società per azioni. A lungo, tale principio, è stato consacrato nella formula one share-one vote[1]. Nell’ambito del diritto societario italiano[2], tuttavia, questo principio è stato progressivamente indebolito fino al suo definitivo superamento, avvenuto con l’introduzione delle azioni a voto plurimo e, in particolare, di quelle a voto maggiorato, introdotte con il decreto legge n. 91 del giugno 2014, convertito con modificazioni dalla legge n. 116 dell’11 agosto 2014.

Il primo significativo passo in tale direzione si ha con la Legge 216/1974. Tale intervento:

  • istituisce la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB) e
  • introduce nel nostro ordinamento una categoria speciale di azioni: le azioni di risparmio.

 

Con le azioni di risparmio si incrina, per la prima volta, la concezione del voto come elemento essenziale della partecipazione. Esse sono infatti prive di diritti amministrativi (i.e non attribuiscono diritto di voto), ma a fronte di ciò devono essere necessariamente dotate di privilegi di natura patrimoniale.

Successivamente, la riforma societaria del 2003 elimina la regola della corrispondenza fra azioni e conferimenti, introducendo diritti derivanti dalle azioni successivamente la loro assegnazione, dunque, indipendenti dalla grandezza del conferito del socio. Con la stessa riforma, inoltre, viene introdotto il c.d principio di atipicità delle azioni, in virtù del quale è ammessa la possibilità di creare azioni senza diritto di voto o con diritto di voto limitato a particolari argomenti o, ancora, al verificarsi di determinate condizioni.

Nel 2014, infine, con il decreto legge n.91, il legislatore introduce le azioni a voto plurimo e a voto maggiorato, determinando il superamento definitivo del principio di uguaglianza delle azioni. Ciò che un tempo era un principio indefettibile del diritto delle società per azioni diviene oggi regola di default, facilmente e validamente derogabile.

 

D.l. 91/2014: voto maggiorato e voto plurimo

L’introduzione delle azioni a voto plurimo e a voto maggiorato nelle s.p.a avviene attraverso una modifica del T.U.F, concentrata rispettivamente sugli artt. 127 sexies e 127 quinquies.

Le due “nuove” tipologie di azione introdotte differiscono su più piani e il più evidente è quello della loro natura.

Le azioni a voto plurimo hanno infatti carattere oggettivo, il loro focus è sull’azione non sull’azionista. Esse attribuiscono fino a un massimo di tre voti per azione e costituiscono una categoria speciale di azioni. Le società quotate non possono emettere azioni a voto plurimo, ma è fatta loro salva la possibilità di mantenere in circolazione quelle emesse prima della quotazione. I casi in cui è ammesso derogare a tale divieto solo strettamente limitati alle ipotesi in cui ciò avvenga al fine di mantenere inalterato il rapporto fra le varie categorie di azioni in circolazione e segnatamente si fa riferimento ai casi di aumento di capitale sociale (gratuito o a pagamento) e ai casi di fusione o scissione. Le azioni a voto plurimo emesse in tali sedi debbono tuttavia presentare caratteristiche e diritti identici a quelle già in circolazione.

Le azioni a voto maggiorato, d’altro canto, hanno carattere personalistico. Requisito per l’assegnazione della maggiorazione (che non può in ogni caso attribuire più di due voti per azione) è il possesso ininterrotto dell’azione per un periodo non inferiore ai 24 mesi[3], decorrenti dall’avvenuta iscrizione all’elenco tenuto dall’emittente. La maggiorazione, a differenza di quanto accade in presenza di voto plurimo, non è una caratteristica dell’azione ma una condizione in cui si trova l’azionista. Essa è subordinata all’iniziativa del singolo socio che intende fruirne e non opera in automatico. In merito ai rapporti tra maggiorazione e diritti reali, tanto di garanzia quanto di godimento, è pacifico affermare che la costituzione di diritti reali sull’azione non comporta in sé la perdita della maggiorazione, purché il diritto di voto rimanga[4] in capo al socio e non in capo all’usufruttuario o creditore pignoratizio.

Ai sensi dell’art. 127 quinquies co. 7 si noti, poi, che qualora la deliberazione di modifica dello statuto, con cui viene prevista la maggiorazione del voto, sia adottata nel corso del procedimento di quotazione[5] di una società non risultante da una fusione che coinvolga una società con azioni quotate, la clausola che introduce la maggiorazione può prevedere che ai fini del possesso continuativo sia computato anche il possesso anteriore alla data di iscrizione nell’elenco che l’emittente è, ai sensi del comma 2, obbligato a tenere.

La clausola di maggiorazione del voto è uno strumento previsto ad uso esclusivo delle società quotate o che quantomeno abbiamo iniziato il processo di quotazione, il che ci porta all’evidente conclusione che la maggiorazione del voto non può che avvenire con modifica statutaria durante societate[6]. Si tratta indubbiamente di un momento di grande delicatezza che, essendo capace di incidere in modo evidente sugli assetti di potere, rischia di amplificare la conflittualità di interessi tra minoranza e maggioranza. La minoranza, allora, per limitare il potere della maggioranza potrà ricorrere ad un rafforzamento dei quorum, costitutivi e deliberativi, dell’assemblea straordinaria. Va infatti escluso che i soci dissenzienti possano esercitare diritto di recesso.

L’esclusione del diritto di recesso in sede di adozione del voto maggiorato ha carattere eccezionale e non può essere pertanto applicata in via analogica. L’eccezionalità di tale divieto è resa evidente dalla lettura dell’art. 2437 c.c, il quale, alla lettera g) esplicitamente riconosce diritto di recedere ai soci che non hanno concorso alle deliberazioni riguardanti le modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione. Tale articolo è tuttavia direttamente richiamato (e disapplicato) in caso di previsione di voto maggiorato, in base a quanto disposto dall’art. 127 quinquies co.6.

 

Voto maggiorato nelle s.p.a e autonomia statutaria

Il rapporto tra voto maggiorato nelle s.p.a e autonomia statutaria si caratterizza per l’ampio margine che il legislatore ha riservato a quest’ultima nel plasmare perimetro e incidenza del primo.

È, ad esempio, pacifica la possibilità per gli statuti di prevedere la maggiorazione per percentuali inferiori all’1%[7], nonché la facoltà, sempre statutaria, di consentire l’irrevocabile rinuncia della maggiorazione del voto. Ancora, il voto maggiorato si computa nei quorum, tanto costitutivi quanto deliberativi, ma solo fintanto che lo statuto non disponga diversamente.

La volontà statutaria trova anche spazio in materia di conservazione della maggiorazione: il voto maggiorato è infatti si conservato in caso di successione mortis causa e in caso di fusione o scissione del titolare delle azioni, ma solo nella misura in cui lo statuto non disponga diversamente.

Lo statuto ha inoltre voce in capitolo per quanto riguarda l’estensione della maggiorazione alle azioni emesse in sede in sede di aumento gratuito del capitale sociale. In tali casi lo statuto potrebbe infatti escludere tout court, estendere soltanto in parte o prevedere una maggiorazione di entità inferiore.

In merito agli aumenti di capitale sociale a pagamento, invece, lo statuto può prevedere che la maggiorazione si estenda proporzionalmente alle azioni emesse in tale contesto. In simili casi, tuttavia, l’assegnazione deve sempre essere proporzionale, in che esclude la possibilità di limitare il diritto d’opzione[8] qualora lo statuto abbia optato per l’estensione del voto. In caso contrario, infatti, il tutto si risolverebbe in un’assegnazione non proporzionale. Si tenga presente, infine, che il socio potrebbe in ogni caso rinunciare all’estensione della maggiorazione.

 

Le ragioni dell’introduzione del voto maggiorato nelle s.p.a

A poco più di dieci anni dal Winter Report[9] del 2002 che osannava, fra i cardini del diritto societario europeo, il principio del one share-one vote, l’entusiasmo su questa storica architrave della disciplina societaria era destinato a spegnersi.

La crisi del 2008, poi divenuta crisi del debito sovrano in Europa, ha fatto luce sui pericoli del c.d. short-termism[10], specie in un momento delicato come quello della crisi. Ciò ha portato a un rinnovato interesse nei confronti di concetti quali la “lealtà” e la “fedeltà” dell’azionista, a sua volta tradottosi nell’esigenza di premiare tali atteggiamenti, di modo da incentivarli e dare un chiaro segnale al mercato su quale tipo di approccio all’investimento fosse preferito.

A questa esigenza può quindi essere ricondotta l’introduzione, nel nostro ordinamento, del voto plurimo e, in special modo, del voto maggiorato ad opera del d.l. 91/2014.

Si tenga a mente che non si tratta di un’eccezione italiana, basti pensare alla contestuale Loi Florange in Francia, la quale nel marzo dello stesso anno ha rafforzato la possibilità[11] per le società francesi di dotarsi del voto maggiorato, addirittura adottando quella della maggiorazione come regola di default, rispetto alla quale rimane possibile l’opt-out.

In merito al legislatore italiano possiamo pacificamente affermare che, oltre al voler “premiare” gli investitori di lungo termine (proprio per incentivare approcci antitetici al condannato short-termism), un’altra ragione alla base dell’intervento sia stata quella di favorire nuove quotazioni e aumentare la dimensione del flottante in sede di IPO[12], superando il timore dei soci-imprenditori (in genere fondatori e/o legati da rapporti di parentela) di perdere il controllo della società.

Queste intenzioni sono esplicitamente dichiarate nella relazione che accompagna il d.l 91/2014, alle quali va aggiunto l’ulteriore obiettivo di recuperare competitività rispetto ad altri ordinamenti[13], che hanno già introdotto il voto potenziato.

 

L’impatto (concreto) del voto maggiorato nelle s.p.a quotate italiane

Il tema dell’incentivo alle nuove quotazioni, così come anche quello della competitività, è comune tanto al voto maggiorato quanto al voto plurimo. Di fatto, l’incentivo alla quotazione è uno degli argomenti più suggestivi quando si tratta di promuovere la piena liberalizzazione dei CEMs, poiché esso vede nella regola del one share-one vote un disincentivo nelle società nelle quali si abbiano soci imprenditori che non considerano vantaggioso il trade-off fra costo della diluzione del controllo e beneficio del finanziamento del mercato.

Con riguardo a ciò i CEMs (Control Enhancing Mechanisms[14], nei quali il voto maggiorato rientra) rappresentano, ne va dato conto, un utile strumento tramite il quale contrastare il capitalismo familiare che blocca la crescita delle imprese nel nostro Paese. Tuttavia, al di là delle ambizioni del legislatore è necessario chiedersi quale sia stato, all’atto pratico, l’impatto del voto maggiorato nelle s.p.a.

Guardando i numeri, al novembre 2018 solo 43 delle 240 emittenti quotate sul Mercato Telematico Azionario (MTA)[15] contenevano, ai sensi dell’art. 127 quinquies del TUF, disposizioni in merito all’attribuzione del voto maggiorato agli azionisti particolarmente “fedeli”[16].

In altri termini, solo un numero pari al 18% delle società quotate italiane aveva fatto ricorso alla maggiorazione. Ma non solo, guardando la questione in prospettiva, si noti come il costante declino del numero di quotate sul MTA[17], pur affiancandosi alle 22 nuove IPOs e in totale 41 ammissioni avutesi tra il 2015 e il 2018 circa, vada letto alle luce del dato[18] che soltanto 7 di queste abbiano fatto ricorso al voto maggiorato nel proprio statuto.

In merito al profilo della maggiore competitività, invece, non sembra che l’introduzione del voto maggiorato nelle s.p.a abbia fatto sì che vi fosse un nuovo flusso di investimenti diretti verso il Paese, né le scelte di localizzazione delle nostre società paiono essere state particolarmente influenzate da ciò. Al proposito si segnala il caso FIAT-FCA[19] che all’epoca della fusione transfrontaliera decise di identificare quale sede legale l’Olanda e quale sede fiscale il Regno Unito. Tale decisione, peraltro espressamente motivata sulla base dell’introduzione del doppio voto per singola azione nello statuto, avvenne nell’agosto 2014, vale a dire due mesi dopo che il d.l 91/2014 era già stato adottato.

Infine vi è il tema del favor verso i long-term investors[20]. Il legislatore non ha certo fatto mistero di essersi ispirato al modello delle c.d loyalty shares nel disegnare la disciplina del voto maggiorato e di fatto ciò emerge anche dalla relazione che accompagna il d.l 91/2014.

L’idea di scoraggiare lo short-termism (e i suoi effetti distorsivi) puntando ad una redditività sostenibile, sarà divenuta realtà? Per rispondere in merito all’effettività della misura con riguardo a questo punto non si può prescindere da un’agile panoramica delle varie categorie di azionisti. In altri termini, va compreso il soggetto (almeno sul piano ideale) della maggiorazione. Tale soggetto non può certo essere l’investitore retail[21]. Questi è caratterizzato da un’apatia razionale nei confronti della gestione e non si comprende in che modo una duplice possibilità di esercitare il diritto di voto possa esercitare un qualunque fascino dal suo punto di vista.

Quanto agli investitori istituzionali già la loro esigua[22] presenza negli emittenti scoraggerebbe dall’assumerli quali principali destinatari di una misura tanto rilevante. A ciò va comunque aggiunta una più pragmatica riflessione: l’art. 127 quinquies esclude che la maggiorazione possa avere effetto su diritti diversi da quello di voto, in sostanza eliminando dall’equazione la legittimazione all’impugnazione delle delibere assembleari o la presentazione di liste per la nomina di cariche sociali. Tali diritti, spettanti in forza del possesso di determinate aliquote di capitale, sono certo oggetto di interesse da parte degli investitori istituzionali e la loro esclusione dalla maggiorazione depone contro la tesi che vedrebbe questa tipologia di azionisti come principale destinatario dell’intervento del d.l 91/2014.

A questo punto una domanda sorge spontanea. Rispondervi significa poter abbozzare una riflessione sull’effettività dell’introduzione del voto maggiorato, quantomeno, con riguardo al profilo della lotta allo short-termism. Tale domanda è la seguente:

 

A chi giova davvero la maggiorazione del voto e perché?

Su 231 società quotate a fine 2017, 199 di esse risultano governate da un singolo azionista o da una coalizione basata su un patto parasociale. Mediamente il primo azionista vanta una partecipazione del 48% a fronte del 40% in mano al mercato[23]. Com’è noto, quindi, il nostro è un azionariato fortemente concentrato, spesso in mano a famiglie con lunghe tradizione industriali alle spalle.

In definitiva, dunque, l’unica tipologia di azionista legittimamente interessata al “premio di fedeltà” che il voto maggiorato rappresenta, è proprio l’azionista fedele per definizione, vale a dire il socio di controllo, che in questo modo potrà consolidare la propria posizione senza procedere ad ulteriori investimenti. Ciò finisce per rendere il voto maggiorato uno strano “premio di fedeltà”: formalmente generalizzato, ma sostanzialmente selettivo.

Viene pertanto spontaneo chiedersi: perché?

La risposta a tale domanda va data contestualizzando storicamente il d.l 91/2014. Esso è infatti stato approvato dopo la crisi del 2008, quando la capitalizzazione degli emittenti quotati italiani risultava, in pratica, dimezzata lasciandoli allo scoperto e prede di potenziali (e verosimili) scalate ostili. La ratio alla radice dell’intervento del 2014 va quindi ricercata nell’uso del voto maggiorato quale strumento di protezione contro scalate ostili, specie di origine non nazionale.

In merito all’obiettivo di favorire gli investitori di lungo periodo, allora, l’intervento del 2014 acquista nuovo significato e potenzialmente muta anche la sua posizione in merito ai risultati concretamente raggiunti, andando ad allietare un quadro altrimenti non particolarmente brillante di successi.

 

Conclusioni

Le analisi fin qui condotte ci portano anzitutto a concludere che, almeno sui mercati regolamentati, il voto maggiorato nelle s.p.a non ha avuto gli effetti desiderati per quanto riguarda le nuove quotazioni. Anche sotto il profilo della competitività i risultati non sembrano entusiasmanti, mentre sul piano della difesa contro scalate ostili estere la questione cambia, dando spazio a un certo margine di successo o, se non altro, di comprensibilità con riguardo alle reali intenzione del legislatore.

In conclusione possiamo affermare che il d.l 91/2014 rappresenta la pietra tombale del principio del one share-one vote, segnando il definitivo scollamento fra rischio e potere e quindi stravolgendo in via definitiva ciò che restava di un pilastro storico, ma negli anni sempre più martoriato, della disciplina societaria. Come abbiamo avuto modo di analizzare, l’impatto della crisi del 2008 è stato evidente, contribuendo in buona parte in un cambio di rotta al quale altrimenti non si sarebbe dato lo stesso credito, o almeno non in così poco tempo.

Quanto a un giudizio di valore sulla bontà dell’introduzione del voto maggiorato nel nostro Paese, i perversi meccanismi cui l’attuale configurazione della norma si presta, specie se sommata al peculiare stato dell’azionariato italiano, risultano del tutto evidenti. Una norma forse storicamente necessaria, se non altro storicamente comprensibile, ma che oggi potrebbe, probabilmente, essere oggetto di un rimaneggiamento, specie se volto ad aumentare realmente la competitività delle imprese italiane quotate sui mercati.

Informazioni

P. Marchetti, C. Mosca, Note sparse sulle loyalty shares, Rivista delle Società, 2018

G. D. Mosco, S. Lopreiato, Società quotate e disciplina speciale dei diritti dei soci, Il Testo Unico Finanziario, Zanichelli Editore, 2020

CONSOB, Report on corporate governance of Italian listed companies, 2018

[1] Un’azione, un voto.

[2] Principale focus di questa analisi.

[3] È questa la misura standard, derogabile in aumento, posta del legislatore.

[4] E cosi è fintanto che lo statuto non disponga diversamente.

[5] In un mercato regolamentato.

[6] Durante la vita della società, non già in sede di costituzione della stessa.

[7] E quindi ad esempio maggiorazioni del voto pari allo 0.25% o al 0.5% e così via.

[8] Vale a dire il diritto dei soci di essere preferiti ai terzi nella sottoscrizione di un aumento oneroso di capitale.

[9] Lavoro finale, presentato dall’ High Level Group of Company Law Experts, che prende il nome da Jaap Winter, Presidente del gruppo.

[10] Consiste in un’eccessiva focalizzazione sui risultati a breve termine a scapito degli interessi a lungo termine. Le pressioni sulla performance a breve termine sugli investitori possono tradursi in un’eccessiva attenzione da parte loro sugli utili di breve periodo, con una minore attenzione alla strategia, ai fondamentali e alla creazione di valore a lungo termine.

[11] In verità già garantita dal Code de Commerce del 1933.

[12] Initial Public Offering.

[13] Quali Francia, Olanda, Paesi nordici europei, ma anche Stati Uniti.

[14] Lett. Meccanismi di Potenziamento del voto.

[15] Ossia il mercato regolamentato gestito da Borsa Italiana s.p.a.

[16] Secondo i parametri definiti dalla norma stessa.

[17] Che dal 2010 al 2016 è sceso da 270 a 230.

[18] Ricostruito da: Review dei Mercati 2018 – Borsa Italiana. https://www.borsaitaliana.it/borsaitaliana/ufficio-stampa/comunicati-stampa/2018/review-mercati-2018.htm

[19] Per un approfondimento in tema di fusioni societarie, con particolare attenzione al successivo matrimonio fra Fiat Chrysler Automobiles (Fca) e Psa: La fusione societaria e il matrimonio FCA-PSA – DirittoConsenso. http://www.dirittoconsenso.it/2021/09/30/fusione-societaria-matrimonio-fca-psa/

[20] Investitori di lungo periodo.

[21] Singolo azionista risparmiatore, tradizionalmente contrapposto al socio-imprenditore.

[22] Al 2017 la loro presenza si ravvisava in 60 quotate italiane, pari al 26% del totale degli emittenti ammessi alla negoziazione su mercati regolamentati. Il dato è tratto da: 2018 Report on corporate governance – Abstract Report (consob.it)

[23] Il dato è tratto da: 2018 Report on corporate governance – Abstract Report (consob.it)


Consiglio UE-USA Commercio e Tecnologia

Il Consiglio UE-USA per il Commercio e la Tecnologia (TTC)

La sfida del mondo libero al primato tecnologico cinese. Il Consiglio UE-USA per il Commercio e la Tecnologia saprà ridefinire la partita sul futuro della governance tecnologica?

 

La nuova agenda transatlantica

Il 15 giugno 2021 si è tenuto a Bruxelles un summit tra Unione Europea e Stati Uniti. Esso ha rappresentato un importante momento di rilancio della partnership transatlantica dopo la fine dell’era Trump. I quattro anni della precedente amministrazione statunitense hanno indubbiamente comportato uno stallo per i rapporti tra Stati Uniti ed Unione Europea, se non addirittura dei passi indietro. Tale stallo, tuttavia, pare appartenere al passato come indicano i risultati raggiunti dal summit svoltosi in giugno e come sembrano confermare i successivi appuntamenti del G7 e del summit NATO, entrambi all’insegna di una nuova primavera per i rapporti transatlantici.

Tra i principali risultati del vertice figurano tre nuove importanti iniziative commerciali. I leader, riunitisi a Bruxelles, hanno convenuto di:

  • creare un quadro cooperativo per gli aeromobili civili di grandi dimensioni;
  • avviare discussioni per risolvere le divergenze nelle misure relative ad acciaio e alluminio entro la fine dell’anno, e
  • istituire il Trade and Technology Council (TTC), ovvero il Consiglio UE-USA per il commercio e la tecnologia.

 

Ed è proprio su quest’ultima, importante, novità che ci soffermeremo.

 

Da dove nasce il Consiglio UE-USA per il Commercio e la Tecnologia?

L’idea di una simile cooperazione tra Stati Uniti ed Unione Europea in ambito tecnologico non nasce in seno ai vertici di giugno. Già il 2 dicembre 2020, con una comunicazione congiunta del Consiglio, del Parlamento e del Consiglio Europeo intitolata “Una nuova agenda UE-USA per il cambiamento globale[1], Bruxelles, facendo leva sui valori e gli interessi condivisi dalle due potenze, chiedeva di definire insieme a Washington una nuova agenda transatlantica per il cambiamento globale. Stando a quanto si legge nel comunicato i principi guida della citata agenda politica dovrebbero essere così riassumibili:

  • Adoperarsi per promuovere i beni comuni globali[2], fornendo una solida base per rafforzare l’azione e le istituzioni multilaterali e sostenere l’adesione di tutti i partner che condividono gli stessi principi.
  • L’UE e gli USA dovrebbero perseguire interessi comuni, facendo leva sulla loro forza collettiva per ottenere risultati nelle priorità strategiche comuni.
  • E dovrebbero tendere sempre alla ricerca di soluzioni che rispettino i valori comuni di equità, apertura e concorrenza, anche laddove emergano differenze sul piano bilaterale.

 

La cooperazione su tecnologia e commercio, della quale si dirà fra poco, costituisce tuttavia soltanto uno dei punti di un affresco, quale quello dipinto da Bruxelles, di ben più ampio respiro. Fra gli altri temi su cui si chiede di cooperare nel comunicato spiccano infatti la tutela del pianeta e la prosperità, la creazione di reti logistiche globali per la distribuzione dei vaccini e delle forniture mediche in tutto il mondo, l’invito a collaborare per un potenziamento dell’OMS[3] in ottica riformista, in modo da aumentarne trasparenza e responsabilità[4] e, infine, il rafforzamento dei valori democratici a livello globale.

È indubbio che il comunicato congiunto delle istituzioni europee sia un documento programmatico, una lettera aperta d’intenti che nulla definisce in sé. Non di meno va notato come questo non abbia solo messo sul tavolo una proposta molto concreta, quale il TTC, ma abbia anche spostato l’UE un po’ più vicina allo storico alleato atlantico in un momento in cui tutto ciò non sarebbe necessariamente scontato[5].

 

Cos’è il Consiglio UE-USA per il Commercio e la Tecnologia (TTC)?

L’idea del Consiglio UE-USA per il Commercio e la Tecnologia compare solo a pagina 8 del comunicato, gettando le basi per ciò sarebbe stato discusso mesi più tardi nei vertici di giugno. Nello specifico viene detto:

L’UE propone di istituire un nuovo Consiglio UE-USA per il commercio e la tecnologia (TTC), con l’obiettivo di massimizzare congiuntamente le opportunità di collaborazione transatlantica orientata al mercato, rafforzare la leadership tecnologica e industriale ed espandere gli scambi e gli investimenti bilaterali.”

 

L’obiettivo di tale organo sarebbe quello di ridurre gli ostacoli agli scambi ed elaborare norme compatibili e approcci regolamentari per le nuove tecnologie. Tutto ciò, nell’ottica di garantire la sicurezza della catena di approvvigionamento critica, approfondire la collaborazione nella ricerca e promuovere l’innovazione e la collaborazione leale.

Un altro aspetto fondamentale sul quale già il comunicato del dicembre 2020 poneva l’accento è l’attenzione comune alla protezione delle tecnologie critiche, invocando una collaborazione più stretta su controllo degli investimenti, diritti di proprietà intellettuale, trasferimenti forzati di tecnologia e controlli delle esportazioni.

Il Consiglio UE-USA per il Commercio e la Tecnologia viene ufficialmente lanciato in occasione del vertice USA-UE tenutosi a Bruxelles il 15 giugno 2021. Viene definito come “un forum che consentirà agli Stati Uniti e all’Unione europea di coordinare il loro approccio alle principali questioni commerciali, economiche e tecnologiche a livello globale e di approfondire le relazioni commerciali ed economiche transatlantiche sulla base di valori democratici condivisi.”

 

Funzionamento e obiettivi del TTC

Nonostante l’iniziativa europea sia stata lanciata alla fine del 2020, sarà solo con i vertici di giugno 2021 che si giungerà a una vera discussione bilaterale sul tema. Il confronto, dall’esito positivo, fra le due grandi potenze occidentali ha portato a una prima bozza di quello che dovrebbe essere, a grandi linee, il funzionamento della nascitura istituzione.

Il Consiglio si riunirà periodicamente a livello politico per orientare la cooperazione. Sarà co-presieduto dal vicepresidente esecutivo della Commissione Europea e commissario europeo per la concorrenza, Margrethe Vestager; dal Vicepresidente esecutivo della Commissione Europea e Commissario europeo per il commercio, Valdis Dombrovskis; dal Segretario di Stato americano, Antony Blinken; dal Segretario al Commercio degli Stati Uniti, Gina Raimondo; e dal rappresentante commerciale degli Stati Uniti, Katherine Tai. Altri membri saranno invitati a seconda dei casi, in modo da garantire discussioni mirate su questioni specifiche.

La struttura del Consiglio UE-USA per il Commercio e la Tecnologia, secondo quanto riportato in un comunicato stampa del 15 giugno 2021[6], dovrebbe articolarsi innanzitutto in gruppi di lavoro, i quali concretizzeranno le decisioni politiche traducendole in risultati tangibili, coordineranno il lavoro tecnico e avranno dovere di riferire al livello politico.

Gli obiettivi che il TTC si prefissa sono riassumibili come segue:

  • espandere e approfondire gli scambi e gli investimenti bilaterali;
  • evitare nuovi ostacoli tecnici agli scambi;
  • cooperare nell’ambito delle principali politiche in materia di tecnologia, questioni digitali e catene di approvvigionamento;
  • sostenere la ricerca collaborativa;
  • cooperare per l’elaborazione di standard compatibili e internazionali;
  • facilitare la cooperazione per quanto riguarda la politica di regolamentazione e l’applicazione della normativa;
  • promuovere l’innovazione e la leadership delle imprese dell’UE e degli USA.

 

L’oggetto del lavoro del Consiglio UE-USA per il commercio e la tecnologia copre un ampio spettro di temi che vanno dal clima e dalle tecnologie verdi alla promozione dell’accesso e dell’uso delle tecnologie digitali da parte delle PMI, ma non solo. Il TTC si occuperà anche di sicurezza e competitività delle TIC[7], data governance e piattaforme tecnologiche, controlli sulle esportazioni, controllo degli investimenti nonché cooperazione in materia di standard tecnologici (compresa l’IA[8] e internet of things[9], tra le altre tecnologie emergenti).

Tuttavia alcuni dei temi dell’agenda del Consiglio, più di altri, lasciano intravedere nemmeno troppo timidamente uno dei fondamentali pilastri di questo neonato progetto transatlantico, già anticipato dall’accentuato carattere valoriale dell’iniziativa: raccogliere la sfida cinese e contenere l’ascesa di Pechino al primato tecnologico.

I principali, reali, focus dell’iniziativa sono evidenti: la sicurezza delle catene di approvvigionamento (compresi i semiconduttori) e affrontare la questione tecnologia. Più precisamente, con riguardo a quest’ultima, il tema centrale è l’utilizzo di certe tecnologie in rapporto ai temi della sicurezza, della libertà individuale e del rispetto dei diritti umani.

Il fatto che un’istituzione congiunta frutto dell’alleanza transatlantica decida di prendere autonomamente posizione su questi temi, infatti, conferma apertamente la natura politica, e non già meramente economica, del progetto. Entrambi i temi hanno molto a che fare con la Cina. Si pensi alla disperata corsa ai semiconduttori di Pechino[10] o all’uso della tecnologia, specie quella di riconoscimento facciale che, usando un eufemismo, potremmo definire “poco etico”.

 

Una nuova guerra fredda?

Nonostante l’impianto valoriale di stampo liberale e democratico, tipicamente occidentale, che informa l’iniziativa della creazione del Consiglio UE-USA per il commercio e la tecnologia, assumere che gli interessi delle due potenze siano del tutto omogenei fra loro[11] sarebbe forse un azzardo, dal momento che l’interesse europeo verso un’espansione, più strutturata, del commercio e dei rapporti con la Cina è da tempo piuttosto evidente. A discapito dell’approccio non coordinato[12] adottato dagli Stati Membri nel consolidamento della partnership economica (e non solo) con Pechino, l’Unione Europea ha però da tempo espresso[13] la sua posizione verso il Dragone.

A livello europeo, infatti, la Cina, è descritta come “contemporaneamente, in diverse aree politiche, un partner di cooperazione con il quale l’UE ha obiettivi strettamente allineati, un partner negoziale con il quale l’UE deve trovare un equilibrio di interessi, un concorrente economico nel perseguimento della leadership tecnologica, e un rivale sistemico che promuove modelli alternativi di governance”.

In questo quadro, il Consiglio UE-USA per il Commercio e la Tecnologia si inserisce, insieme alle reciproche sanzioni tra UE e Cina e quindi il congelamento del CAI, in un percorso di progressivo allontanamento da Pechino e ritorno alla storica intensa atlantica, rispetto al quale il cambio di amministrazione statunitense ha giocato un ruolo evidente.

Questo riallineamento storico sembra inoltre evidenziato dalla sempre più marcata presa di posizione, in chiave anti-cinese, della presidenza di Joe Biden, la quale nell’agosto 2021 ha annunciato il Summit for Democracy. Il summit riunirà i leader di delle diverse democrazie mondiali in un vertice virtuale per la democrazia, che sarà seguito tra circa un anno da un secondo vertice da svolgersi, questa volta, in persona. Il Vertice virtuale, che si svolgerà il 9 e 10 dicembre, stimolerà impegni e iniziative su tre temi principali: difesa dall’autoritarismo, lotta alla corruzione e promozione del rispetto dei diritti umani.

Se a ciò aggiungiamo l’annuncio della Build Back Better World (o B3W)[14] promossa, ancora una volta da Biden, durante il G7 di giugno il quadro diventa sempre più chiaro ed è un quadro che ha il sapore di una nuova guerra fredda che vede lo scontro fra modelli alternativi di governance tecnologica.

Da un lato l’approccio di governi autocratici come Cina e Russia, che fanno della tecnologia strumento di controllo delle masse e di repressione, nonché (e questo è particolarmente vero per la Cina) oggetto di uno sviluppo costantemente monitorato dal potere politico e mai realmente libero.

Dall’altro lato c’è l’approccio della digitalizzazione human-centered e dei mercati aperti, della tutela dei diritti e della libertà dell’individuo, di cui l’Unione Europea si fa promotrice insieme agli Stati Uniti e, almeno auspicabilmente, insieme alle altre democrazie occidentali.

 

Conclusioni

I temi in sospeso sono tanti e alcuni di questi vantano una complessità (e.g la dipendenza della Cina da fornitori di semiconduttori esteri e le implicazioni di un progetto come il TTC in tutto ciò) che ne impedisce una trattazione esaustiva in questa sede.

In merito al principale oggetto d’interesse di questa trattazione, e quindi il Consiglio UE-USA per il Commercio e la Tecnologia, l’incontro inaugurale sarà tenuto il 29 settembre a Pittsburgh, in Pennsylvania, città che ha saputo reiventarsi come hub per la tecnologia e l’industria all’avanguardia, anche attraverso la costruzione di solide relazioni commerciali con i partner europei.

I gruppi di lavoro che saranno effettivamente avviati saranno dieci e si focalizzeranno sui temi già enunciati nei precedenti documenti programmatici.

Entrambi i comunicati diffusi da Washington e Bruxelles sottolineano che l’incontro inaugurale “dimostra il nostro impegno comune a espandere e approfondire il commercio e gli investimenti transatlantici e ad aggiornare le regole per l’economia del XXI secolo”.

In conclusione, il Consiglio UE-USA per il Commercio e la Tecnologia si pone come una pietra miliare nella definizione degli standard etici e di governance che caratterizzeranno la leadership tecnologica e industriale del XXI secolo, il tutto in chiara funzione di contenimento dell’espansione del primato dei Paesi autocratici, tra i quali spicca ovviamente la Cina.

Si tratta di un’operazione ambiziosa: la posta in gioco non è soltanto l’istituzione dell’ennesima entità fluttuante nel sofisticato ordinamento del diritto internazionale, ma il tentativo di dimostrare che la democrazia, il libero mercato e la tutela dell’individuo non siano solo idee che hanno ancora qualcosa da dire, ma che siano il futuro, un futuro sul quale poggiare le fondamenta dell’evoluzione dei sistemi di governance tecnologica. Un futuro nel quale non può essere lasciato alcuno spazio a regimi oppressivi e autocratici.

Informazioni

EU-US relations: EU-US Trade and Technology Council (europa.eu). Link: https://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2021/june/tradoc_159642.pdf

US and Europe to forge tech alliance amid China’s rise – POLITICO. Link: https://www.politico.eu/article/eu-us-trade-tech-council-joe-biden-china/

EU-US ‘tech alliance’ faces major obstacles on tax, digital rules – POLITICO. Link: https://www.politico.eu/article/eu-to-us-president-elect-joe-biden-lets-be-tech-allies/

Il punto debole della Cina nella corsa ai semiconduttori – Aspenia Online. Link: https://aspeniaonline.it/il-punto-debole-della-cina-nella-corsa-ai-semiconduttori/

[1] docubridge.ashx (camera.it)

[2] O “global common goods”, è un termine tipicamente usato per descrivere dominii di risorse internazionali, sovranazionali e globali in cui si trovano risorse comuni a tutti. I beni comuni globali includono le risorse naturali condivise della terra, come gli oceani, l’atmosfera e lo spazio esterno e l’Antartico in particolare. Anche il cyberspazio può soddisfare la definizione di beni comuni globali.

[3] Organizzazione Mondiale della Sanità.

[4] Temi, questi, che sono notoriamente stati al centro dell’accesso dibattito che ha coinvolto la gestione della pandemia da parte dell’OMS.

[5] Non a caso, infatti, UE e Cina da anni discutono della ratifica di un accordo, proposto nel 2013, noto come Comprehensive Agreement on Investment (CAI) il quale è stato definito come “il più ambizioso accordo mai concluso dalla Cina con un Paese terzo”. Il percorso del CAI è però al momento in stand-by: a maggio il parlamento europeo, infatti, ha votato una risoluzione per bloccarne la ratifica, almeno finché saranno in vigore le sanzioni che Pechino ha imposto a politici e accademici dell’UE in risposta alle sanzioni europee scaturite a causa delle reiterate violazioni dei diritti umani compiuti dalla Cina nello Xinjiang.

[6] Nasce il Consiglio UE-USA per il commercio e la tecnologia (europa.eu). Link: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/IP_21_2990

[7] Tecnologie dell’Informazione e Comunicazione, cioè l’insieme dei metodi e delle tecniche utilizzate nella trasmissione, ricezione ed elaborazione di dati e informazioni (tecnologie digitali comprese).

[8] Intelligenza Artificiale. Per approfondimento sul tema si rimanda a: Intelligenza artificiale: uno sguardo alla regolamentazione europea – DirittoConsenso. Link: http://www.dirittoconsenso.it/2021/06/16/intelligenza-artificiale-uno-sguardo-alla-regolamentazione-europea/

[9] “Internet delle cose” è un’espressione con la quale si fa riferimento all’estensione di Internet al mondo degli oggetti e dei luoghi concreti. Il concetto rappresenta una possibile evoluzione dell’uso della rete internet: gli oggetti (le “cose”) si rendono riconoscibili e acquisiscono intelligenza grazie al fatto di poter comunicare dati su sé stessi e accedere ad informazioni aggregate da parte di altri

[10] Nel 2019 la Cina ha importato semiconduttori per 304 miliardi di dollari. L’industria cinese dei circuiti integrati è forte e in rapida crescita, trainata dal primato nazionale nella fabbricazione di prodotti elettronici, dall’enorme mercato interno e dal costante sostegno statale. Nonostante ciò, però, l’industria cinese resta dietro ai leader mondiali del settore in tutti i vari segmenti della filiera produttiva. Inoltre, solo il 15,7% dei semiconduttori utilizzati in Cina nel 2019 era stato prodotto nel paese. In sostanza, il più grande mercato al mondo dei semiconduttori dipende dai fornitori stranieri per ogni fase della filiera. Questa interdipendenza a lungo vantaggiosa per la Cina, potrebbe tuttavia trasformarsi nel suo più grande punto debole. Sotto l’amministrazione Trump, infatti, gli Stati Uniti hanno identificato nei semiconduttori una grande vulnerabilità della Cina e ne hanno sfruttato la dipendenza dalla tecnologia straniera.

[11] Come invece la comunicazione congiunta del 2 dicembre 2020 suggerisce.

[12] Si pensi, ad esempio, al fatto che l’Italia del Governo Conte I è stato l’unico Paese del G7 a firmare dei memorandum d’intesa sulla Belt and Road Initiative promossa da Pechino.

[13] Fra le fonti ufficiali si possono annoverare vari documenti: communication-eu-china-a-strategic-outlook.pdf (europa.eu), eu-china_factsheet_06_2020_0.pdf (europa.eu), China: From partner to rival (europa.eu)

[14] Lanciata nel giugno 2021, l’iniziativa è progettata per contrastare l’influenza strategica della Cina fornendo un’alternativa alla Belt and Road Initiative per lo sviluppo delle infrastrutture dei paesi a basso e medio reddito. Guidati dagli Stati Uniti, i paesi del G7 lavoreranno per far fronte ai 40 trilioni di dollari di infrastrutture necessarie ai paesi in via di sviluppo entro il 2035. L’iniziativa mira a catalizzare i finanziamenti per infrastrutture di qualità dal settore privato e incoraggerà gli investimenti del settore privato che supportano “il clima, salute e sicurezza sanitaria, tecnologia digitale, equità e uguaglianza di genere”.


Codice di corporate governance

Nuovo Codice di Corporate Governance 2020: fra contrattualismo e istituzionalismo

Analisi del concetto di “successo sostenibile” e del posizionamento del Nuovo Codice di Corporate Governance all’interno delle tensioni tra istituzionalismo e contrattualismo

 

Il Nuovo Codice di Corporate Governance

Il 31 gennaio 2020 è entrato in vigore il Nuovo Codice di Corporate Governance. Fatte salve alcune, limitate, eccezioni, il Codice è applicabile a partire dal primo esercizio successivo al 31.12.2020 con relativa informativa nella relazione sul governo societario da pubblicare nel 2022. Il Codice è il frutto del lavoro del Comitato per la Corporate Governance, la cui attuale configurazione vede la presenza delle Associazioni di impresa (ABI, ANIA, Assonime, Confindustria), Borsa Italiana S.p.A. e Assogestioni[1]. Il Comitato, avente natura squisitamente privata nonché sprovvisto di personalità giuridica, si prefigge quale scopo istituzionale la promozione del buon governo societario delle società italiane quotate.

Il Codice di Autodisciplina italiano, dunque, a differenza di quanto avviene nelle esperienze giuridiche di molti altri Paesi, continua ad avere una caratterizzazione di stampo assolutamente privatistico e ciò spiega perché la sua adesione non possa che essere volontaria e assistita dal consueto[2] obbligo di comply or explain[3].

 

Struttura del Codice

La nuova versione del Codice di Corporate Governance ha come cardini la semplificazione, la flessibilità e la proporzionalità. A beneficiare di questa semplificazione è in primo luogo la struttura stessa del Codice, articolata in sei sezioni[4] (indicate come “Articoli”), ognuna delle quali contenente dieci principi redatti in modo sintetico, e raccomandazioni le quali indicano invece le c.d. best practice , ovvero quei comportamenti ritenuti idonei a realizzare gli obiettivi indicati nei princìpi.

Infine, il nuovo Codice introduce il concetto di “successo sostenibile” dandone la seguente definizione: “obiettivo che guida l’azione dell’organo di amministrazione e che si sostanzia nella creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società.” Si tratta di un neologismo ignoto alla precedente versione del documento (risalente al 2018) la quale si limitava alla creazione del valore per gli shareholder. L’introduzione dell’idea di sostenibilità rappresenta una novità dirompente con non poche implicazioni, tanto teoriche quanto pratiche, e ripresa a piene mani dalla Section 172 del Companies Act[5].

 

Le varie innovazioni

Al di là della rinnovata struttura, più snella e sintetica, anche il target di riferimento muta e questa mutazione avviene proprio in ragione della già citata proporzionalità, che è fra le principali direttrici di fondo della nuova stesura. Nonostante, infatti, il Codice parli in generale a tutte le società quotate, le raccomandazioni assumono varie sfumature in ragione delle dimensioni dell’impresa e le prescrizioni risultano adeguate in ragione della struttura proprietaria più o meno concentrata. I target diventano quindi, rispettivamente: le “grandi società”[6] e le “società a proprietà concentrata”[7]. Le due categorie possono interferire fra loro sovrapponendosi, nel senso che taluni trattamenti applicabili ad una società grande potrebbero venir meno qualora questa sia anche a proprietà concentrata, e viceversa.

Si tratta di un importante cambio di direzione. Mentre in passato, la proporzionalità era limitata alle sole dimensioni, il nuovo Codice di Corporate Governance desidera adattarsi alle piccole e medie imprese industriali e/o a conduzione familiare, le quali notoriamente rappresentano la spina dorsale dell’economia italiana e sostengono in modo sproporzionato i costi e gli oneri di conformità di una quotazione sul mercato.

 

Il concetto di “successo sostenibile”

Il centro nevralgico dell’innovazione del Codice di Corporate Governance del 2020 rimane, tuttavia, il successo sostenibile. Il parametro del successo sostenibile diviene quindi cardine del nuovo sistema di autodisciplina e, di conseguenza, cardine del nuovo modo di gestire una società quotata e, più in generale, di un nuovo modo di fare impresa, specialmente ad un certo livello. La sostenibilità assume quindi un ruolo rilevante in tema di remunerazioni[8] e dei compiti del comitato controllo interno e rischi[9]. L’idea che gli amministratori debbano tener conto degli interessi degli stakeholders (e quindi di quell’ampio spettro che è la categoria dei c.d. portatori di interessi) amplia, di fatto, la discrezionalità degli stessi anche in virtù della giustificazione di scelte e politiche le quali dovranno tenere conto del dialogo con gli stakeholder, laddove in precedenza il focus era interamente sugli azionisti.

Lo spostamento di questo focus, lungi dall’essere mera questione di forma o tema relegato ai dibattiti fra accademici risulta di notevole impatto sulla gestione quotidiana e di medio-lungo periodo degli emittenti.

Il principio della sostenibilità, già espresso nella Direttiva UE 17 maggio 2017, n. 828, la “Shareholder Rights Directive II” o “SRD II[10], diviene quindi guida dell’organo di amministrazione il quale, coadiuvato da un comitato consiliare ad hoc, avrà il compito di integrare gli obiettivi di sostenibilità con la predisposizione del piano industriale della Società e/o del gruppo ad essa facente capo.

A ben vedere la trasformazione alla quale assistiamo con il Nuovo Codice di Corporate Governance non è un mero riadattamento delle priorità di cui tener conto nella definizione delle politiche d’impresa. Parrebbe invece essere un vero e proprio cambio di paradigma, un mutamento culturale che sempre più lontano dalle tesi contrattualiste si muove verso, l’apparentemente inesorabile, abbraccio del pensiero istituzionalista.

 

Istituzionalismo e contrattualismo a confronto

Per comprendere la portata e la natura delle trasformazioni di cui il Nuovo Codice di Corporate Governance è stato oggetto, bisogna, tuttavia, fare un passo indietro e guardare alla storia del pensiero delle dottrine che nel tempo hanno informato l’idea stessa di impresa.

Il concetto di “impresa”, acquisito implicitamente a fondamento degli studi e della prassi aziendale, è sovente ricondotto, in modo più o meno esplicito, a due modelli di riferimento identificati rispettivamente da quello contrattuale (o contrattualistico) e da quello istituzionale (o istituzionalistico).

Per comprendere l’essenza di questi due, diversi, approcci è necessario andare indietro nel tempo. Il dibattito sull’interesse sociale, infatti, storicamente nasce e si sviluppa per dare risposta ai problemi posti dallo sviluppo della grande impresa. Quest’ultima, sovente costituita nella forma di una società per azioni, presenta la nota e peculiare caratteristica della dissociazione fra proprietà e controllo e attribuisce agli organi direttivi il potere di pianificazione.

È proprio che in questo quadro che, nella Germania del primo dopoguerra, si impone la teoria istituzionalista[11] dell’interesse sociale.  Fondatore della teoria istituzionalista viene generalmente considerato Walther Rathenau. Nella visione di Rathenau[12],  l’impresa di grandi dimensioni si stacca dai soci proprietari e dai loro interessi privati, per assumere rilevanza propria, come elemento dell’economia collettiva.

L’impresa “rathenauiana” ha quindi lo scopo di produrre ricchezza per la comunità, di migliorare la tecnica e dare impulso al progresso scientifico e, ovviamente, di offrire lavoro. È quindi evidente come questi obiettivi, che Rathenau fra propri dell’impresa in quanto tale, siano posti in funzione della società, o comunque della comunità di riferimento. A un simile approccio non può che seguirne la fisiologica visione antagonistica del piccolo azionista, del risparmiatore, il quale, nel perseguimento del proprio (dalla legge riconosciuto e tutelato) immediato e personale guadagno distoglie gli utili dal perseguimento dell’interesse generale.

La visione di Rathenau sarebbe stata poi tradotta nella teoria dell’Unternehmen an sich[13][14]. In particolare uno dei punti fondamentali di tale teoria, quello dell’affermazione dell’indipendenza e della superiorità dell’organo amministrativo rispetto a quello assembleare[15], sarà più tardi ripreso dalla dottrina nazionalsocialista del Reich quale espressione del Führerprinzip[16] in ambito di diritto societario.

Nel quadro descritto dalla visione di Rathenau prima e dalla sua formulazione dottrinale completa come “teoria dell’azienda in sé” poi, l’impresa perde inevitabilmente la sua natura di strumento di massimizzazione dell’utilità privata ed espressione dello sforzo creativo dell’imprenditore diventando il luogo di incontro e composizione di interessi eterogenei appartenenti ad altrettanto eterogenei soggetti, perlopiù estranei ai processi decisionali dell’impresa.

Nella dottrina contrattualista, di contro, muove da tutt’altre premesse. L’interesse sociale è definito dalle formulazioni contrattualiste come l’interesse comune dei soci in quanto tali. Si tratta dell’interesse al conseguimento dell’utile, che rimane quindi lo scopo primario della società. Rispetto all’utile, l’oggetto sociale, assume funzione strumentale ponendosi in rapporto di mezzo a fine.

La teoria contrattualista dell’interesse sociale trova moderna espressione nella teoria dello Shareholder Value[17], la quale identifica l’interesse sociale con l’aumento del valore reale delle azioni.

 

Il superamento della contrapposizione classica

Pur apparendo sostanzialmente come una riproposizione dell’ormai risalente lettura istituzionalistica dell’interesse sociale quale difesa della Unternehmen an sich, la tesi che pone al centro l’interesse degli stakeholder ha trovato accoglimento nell’ordinamento inglese, nella forma del già citato Companies Act del 2006. In ciò emerge il carattere anacronistico dell’odierna contrapposizione fra istituzionalismo e contrattualismo e anche lo stesso antagonismo fra le odierne teorie della shareholder value e della stakeholder value[18] non rispecchia in pieno la profonda diversità ideologica che caratterizzava la contrapposizione fra le posizioni classiche.

L’odierno spostamento di focus dalla Shareholder Value in favore della c.d Share Value[19], non fa che confermare quanto detto finora e come il confine risulti sempre più sfumato. Certamente la contrapposizione tra istituzionalismo e contrattualismo non può dirsi del tutto superata, ma superata pare essere la loro antinomia.

Laddove il focus per la creazione di valore per l’azionista lascia spazio alla massimizzazione del valore dell’azione in sé, altresì rimane compatibile con l’interesse dell’azionista di medio-lungo periodo. A restarne escluso pare, ancora una volta, il piccolo risparmiatore, disinteressato alle vicende della società. Tuttavia questa figura, considerata come vero e proprio elemento di disturbo dalle tesi dell’istituzionalismo classico è oggi non più incompatibile con una visione dell’impresa, anche e soprattutto di grandi dimensioni, attenta a questione “altre” rispetto all’esclusiva massimizzazione del valore per l’azionista.

Questa, infatti, riconosce al piccolo risparmiatore la possibilità di ridare dignità alla componente amministrativa del pacchetto di diritti spettantegli attraverso il ruolo svolto dagli investitori istituzionali. Tali soggetti esercitano al posto di suddetti azionisti i rispettivi diritti di voto, supplendo all’assenza di interesse per gli aspetti strategici di medio-lungo periodo tipica del piccolo risparmiatore che detiene una modesta, spesso infinitesimale, frazione della proprietà.

 

Conclusioni sul Codice di Corporate Governance

È quindi corretto affermare che il Nuovo Codice di Corporate Governance del 2020 abbia abbracciato le tesi istituzionaliste distaccandosi dal pensiero contrattualista, espressione del liberalismo classico? In parte sì, in parte no. La nozione di “successo sostenibile” di cui il nuovo codice è informato appare comunque più riconducibile alla teoria dello shareholder value (o meglio dello “Share Value”) che alle imperative ed estreme tesi istituzionaliste classiche. Le stesse pratiche di Corporate Social Responsibility, che pure trovano riscontro, al di fuori dell’ambito dell’autodisciplina, in interventi di matrice nazionale ed europea, continuano a risultare strumentali al perseguimento dello scopo di lucro, alla massimizzazione del valore per gli azionisti.

In ultima istanza, quindi, la valutazione e il perseguimento anche di interessi-altri rimane, ad oggi, pur sempre profit-oriented. Certamente non è possibile ignorare che l’introduzione dell’idea di “successo sostenibile” comporti, sul piano pratico, non poche conseguenze (come già si è discusso). Tuttavia, per provare a dare una risposta al quesito in merito al posizionamento del Nuovo Codice di Corporate Governance all’interno del dibattito fra le due scuole di pensiero discusse, andrebbe in primo luogo presa coscienza che l’originale, netta, antinomia fra contrattualismo e istituzionalismo come la conoscevamo oggi non esiste più e lo stesso concetto di Shareholder value esprime come l’obiettivo della massimizzazione del valore per gli azionisti non neghi in sé il perseguimento (o almeno il tener conto) di obiettivi e interessi “altri”, quelli degli stakeholder[20].

Ciò che è possibile affermare con certezza è che le tesi del contrattualismo e dell’istituzionalismo nella loro forma pura paiono oggi inadeguate a rappresentare le tendenze attuali, cedendosi reciprocamente il passo. Laddove l’idea di interesse sociale come inteso dai contrattualisti strictu sensu risulta in parte abbandonata, al contempo la creazione di valore per gli azionisti rimane perno della disciplina. Allo stesso modo, laddove lo spirito di responsabilità sociale d’impresa, tipico della scuola istituzionalista, è riuscito a farsi strada anche nel pensiero anglosassone[21] conquistandosi una certa rilevanza (che va detto, è crescente) questo rimane confinato al ruolo di strumento, di mezzo, senza mai innalzarsi davvero (specie nella pratica) a fine, come invece predicato da Rathenau e dalla scuola di pensiero dell’ Unternehmen an sich.

Informazioni

F. Baracchini, La Tutela del socio e delle minoranze, Giappichelli Editore, 2018

N. Facchin, Interesse sociale nella società per azioni: teoria istituzionalista e teoria contrattualista, Facchin Studio Legale, 2018

C. Galloro, “Unternehmen an sich: la impresa in sé tra potere gestionale e diritto di partecipazione” in Norme internazionali e comunitarie sulle società commerciali, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012

CAMMINO DIRITTO, L’impresa societaria tra Corporate Social Responsibility e Shareholder Value, estratto dal n.10 anno 2019

M. Palmieri, L’interesse sociale: dallo shareholder value alle società benefit

[1] L’Associazione degli investitori professionali.

[2] Nell’ambito dell’autodisciplina.

[3] Il principio richiede che le società quotate sui mercati che si discostano dal Codice disciplinare societario, la cui adesione è volontaria, siano chiamate a spiegare le ragioni di tale scelta, in un’ottica di trasparenza e buon governo delle società.

[4] Nella prima versione erano ben dieci le sezioni.

[5] Il Companies Act 2006 (c 46) è un atto del Parlamento del Regno Unito che costituisce la fonte primaria del diritto societario del Regno Unito. La legge è entrata in vigore in più fasi, con la disposizione finale iniziata il 1° ottobre 2009. Ha sostituito il Companies Act 1985. La legge fornisce un codice completo di diritto societario per il Regno Unito e ha apportato modifiche a quasi ogni aspetto della legge in relazione alle società.

[6] Società con capitalizzazione superiore a un miliardo di euro alle fine dei tre esercizi precedenti

[7] Emittenti nelle quali uno o più soci, partecipanti a un patto di sindacato di voto dispongono, anche indirettamente, della maggioranza dei voti esercitabili nelle assemblee ordinarie.

[8] Potendo giustificare la restituzione di componenti variabili delle stesse.

[9] Arricchendo lo spettro informativo, anche non finanziario, che il comitato è chiamato a valutare.

[10] Della quale si era già parlato in tema di proxy advisors: Il Proxy Advisor nelle società quotate – DirittoConsenso

[11] Il fulcro del pensiero istituzionalista si sostanzia nell’affermazione dell’interesse dell’impresa in sé come predominante su qualunque altro interesse, incluso quello degli stessi soci.

[12] Uomo politico e imprenditore tedesco, nonché Ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar.

[13] Letteralmente traducibile con “Azienda in sé”.

[14] L’essenza di suddetta teoria può essere riassunta nei seguenti assunti che ne costituiscono il perno:

  1. Affidamento del controllo dell’impresa ad un organo stabile e slegato dalle “mutevoli maggioranze di mutevoli azionisti”;
  2. Identificazione di un obiettivo dell’azienda in sé nella maggiore efficienza produttiva dell’impresa stessa;
  3. I diritti degli azionisti (agli utili, alle informazioni ecc.) sono riconosciuti e tutelati soltanto in quanto esercitati in conformità al superiore interesse dell’impresa medesima;
  4. Accentuata impostazione pubblicistica che si traduce nella visione della società per azioni (forma giuridica tipica della grande impresa) come ingranaggio dell’economia collettiva. L’interesse della società è il perseguimento dell’interesse generale, trascendendo, quindi, quello del singolo azionista o imprenditore.

[15] In quanto il primo vero interprete delle esigenze dell’impresa come meccanismo dell’economia collettiva.

[16] La  teoria dell’Unternehmen an sich verrà quindi  recepita dalla stesura originale dell’Aktiengesetz[16] tedesco del 1937, al cui interno spicca il § 70, il quale impone all’organo amministrativo (Vorstand), sotto la propria responsabilità, di dirigere la società secondo quanto è richiesto dal bene dell’impresa (Wohl des Betriebs) e dei dipendenti di essa (Gefolgschaft), nonché dall’interesse comune della nazione e del Reich.

[17] Letteralmente “Valore per gli azionisti”, è un termine commerciale, a volte espresso come massimizzazione del valore per gli azionisti o come modello di valore per gli azionisti, il che implica che la misura ultima del successo di un’azienda è la misura in cui arricchisce gli azionisti. È diventato importante negli anni ’80 e ’90 insieme al principio di gestione basato sul valore o “gestione per valore”.

[18] Il valore per gli stakeholder implica la creazione del livello ottimale di rendimento per tutti gli stakeholder di un’organizzazione. Questo è un concetto più ampio rispetto al più comune valore per gli azionisti, che di solito si concentra solo sulla massimizzazione dei profitti netti o dei flussi di cassa.

[19] Con l’espressione “Share Value” si fa infatti riferimento alla creazione di una struttura societaria volta alla stabilità dell’impresa, alla responsabilità di gestione e alla tutela di tutti gli interessi in essa coinvolti.

[20] In economia il portatore d’interessi (in inglese stakeholder, letteralmente «titolare di una posta in gioco») o interessato è genericamente qualsiasi soggetto (o un gruppo) influente nei confronti di una iniziativa economica, una società o un qualsiasi altro progetto. Fanno dunque parte di tale insieme clienti, fornitori, finanziatori (es. banche e azionisti, o shareholder), collaboratori, dipendenti, ma anche gruppi di interesse locali o esterni, come i residenti di aree limitrofe a un’azienda e le istituzioni statali relative all’amministrazione locale.

[21] Storicamente avverso alle tesi istituzionaliste.


Proxy advisor

Il Proxy Advisor nelle società quotate

La disciplina dei proxy advisor: cosa sono, che ruolo svolgono e quale impatto hanno sulle scelte di voto

 

La nozione di proxy advisor

I proxy advisor[1] sono società specializzate nell’analisi delle informative societarie e nel fornire consulenza agli investitori su come votare all’assemblea generale degli azionisti. Poiché gli investitori istituzionali e i gestori attivi detengono generalmente nei propri portafogli un gran numero di partecipazioni in società, i proxy advisors svolgono un ruolo fondamentale nel fornire utili raccomandazioni di voto, soprattutto in caso di partecipazioni transfrontaliere.

L’investimento in una società coinvolge vari aspetti del processo decisionale. Infatti, se da un lato le decisioni aziendali quotidiane di una società per azioni risultano, in ultima istanza, una responsabilità della direzione e del consiglio di amministrazione, gli azionisti votano su una serie di questioni importanti che possono influire sul valore delle loro azioni. Tale voto, rappresentante l’aspetto amministrativo dei diritti riconosciuti all’azionista, si manifesta nell’assemblea dei soci. L’assemblea, in particolare quella ordinaria, ha competenza su una serie di temi di fondamentale rilevanza, quali, fra gli altri: la nomina e la revoca degli amministratori, dei sindaci e del presidente del collegio sindacale, determina il compenso di amministratori e sindaci[2] e approva il bilancio. Inoltre, alla luce del principio della passivity rule (o board neutrality) l’assemblea delibera in merito all’adozione di strategie difensive in caso la quotata diventi target di un’OPA[3].

La presenza dei tipici costi di agenzia[4], legati al rapporto tra principal (proprietà-investitore) e agent (controllo-amministratore), unita alla peculiare posizione degli investitori istituzionali determina, per questi ultimi, elevati costi da sostenere in termini di due diligence ed esercizio informato del voto, accentuato dal fatto che tali investitori detengono partecipazioni in società eterogenee e inquadrate in ordinamenti giuridici spesso diversi gli uni dagli altri. Ciò ha portato all’emergere delle società di consulenza per delega (le c.d proxy firms) come input fondamentali per gli investitori istituzionali. Queste società, a loro volta, hanno una notevole influenza sull’esito delle deleghe aziendali nonché sulle decisioni di governance assunte dalle società.

La figura del proxy advisor nasce nell’esperienza societaria statunitense, ma si è progressivamente affermata anche in ambito europeo trovando regolamentazione dapprima nella c.d Shareholders Rights Directive o SHRD[5] e successivamente nella Direttiva (UE) 2017/828, nota come Shareholders Rights Directive II[6]. La figura dei proxy advisors è espressamente presa in considerazione dalla Proposta della Commissione Europea di modifica della Direttiva sui diritti degli azionisti[7]. Tale Proposta, che diverrà la pietra angolare su cui poggerà la SHRDII, muove dall’assunto che la consulenza nel voto sia un istituto rientrante nella sfera tematica della disciplina societaria e che la sua funzione consista nel ridurre i costi di agenzia indotti dal gap tra gli interessi degli amministratori e quelli dei soci.

 

Il proxy advisor nel quadro normativo europeo

Come accennato, i due punti chiave nella disciplina europea dei proxy advisors sono la SHRD e la SHRDII. In particolare quest’ultima, emendando la precedente, riconosce che i consulenti in materia di voto, alla luce della loro importanza, debbano essere soggetti a particolari requisiti di trasparenza e rimette agli Stati Membri il dovere di assicurare che i consulenti siano soggetti a un codice di condotta sulla cui efficace implementazione gli stessi saranno chiamati a riferire.

La trasparenza è dunque alla base dell’intervento del legislatore europeo del 2017, che si preoccupa di specificare all’Art.3-undecies come i consulenti in materia di voto (vale a dire i proxy advisors) debbano comunicare al pubblico (tramite messa a disposizione sul proprio sito internet) una lista di informazioni in relazione all’elaborazione delle loro ricerche, dei loro consigli e delle loro raccomandazioni di voto, che lungi dall’avere presunzione di completezza detta invece standard minimi di trasparenza. Tali informazioni riguardano:

  1. le caratteristiche essenziali delle metodologie e dei modelli applicati;
  2. le principali fonti di informazione utilizzate;
  3. le procedure messe in atto per garantire la qualità delle ricerche, dei consigli e delle raccomandazioni di voto nonché le qualifiche del personale coinvolto;
  4. se e in che modo tengono conto delle condizioni giuridiche, regolamentari e del mercato nazionale nonché delle condizioni specifiche delle società;
  5. le caratteristiche essenziali delle politiche di voto applicate per ciascun mercato;
  6. se intrattengono un dialogo con le società oggetto delle loro ricerche, dei loro consigli o delle loro raccomandazioni di voto e con i portatori di interesse della società e, in caso affermativo, la portata e la natura del dialogo;
  7. la politica relativa alla prevenzione e alla gestione dei potenziali conflitti di interesse.

 

Il legislatore italiano ha recepito l’impulso della Direttiva 2017/828 attraverso il D.lgs. 10 maggio 2019, n. 49[8], il quale ha modificato il Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (TUF) in particolare con riguardo agli artt. 124-quater e 124-octies introducendo una precisa definizione di “consulenti in materia di voto” e prevedendo a carico di questi particolari obblighi di trasparenza.

In particolare l’art. 124-quater TUF definisce come “consulente in materia di voto” un “soggetto che analizza, a titolo professionale e commerciale, le informazioni diffuse dalle società e, se del caso, altre informazioni riguardanti società europee con azioni quotate nei mercati regolamentati di uno Stato membro dell’Unione Europea nell’ottica di informare gli investitori in relazione alle decisioni di voto fornendo ricerche, consigli o raccomandazioni di voto connessi all’esercizio dei diritti di voto.”

In base alle nuove disposizioni poi, l’art. 124-octies TUF, rubricato “Trasparenza dei consulenti in materia di voto”, prevede che:

  • gli investitori istituzionali e i gestori attivi siano tenuti ad adottare una politica di impegno che descriva le modalità di monitoraggio e dialogo con le società nelle quali detengono partecipazioni. Tale politica di impegno, inoltre, deve essere oggetto di una comunicazione annuale sulla base del noto principio comply or explain.
  • i consulenti in materia di voto debbano pubblicare annualmente una relazione il cui contenuto minimale comprende la portata e la natura del dialogo, se del caso intrattenuto con le società oggetto delle loro ricerche e raccomandazioni, l’eventuale adesione a un codice di comportamento o, qualora non ne adottino uno, le ragioni della mancata adesione. Su tali soggetti, inoltre, la Consob può esercitare i poteri previsti dagli artt. 114 commi 5 e 6 Tuf[9] e 115 comma 1, lett. a)b), e c)[10].

A completamento delle nuove previsioni introdotte con il D.lgs. n.49/2019 il legislatore dispone un corredo sanzionatorio che prevede sanzioni amministrative pecuniarie[11], eventualmente convertibili[12] nell’ordine di eliminare le infrazioni contestate, anche indicando le misure da adottare e il termine per l’adempimento.

 

L’impatto dei proxy advisors sulle scelte degli azionisti

Uno studio condotto nel Quaderno di Finanza n.81 dell’Aprile 2015 di Consob[13] ha analizzato l’attività dei proxy advisor e il suo impatto sulle scelte degli azionisti in termini di voto, ponendo l’accento sulle modalità di voto delle politiche di remunerazione degli amministratori (c.d say-on-pay)[14]. Dall’analisi condotta sono emersi alcuni spunti particolarmente interessanti.

In particolare cattura l’attenzione lo scostamento tra il dissenso degli azionisti (basso, in linea con altri paesi) e quello degli investitori istituzionali (che è, invece, particolarmente alto) in riferimento alle politiche di remunerazione. All’interno della stessa categoria degli investitori istituzionali, tuttavia, emerge un’ulteriore discrimen[15]che vede i c.d non-blockholders[16] essere maggiormente soggetti all’influenza dei proxy advisors, a differenza di quanto accade con i blockholders (detentori di partecipazioni rilevanti), i quali in virtù degli incentivi dati dalla loro stessa posizione tendono a procedere con proprie attività di ricerca, risultando, quindi, meno sensibili alle raccomandazioni dei proxy advisors. Risulta chiaro che il voto espresso dagli investitori istituzionali è fortemente correlato all’attività svolta dai proxy advisors, con sfumature di incidenza che variano a seconda del grado di partecipazione dell’investitore.

Con riguardo all’ampiezza dell’incisività che le raccomandazioni dei proxy advisor hanno sulle scelte degli investitori, emerge come questi ultimi non facciano un uso passivo delle raccomandazioni dei consulenti, esauribile in una riproposizione pedissequa dei suggerimenti dei consulenti, bensì si focalizzino su specifiche criticità che reputano di particolare rilevanza. Nello specifico queste hanno ad oggetto la struttura della remunerazione e il suo rapporto con la creazione di valore nel lungo periodo nonché l’entità dei trattamenti di fine rapporto.

Sul piano comparativo, alcune stime preliminari evidenziate nel Quaderno, parrebbero suggerire che in Italia l’effetto delle raccomandazioni dei proxy advisors sul voto degli investitori istituzionali è altrettanto forte, se non maggiore, di quello osservato nell’esperienza statunitense. Tale visione risulta coerente con il panorama degli assetti proprietari italiani, nel quale gli investitori esteri con portafogli diversificati hanno assunto forte rilevanza nelle assemblee societarie[17]. Ciò è particolarmente vero nel caso del piccole-medie imprese (PMI), per le quali il rapporto fra costi di accesso alle informazioni e costo-beneficio del loro utilizzo può risultare sconveniente.

 

Conclusioni

La figura del proxy advisor, lungi dall’essere relegata all’esperienza statunitense, ha fatto da tempo ingresso nel panorama societario europeo parallelamente all’ascesa, anche nel Vecchio Continente, degli investitori istituzionali ai vertici delle compagini azionarie degli emittenti quotati. In Italia, inoltre, l’impatto delle raccomandazioni dei consulenti in materia di voto risulta essere ancora più determinante di quanto non lo sia negli Stati Uniti, coerentemente con un sistema che vede un crescente peso degli investitori internazionali esteri[18] con portafogli diversificati nelle società di maggiori dimensioni. Questi ultimi, realisticamente, non possono conoscere approfonditamente le numerose società nelle quali investono, dovendo per tale ragione fare affidamento sui consulenti di voto, o proxy advisor. Alla luce di ciò è realistico aspettarsi che la figura del proxy advisor, già emersa nel dibattito continentale grazie ai due interventi del legislatore europeo, acquisirà sempre maggiore rilevanza all’interno delle dinamiche del governo societario degli emittenti quotati.

Informazioni

M. Belcredi, S. Bozzi, A. Ciavarella, V. Novembre; Proxy advisors and shareholder engagement, CONSOB, Quaderni di Finanza n.81 Aprile 2015.

P. Marchetti, F. Ghezzi, M. Ventoruzzo, C. Mosca, M. Bianchi, M. Milic, Uno sguardo alla governance delle società quotate italiane, Rivista delle Società, Giuffrè Editore, 2018.

Alessandra Daccò, Il ruolo degli investitori nella governance delle società, Il Testo Unico Finanziario, Zanichelli, 2020.

COMMISSIONE EUROPEA, Shareholders’ rights directive Q&A (europa.eu)

HARVARD LAW SCHOOL FORUM ON CORPORATE GOVERNANCE, Proxy Advisory Firms, Governance, Failure, and Regulation (harvard.edu)

ASSONIME, News14062019 (assonime.it)

[1] Spesso tradotto con l’espressione “consulente in materia di voto”.

[2] Ove non sia lo statuto a determinarlo.

[3] Sul tema si veda: E. Wang, L’Offerta Pubblica d’Acquisto, in DirittoConsenso, L’Offerta Pubblica d’Acquisto – DirittoConsenso

[4] I costi di agenzia sono un tipo di costo interno che un principal può sostenere a causa del problema dell’agenzia, o agency problem. Includono i costi di eventuali inefficienze che possono derivare dall’assunzione di un agent per portare a termine un determinato compito, insieme ai costi associati alla gestione del rapporto principal-agent e alla risoluzione delle diverse priorità, che possono venire a confliggere, dando luogo a un conflitto di interessi.

[5] DIRETTIVA 2007/36/CE relativa all’esercizio di alcuni diritti degli azionisti di società quotate.

[6] Che modifica la DIRETTIVA 2007/36/CE per quanto riguarda l’incoraggiamento dell’impegno a lungo termine degli azionisti.

[7] Nel testo che tiene conto sia degli emendamenti proposti dal Consiglio Europeo, sia della posizione espressa dal Parlamento Europeo nel luglio 2015.

[8] In attuazione della direttiva 2017/828 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 maggio 2017, che modifica la direttiva 2007/36/CE per quanto riguarda l’incoraggiamento dell’impegno a lungo termine degli azionisti.

[9] Potere di richiedere notizie e documenti necessari per l’informazione al pubblico.

[10] Potere di chiedere la comunicazione di notizie e documenti, di assumere notizie, di eseguire ispezioni.

[11] Per importo non inferiore a duemilacinquecento euro e non superiore a centocinquantamila euro.

[12] Quando le violazioni sono connotate da scarsa offensività o pericolosità.

[13] I “Quaderni di finanza” accolgono lavori di ricerca volti a contribuire al dibattito accademico su questioni di economia e finanza. Le opinioni espresse nei lavori sono attribuibili esclusivamente agli autori e non rappresentano posizioni ufficiali della Consob, né impegnano in alcun modo la responsabilità dell’Istituto.

[14] Utilizzando i dati sul voto espresso da ogni singolo azionista sulle politiche di remunerazione adottate dalle società quotate italiane nel 2012 e sui giudizi in materia espressi dai due principali PA attivi sul mercato italiano.

[15] Distinzione, divisione, punto di separazione.

[16] Investitori istituzionali con quote di partecipazioni inferiori alle soglie di comunicazione al mercato. Si tratta prevalentemente fondi pensione e fondi comuni con un portafoglio molto diversificato a livello internazionale.

[17] P. Marchetti, F. Ghezzi, M. Ventoruzzo, C. Mosca, M. Bianchi, M. Milic, Uno sguardo alla governance delle società quotate italiane, Rivista delle Società, Giuffrè Editore, 2018.

[18] Gli investitori istituzionali italiani sono con maggior frequenza azionisti rilevanti di imprese di piccole dimensioni e operanti nel settore industriale, mentre quelli esteri sono presenti soprattutto in società finanziarie e a elevata capitalizzazione (come illustrato dal Report del 2018 di Consob sulla corporate governance delle società quotate italiane).