Competenza del Tribunale Amministrativo Regionale (TAR)

La competenza del Tribunale Amministrativo Regionale (TAR)

Analisi del funzionamento della competenza del Tribunale Amministrativo Regionale (TAR): territoriale, per materia e funzionale

 

Introduzione: la competenza del Tribunale Amministrativo Regionale

Con il termine competenza si indica la porzione di potestà giurisdizionale attribuita ai tribunali all’interno della stessa giurisdizione. In base al criterio oggettivo, la competenza indica la parte di giurisdizione riservata al giudice; il criterio soggettivo riguarda la facoltà del giudice di prendere cognizione di una certa controversia. Inoltre, dato che nel processo amministrativo è previsto il doppio grado di giudizio, con il termine competenza si individua anche la porzione di potestà giurisdizionale attribuita al Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) e al Consiglio di Stato, giudice di secondo grado.

I criteri per individuare la competenza del Tribunale Amministrativo Regionale rispondono all’esigenza di organizzare e suddividere il lavoro tra i diversi uffici dell’amministrazione della giustizia. I criteri in base ai quali la giurisdizione viene suddivisa sono tre:

  1. la competenza territoriale;
  2. la competenza per materia;
  3. la competenza funzionale.

 

La competenza per territorio

La disciplina relativa a questa competenza è codificata all’articolo 13 del Codice del Processo Amministrativo.

La competenza è territoriale quando il giudice viene investito di una certa controversia in ragione del collegamento di questa con un certo ambito territoriale. Il principio cardine di questa materia è il criterio della sede, ovvero il TAR è competente per le controversie che riguardano provvedimenti, atti o comportamenti di pubbliche amministrazioni con sede nella circoscrizione territoriale del tribunale.

Nel caso in cui il criterio della sede non sia sufficiente a dirimere la questione relativa alla competenza per territorio, l’articolo 13 prevede che venga adito il TAR nella cui circoscrizione vengano prodotti gli effetti diretti di provvedimenti, atti o comportamenti delle pubbliche amministrazioni.

Per quanto concerne atti statali, quindi con effetti diretti non limitati a un singolo territorio regionale, il tribunale competente è sempre il TAR del Lazio.

L’ultima casistica presa in considerazione dell’articolo 13 riguarda il caso in cui vi sia una sequenza procedimentale di atti, anche con rilievo autonomo, ma non statali o generali. In questa fattispecie la competenza è attribuita al TAR al quale spetta decidere sull’atto applicativo.

Il Codice del Processo Amministrativo statuisce che la competenza del Tribunale Amministrativo Regionale individuata per territorio è inderogabile, quindi non può essere modificata la competenza di un tribunale regionale neanche previo accordo delle parti.

 

La competenza per materia

Il codice del processo amministrativo all’articolo 14 ha individuato delle materie che spettano in via esclusiva a determinati tribunali amministrativi regionali in ragione delle loro particolarità e complessità.

Questa competenza è finalizzata a valorizzare le particolari specializzazioni che ogni singolo TAR ha acquisito in ordine a determinate materie. Questa competenza impone di disapplicare i principi di attribuzione generale in favore di criteri di collegamento fondati su logiche diverse. La competenza per materia è riconducibile al regime di inderogabilità.

Queste materie vengono divise esclusivamente tra TAR del Lazio e della Lombardia.

Il TAR del Lazio è competente per le controversie relative i provvedimenti dei magistrati ordinari, i provvedimenti dell’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato e per quelli dell’Autorità per le garanzie delle Comunicazioni, per i provvedimenti relativi alla materia delle comunicazioni elettroniche. Più in generale, la competenza per materia del TAR del Lazio riguarda le materie elencate all’articolo 135 del Codice del Processo Amministrativo.

Le materie attribuite alla competenza del TAR della Lombardia in via esclusiva riguardano i poteri e i provvedimenti adottati dall’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico.

 

La competenza funzionale

La competenza funzionale è stata prevista con riferimento alle situazioni nelle quali si immagina che soltanto un giudice possa essere in grado di definire la controversia in relazione alla posizione che questo stesso giudice ha assunto nell’organizzazione giurisdizionale.

Così, il Codice del Processo Amministrativo all’articolo 14 statuisce che la competenza del Tribunale Amministrativo Regionale sia inderogabile per il giudizio di ottemperanza. La regola generale è che ciascun giudice amministrativo sia competente all’ottemperanza delle proprie pronunce. È altresì previsto che il TAR sia competente all’ottemperanza delle proprie sentenze confermata in appello con la motivazione che abbia lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado. Il TAR ha anche la competenza all’ottemperanza delle sentenze del giudice ordinario, dei giudici per i quali non è previsto il rimedio dell’ottemperanza e dei lodi arbitrali.

Inoltre, al Consiglio di Stato è attribuita la competenza di giudice di appello[1].

 

Il regolamento di competenza

L’articolo 15 del Codice del Processo Amministrativo disciplina il regolamento di competenza nel caso in cui sorgano delle questioni relative all’attribuzione della competenza a un determinato tribunale regionale.

Il Codice statuisce che la questione relativa all’attribuzione della competenza può essere rilevata d’ufficio fino a quando la controversia non sia decisa in primo grado.

Nel caso in cui venga contestata la competenza del Tribunale Amministrativo Regionale adito, il giudice interessato della questione deve pronunciarsi sulla competenza con un’ordinanza, nella quale deve anche specificare il tribunale che ritiene competente. La causa può essere riassunta davanti al tribunale indicato nel termine perentorio di 30 giorni, in questo modo il processo continua nella sua esecuzione davanti al giudice competente.

Nel caso in cui si contesti l’ordinanza del tribunale, l’interessato può proporre istanza di regolamento davanti al Consiglio di Stato. Quest’ultimo decide sul regolamento con ordinanza in Camera di Consiglio e la decisione sarà vincolante per i tribunali ammnistrativi regionali coinvolti.

Informazioni

Gallo, “Giustizia amministrativa”, Giappichelli editore, 2020.

Guacci, “La competenza nel processo amministrativo”, Giappichelli editore, 2018.

D’Orazi, “La competenza del giudice amministrativo ed il regime di rilevabilità dell’incompetenza”. Link: https://www.ildirittoamministrativo.it/La-competenza-del-giudice-amministrativo-ed-il-regime-di-rilevabilita-incompetenza/stu572

[1] Per approfondire come si svolge e quali siano i principali passaggi del processo amministrativo: http://www.dirittoconsenso.it/2020/11/30/uno-schema-sul-processo-amministrativo/


Principio della trasparenza

Il principio della trasparenza

Analisi del principio della trasparenza e degli istituti che garantiscono una corretta applicazione dello stesso

 

Cos’è e come opera il principio della trasparenza?

Il principio della trasparenza è uno dei principi cardine dell’azione della pubblica amministrazione.

Nell’impianto legislativo la trasparenza viene definita come: “accessibilità totale dei dati e dei documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche.”.

Il principio della trasparenza, declinato come libertà di accesso di chiunque, è assicurato attraverso due strumenti:

  • la pubblicazione, e
  • l’accesso civico.

 

Il principio della trasparenza come espressione della lotta alla corruzione

Nel quadro legislativo il principio della trasparenza non è solo strumentale alla tutela dei diritti dei cittadini e a promuovere la partecipazione degli stessi nei procedimenti amministrativi. L’entrata in vigore della normativa in tema di lotta all’illegalità e alla corruzione ha arricchito l‘ambito operativo del principio della trasparenza rendendolo anche funzionale alla lotta alla corruzione.

Il presupposto di questa nozione più ampia della trasparenza è che nell’oscurità si annidano comportamenti di mala gestione. Per questo motivo, l’obiettivo del legislatore è di portare alla luce l’intero operato della pubblica amministrazione al fine di evitare dei comportamenti illeciti e corruttivi[1].

Il principio della trasparenza diventa così uno strumento per assicurare la democrazia e garantire il corretto funzionamento della pubblica amministrazione.

 

La pubblicazione

Il primo strumento che garantisce la corretta applicazione del principio della trasparenza è la pubblicazione di determinati documenti e informazioni.

La pubblicazione è realizzata nei siti istituzionali ove vengono inseriti dati e informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni. Sui siti web delle pubbliche amministrazioni troviamo pubblicati documenti inerenti al bilancio, ai conti consultivi, all’affidamento di lavori, forniture e servizi nonché alla concessione ed erogazione di sussidi e sovvenzioni, e tanto altro ancora.

A questo obbligo di pubblicazione corrisponde un diritto di chiunque di accedere ai siti direttamente ed immediatamente, ovvero senza autentificazione ed identificazione.

I documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria devono essere pubblicati tempestivamente sui siti istituzionali e devono essere mantenuti aggiornati. Questa pubblicazione deve essere assicurata per un periodo di 5 anni. Decorso questo periodo di tempo, i documenti rimarranno comunque accessibili mediante l’altro strumento che garantisce la trasparenza: l’accesso civico.

 

L’accesso civico

L’accesso civico nel nostro ordinamento è stato introdotto con il d.lgs. 33/2013 e si configura come un vero e proprio diritto in capo a chiunque.

L’accesso civico può essere:

  • semplice e incondizionato: viene riconosciuto in capo a chiunque la legittimazione ad accedere a dati, informazioni e documenti oggetto della pubblicazione obbligatoria. Questo strumento rafforza l’obbligo di pubblicazione in capo all’amministrazione stessa;
  • generalizzato: riconosce un diritto in capo a chiunque di accedere ai dati e ai documenti ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione.

 

In entrambi i casi, non vi è alcuna limitazione relativa alla legittimità soggettiva. L’accesso civico, pertanto, è un diritto e una prerogativa che può essere esercitata da chiunque, pur in assenza di un concreto e reale interesse.

Entrambe le fattispecie assicurano il principio della trasparenza, favorendo forme di controllo diffuso sull’operato della pubblica amministrazione e assicurando la partecipazione dei cittadini nell’operato della pubblica amministrazione.

 

Trasparenza e riservatezza

Il principio di trasparenza può entrare in conflitto con la riservatezza.

Per quanto riguarda l’istituto della pubblicazione obbligatoria, le pubbliche amministrazioni, pur essendo obbligate per legge a pubblicare il tutto, mascherano i dati sensibili e giudiziari, la cui conoscenza risulti non indispensabile ai fini della trasparenza.

Regime diverso viene applicato nel caso in cui siano presenti nei documenti oggetto di pubblicazione dei dati personali. Le pubbliche amministrazioni mascherano soltanto i dati personali non pertinenti.

Per l’istituto dell’accesso civico, il diritto d’accesso[2] è disciplinato dal Codice in materia di protezione dei dati personali, che è stato emanato con il d.lgs. 196/2003. La regola generale dell’istituto è che deve essere garantito l’accesso ai documenti amministrativi se necessario a curare o difendere interessi giuridici.

L’accesso a documenti che contengono dati sensibili o giudiziari è consentito solo qualora sia strettamente indispensabile. Il giudizio sull’indispensabilità spetta all’amministrazione stessa.

L’accesso ai documenti che contengono dati inerenti alla salute e la vita sessuale, ovvero i dati super sensibili, è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato. Questa regola comporta che i diritti che si vogliono tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi devono essere diritti della personalità o altri diritti o libertà inviolabili e fondamentali.

 

Come funziona in concreto il principio della trasparenza?

Per vedere concretamente il funzionamento del principio della trasparenza è molto semplice: basta cercare un sito web istituzionale di una pubblica amministrazione. All’interno della home page c’è un’apposita sezione denominata “Amministrazione Trasparente” dove sono pubblicate e tenute aggiornate tutte queste informazioni.

Informazioni

E. Casetta, Manuale di Diritto Amministrativo, ultima edizione, Giuffrè

[1] Per approfondire il tema della lotta alla corruzione nella pubblica amministrazione: http://www.dirittoconsenso.it/2020/10/08/lotta-alla-corruzione-pubblica-amministrazione/

[2] Per approfondire il tema del diritto d’accesso: http://www.dirittoconsenso.it/2020/11/09/diritto-di-accesso-tutela-privacy-equilibrio-complesso/


Colpo di stato in Myanmar

Il colpo di stato in Myanmar

Analisi delle cause e degli eventi che hanno caratterizzato il colpo di stato in Myanmar

 

Gli eventi

Lunedì primo febbraio 2021 l’esercito ha preso il potere con un colpo di stato in Myanmar.

Il capo delle forze armate birmane, il generale Min Aung Hlaing, ha guidato il colpo di stato e ha attualmente assunto il ruolo di capo del governo.

A seguito del colpo di stato sono stati arrestati i principali leader del partito di maggioranza, tra cui Aung San Suu Kyi, la quale era il capo del governo eletto democraticamente. Lo stesso giorno del colpo di stato in Myanmar, i militari hanno dichiarato un anno di stato d’emergenza.

 

La situazione prima del colpo di stato

A novembre del 2020 sono state indette le elezioni in Myanmar. Queste sono state vinte con una vittoria schiacciante dal partito “Lega Nazionale per la Democrazia” guidato da Aung San Suu Kyi. Il partito vincitore ha conquistato 368 seggi su 434. Il principale partito di opposizione, sostenuto dai militari, si era aggiudicato solo 24 seggi.

Questa notevole differenza di seggi ha portato i militari ad accusare il partito di maggioranza di aver imbrogliato alle elezioni. Aung San Suu Kyi è stata infatti criticata di aver sfruttato le restrizioni imposte a causa della diffusione del coronavirus per truccare le elezioni.

È stato proprio questo il motivo addotto dai militari per giustificare il colpo di stato in Myanmar. I militari, in una dichiarazione televisiva, hanno infatti motivato il colpo di stato definendolo necessario al fine di preservare la stabilità dello Stato e hanno accusato la commissione elettorale di non aver posto rimedio ai brogli elettorali.

Tutt’ora, però, non c’è alcuna prova dell’esistenza di questi brogli.

 

Il colpo di stato militare

C’erano state delle avvisaglie di quello che sarebbe potuto succedere. Il 26 gennaio, infatti, un portavoce dell’esercito non ha escluso la possibilità di un colpo di stato e il giorno dopo il generale Min Aung Hlaing ha dichiarato agli alti gradi dell’esercito che, se la costituzione non è rispettata, va revocata.

Per sottolineare il collegamento con le presunte elezioni truccate, il colpo di stato è avvenuto nel giorno in cui si sarebbe dovuto riunire per la prima volta il nuovo Parlamento.

Quello che è avvenuto il primo febbraio 2021 è stato un colpo di stato, guidato dai militari birmani, con la finalità di rovesciare il governo eletto di Aung San Suu Kyi. Per colpo di stato, infatti, si intende un fatto contro la legge volto a modificare il vigente ordinamento dei pubblici poteri.[1]

Inoltre, durante il colpo di stato in Myanmar sono state interrotte le linee telefoniche nella capitale, la televisione pubblica ha interrotto le trasmissioni e l’accesso a internet è stato bloccato.

 

L’arresto di Aung San Suu Kyi e il processo

Aung San Suu Kyi è una figura molto nota in Myanmar.

È divenuta il simbolo dell’opposizione non violenta al regime dei militari, il quale ha detenuto il potere per cinquant’anni. Si è impegnata nel processo di democratizzazione del proprio Paese fondando il partito “Lega Nazionale per la Democrazia”. È proprio con questo partito che ha vinto due elezioni: quelle dello scorso novembre e quelle del 2011, le quali portarono alla caduta della giunta militare dopo 50 anni.

Per il suo impegno e per le sue lotte pacifiche le è stato assegnato il Nobel per la pace nel 1991.

I militari che hanno guidato il colpo di stato in Myanmar a febbraio hanno destituito e arrestato Aung San Suu Kyi, in quanto leader del governo che si sarebbe dovuto insediare.

L’accusa su cui si basa l’arresto è la violazione della norma in materia di importazioni: Aung San Suu Kyi è stata accusata di possedere illegalmente dei walkie – talkie.

Il 16 febbraio è iniziato il processo a suo carico. L’udienza si è svolta senza il suo legale, il quale non aveva ricevuto avvisi riguardanti la celebrazione della prima udienza. Durante l’udienza è emersa un’ulteriore accusa che grava su Aung San Suu Kyi: la violazione di norme sulla gestione dei disastri naturali. Il partito di Aung San Suu Kyi ha fatto sapere che attualmente si trova agli arresti domiciliari.

 

Le proteste

A sostegno della leader del partito di maggioranza sono scesi in piazza numerosi cittadini che contestano le accuse rivolte al premio Nobel per la pace, affermando che sono solo pretesti addotti dai militari per prendere il potere. Aung San Suu Kyi stessa ha esortato i cittadini a non accettare il colpo di stato e a protestare contro i militari.

L’azione repressiva della giunta militare non ha tardato: sono giunte testimonianze di spari e di lancio di lacrimogeni sui manifestanti da parte della polizia. Inoltre, è stata stabilita una pena fino a 20 anni di carcere per chi si oppone al colpo di stato ed è stata introdotta da parte del governo la legge marziale.

Il tentativo dei militari di sedare le rivolte, però, non sta dando i frutti sperati. I cittadini dopo le 20 iniziano a battere le pentole come segno di opposizione. Questo gesto è una rivisitazione del vecchio rito popolare di sbattere pentole o padelle per scacciare gli spiriti maligni. A sostegno di quest’iniziativa è nata sui social network la campagna “Bang Your Pot” (battete le vostre pentole). A poco sono quindi valsi i tentativi dei militari di oscurare i vari social network per isolare il paese e per bloccare l’onda di protesta contro il colpo di stato in Myanmar.

 

La reazione internazionale

Subito dopo il colpo di stato in Myanmar c’è stata una dura presa di posizione da parte degli Stati, i quali non solo hanno condannano le vicende ma hanno chiesto anche la scarcerazione di Aung San Suu Kyi. I ministri degli Esteri, nel contesto del G7, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta a sostegno della popolazione e del regime democratico.  Inoltre, gli Stati Uniti e l’Europa hanno anche minacciato di ristabilire le sanzioni economiche.

Il governo militare insediatosi in Myanmar, però, ha un potente alleato: la Cina. Questa potenza, infatti, ha definito il colpo di stato in Myanmar come un “rimpasto ministeriale”. Per questo motivo, la Cina si è detta contraria alla netta condanna espressa dall’ONU e durante il Consiglio di sicurezza ha fatto pressione per evitare la condanna del colpo di stato in Myanmar, accettando solo una manifestazione di “inquietudine”.

L’intento della Cina sembrerebbe quello di riprendere il controllo della zona attraverso la stipula di accordi con il regime dei militari, in modo da scongiurare un’influenza statunitense. Questo creerà inevitabilmente delle tensioni tra gli Stati Uniti e la Cina.

 

La situazione oggi

Ad oggi non si prevedono sviluppi risolutivi della situazione e un ripristino della democrazia. Il carisma e la popolarità di Aung San Suu Kyi fanno sì che le persone non cederanno tanto facilmente al potere illegale dei militari.


Strumenti di protezione ordinaria del minore

Gli strumenti di protezione ordinaria del minore

Analisi degli strumenti di protezione ordinaria del minore: dichiarazione dello stato di adottabilità, provvedimento di decadenza dalla responsabilità genitoriale e provvedimenti convenienti

 

Che cosa sono gli strumenti di protezione ordinaria del minore?

Gli strumenti di protezione ordinaria del minore vengono attivati nei casi in cui i genitori pongano in essere delle condotte pregiudizievoli per il figlio minorenne. L’ordinamento prevede tre tipologie di strumenti che vengono scelti in base alla gravità della situazione di pregiudizio del minore.

Questi strumenti sono:

  • i provvedimenti convenienti;
  • i provvedimenti di decadenza dalla responsabilità genitoriale;
  • la dichiarazione dello stato di adottabilità.

 

Il tribunale per i minorenni

Il tribunale per i minorenni è competente in via esclusiva per la dichiarazione dello stato di adottabilità, mentre ha una competenza concorrente con il tribunale ordinario per gli altri due strumenti.

Il tribunale per i minorenni è un organo della giustizia ordinaria specializzata. È diviso in due sezioni: civile e penale, con alcuni compiti amministrativi.

In ragione delle sue funzioni, che sono complesse e rivolte a persone in formazione, il tribunale è composto da due giudici togati e da due giudici onorari. I requisiti di questi due giudici sono indicati nell’articolo 2 del regio decreto istitutivo del tribunale stesso: “un uomo e una donna, benemeriti, dell’assistenza sociale, scelti fra i cultori di biologia, di psichiatria, di antropologia criminale, di pedagogia, di psicologia[1].

 

I principi della disciplina

Il principio che è alla base degli strumenti di protezione ordinaria del minore è quello del superiore interesse del minore. Questo principio permette di porre l’accento esclusivamente sulla condizione obiettiva in cui il minore si trova.

Questo principio è trasversale a tutta la materia del diritto minorile. È stato formalizzato per la prima volta nell’articolo 3 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1989.

Un altro principio comune a tutti gli strumenti di protezione ordinaria del minore è il dovere dello Stato di intervenire, nel caso in cui i genitori pongano in essere condotte pregiudizievoli nei confronti del minore.

 

La dichiarazione dello stato di adottabilità

La dichiarazione dello stato di adottabilità interviene nelle situazioni più gravi di pregiudizio per il minore. Questa dichiarazione, infatti, viene fatta dal tribunale per i minorenni nel caso in cui il minore sia in stato di abbandono. L’accertamento dello stato di abbandono è preliminare alla dichiarazione dello stato di adottabilità.

Per stato di abbandono deve intendersi una circostanza in cui i minori siano privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti che sono tenuti a provvedervi. I casi in cui il minore versa in uno stato di abbandono possono essere diversi: dal minore orfano di entrambi i genitori, al figlio di genitori ignoti, alle situazioni in cui, pur avendo i genitori, questi non si occupino del minore e non lo accudiscano.

La dichiarazione dello stato di adottabilità può essere effettuata solo nel caso in cui ci sia un abbandono totale e definitivo del minore e che riguardi non solo i genitori, ma anche l’intero nucleo familiare. La valutazione di inidoneità o di indisponibilità, quindi, deve interessare tutto il nucleo famigliare, ovvero fino ai parenti di quarto grado.

Questo strumento di protezione ordinaria del minore è di competenza esclusiva del tribunale per i minorenni a causa della gravità degli effetti che questa dichiarazione comporta, infatti, è il primo subprocedimento del procedimento generale che porta all’adozione del minore. Il legislatore ha ritenuto, quindi, di attribuire la competenza a un’autorità giudiziaria specializzata, composta non solo da tecnici del diritto ma anche da giudici onorari, i quali possono aiutare a individuare l’interesse effettivo del minore.

 

Il procedimento di adozione

Il procedimento di adozione comporta la cessazione completa e definitiva dei rapporti tra il minore e la famiglia d’origine.

Questo procedimento è composto da tre fasi:

  1. la dichiarazione dello stato di adottabilità,
  2. l’affidamento preadottivo, e infine
  3. il provvedimento di adozione.

 

Una volta dichiarato lo stato di adottabilità, il minore viene abbinato a una famiglia che si sia resa preventivamente disponibile all’adozione.

Decorso almeno un anno dall’affidamento preadottivo, qualora l’accertamento relativo all’esistenza dei presupposti per una crescita serena del minore in quell’ambiente familiare diano esito positivo, il tribunale per i minorenni dichiara l’adozione.

Con l’ingresso nella famiglia adottiva, il minore acquista lo stato di figlio degli adottanti, spezzando pertanto in modo definitivo i rapporti giuridici con la famiglia di origine.

 

La decadenza dalla responsabilità genitoriale

La decadenza dalla responsabilità genitoriale è uno strumento di protezione ordinaria del minore codificato nell’articolo 330 del codice civile.

La decadenza dalla responsabilità genitoriale viene pronunciata dal giudice quando i genitori pongono in essere nei confronti del minore una condotta gravemente pregiudizievole, la quale si verifica quando il genitore viola o trascura i doveri inerenti alla responsabilità genitoriale oppure quando abusa dei suoi poteri. Questi comportamenti non devono determinare un attuale pregiudizio, è sufficiente per la decadenza dalla responsabilità genitoriale che questi comportamenti siano potenzialmente pregiudizievoli.

La condotta del genitore può essere sia commissiva, intendendo ad esempio azioni di violenza, sia omissiva, riferendosi a situazioni di negligenza o incuria. Il comportamento messo in atto dal singolo genitore o da entrambi non deve essere obbligatoriamente imputabile a dolo o a colpa dei genitori stessi.

I soggetti che possono richiedere la decadenza sono:

  • l’altro genitore,
  • il pubblico ministero, e
  • i parenti.

 

La procedura con la quale viene disposta la decadenza è una procedura di volontaria giurisdizione, ovvero una giurisdizione diretta non a risolvere delle vere e proprie controversie. Il tribunale decide in camera di consiglio, dopo aver ascoltato il PM, e aver disposto l’ascolto del minore interessato qualora abbia compiuto i 12 anni di età. I genitori, in questa procedura, hanno diritto di essere assistiti da avvocati, così come è prevista per il minore la difesa tecnica.

Gli effetti della decadenza dalla responsabilità genitoriale sono la sospensione dei diritti e dei doveri dei genitori, salvo il perdurare del dovere di mantenimento. Il genitore decaduto, perciò, perde i poteri rappresentativi e decisionali che gli erano riconosciuti, ma mantiene un dovere di vigilanza sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio.

La decadenza è un provvedimento temporaneo, per questo il genitore decaduto può chiedere di essere reintegrato nella responsabilità genitoriale. Il reintegro viene disposto dal giudice quando sono cessate le ragioni per le quali la decadenza è stata pronunciata.

Il decreto di decadenza può essere compiuto dal tribunale per i minorenni, ma anche dal tribunale ordinario, solo nel contesto di un procedimento giudiziario per l’affidamento dei figli nella scissione della coppia genitoriale.

 

I provvedimenti convenienti  

Gli ultimi strumenti di protezione ordinaria del minore sono i provvedimenti convenienti.

Questi provvedimenti, previsti nell’articolo 333 del codice civile, sono quelli più applicati nella prassi dal tribunale per i minorenni.

I provvedimenti convenienti vengono adottati dal giudice nel caso in cui uno o entrambi i genitori tengano una condotta pregiudizievole per il figlio, ma questo pregiudizio non è tale da poter dar luogo alla pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale.

L’intervento del giudice è ammesso con riferimento a circostanze che si pongono in funzione della tutela e della promozione della personalità del figlio minore, quindi l’ambito di operatività va oltre il mero pregiudizio. Il pregiudizio, anche in questo caso, può essere solo eventuale e non imputabile a dolo o colpa.

L’articolo 333 del c.c. elenca due misure che il giudice può disporre congiuntamente ai provvedimenti convenienti:

  1. l’allontanamento del minore e
  2. l’allontanamento del genitore dalla residenza familiare.

 

Queste due possibilità, infatti, altro non sono che strumenti che il tribunale può adottare per limitare la responsabilità genitoriale, motivati dal fatto che il genitore ha tenuto una condotta pregiudizievole.

Informazioni

F. Ruscello, Diritto di famiglia, Pacini giuridica, 2020

[1] Per approfondire le funzioni del tribunale per i minorenni: http://www.dirittoconsenso.it/2020/05/28/tribunale-per-minorenni-e-funzioni-tutela/


Autorità Nazionale Anticorruzione

L'Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC)

I poteri e le competenze dell’ANAC, l’Autorità Nazionale Anticorruzione

 

Cos’è l’Autorità Nazionale Anticorruzione?

L’autorità nazionale anticorruzione (ANAC) è un’autorità amministrativa indipendente, ovvero un soggetto pubblico dotato di personalità giuridica e indipendente da altri organi dello Stato.

Il suo compito principale è quello di prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione e nelle società partecipate e controllate. È un unicum nel nostro ordinamento, ha dei profili di atipicità dovuti all’ampiezza dei poteri e delle materie di sua competenza. In questo articolo si analizzeranno i poteri dell’ANAC nel settore della prevenzione e del contrasto alla corruzione.

 

L’evoluzione dell’Autorità

La prima autorità istituita nell’ordinamento italiano risale alla legge Merloni, n.109 del 1994. Questa legge, infatti, creava l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici con l’esclusiva funzione di vigilanza sui contratti pubblici. La legge successiva, la n. 163/2006, amplia i compiti e le funzioni dell’Autorità e ne modifica la denominazione in Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. L’Autorità, con la riforma del 2006, non cambia natura e sostanza, in quanto rimane conforme al modello della legge Merloni che prevedeva un’autorità di controllo e vigilanza, ma le vengo attribuiti nuovi poteri, i quali non sono più limitati alla sola vigilanza ma ricomprendono anche potestà informative, ispettive e sanzionatorie.

L’ANAC nasce dalla trasformazione di un altro organismo pubblico: la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (CIVIT). Quest’organo era stato istituito nell’ordinamento con il d.lgs. 150/2009 con il compito di migliorare le performance della pubblica amministrazione e di favorire la trasparenza in ottica di prevenzione della corruzione. La legge cd. Severino, n. 190/2012, ha ampliato i poteri del CIVIT e ha cambiato la sua denominazione in Autorità nazionale anticorruzione.

Nel 2014 con il d.l. n. 90 l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture è stata soppressa e le sue funzioni e compiti sono stati trasferiti all’ANAC.

Ad oggi, riassumendo, l’Autorità nazionale anticorruzione opera in ottica di contrasto alla corruzione, vigila sull’osservanza della disciplina dei contratti pubblici e promuove la trasparenza.

 

L’ANAC oggi: composizione e poteri

L’Autorità è un organo collegiale composto da un presidente e da quattro componenti eletti tra persone di spiccata professionalità ed esperienza. Tutte queste figure vengono nominate con decreto dal Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri e previo parere favorevole delle Commissioni parlamentari competenti.

Le competenze dell’ANAC riguardano principalmente tre ambiti:

  1. la prevenzione alla corruzione,
  2. la trasparenza amministrativa e
  3. i contratti pubblici.

 

In quest’ultimo campo ha poteri di regolamentazione, i quali implicano la possibilità per l’ANAC di intervenire direttamente, superando in questo modo il limite che gli era sempre stato riconosciuto in passato.

Altre funzioni attribuite all’Autorità sono di promozione dell’efficienza, di facilitazione allo scambio di informazioni tra stazioni appaltanti e di vigilanza nel settore degli appalti pubblici con poteri anche di controllo, raccomandazione e di tipo sanzionatorio.

 

La prevenzione alla corruzione

L’ANAC ha il compito di analizzare i fattori e i comportamenti che possono favorire il fenomeno corruttivo nelle pubbliche amministrazioni. Questa analisi permette all’Autorità di individuare e scegliere gli interventi e i mezzi utili per prevenirla e contrastarla[1].

Ogni anno l’ANAC deve redigere il Piano Nazionale Anticorruzione (PNA), che è un atto di indirizzo per le amministrazioni. Queste ultime sono chiamate ad adottare misure concrete ed effettive in ottica di prevenzione della corruzione. Nel Piano sono indicate le aree a rischio corruzione e le misure che possono essere adottate dalle pubbliche amministrazioni, però, a causa delle specificità di ciascuna amministrazione, non viene imposto l’adozione di misure uniformi ma viene rimesso ad ogni ente l’individuazione dei rimedi più adeguati. Il Piano, infatti, obbliga i destinatari ad analizzare le aree di rischio e ad adottare misure che in concreto possano limitare e prevenire il fenomeno corruttivo.

L’adozione di queste misure da parte delle pubbliche amministrazioni viene comunicata all’Autorità con il Piano Triennale di prevenzione della corruzione (PTPC). È un documento di natura programmatica nel quale vengono indicate le misure concrete per implementare la tutela. Esempi di contenuto del Piano Triennale di prevenzione della corruzione sono: piani di formazione del personale, codici di comportamento e sistemi di rotazione dei dirigenti.

I poteri dell’ANAC però non si esauriscono solo con il dare delle indicazioni attraverso il Piano Nazionale Anticorruzione. Sono ricompresi anche compiti di vigilanza e controllo sull’effettiva applicazione delle misure adottate. In quest’ottica l’ANAC può richiedere la trasmissione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, può ordinare che vengano adottate le misure del Piano Nazionale Anticorruzione e che cessino dei comportamenti incompatibili con la finalità di prevenzione della corruzione. All’Autorità sono inoltre attribuiti compiti di vigilanza sulle nomine di incarichi particolarmente rilevanti all’interno delle pubbliche amministrazioni, quali possono essere gli incarichi di vertice.

 

Contratti pubblici

In quest’ambito l’Autorità Nazionale Anticorruzione è dotata di poteri e prerogative molto ampie, poiché questo settore è quello a più alto rischio di corruzione. Il compito principale dell’ANAC è ridurre il rischio che le risorse destinate alla realizzazione di una certa opera vengano impiegate in modo improprio.

Essendo attribuiti all’ANAC molteplici poteri, verranno analizzati nel dettaglio solo alcuni di questi, nello specifico il potere di vigilanza, di ispezione e di sanzione, però devono essere portati all’attenzione anche altri. Il potere di regolazione che si esplica nell’adozione di linee guida, come possono essere dei bandi-tipo o contratti-tipo, che indirizzano l’azione delle pubbliche amministrazioni. Il potere di segnalare al Governo e al Parlamento fenomeni particolarmente gravi di inosservanza o di applicazione distorta della normativa in materia di contratti pubblici.  Infine, il potere di precontenzioso che si esprime con la redazione di pareri, i quali possono essere anche vincolanti, per controversie sorte nella fase di affidamento dei contratti pubblici.

 

La vigilanza nei contratti pubblici

I poteri di vigilanza dei contratti pubblici sono diversi e molto ampi sia sotto il profilo oggettivo, intendendo il contenuto del controllo, sia sotto il profilo soggettivo, riguardando indifferentemente operatori pubblici e privati.

Una prima funzione di vigilanza concerne il rispetto della disciplina legislativa in modo da assicurare la regolarità delle procedure di affidamento. Questa funzione è quella più risalente, essendo già prevista dall’istituzione della prima Autorità nel 1994. L’ANAC, infatti, vigila sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture sia nei settori ordinari che nei settori speciali, e controlla altresì i contratti esclusi da questa categoria, i quali devono in ogni caso rispettare i principi generali della pubblica amministrazione.

Un’altra funzione di vigilanza riguarda l’economicità dell’esecuzione dei contratti pubblici, in modo tale che non derivi un pregiudizio alla pubblica amministrazione. Questo comporta, nel caso in cui l’ANAC accerti una violazione o un’irregolarità nell’esecuzione, un obbligo in capo all’Autorità stessa di segnalare agli organi di controllo.

L’ANAC vigila anche sulle procedure di affidamento. La sua attenzione si focalizza sul rispetto delle procedure, così come statuite dalle leggi, sul divieto di affidamento dei contratti attraverso procedure diverse da quelle ordinarie e sulla corretta applicazione della disciplina derogatoria nei casi di urgenza.

È prevista una speciale ipotesi di vigilanza, la cd. vigilanza collaborativa tra ANAC e stazione appaltante. Questa vigilanza si concretizza con la possibilità di stipulare, nei casi di affidamenti di particolare interesse, dei protocolli di intesa con le stazioni appaltanti. Questo consente di supportare queste stazioni nella gestione dell’attività e nella predisposizione di atti riguardanti la gara. Gli ambiti nei quali è stata attivata la vigilanza collaborativa sono quelli dei grandi eventi, come possono essere le Olimpiadi o l’EXPO del 2015, ma anche nei casi di calamità naturali o di realizzazione di infrastrutture strategiche nel territorio nazionale.

A differenza delle altre forme di vigilanza tradizionale, la vigilanza collaborativa, se effettivamente utilizzata, consente all’Autorità nazionale anticorruzione non solo di censurare ex post comportamenti illegittimi ed illeciti ma altresì di prevenire ex ante eventuali criticità valutando, in un momento antecedente alla loro adozione, la conformità degli atti di gara con evidenti benefici in termini di correttezza e trasparenza dell’azione amministrativa e conseguente deflazione del contenzioso.

 

Le ispezioni

All’Autorità nazionale anticorruzione sono attribuiti poteri ispettivi. Questi si esplicano nella richiesta di documenti, informazioni e chiarimenti sia alle stazioni appaltanti sia ad altri soggetti coinvolti nella procedura di gara.

L’ANAC nell’esercizio di questa sua prerogativa può avvalersi di altri organi dello Stato, quali ad esempio gli ispettori di finanza pubblica della Ragioneria generale dello Stato e la Guardia di Finanza.

Nel caso in cui, al termine delle ispezioni, abbia riscontrato delle illegalità può trasmettere gli atti alla Procura, se le violazioni sono penalmente rilevanti, oppure alla Corte dei Conti, se vi è stato un danno all’erario.

 

Il rating di legalità

L’attività di prevenzione della corruzione dell’Autorità si concretizza anche nell’attribuzione di un punteggio rilevante per il rating di legalità. Questo punteggio è il risultato dei comportamenti meritevoli tenuti dall’azienda, valutati dall’ANAC insieme all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Il rating di legalità viene attribuito ove non ci siano state sentenza di condanna, misure preventive o cautelari e consente, premiando questi comportamenti, di accedere al finanziamento delle pubbliche amministrazioni e al credito bancario in modo più agevole.

Il rating di legalità è uno degli elementi di valutazione del rating di impresa, il quale viene certificato dall’ANAC sulla base di elementi qualitativi e quantitativi che definiscono l’affidabilità dell’impresa stessa. In ottica premiale, il rating di impresa assicura una preliminare selezione dei concorrenti che precede la selezione interna alla gara.

 

Le sanzioni

Le funzioni sopra descritte non sarebbero effettive se il legislatore non avesse attribuito all’ANAC un potere sanzionatorio.

Nel caso in cui i soggetti rifiutino od omettano volontariamente delle informazioni o non esibiscano i documenti senza giustificato motivo l’Autorità può irrogare sanzioni amministrative pecuniarie, le quali partono da 250 euro e possono arrivare fino al limite massimo di 25.000.

Se i soggetti presentano delle informazioni o dei documenti non veritieri l’ANAC ha il potere di fare una sanzione amministrativa pecuniaria che va dai 500 euro ai 50.000 euro, tenendo salva l’eventuale ipotesi di responsabilità penale.

L’ANAC ha adottato uno schema di regolamento per i procedimenti sanzionatori di sua competenza. In questo testo si prevede una fase precedente al procedimento caratterizzata dalla nomina del Responsabile Unico del Procedimento e dalla richiesta di informazioni e documenti ai soggetti interessati. Il Responsabile, al termine di questi compiti, può decidere di archiviare il procedimento nel caso in cui ritenga che non ci siano i presupposti di diritto o di fatto per avviare un procedimento.

Il procedimento inizia con la comunicazione dell’avvio dell’iter e con la fase istruttoria, caratterizzata dalla possibilità di audizione e di partecipazione al procedimento. Il procedimento si conclude con l’adozione del provvedimento.

 

Alcuni dati

Da quando è stata istituita l’ANAC è diventata il perno intorno al quale ruota gran parte dell’azione di contrasto alla corruzione. Negli ultimi 5 anni (2015 – 2020), la sua attività ha comportato la pubblicazione di migliaia di atti. Nello stesso periodo, l’Autorità Nazionale Anticorruzione ha adottato 34 misure sanzionatorie.

Informazioni

C.E. Gallo (a cura di), Autorità e consenso nei contratti pubblici. Dalle direttive 2014 al Codice 2016, Seconda edizione, Torino, Giappichelli

E. Casetta, Manuale di Diritto Amministrativo, ultima edizione, Giuffrè

http://www.anticorruzione.it/portal/public/classic/

[1] Per approfondire il tema della corruzione nella pubblica amministrazione: http://www.dirittoconsenso.it/2020/10/08/lotta-alla-corruzione-pubblica-amministrazione/


Dati sensibili

Protezione dei dati sensibili: facciamo chiarezza

È lecito scrivere sulla croce del feto il nome della donna senza che questa ne sia a conoscenza? Analizziamo la disciplina della protezione dei dati sensibili

 

Il caso del “cimitero dei feti” e la protezione dei dati sensibili

È fine settembre quando fa capolinea sulle prime pagine di tutte le maggiori testate italiane il caso di Marta Loi. Tramite un post su Facebook questa donna racconta la sua storia:

Nel momento in cui firmai tutti i fogli relativi alla mia interruzione terapeutica di gravidanza, mi chiesero: “Vuole procedere lei con esequie e sepoltura? Se sì, questi sono i moduli da compilare. “
Risposi che non volevo procedere, per motivi miei, personali che non ero e non sono tenuta a precisare a nessuno.

Dopo circa sette mesi dalla pratica, Marta scopre l’esistenza di una croce con sopra scritto il suo nome nel “Cimitero degli Angeli” di Roma. In questo luogo, infatti, vengono seppelliti i prodotti del concepimento o feti dopo aborti volontari o spontanei.

Marta, quindi, viene a conoscenza che a sua insaputa il feto era stato prelevato dall’ospedale, seppellito nel cimitero con rito religioso, con il suo nome e cognome scritto su una croce, insieme alla data dell’aborto. Eppure, non è un caso isolato: accade a volte che le donne coinvolte non sappiano che in quel “cimitero” ci sia una croce con il proprio nome scritto sopra. E che la loro privacy venga violata.

Il nome e cognome rientrano nell’ambito di applicabilità della disciplina in materia di protezione dei dati sensibili. Com’è possibile che queste informazioni vengano scritte senza consenso della donna titolare dei dati?

 

Articolo 9 del Regolamento europeo n. 679 del 2016

Non è possibile e non è lecito un simile comportamento.

Scrivere nome e cognome di una donna a sua insaputa in un luogo pubblico costituisce una grave violazione di un dato sensibile. L’articolo 9 del Regolamento europeo sulla privacy n.679 del 2016 è finalizzato alla protezione dei dati sensibili e, in questo caso, è stata commessa una grave violazione di questa norma.

L’articolo in questione statuisce:

È vietato trattare dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona.

 

I dati elencati nell’articolo non possono essere trattati senza il consenso esplicito dell’interessato.

Ecco che, nel caso di Marta, i suoi dati sono stati resi pubblici senza la sua approvazione, violando perciò l’articolo 9 del Regolamento europeo in materia di privacy.

I dati sensibili elencati in questo articolo, i quali hanno un trattamento speciale, si inseriscono in una categoria più ampia dei dati personali[1]. Quest’ultima, infatti, contiene al suo interno tutti i dati che possono identificare o rendere identificabile, direttamente o indirettamente, una persona. Nei dati personali ritroviamo, inoltre, anche i dati giudiziari relativi a condanne penali e reati.

A seguito dell’evoluzione delle nuove tecnologie sono stati ricompresi nella definizione di dati personali anche quelli inerenti ai dati relativi alle comunicazioni elettroniche e alla geolocalizzazione.

 

La normativa europea sulla privacy…

Il Regolamento generale per la protezione dei dati personali n. 679/2016, conosciuto anche con l’abbreviazione inglese GDPR, contiene la normativa europea in materia di protezione dei dati.

Questo regolamento mira a uniformare e rafforzare la disciplina sul trattamento dei dati nel contesto europeo.

Questa esigenza di maggior tutela è sorta in seguito all’approvazione del Trattato di Lisbona, nel quale la protezione dei dati sensibili è configurata come diritto fondamentale dei cittadini. Nel 2007 viene firmato da parte degli Stati il Trattato di Lisbona che conferisce valore giuridico alla Carta di Nizza del 2001, la quale è considerata come la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Questa Carta all’articolo 8 decreta:

Ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano.

Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni persona ha il diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica.

Il rispetto di tali regole è soggetto al controllo di un’autorità indipendente.

 

Questo articolo mira a tutelare il diritto di ogni persona alla protezione dei dati personali che la riguardano. Sarà proprio l’articolo 8 la base di partenza per il nuovo Regolamento generale per la protezione dei dati sensibili.

L’articolo 1, 2 comma del GDPR, infatti, riprende e si uniforma all’articolo sopracitato: “Il presente regolamento protegge i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche, in particolare il diritto alla protezione dei dati personali.”

 

… e quella italiana

La Costituzione italiana non fa esplicito riferimento al diritto alla protezione dei dati sensibili, però questo viene incorporato interpretativamente nell’articolo 2 della Carta costituente tra i diritti inviolabili dell’uomo.

La prima legge sulla materia è riconducibile alla legge n. 675 del 1996 che garantisce alle persone una tutela al trattamento dei dati personali. Questa legge fu adottata per dare attuazione alla direttiva comunitaria in materia di trattamento e di libera circolazione dei dati personali.

Alla legge del 1996 ne seguirono altre per specificare nonché chiarire la disciplina in oggetto.

Solo nel 2003 è stato approvato il Codice in materia di protezione dei dati personali, comunemente chiamato il Codice Privacy, nel quale era riunita e riordinata la normativa esistente in materia. Il Codice fu poi modificato per adeguarlo al GDPR così da realizzare l’uniformità legislativa propria degli obiettivi europei.

Il punto chiave della disciplina in materia di protezione dei dati sensibili è il consenso del titolare di questi dati, il quale deve essere reso in maniera libera e consapevole.

 

Lo strumento dell’informativa

L’informativa è il mezzo attraverso il quale il titolare dei dati sensibili presta il suo consenso al trattamento degli stessi. L’articolo 12 del GDPR individua questo strumento per attuare la protezione dei dati sensibili.

L’informativa è una comunicazione che deve essere fornita all’utente prima del trattamento dei suoi dati, quindi prima ancora che ne diventi interessato. L’interessato, infatti, è la persona fisica a cui i dati si riferiscono; questa qualifica si acquista solo quando inizia il trattamento dei dati personali, prima di allora non si riveste l’appellativo di titolare.

L’articolo 12 del GDPR statuisce che la comunicazione deve essere redatta “in forma concisa, trasparente, intelligibile e facilmente accessibile, con un linguaggio semplice e chiaro…” e deve vertere principalmente sulle modalità e sulle finalità del trattamento dei dati personali. Questa comunicazione è dovuta ogni qualvolta ci sia un trattamento di dati.

 

Il contenuto dell’informativa privacy

Il contenuto dell’informativa, stabilito dagli articoli 13 e 14 del Regolamento europeo, deve obbligatoriamente indicare una serie di elementi:

  • chi è la persona fisica a cui i dati si riferiscono;
  • il soggetto che tratterà i dati;
  • il contatto, ove obbligatorio, del responsabile della protezione dei dati personali (RPD). Il RPD è una figura introdotta con il Regolamento europeo ed è il consulente tecnico legale di una azienda, il quale deve sorvegliare sulla corretta applicabilità della normativa in materia di privacy;
  • come verranno trattati i dati e perché;
  • la base giuridica del trattamento;
  • quali sono i dati raccolti e i diritti del titolare di questi dati;
  • se i dati verranno trasferiti in paesi extra Unione Europea;
  • se il trattamento comporta dei processi decisionali automatizzati;
  • per quanto tempo verranno conservati e in quale modo.

 

L’informativa deve essere resa per iscritto o con altri mezzi, ad esempio utilizzando mezzi elettronici come la posta elettronica, ma può esserne data comunicazione anche oralmente a richiesta dell’interessato.

Questa comunicazione, pertanto, rende possibile l’utilizzazione dei dati sensibili, infatti l’articolo 9 al paragrafo 2 afferma che è vietato la loro utilizzazione a meno che l’interessato abbia prestato il proprio consenso esplicito al trattamento degli stessi per una o più finalità specifiche. Ecco che, con la predisposizione di un’informativa chiara e completa di tutti i contenuti, si può realmente attuare la protezione dei dati sensibili del titolare.

 

Il Garante per la Protezione dei Dati Personali

Il Garante per la protezione dei dati personali è l’autorità amministrativa indipendente di controllo nazionale. È stata istituita dalla legge 675/1996 e disciplinata dal successivo Codice in materia di protezione dei dati personali del 2003.

I suoi compiti e le sue funzioni vertono prevalentemente sul controllo e sulla sorveglianza della corretta applicabilità della legge. La finalità principale dell’Autorità è, perciò, assicurare l’effettiva tutela dei diritti nel trattamento dei dati personali.

L’Autorità può indicare ai titolari del trattamento le misure da seguire e può promuovere dei codici deontologici e di condotta.

È titolare, inoltre, del potere sanzionatorio in ambito sia amministrativo che penale.

 

Mezzi di tutela

Cosa può fare un privato dopo aver subito una cattiva gestione dei suoi dati personali o una violazione della normativa sulla privacy?

Il mezzo di tutela principale è il reclamo che il privato può presentare direttamente al Garante della privacy. Con questo atto si rappresenta una violazione della disciplina in materia di protezione dei dati personali. Al reclamo fa seguito l’apertura di un’istruttoria preliminare e un eventuale procedimento amministrativo il quale può concludersi con l’ordine da parte dell’Autorità di cessare il comportamento ritenuto illegittimo.

Il titolare dei dati personali, il quale ritiene di aver subito una violazione della disciplina in materia, deve scegliere alternativamente tra due rimedi: il reclamo al Garante o il ricorso presso l’autorità giurisdizionale. La vecchia formulazione del codice della privacy prevedeva sia il reclamo che il ricorso presso il Garante, quest’ultima ipotesi è stata eliminata e la nuova formulazione prevede l’unico mezzo del reclamo per chiedere l’intervento dell’Autorità garante.

L’alternativa al reclamo è la segnalazione all’Autorità garante. Con questo mezzo chiunque, anche non il diretto interessato, può rivolgere una segnalazione che il Garante può valutare anche ai fini dell’emanazione dei provvedimenti. Questa, infatti, è diretta a sollecitare un controllo dell’Autorità in materia di protezione di dati sensibili. Se il garante ritiene fondata la segnalazione, e quindi questa non venga archiviata, allora seguirà lo stesso iter del reclamo.

Queste forme di tutela, riassumendo, sono state istituite e vengono attivate dai titolari dei dati personali per far

 

Istruttoria del Garante nel caso di Marta Loi

Come un cerchio che si chiude, dopo l’analisi della normativa, ritorniamo sulla vicenda iniziale.

Dopo il clamore mediatico che la vicenda ha acquistato, il Garante per la protezione dei dati personali ha dichiarato: “In relazione alla dolorosissima vicenda del feto sepolto con il nome della mamma, il Garante per la protezione dei dati personali ha deciso di aprire un’istruttoria per fare luce su quanto accaduto e sulla conformità dei comportamenti, adottati dai soggetti pubblici coinvolti, con la disciplina in materia di privacy.” Si presume, pertanto, che l’attenzione dell’Autorità sarà focalizzata sulla mancata corretta applicazione dell’articolo 9 GDPR in materia di protezione dei dati sensibili.

L’Autorità garante ha il potere di avviare d’ufficio un’istruttoria preliminare per verificare l’eventuale violazione della normativa in materia di privacy. I provvedimenti del Garante sono tempestivamente pubblicati sul suo sito internet.

Non ci resta che attendere gli ulteriori sviluppi della vicenda!