I reati di pericolo
I reati di pericolo prevedono una tutela penale anticipata rispetto alla lesione materiale del bene giuridico tutelato, ponendo però problemi di compatibilità con il principio di offensività
Il principio di offensività e i reati di pericolo
Il nostro ordinamento penalistico si costruisce intorno, tra gli altri, al principio di offensività il quale, sebbene non espressamente codificato in nessuna disposizione costituzionale, è stato fin dagli inizi della sua attività preso dalla Corte Costituzionale come parametro valutativo di liceità delle fattispecie incriminatrici.
Tale accezione del principio di offensività come criterio per fondare la costituzionalità delle norme si lega strettamente ad un’altra sua funzione: quella politico–criminale. Ciò significa che, anche per evitare inutili dispendi di risorse pubbliche e salvaguardare l’efficienza dell’amministrazione della giustizia, il legislatore deve criminalizzare solamente quelle condotte realmente offensive di beni giuridici che l’ordinamento considera meritevoli di tutela.
Tuttavia, l’offesa, fin dalle prime disposizioni incriminatrici introdotte nel Codice penale, non è stata sviluppata in un’univoca accezione. Se infatti in base ad una prima impressione questa potrebbe essere interpretata solamente nel senso di danno, di effettiva distruzione del bene giuridico tutelato, non è questo l’unico caso in cui il legislatore penale ha concluso per la criminalizzazione dei comportamenti umani; da qui la distinzione tra i reati di danno e i reati di pericolo.
La fattispecie dei reati di pericolo
Mentre quindi i primi si ritengono perfezionati solamente nel caso in cui il bene giuridico sia stato effettivamente compromesso, nella forma della distruzione totale o anche solo della compromissione, i reati di pericolo giungono a perfezionamento quando non vi è stata ancora nessuna aggressione reale al bene tutelato, ma l’unidirezionalità della condotta impone di agire in via anticipata prima che esso ne risulti del tutto distrutto.
Analizzando le fattispecie costruite attorno all’ipotesi del pericolo, si nota la preoccupazione del legislatore di intervenire in via anticipata rispetto al momento in cui l’offesa diventi reale, e non meramente futura o potenziale, quando i beni giuridici che devono essere tutelati si considerano di particolare rilievo ed importanza costituzionali, tali da non tollerare che la condotta illecita si protragga per un tempo ulteriore. Il concetto che sta in sostanza dietro i reati di pericolo è proprio quello di intervenire subito prima che sia troppo tardi ed i danni cagionati ormai irreparabili. Così, in coerenza a tali intenzioni, le fattispecie nelle quali l’offesa è costruita solamente nella forma del pericolo sono quelle che mirano a tutela beni giuridici collettivi, sia istituzionali che diffusi.
In particolare, casi emblematici di delitti di pericolo sono contenuti tra i reati contro la personalità dello Stato, contenuti nel titolo I del Codice Penale, o ancora tra i delitti contro l’incolumità pubblica, come il reato di strage ex art. 422 c.p.[1] o quello di incendio di cui all’art. 423 c.p.[2]; così come esempi altrettanto significativi si ritrovano tra i delitti contro la fede pubblica, in special modo quelli di falso.
Tutte queste categorie apparentemente estremamente eterogenee tra loro hanno in comune la caratteristica di proteggere beni giuridici non di esclusiva titolarità del singolo, ma appartenenti o allo Stato e ai suoi singoli poteri, come l’ordine democratico o l’ordine costituzionale, oppure alla generalità indistinta dei consociati, come la fede pubblica, l’ambiente o l’ordine pubblico.
L’idea del legislatore, pertanto, è quella di punire, ad esempio, la mera associazione di persone finalizzata a commettere delitti (art. 416 c.p.) o ancora il semplice avvelenamento di acque e sostanze alimentari prima ancora della loro messa in commercio (art. 439 c.p.) nonché chi falsifica monete in un momento antecedente alla loro circolazione, proprio perché se si attendesse la successiva lesione la funzione del diritto penale rischierebbe di essere neutralizzata. Essendosi infatti ormai verificato l’evento dannoso che è interesse dell’ordinamento evitare, la sanzione penale risulterebbe inidonea nella sua funzione preventiva.
I reati di pericolo e il tentativo
Tale scopo anticipatorio dei delitti di attentato risulta peraltro difficilmente compatibile con l’applicazione della disciplina del tentativo ex art. 56 c.p. Infatti, sebbene la giurisprudenza abbia talvolta riconosciuto la possibilità di punire queste fattispecie anche nella forma meramente tentata, la dottrina ne ha sempre negato la configurabilità.
A guardare la configurazione predisposta dal legislatore, per il delitto tentato sono richiesti “atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto”; tale definizione sembrerebbe essere proprio quella dei delitti di attentato. In entrambi i casi vi è dunque un’anticipazione della tutela penale totalmente sovrapponibile. Ipotizzare di configurare un’ipotesi di tentativo anche per le fattispecie di pericolo si tradurrebbe in un’ulteriore regressione del momento repressivo, arrivando così in maniera illegittima a sanzionare il “pericolo di un pericolo”.
Tale difficoltà di compatibilità nella realtà delle cose emerge ad esempio molto chiaramente nei delitti contro la personalità dello Stato e, in particolar modo, all’art. 241 c.p., rubricato “Attentati contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato”. Infatti, in tale ipotesi è proprio il legislatore ad utilizzare, per descrivere l’ipotesi di reato consumato, l’espressione “atti violenti diretti e idonei”, ricalcando così quasi del tutto la formulazione dell’art. 56 c.p. e lasciando intendere di conseguenza la sovrapponibilità delle due discipline.
La compatibilità costituzionale
Le analisi e le considerazioni sin qui svolte rendono chiari i profili di dubbia compatibilità costituzionale della categoria in questione. Se, infatti, il principio di offensività nella sua accezione politico–criminale impone al legislatore di introdurre fattispecie sanzionate penalmente solamente per reprimere comportamenti almeno in astratto lesivi del bene giuridico da tutelare, tale ragionamento rischia di venir meno con i reati di pericolo dove, di fatto, l’offesa manca.
Il legislatore, dal canto suo, ne giustifica la punibilità, alla luce del superiore valore collettivo che tali beni hanno e, dall’altro lato, la Corte Costituzionale, unica in grado di sanzionare scelte repressive astrattamente inoffensive, sembra in gran parte legittimarle. Nelle pronunce che si ricordano in materia di reati di pericolo, la reazione del Giudice delle Leggi è stata quella il più delle volte di considerare costituzionalmente conformi le scelte del legislatore, imponendo piuttosto ai giudici di merito un’interpretazione delle disposizioni orientata al principio di offensività.
Se infatti alla Corte spetta il compito di sanzionare scelte contrarie al principio di offensività in astratto, il quale quindi attiene alla singola norma penale e alla sua struttura, il giudice dovrà considerare l’offensività in concreto che invece riguarda la specifica condotta del caso di specie.
Particolarmente note sono le pronunce in tema di detenzione di sostanze stupefacenti; in special modo con la sentenza n. 360 del 1995 la Corte Costituzionale ha rigettato l’eccezione di costituzionalità affermando che “ove l’offensività sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta perché l’indispensabile connotazione di offensività di quest’ultima implica di riflesso che anche in concreto l’offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo”[3]. Viene così trasferito sul giudice di merito il compito di valutare se il caso concreto cagioni un’offesa al bene giuridico della salute pubblica.
Sullo stesso orientamento si registrano anche le due sentenze gemelle nn. 265 del 2005 e 225 del 2008 in riferimento all’art. 877 c.p. (“Possesso ingiustificato di chiavi e grimardelli”). Il giudice a quo poneva in discussione la pericolosità delle condotte descritte da tali fattispecie, potendosi giungere a sanzionare situazioni nelle quali non vi è un effettivo pericolo per il patrimonio. Anche in tale circostanza, la Corte Costituzionale ha respinto la questione di legittimità ribadendo che è compito del giudice di merito accertare se il comportamento dell’agente non presenti profili di offensività in concreto e non sia quindi meritevole di sanzione penale.
In rare occasioni, invece, il Giudice delle Leggi ha sanzionato le scelte del legislatore, ritenendole non conformi al principio di offensività neanche nella sua accezione astratta: si tratta dunque di casi in cui la scelta stessa di penalizzare un certo comportamento è illegittima perché non in grado di arrecare alcuna offesa al bene giuridico tutelato.
I casi più celebri che si ricordano al riguardo sono quelli della sentenza n. 354 del 2002 e n. 249 del 2010 aventi rispettivamente ad oggetto il co. 2 dell’art. 688 c.p. (“Ubriachezza”) che, a seguito della depenalizzazione del co. 1 sullo stato di ubriachezza in pubblico, puniva qualcuno in base al semplice fatto di aver riportato procedimenti penali, e sull’aggravante di cui all’art. 61 n. 11 bis c.p. (cd aggravante della clandestinità) che stabiliva una presunzione di maggiore pericolosità solo per aver commesso il fatto durante la presenza illegale sul territorio nazionale.
I reati pericolo astratto
Tra l’altro, occorre precisare che, se i profili di potenziale illegittimità riguardano tutta la disciplina dei reati di pericolo, questi si acuiscono soprattutto in relazione alla sotto-categoria dei reati di pericolo astratto. Tali delitti a tutela penale anticipata possono essere suddivisi in:
- reati di pericolo concreto o
- di pericolo astratto.
I primi si riferiscono ai casi in cui, come avviene nell’art. 422 c.p. sul delitto di strage o al co. 2 dell’art. 423 c.p. (“Incendio”), il giudice ha il compito di verificare se, sulla base delle circostanze del caso concreto, il comportamento in questione possa risultare pericoloso per il bene tutelato. Per fare ciò, l’autorità giudiziaria deve compiere una prognosi postuma ex ante in concreto e valutare, dunque, compiendo un viaggio a ritroso al momento della condotta, non solo le circostanze che realmente erano note al soggetto agente, ma anche quelle da lui non conosciute e comunque esistenti.
Al contrario, tale tipo di valutazione è al giudice del tutto preclusa nella fattispecie di pericolo astratto, quale è il co. 1 dell’art. 423 c.p. sull’incendio. In questi casi, infatti, è necessario solamente verificare la presenza dei presupposti indicati dalla legge, a prescindere dalla ricostruzione della situazione specifica e dal fatto se il decorso causale suggerisca, anche attraverso il ricorso a leggi scientifiche, la possibilità in concreto di determinare un pericolo. Chiaro è, dunque, come tale seconda categoria determini una deroga ancora più vistosa al principio di offensività, rischiando di penalizzare anche situazioni di fatto irrilevanti ed innocue.
Considerazioni conclusive
Le considerazioni sin qui svolte spingono pertanto a chiedersi se fattispecie così costruite siano ammissibili in un ordinamento fondato come il nostro su garantisti e fondamentali valori costituzionali. Non verrebbero in risalto solo profili di contrasto con il principio di offensività, ma si aprirebbero dibattitti anche sull’opportunità di investire tempo e risorse della macchina giudiziaria per punire situazioni dove, addirittura talvolta neanche in concreto, è stato attentato il bene giuridico da tutelare. Stando così le cose sembra che né il legislatore né il Giudice delleleggi si siano troppo preoccupati della questione, giungendo sempre a giustificare l’anticipazione della tutela con la superiorità del valore salvaguardato.
Informazioni
Giorgio Marinucci – Emilio Dolcini – Gian Luigi Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale
Giovanni Fiandaca – Enzo Musco, Diritto penale parte generale
[1] Sul reato di strage, Il reato di strage – DirittoConsenso, 18 ottobre 2021.
[2] Per un approfondimento sulla disciplina penale in tema di incendi, La disciplina penale sugli incendi – DirittoConsenso, 9 settembre 2020.
[3] Per un approfondimento sul punto si veda “Il modesto quantitativo di stupefacenti”, in Il modesto quantitativo di stupefacenti – DirittoConsenso, 24 maggio 2022.
La coltivazione di sostanze stupefacenti
Il tema della coltivazione di sostanze stupefacenti è particolarmente divisivo per la difficile individuazione in concreto delle condotte al di sopra della soglia di offensività
La fattispecie della coltivazione di sostanze stupefacenti
Ad intervalli di tempo torna ad affacciarsi sul dibattito pubblico il tema della coltivazione di sostanza stupefacenti e delle sue eventuali conseguenze penali. Il Testo Unico sulle Sostanze Stupefacenti (D.P.R. n. 309 del 1990) agli artt. 26 e 73 penalizza infatti la condotta di chi coltiva sostanze stupefacenti[1]. In vero, il legislatore ha scelto di condannare, oltre alle condotte di produzione, fabbricazione, estrazione, raffinazione, vendita, cessione, distribuzione, commercio, trasporto e consegna, anche ogni attività riconducibile ad una coltivazione non autorizzata di piante idonee a produrre le sostanze psicotrope di cui alla tabella allegata al testo normativo ed aggiornata periodicamente dal Ministero della Salute.
Secondo tale disciplina a livello astratto verrebbero punite tutte le condotte che riguardano l’intero ciclo biologico della pianta, comprese quelle prodromiche alla semina, quali la preparazione del terreno e la messa a dimora dei semi, e quelle volte a stimolare il processo produttivo come l’innaffiatura, la cura e la concimazione delle piante fino al momento della raccolta, il quale si ricongiunge poi alla successiva fase della produzione.
La Corte Costituzionale e la coltivazione di sostanze stupefacenti
Se però la disposizione legislativa sembrerebbe chiara e di agevole portata applicativa, come spesso accade, il confronto con le molteplici situazioni concrete pone numerosi interrogativi sulla loro riconducibilità alla fattispecie penale della coltivazione di sostanze stupefacenti. La giurisprudenza e la dottrina si sono pertanto interrogate più volte nel tempo su quando una condotta superi la soglia della punibilità.
Il tema quindi della coltivazione di sostanze stupefacenti pone la controversa questione dell’ammissibilità di situazioni che, pur astrattamente rispondenti al fatto tipico descritto dalla norma incriminatrice, siano in concreto prive di capacità lesiva del bene giuridico che l’ordinamento vuole tutelare. Numerosi sono infatti i casi nei quali i giudici di merito e di legittimità, arrivando talvolta a porre il quesito alla stessa Corte Costituzionale, si sono chiesti se dovessero essere punite delle condotte di coltivazione di sostanze stupefacenti aventi una percentuale modestissima di principio attivo non in grado di generare un effetto drogante o comunque ad uso meramente domestico.
Il Giudice delle leggi si è dunque trovato ad affrontare la questione già nel 1994, con la pronuncia n. 443, dichiarando inammissibile una questione di legittimità costituzionale relativa agli artt. 28, 72, 73 e 75 D.P.R. 309/1990, che era stata sollevata per la prospettata violazione dei principi di parità di trattamento e di ragionevolezza, nella parte in cui le disposizioni richiamate non escludevano la illiceità penale delle condotte di coltivazione o fabbricazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all’uso personale. Ma particolarmente significativa è stata la pronuncia n. 360 del 1995 con la quale la Corte Costituzionale ha chiarito in modo definitivo la portata applicativa dell’art. 73 T.U. Stupefacenti e la sua relazione con il principio di offensività.
Il principio di offensività secondo la Corte Costituzionale
Il caso riguardava infatti un individuo che coltivava 10 piantine di canapa indiana contenenti però un principio tossicologico nella misura dello 0,64%, quindi particolarmente modesto. Il Giudice delle leggi ha operato una disamina del principio offensività, di sovente richiamato nelle fattispecie appartenenti a tale categoria. Chiarita infatti la sua rilevanza costituzionale, la Corte ha ribadito come occorra distinguere tra il principio di offensività in astratto ed il principio di offensività in concreto. Mentre in verità la valutazione della prima accezione spetta al legislatore e alla stessa Corte Costituzionale, quella della seconda deve essere operata direttamente dal giudice di merito a cui è sottoposto il caso specifico.
Il principio di offensività in astratto nel reato di coltivazione di sostanze stupefacenti si basa dunque su un’analisi della potenziale capacità delle condotte descritte di mettere in pericolo il bene della salute pubblica. Solo qualora le ipotesi indicate nelle fattispecie legislative siano del tutto inidonee a questo si potrebbe parlare di incostituzionalità dell’art. 73 T.U. Proprio per tale motivo, il Giudice delle leggi conclude per l’infondatezza della questione ritenendo che “ove l’offensività sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta perché l’indispensabile connotazione di offensività di quest’ultima implica di riflesso che anche in concreto l’offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo”.
Non è quindi compito della Corte Costituzionale dichiarare l’incostituzionalità del reato di coltivazione di sostanze stupefacenti perché la fattispecie non è offensiva in astratto, ma è al contrario possibile per il giudice di merito trovare un modo di interpretare la disposizione in modo costituzionalmente orientato così da escludere dall’area del penalmente rilevante condotte astrattamente riconducibili alla norma ma in concreto inidonee ad offendere il bene giuridico protetto.
L’inoffensività della coltivazione di sostanze stupefacenti per uso personale
Nel corso del tempo la Corte Costituzionale è stata poi chiamata più volte a pronunciarsi sul punto, senza però apportare significative revisioni al proprio orientamento. È opportuno tuttavia segnalare una pronuncia più recente, la n. 109 del 2016, con cui ha dichiarato infondata una questione di legittimità in relazione all’art. 75 T.U. Stupefacenti per violazione dei principi di uguaglianza, ragionevolezza e offensività nella parte in cui questa non prevedeva che si degradasse a illecito amministrativo la condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti per mero uso personale. Tra le altre argomentazioni, la Corte si è concentrata sulla considerazione secondo la quale, alla luce anche dell’evoluzione giurisprudenziale, i beni tutelati dalla fattispecie siano plurimi: la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico, ma anche il normale sviluppo delle giovani generazioni. Da ciò ne consegue che la coltivazione di sostanze stupefacenti laddove finalizzata all’uso personale, poiché non prodromica all’immissione della droga sul mercato, risulterebbe inoffensiva in quanto radicalmente inidonea a ledere i beni giuridici sopra indicati.
Anche in tal caso però si tratta di un’opera esegetica che deve fare il giudice di merito alla luce dei principi costituzionali.
La Corte di Cassazione sulla coltivazione di sostanze stupefacenti: un primo orientamento
Allo stesso modo anche la giurisprudenza di legittimità si è trovata ad affrontare la questione della punibilità in concreto delle condotte di coltivazione di sostanze stupefacenti. Nel corso del tempo si sono sviluppati diversi orientamenti. Un primo orientamento più risalente in vero configurava il reato di coltivazione di sostanze stupefacenti come una fattispecie di pericolo astratto, secondo la quale dunque, il legislatore ha inteso punire qualsiasi condotta potenzialmente idonea a compromettere il bene giuridico in questione di rilevanza collettiva, e quindi considerato superiore, prescindendo da ogni accertamento concreto del giudice. Ciò comportava che, anche in presenza di un estremamente modica quantità di sostanza stupefacente sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo vi sarebbe stata punibilità ex art. 73 T.U. Stupefacenti. Tale principio di diritto è stato dunque espresso nella pronuncia n. 31472 del 2004, mentre con la decisione n. 150 del 2005 ha chiarito che l’integrazione dell’ipotesi di reato si ha anche quando l’uso della coltivazione è esclusivamente a fini personali, poiché la finalità domestica delle sostanze può escludere la punibilità solamente qualora sia accostate alle diverse condotte di detenzione, importazione ed acquisto.
La Corte di Cassazione sulla coltivazione di sostanze stupefacenti: un secondo orientamento
Un diverso orientamento, sintetizzato nella sentenza n. 35796 del 2007, ha invece ritenuto che la fattispecie sia stata costruita come un reato di pericolo concreto e dunque potrebbe non essere penalmente rilevante la presenza di un dato quantitativo estremamente ridotto e come tale non idoneo a mettere effettivamente a repentaglio il bene giuridico salvaguardato.
Tuttavia, anche questa seconda veduta, ad oggi quella di gran lunga prevalente, può essere suddivisa in due indirizzi principali.
- Da un lato vi è infatti chi sostiene che l’accertamento fatto in concreto dal giudice debba riguardare, non il principio attivo ricavabile, ma “la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente” (Cass. n. 22459/2013); tale interpretazione, sebbene forse più aderente al dato letterale finisce tuttavia per depotenziare la portata ermeneutica del principio di offensività. Alla luce di questo filone, dunque, vi rientrerebbero anche casi in cui il ciclo di maturazione non si sia ancora completato ma risulti verosimile che al termine dello stesso si produrranno quantità di prodotto avente effetto drogante, considerando che la scelta del legislatore di separare la condotta della coltivazione delle sostanze stupefacenti da ogni altra attività comporta un arretramento della tutela fin dalle prime fasi della piantagione.
- Il secondo filone, invece, più recente, ritiene che la punibilità non possa basarsi solamente sulla corrispondenza del tipo di coltivazione ad una di quelle indicate dalla normativa, ma che sia necessario accertare l’offensività in concreto, arrivando ad escluderla ogni qualvolta la sostanza ricavata o ricavabile non costituisca un pericolo diretto ed attuale per la salute pubblica. Si è così esclusa l’offensività in casi nei quali in cui, pur non essendo del tutto insignificante il quantitativo di piantagioni coltivate, il principio attivo ricavabile era trascurabile e non comportante alcun pericolo per i beni salvaguardati (Cass. 36037/2017).
Le SS. UU. Caruso sulla coltivazione delle sostanze stupefacenti
Negli ultimi anni ha rappresentato un importante punto di approdo la sentenza delle SS. UU. Caruso (Cass. n. 12348/2019).
Riprendendo delle argomentazioni già svolte dai giudici di legittimità nella decisione n. 2860/2008 (c.d. Di Salvia), la Corte ha voluto distinguere in maniera decisa il piano della tipicità da quello dell’offensività. Sul piano della tipicità si precisa la necessità di accertare la conformità del tipo di pianta ad una di quelle vietata, ed inoltre si esclude che la coltivazione di sostanze stupefacenti ad uso meramente personale possa essere equiparata alla differente condotta di detenzione. Piuttosto, secondo i giudici di legittimità, residuerebbe uno spazio di autonomia che porterebbe all’esclusione della rilevanza penale della coltivazione domestica che la distinguono tanto dalla depenalizzata attività di detenzione, quanto dalla più raffinata coltivazione tecnico – agraria. Tali indici individuati di carattere oggettivo sono:
- la prevedibilità della potenziale produttività;
- l’entità della coltivazione;
- le modalità di svolgimento (in forma domestica o industriale);
- la rudimentalità o meno delle tecniche utilizzate;
- il numero delle piante coltivate;
- la oggettiva destinazione del prodotto.
Inoltre, le SS. UU. Caruso, sotto il distinto profilo dell’offensività, hanno ribadito come sia compito del giudice, attraverso un accertamento ex post, valutare la concreta possibile lesione della salute pubblica.
Per cui, sebbene ai fini dell’integrazione del requisito della tipicità sia sufficiente la conformità della tipologia della coltivazione e la sua capacità di giungere a maturazione, vengono escluse da tale delimitazione tipica tutte quelle “attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.
Conclusione
Ciò che emerge è dunque un quadro legislativo pieno di incertezze interpretative e applicative a cui la giurisprudenza non può da sola dare una risposta definitiva. Si auspica dunque una più unitaria operazione esegetica da parte dei giudici di merito e maggiore chiarezza definitoria da parte dello stesso legislatore.
Informazioni
Fernanda Serraino, Il problema della rilevanza penale della coltivazione di piante da stupefacenti tra offensività e ragionevolezza, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.2, 1 giugno 2021, pag. 525
La coltivazione in forma domestica di sostanze stupefacenti per uso personale, in La coltivazione in forma domestica di sostanze stupefacenti per uso personale (diritto.it)
Coltivazione di stupefacenti e principio di offensività: giurisprudenza di legittimità e declinazioni concrete, in Coltivazione di stupefacenti e principio di offensività: giurisprudenza di legittimità e declinazioni concrete (questionegiustizia.it)
[1] In particolare, sull’art. 73 T.U. Stupefacenti si veda Art. 73 DPR 309/90: le condotte punite, in Art. 73 DPR 309/90: le condotte punite – DirittoConsenso.it, 5 maggio 2020.
Il finanziamento illecito ai partiti politici
La storia della disciplina del finanziamento illecito ai partiti e del suo crescente ruolo nel dibattito politico e giudiziario
All’origine della disciplina sul finanziamento illecito ai partiti
La materia del finanziamento illecito ai partiti politici ha conosciuto negli anni significative evoluzioni ed interpretazioni giurisprudenziali che l’hanno portato non solo al centro del dibattito pubblico e dell’attenzione politica, ma anche ad essere l’oggetto di approfondite analisi dottrinali e riforme legislative.
La disciplina originaria vide la luce nel 1974 con la Legge n. 195 del 2 maggio (cd Legge Piccoli) che, all’art. 7, rubricato proprio “Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici” sanzionava penalmente con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e una multa fino al triplo delle somme versate, i finanziamenti ai partiti derivanti da organi della pubblica amministrazione, da enti pubblici, da società con partecipazione di capitale pubblico superiore al 20% oppure società con partecipazione di capitale pubblico inferiore al 20% ma in cui la partecipazione assicurasse comunque al soggetto pubblico il controllo ed infine da società senza partecipazione di capitale pubblico che effettuassero finanziamenti senza che fossero stati deliberati dall’organo sociale competente e regolarmente iscritti in bilancio.
Al contrario, erano invece leciti, da un lato i finanziamenti ai gruppi parlamentari, tenuti a rendere il 95% delle somme ricevute ai rispetti partiti, e dall’altro il finanziamento dell’attività elettorale.
Il finanziamento illecito ai partiti dopo “Mani Pulite”
Tale legge, tuttavia, rimase per molto tempo relegata in un cono d’ombra senza di fatto essere mai applicata fino ad uno dei momenti di maggiore crisi e delegittimazione delle istituzioni politiche italiane: lo scoppio dello scandalo di “Tangentopoli”[1]. Infatti, l’inaudita eco generata dalle inchieste di “Mani pulite” riportò sulla scena pubblica tale disciplina, ormai obsoleta e inadeguata.
La legge n. 195/1974 non attribuiva in vero alcuna rilevanza penale ai finanziamenti ai partiti provenienti dall’estero, né prevedeva efficaci sistemi di controllo contabile sui bilanci dei partiti, mentre, al contrario, si preoccupava di delimitare la cerchia dei soggetti cui era fatto divieto di erogare contribuzioni politiche. Tale quadro legislativo ambiguo e confusionario si era inevitabilmente tradotto in una maggiore facilità a mettere in atto fenomeni di corruzione.
Per questo il primo significativo tentativo di risolvere le lacune lasciate dalla legge del 1974 vi fu in seguito al referendum del 1993 proposto dal partito Radicale che però portò solo all’abolizione, e quindi all’illiceità, del finanziamento indiretto ai partiti tramite i rispettivi gruppi parlamentari, lasciando invece inalterate le disposizioni sui finanziamenti per l’attività elettorale. Il tormentato iter di regolamentazione del finanziamento illecito ai partiti non si è però esaurito in quella sede, continuando a tenere acceso il dibattito parlamentare nel tentativo di aumentare la quota di rimborsi elettorali, così da eludere il referendum del 1993.
Le misure recenti per il contrasto al finanziamento illecito ai partiti
Venendo ai tempi più recenti, gli ultimi governi hanno tutti cercato di apporre la loro bandiera nella lotta alla scissione del legame tra finanziamento ai partiti politici e corruzione. Dal governo Monti, che nel 2012 ha ridotto i rimborsi elettorali, al governo Letta che è invece si è spinto a riscrivere interamente la relativa disciplina con il decreto-legge 47/2013, convertito dalla legge 13/2014. Per la prima volta, vi è stata un’abolizione tout court delle forme di finanziamento diretto, anche di quelle perpetuate tramite l’elusiva pratica dei rimborsi elettorali.
Restano invece lecite alcune condotte quali il 2 per mille dei contribuenti tenuti a redigere la propria dichiarazione dei redditi, o i fondi che i gruppi parlamentari ricevono da regolamento parlamentare per finanziare le loro attività istituzionali e che provengono proprio dal bilancio di Camera e Senato, o ancora le erogazioni liberali da parte di privati, fino ad un massimo di 100 mila euro.
Proprio queste ultime via d’uscita legalmente previste hanno fanno sì che il sistema si ingegnasse per eludere nuovamente la normativa, attraverso la nascita di fondazioni private, proliferate soprattutto negli ultimi anni, collegate a forze politiche. Proprio su tale fronte ha inciso la “Spazzacorrotti” (Legge 9 gennaio 2019, n. 3), equiparando queste ultime agli stessi partiti indicati nella normativa originaria. Tale ultima legge nasce infatti con l’intento di “rafforzare gli obblighi di trasparenza sia in ordine ai contributi ricevuti, sia alla presentazione delle candidature”[2].
Il finanziamento illecito ai partiti esteso anche al candidato sindaco
In particolare una questione oggetto negli anni di dispute giurisprudenziali, è quella riguardante l’inclusione o meno, tra i destinatari della disciplina sul finanziamento illecito ai partiti politici, anche della figura del candidato sindaco.
L’orientamento prevalente, fino al recente mutamento della Corte di Cassazione, era quello secondo il quale la figura del candidato sindaco non potesse essere equiparata a quella del consigliere comunale, prevista invece dalla normativa sul finanziamento illecito ai partiti[3].
Tuttavia, recentemente la Suprema Corte è tornata sul punto offrendo un nuovo punto di vista e una differente interpretazione che l’ha portata proprio ad estendere il raggio di applicazione della disciplina anche al candidato sindaco[4]. L’assunto dal quale muove il ragionamento della Corte è quello secondo il quale la precedente sentenza n. 28045/2017 non aveva considerato che è certamente vero che al momento dell’entrata in vigore dell’art. 4 della legge n. 659/1981 il sindaco non veniva eletto direttamente dal corpo elettorale, ma la situazione aveva subito un aggiornamento con la legge n. 81 del 1993. Dunque, stando alla giurisprudenza più recente, “il mancato riferimento nell’art. 4 cit. alla figura del candidato sindaco potrebbe non essere il frutto di una obiettiva scelta del legislatore, quanto, piuttosto, di un mancato coordinamento della legge n. 659 del 1991 con quella n. 81 del 1993 con la quale è stato introdotto nell’ordinamento il sistema della elezione diretta del sindaco”.
Non vi sarebbe pertanto alcuna necessità di interpretazione estensiva del citato art. 4 della legge sul finanziamento illecito ai partiti né di interpretazione analogica o in malam partem[5]al di fuori dei casi tassativamente indicati, ma semplicemente di coordinamento tra l’originale L. n. 659/1981 e la successiva L. n. 81/1993.
Il finanziamento illecito ai partiti e le fondazioni
Negli ultimi anni uno dei punti che più hanno suscitato accesi dibattiti e clamore mediatico riguarda il ruolo assunto dalle fondazioni nello schema del finanziamento illecito ai partiti politici. Come accennato, infatti, le via via più stringenti limitazioni messe in atto dalle passate legislature per aumentare la trasparenza nell’attività dei partiti e delle forze politiche e ridurre la piaga della corruzione, avevano portato a servirsi di mezzi alternativi, formalmente leciti, per perseguire i medesimi scopi illeciti. Tra questi si segnala per l’appunto la nascita di fondazioni private, collegate però a partiti esistenti e che quindi facevano sì che di fatto il bacino destinatario dei fondi fosse il medesimo.
Proprio per questo motivo, la L. n. 3/2019 ha modificato l’articolo 5 del decreto-legge 28 dicembre 2013 n. 149 equiparando in toto ai partiti e ai movimenti politici “le fondazioni, le associazioni e i comitati la composizione dei cui organi direttivi sia determinata in tutto o in parte da deliberazioni di partiti o movimenti politici ovvero i cui organi direttivi siano composti in tutto o in parte da membri di organi di partiti o movimenti politici ovvero persone che siano o siano state, nei dieci anni precedenti, membri del Parlamento nazionale o europeo o di assemblee elettive regionali o locali ovvero che ricoprano o abbiano ricoperto, nei dieci anni precedenti, incarichi di governo al livello nazionale, regionale o locale ovvero incarichi istituzionali per esservi state elette o nominate in virtu’ della loro appartenenza a partiti o movimenti politici, nonché le fondazioni e le associazioni che eroghino somme a titolo di liberalità o contribuiscano in misura pari o superiore a euro 5.000 l’anno al finanziamento di iniziative o servizi a titolo gratuito in favore di partiti, movimenti politici o loro articolazioni interne, di membri di organi di partiti o movimenti politici o di persone che ricoprono incarichi istituzionali”.
Con la precisazione, però, operata dalla giurisprudenza, onde evitare una irragionevole estensione di tale disciplina, secondo la quale non è sufficiente una mera coincidenza di finalità politiche, essendo invece necessaria una concreta simbiosi operativa tale per cui la fondazione possa essere considerata una vera e propria articolazione del partito[6].
Le fondazioni nel finanziamento illecito ai partiti: il caso Open
La sentenza in questione peraltro si era pronunciata su un decreto di perquisizione e sequestro emesso dalla Procura di Firenze nell’ambito delle indagini sulla fondazione Open, caso particolarmente caldo nel dibattito politico e mediatico di queste settimane.
Tale fondazione, infatti, avrebbe, secondo gli inquirenti, sostenuto dal 2012 al 2018 in modo indiretto le attività del Partito Democratico, di cui allora era segretario l’ex Presidente del Consiglio e attuale senatore Matteo Renzi. Sebbene le indagini siano iniziate poco più di due anni fa, essi si sono concluse solo intorno metà ottobre con l’invio da parte del Procuratore della Repubblica di Firenze di 15 avvisi di conclusione delle indagini, di cui 11 a persone fisiche e 4 a società.
Nello specifico, secondo la ricostruzione delle autorità inquirenti, la fondazione sarebbe stata creata e avrebbe agito come una vera e propria articolazione interna del partito, creando un canale per far transitare dei soldi (3,6 milioni secondo la procura) in favore soprattutto dell’”attività politica di Renzi, Lotti e Boschi e della corrente renziana” del Partito Democratico.
Mettendo però da parte la narrazione giornalistica e riportando la questione in un ambito più giuridico, la condotta sarebbe stata posta in essere prima dell’entrata in vigore della “Spazzacorrotti” e quindi dell’equiparazione tra le fondazioni collegate ad una forza politica e quest’ultima ai fini dell’applicazione della disciplina sul finanziamento illecito ai partiti. Pertanto, le accuse si baserebbero non su un’inammissibile analogia in malam partem[7], ma su una specifica interpretazione funzionale del dato testuale e soprattutto del concetto de-formalizzato di “articolazione di un partito”.
Conclusioni
A prescindere dal caso di specie, la condotta di finanziamento illecito ai partiti costituisce un serio ostacolo alla trasparenza del sistema e la fondazione Open sarebbe solo una delle tante fondazioni proliferate negli ultimi anni e aventi collegamenti con forze politiche di alquanto dubbia legittimità. Proprio quindi perché potenziali fonti di condotte illecite, il Greco, l’organo anti corruzione del Consiglio d’Europa ha apprezzato il giro di vite attuato dalla “Spazzacorrotti”, promuovendo per la prima volta l’Italia[8].
Ma la strada è ancora in salita e miglioramenti devono essere attuati al sistema di controllo dei finanziamenti alla politica se davvero si vogliono eliminare le condotte elusive via via messe a punto negli anni.
Informazioni
Forzati F., Il finanziamento illecito ai partiti politici. Tecniche di tutela ed esigenze di riforma, Jovene, 1998.
Finanziamento ai partiti, come era e com’è, in Finanziamento ai partiti, come era e com’è – Il Sole 24 ORE, 28 novembre 2019.
Fondazione politica o partito? Rilevanza della distinzione e criteri di accertamento in una pronuncia della Cassazione in tema di finanziamento illecito nel caso Open, in F. Lazzeri | Fondazione o partito? Il caso Open in Cassazione | Sistema Penale | SP, 17 novembre 2020.
[1] Per dare un’idea della scarsa considerazione di tale legge basti pensare che fino a quel momento l’unico caso registrato di applicazione della disciplina sul finanziamento illecito ai partiti fu in un’unica sentenza del 1990, peraltro di archiviazione.
[2] Vedi “Disciplina e trasparenza dei partiti politici e delle fondazioni”, in https://www.camera.it/temiap/documentazione/temi/pdf/1104961.pdf, 22 aprile 2020; per un approfondimento più specifico sul concetto di trasparenza e sul suo legale con la lotta alla corruzione si veda “Il principio della trasparenza”, in http://www.dirittoconsenso.it/2021/03/05/principio-della-trasparenza/, 5 marzo 2021.
[3] Cass. Pen., III sez., n. 28045/2017.
[4] Cass. Pen., VI sez., n. 16871/2021.
[5] Con l’espressione “interpretazione in malam partem” si intende un’interpretazione che dispone un trattamento in senso peggiorativo per il reo.
[6] Cass. Pen., VI sez., n. 28796/2020.
[7] Confronta nota n. 5.
[8] Cfr. https://www.gnewsonline.it/rapporto-europeo-sulla-corruzione-il-greco-promuove-litalia/.
La pirateria di contenuti digitali
Il lockdown ha segnato un significativo aumento della pirateria di contenuti digitali, evidenziando la necessità di intervenire tempestivamente per contrastarla
Cos’è la pirateria di contenuti digitali
Nell’era dello streaming, dei download, delle visualizzazioni e delle digitalizzazioni di contenuti diventa più che mai necessario proteggere il diritto d’autore da quel complesso di condotte illecite che eludono i metodi di streaming regolari, non rispettando quindi il relativo copyright, e che rientrano nel concetto di pirateria di contenuti digitali. Infatti, stando alle stime della Commissione Europea sono 33 i settori economici all’interno dell’Unione Europea considerati ad alta intensità di diritti d’autore, comportanti circa 7 milioni di posti di lavoro pari al 3% degli occupati UE[1].
Questi dati testimoniano il vasto impatto che la pirateria di contenuti digitali potrebbe avere se non viene prontamente arginata. Essa, in breve, è considerata come l’”attività di chi, ottenendo illegalmente accesso a reti di informazione e archivi di dati informatici, copia programmi o dati riservati, oppure inserisce delle modifiche nella documentazione per ricavarne vantaggi illeciti”[2].
Forme di pirateria informatica
All’interno della categoria della pirateria informatica sono racchiuse condotte molto diverse come, ad esempio, la pirateria domestica, consistente nella duplicazione di software, video, musica e materiale coperto da diritto d’autore in ambiente domestico tramite masterizzazione e successiva divulgazione ad una ristretta cerchia di persone; o ancora l’underlising, vale a dire l’installazione di software su un numero di terminali maggiore rispetto a quello consentito dalla licenza d’uso; così come l’hard disk loading (vendita di PC su cui sono installati software contraffatti da parte della stessa azienda addetta alla vendita della macchina) e la contraffazione del software (vendita di copie di software piratato, imitandone il packaging e il confezionamento originale). Da ultimo vi è la pirateria online, la quale in realtà altro non sarebbe che una modalità di svolgimento della stessa attività illecita e che, proprio perché sfrutta le infinite potenzialità di internet per mettere a disposizione degli utenti ogni tipo di contenuto audiovisivo, è in assoluto la forma di pirateria più diffusa e sulla quale vale maggiormente la pena soffermarsi[3].
Come viene sanzionata la pirateria di contenuti digitali
La sempre maggiore diffusione di tale fenomeno tra i naviganti sul web ha così portato ad un intervento normativo. Secondo l’art. 174 ter della Legge sul diritto d’autore (L. n. 633/1941), chi esegue il download di un file protetto da copyright viene sì punito ma solamente con una sanzione economica tra 134 e 1032 euro, a seconda della quantità di materiale illecitamente scaricato.
Per dirla in parole semplici, in tale fattispecie rientra la comune situazione dell’utente che, non disponendo dell’apposito servizio in abbonamento e per ottenere un risparmio di spesa, approfitta di canali digitali alternativi per usufruire, sia scaricandoli che guardandoli solo in streaming, dei contenuti più disparati come ad esempio film, musica, partite sportive.
Ben più grave è invece il comportamento di chi non si limita ad usufruire di contenuti immessi nel sistema da altri, ma condivide per primo su internet un download eseguito illegalmente.
Pertanto, la stessa Legge sul diritto d’autore all’art. 171 ter lett. a) e a) bis introduce una nuova forma di illecito penale per chi compie azioni di file sharing rispettivamente con o senza finalità di lucro.
Nello specifico, se il soggetto agisce con l’intento di ottenere un profitto da tale attività, il giudice disporrà la pena della reclusione da sei mesi a tre anni ed una multa compresa tra i 2.582 a 15.493 euro; mentre qualora tale finalità sia mancante, sebbene la condotta resti reato, verrà applicata la sola pena della multa (da 51 a 2065 euro), con possibilità però di aumento (con reclusione fino ad un anno o multa non inferiore a 516 euro) se il reato è commesso su un’opera altrui non destinata alla pubblicità, ovvero con usurpazione della paternità dell’opera (o con deformazione, mutilazione o altra modificazione dell’opera medesima) qualora ne risulti un’offesa all’onore o alla reputazione dell’autore.
Chiaramente è bene non fare confusione: l’attività di file sharing non è di per sé sanzionata, lo è se il suo oggetto è stato ottenuto contravvenendo le regole a tutela del diritto d’autore.
La diffusione della pirateria di contenuti digitali in Italia
Come facilmente intuibile, tali condotte coinvolgono una nutrita fetta di internauti, che spesso ne ignorano o sottovalutano l’illiceità dedicandosi senza scrupoli alla pirateria musicale, cinematografica, editoriale, satellitare o videoludica.
Infatti, secondo l’indagine condotta dalla FAPAV (Federazione italiana per la tutela dei contenuti audiovisivi e multimediali) nel 2019 la pirateria di contenuti audiovisivi in Italia coinvolgeva il 37% della popolazione di internet, dato salito al 40% durante il solo lockdown dello scorso anno dovuto alla pandemia da Covid-19.
Il contenuto più diffuso è rappresentato dai film (31% del totale sia nel 2019 che durante la quarantena del 2020), seguiti da serie/fiction (rispettivamente 23% e 24% nelle due annate), programmi tv (con un incremento durante il lockdown dal 17% al 22%) e sport live (che chiaramente è passato dal 10% nel 2019 allo 0% in quarantena a causa del fermo di tutte le attività sportive)[4].
L’aumento di tale fenomeno durante dei mesi in cui quasi l’intera popolazione, soprattutto i più giovani, passava la maggior parte del proprio tempo in casa è facilmente immaginabile e spiegabile. Tuttavia, quello che forse è meno noto è il danno all’economia italiana che questo significativo aumento di casi di pirateria di contenuti digitali ha causato in soli due mesi. Si è stimata infatti una perdita di quasi un miliardo e cento milioni di euro, avente un impatto negativo sul Pil di quasi 500 milioni di euro e mancati introiti nelle casse dello Stato per 200 milioni di euro. Senza contare che ovviamente più utenti usufruiscono di tali canali illeciti e più vengono messi a rischio posti di lavoro nei settori interessati.
A maggior ragione tale dato preoccupa se si considera che, sempre secondo quanto riporta la FAPAV, circa il 45% dei pirati di contenuti digitali considera nullo o comunque basso il rischio di essere scoperti ed andare incontro a sanzioni.
Ciò dimostra come forse gli strumenti normativi presenti nel nostro ordinamento e i controlli richiesti non siano sufficienti per arginare significativamente tale fenomeno.
Una prospettiva ottimistica contro la pirateria di contenuti
Tuttavia, vi sono anche dei dati che lasciano ben sperare sul contrasto alla pirateria di contenuti digitali.
Infatti, il periodo post-lockdown ha segnato una diminuzione di tale fenomeno che è tornato ai livelli pre-pandemici, restando però ancora troppo elevato e preoccupante. Arrivano quindi segnali positivi sul fronte normativo soprattutto dopo l’adozione lo scorso agosto dello schema di decreto legislativo da parte del Consiglio dei ministri in ricezione della Direttiva UE 790/2019 avente proprio il primario obiettivo di rafforzare la tutela del diritto di autore e degli artisti in modo da salvaguardare il loro “gesto creativo” e “valore autoriale” “anche attraverso una maggiore trasparenza da parte delle piattaforme digitali dell’opera creativa”[5].
Accolta positivamente è stata anche l’introduzione nel “Decreto Rilancio” di una disposizione che estende le competenze dell’Agcom ai servizi di messaggistica istantanea che utilizzano, anche indirettamente, risorse di numerazione locale per compiere violazioni del diritto d’autore e dei diritti connessi[6]. Questa, invero, a detta del Segretario generale della FAPAV Federico Bagnoli Rossi, potrebbe essere l’occasione per rendere più incisivi ed effettivi i controlli, rendendo centrale il ruolo dell’Agcom nel contrasto alla pirateria[7]. Lo stesso Decreto ha inoltre ripristinato l’incisivo potere di Agcom di comminare sanzioni per chi non rispetta l’obbligo imposto di rimozione dei contenuti diffusi illecitamente.
Se infatti, come visto, emerge una scarsa o comunque non significativa percezione del rischio da parte dei pirati digitali, questo dipende dall’insufficienza fino a questo momento di politiche sanzionatorie e di vigilanza. Si auspica quindi un tempestivo intervento che davvero segni un’inversione di rotta rispetto alla tendenza registrata finora.
Il progetto ETIQMEDIA come per il contrasto alla pirateria digitale
Nella stessa direzione si segnala un progetto che, sebbene di matrice spagnola, è stato finanziato a livello europeo e quindi coinvolge tutti i Paesi membri nella lotta alla pirateria di contenuti digitali. Esso è stato completato nel febbraio 2020 ed è stato denominato ETIQMEDIA dal nome dell’host del progetto.
La vera innovazione di tale sistema consiste nel combinare insieme per la prima volta varie tecnologie quali il riconoscimento vocale, l’elaborazione delle immagini e l’analisi semantica dei testi al fine di contrastare in modo più preciso e veloce la pirateria di contenuti digitali.
Si tratta di un circuito che viene instaurato con il cliente che pubblica contenuti online: questi infatti rivela i canali mediatici autorizzati ad usarne i contenuti e successivamente la piattaforma cerca ed analizza l’uso non consentito, dandone avviso al cliente. L’utilizzo di tali avanzati strumenti tecnologici consente così di sostituire i servizi attuali che sono basati sul controllo manuale da parte degli operatori delle violazioni al diritto d’autore. Tale progetto, se correttamente sviluppato e messo in pratica dagli Stati, può segnare un effettivo salto di qualità proprio in quella rete di controlli che, come segnalato, si rivela carente e non preparata alle sempre più raffinate forme messe a punto dai pirati digitali per eludere le normative a tutela del copyright.
Conclusioni
Quello che emerge, quindi, da questa analisi è la nascosta ma preoccupante piaga della pirateria di contenuti digitali che, passando spesso inosservata, finisce per insediarsi nel tessuto economico del Paese.
Invero, la battaglia contro la pirateria digitale non è solamente una questione morale e di rispetto del lavoro degli autori di tali contenuti, ma ha a che fare anche con la salvaguardia dell’intera economia nazionale ed europea. Come visto, infatti, viene messo a rischio il lavoro e l’arte di migliaia di individui e vengono sottratte risorse ingenti alle casse dello Stato.
Si richiede sicuramente una maggiore consapevolezza ed educazione civica sul tema: proprio a questo mirano i recenti provvedimenti e progetti avviati prima a livello europeo, con la Direttiva UE 790/2019 e l’innovativo progetto ETIQMEDIA, ed ora anche a livello nazionale con il “Decreto Rilancio”. Bisognerà, tuttavia, attendere ancora per capire se effettivamente saranno implementati in modo efficiente e se riusciranno a preservare i contenuti audiovisivi dagli insistenti attacchi degli internauti abusivi.
Informazioni
“Pirateria online: tra abitudini ancestrali e nuove strategie di lotta”, https://www.altalex.com/documents/news/2016/03/03/pirateria-online.
“Come contrastare la pirateria digitale in Itali”, https://www.consumatori.it/telefonia/pirateria-digitale-italia/.
“Diritto d’autore, cambiano le regole: multe in arrivo per le violazioni via Telegram & co”, https://www.corrierecomunicazioni.it/media/diritto-dautore-cambiano-le-regole-multe-in-arrivo-per-le-violazioni-via-telegram-co/.
“Nel lockdown esplosione della pirateria di film e serie tv: i ragazzi dai 10 ai 14 anni compiono 40 milioni di atti illeciti all’anno”, https://www.lastampa.it/economia/2020/07/09/news/nel-lockdown-esplosione-della-pirateria-di-film-e-serie-tv-1.39062910.
[1] Fonte: https://digital-strategy.ec.europa.eu/en/policies/copyright.
[2] Dalla definizione di “pirateria informatica” contenuta in Enciclopedia Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/pirateria-informatica_%28Lessico-del-XXI-Secolo%29/.
[3] Per un maggiore approfondimento proprio sul tema della pirateria informatica e, nello specifico dello streaming illegale e delle sue caratteristiche, si veda “Lo streaming illegale”, su questo sito, 25 febbraio 2021, disponibile su http://www.dirittoconsenso.it/2021/02/23/lo-streaming-illegale/ .
[4] Fonte: Osservatorio | FAPAV.
[5] Vedi Comunicato stampa del Ministro Dario Franceschini, in https://cultura.gov.it/comunicato/21113.
[6] Decreto-legge “Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, 19 maggio 2020, n. 34, in GU Serie Generale n.128 del 19-05-2020 – Suppl. Ordinario n. 21.
[7] Vedi “Commento FAPAV sull’approvazione dell’emendamento al Decreto Rilancio in materia di tutela del Diritto d’Autore”, in https://fapav.it/decreto-rilancio-in-materia-di-tutela-del-diritto-dautore/.
L'obbligatorietà del modello 231
Si discute dell’obbligatorietà del modello 231 per prevenire la responsabilità ex d.lgs. 231/2001, che non contiene però indicazioni al riguardo
Cos’è il modello 231 e la sua obbligatorietà
Prima di addentrarsi a considerare l’obbligatorietà del modello 231 o meno, è bene partire da un’impostazione generale su cosa effettivamente esso sia.
Il d.lgs. n. 231/2001 ha introdotto una nuova e particolare forma di responsabilità per una serie di soggetti elencati dall’art. 1 co. 2 del decreto in parola – “enti forniti di personalità giuridica”, “società e associazioni anche prive di personalità giuridica” – al fine di contrastare efficacemente la criminalità economica d’impresa[1].
Si era invero appurato che le forme di responsabilità presenti nell’ordinamento, colpendo solo la persona fisica, non erano in grado di applicarsi ai cosiddetti “white collar crimes” dove l’individuo, oltre ad essere estremamente difficile da rintracciare, non è quasi mai autore esclusivo del fatto di reato ed in ogni caso è la società stessa la beneficiaria ultima dell’attività illecita e quindi è ad essa che dovrebbero applicarsi le sanzioni penali.
Pertanto, l’ormai ventennale provvedimento in questione mira proprio ad applicare misure sanzionatorie nei confronti di persone giuridiche al sussistere di determinati presupposti, indicati più nello specifico nella Sezione I del Capo I del decreto.
In particolare, ai fini della presente trattazione, occorre soffermarsi sul requisito dell’idoneità del Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo (MOG 231).
Tali modelli non sono altro, quindi, che dei veri e proprio protocolli, rispondenti a dei requisiti fissati dalla normativa stessa, che consentono alla società che li adotta di andare esente da ogni sanzione penale nel caso in cui un fatto illecito sia commesso da un soggetto di vertice o da un subordinato, applicandosi così la disciplina penalistica per le persone fisiche solamente nei loro confronti.
Quando il modello 231 è da considerarsi efficace?
Affinché il modello sia efficace, come facilmente intuibile, il primo requisito fondamentale è l’individuazione delle attività svolte dalla società in questione nelle quali potrebbero essere commessi dei reati.
Vi sono poi una serie di ulteriori specificazioni contenute nella normativa quali la previsione di specifici protocolli finalizzati a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire, l’individuazione delle modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati, nonché l’indicazione di obblighi di informazione nei confronti dell’Organismo di vigilanza e un sistema disciplinare idoneo a sanzionare chi contravviene alle misure indicate nel modello.
Inoltre, nel caso di modelli preposti al controllo dell’attività dei sottoposti si richiede che essi siano periodicamente soggetti a verifica e modifica “quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell’organizzazione o nell’attività” (art. 7 co.4).
Si segnala anche una particolarità introdotta nel d.lgs. n. 231/2001, importata da altri istituti: il whistleblowing. Infatti, per incentivare le segnalazioni di condotte illecite, che al contrario potrebbero essere pregiudicate dal timore di ritorsioni, il modello deve garantire la tutela della riservatezza dell’identità di chi denuncia la commissione di un illecito. Tuttavia, sebbene la loro costruzione appaia estremamente complessa, è frequente che tali modelli non vengano ideati da zero, ma al contrario adottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti, così che sia facilmente individuabile da subito i reati a cui quel tipo di società potrebbe andare più probabilmente incontro e le misure che, sulla base dell’esperienza, si ritengono più adatte a contrastarli.
Facoltà o obbligatorietà del modello 231?
Compreso cosa e quale è il contenuto del cosiddetto MOG, resta quindi da verificare se vi sia un’obbligatorietà del modello 231 o invece una mera facoltà.
La risposta a tale quesito, come spesso accade in ambito giuridico, è più complessa di una semplice affermazione o negazione.
Infatti, dall’art. 6 co. 1 lett. a) d.lgs. n. 231/2001, che esclude la responsabilità dell’ente per i reati commessi dai suoi vertici o sottoposti se “l’organo dirigente ha efficacemente adottato e attuato modelli organizzativi e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi”, fa intendere che non vi sia nessuna obbligatorietà del modello 231. Chiaramente però la società che, per risparmiare sugli inevitabili costi dovuti all’adozione di un modello, trascuri di adottarlo andrà necessariamente incontro a delle sanzioni al sussistere degli altri presupposti specificati dalla normativa.
Tuttavia, sebbene la legislazione nazionale non codifichi l’obbligatorietà del modello 231, nel corso degli anni vi sono state delle iniziative di legislazione regionale che vanno nella direzione di imporre l’adozione del modello per poter ottenere o mantenere l’accreditamento in alcuni settori specifici. In particolare, tra tali provvedimenti regionali si sottolinea il decreto n. 588/2010 con cui la regione Lombardia ha reso l’adozione ed implementazione del modello una conditio sine qua non per consentire agli enti che svolgono servizi formativi di trattare con la regione stessa[2].
Ed ancora prima, la Legge della regione Calabria n. 15 del 21 giugno 2008, richiedeva alle imprese che operavano in un regime di convenzione con la stessa di adeguarsi a tale modello[3].
Così come l’AGCM esige la presenza del MOG 231 come elemento di valutazione ai fini dell’attribuzione del punteggio per il rating di legalità.
E ancora, il Codice degli appalti (d.lgs. n. 50/2016), all’art. 80 considera tra le cause di esclusione ad una gara la condanna penale ad una serie di reati quasi interamente sovrapponibili a quelli elencati dal d.lgs. n. 231/2001[4]. Un modello idoneo ed efficiente, quindi, oltre ad evitare che la sanzione per il fatto commesso dalla persona fisica gravi sulla società, consente la partecipazione a gare pubbliche.
Pertanto, richiedendo la necessaria implementazione del MOG 231 per poter rapportarsi con le istituzioni ed accedere al mercato, si è introdotto un più appetibile incentivo rispetto a quello debole dell’efficacia esimente dalla responsabilità ex 231, non ritenuta compensata dai costi non esigui della conformazione al modello.
Infatti, secondo un’indagine pubblicata nell’aprile 2017 da Confindustria, in collaborazione con TIM, solo il 36% delle imprese medio-piccole prese a campione sono dotate di un MOG, implementati soprattutto tra il 2008 e il 2013, vale a dire quando nel catalogo dei reati presupposto per la responsabilità ex 231 si sono introdotti i reati colposi in materia di salute e sicurezza sul lavoro, a testimonianza del fatto che ad incentivare le aziende è più il concreto rischio di andare incontro ad un procedimento penale che non la gravità del reato presupposto[5].
Quale è il passaggio successivo all’adozione del modello 231?
Una volta che il modello è stato adottato e implementato, per sorvegliare sul suo effettivo rispetto è fondamentale, oltre alla parte prescrittiva e sanzionatoria, il ruolo dell’Organismo di vigilanza, vero soggetto centrale di tutto il sistema prevenzionistico.
Esso deve essere dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo al fine di vigilare sull’effettivo funzionamento ed efficacia del modello. Ciò significa che, al fine di preservare l’indipendenza, non vi deve essere alcun rapporto di subordinazione o condizionamento da parte dell’organo dirigente.
Pertanto, qualora l’Organismo di vigilanza fosse parte del Consiglio di amministrazione della società, come è avvenuto ad esempio nel caso Riva F.i.R.E. s.p.a., vi sarebbe il rischio che i suoi controlli siano meramente fittizi e quindi sarebbe illegittimo[6].
Unica eccezione a tale requisito di indipendenza viene descritto, in modo poco coerente, nell’art. 6. co.4 dove si consente agli enti di piccole dimensioni di far svolgere le funzioni dell’organismo di vigilanza allo stesso organo dirigente.
Il rischio della mancata adozione del modello 231: il caso ThyssenKrupp
La responsabilità dell’ente da reato, e in particolare la necessità dell’adozione di un modello effettivo ed aggiornato, ha negli ultimi anni interessato particolarmente la giurisprudenza di legittimità. Infatti, la non obbligatorietà del modello 231 secondo la legge, ha portato le aziende a predisporre modelli di organizzazione e gestione solo fittizi, con lo scopo di costituire un’esimente alla responsabilità amministrativa da reato, ma di fatto non aggiornati e privi di controlli sul loro concreto rispetto.
Tra questi, si deve menzionare sicuramente il caso ThyssenKrupp, tragicamente balzato agli onori della cronaca a causa di un incendio scoppiato nella notte tra il 6 e 7 dicembre 2007 nello stabilimento torinese della ThyssenKrupp Acciai Speciali Terni s.p.a. che ha causato la morte di sette operai.
La sentenza viene ricordata soprattutto per aver chiarito il concetto di “interesse o vantaggio” nei reati colposi, ma è rilevante anche per sottolineare l’importanza del modello a fini esimenti e soprattutto le caratteristiche che esso deve possedere[7]. Infatti, i giudici appurarono che un modello di organizzazione era effettivamente stato predisposto dai dirigenti della società, ma esso aveva solamente un ruolo “di facciata”. In vero, non era stato aggiornato nemmeno a seguito dell’incendio, avvenuto appena un anno prima, nello stabilimento di Krefeld ed era stato giudicato ineffettivo per carenza di autonomia dell’Organismo di vigilanza.
Sono state così ritenute non sufficientemente convincenti le argomentazioni della società che aveva lamentato la ristretta tempistica per l’adozione del modello, dovuta al fatto che i reati colposi erano stati aggiunti da pochi mesi all’elenco dei reati presupposto con la L. n. 123/2007. Le misure devono infatti essere implementate tempestivamente e un elemento utile per capire l’effettiva attenzione alla questione della sicurezza e prevenzione di illeciti è rappresentato dalle Relazioni ai bilanci e dalle delibere degli organi esecutivi che si occupano di fare il punto sulle risorse destinate a tale obiettivo.
In sostanza, quindi, per soddisfare il requisito della presenza di un MOG 231 non basta si presenti come un mero “adempimento burocratico”, come la Cassazione ha definito quello applicato nel caso di specie, ma deve effettivamente garantire un adeguato controllo.
Conclusioni
Da questa breve panoramica sul MOG previsto dal d.lgs. n. 231/2001 viene risaltata la sua funzione special-preventiva per evitare che l’ente venga punito se ha efficacemente attuato una politica interna di repressione dei reati.
Non vi è quindi nessuna obbligatorietà del modello 231 imposta dalla legge. Tuttavia, visti i risultati non propriamente entusiasmanti che sono stati documentati e le tristi vicende di cronaca che hanno sottolineato quanto un modello aggiornato e sottoposto ad un effettivo controllo da parte dell’Organismo di vigilanza possa evitare gravi incidenti, la direzione verso la quale si sta procedendo ormai da diversi anni è quella di un’obbligatorietà de facto del modello 231.
Infatti, come si è visto, la mancata o fittizia adozione del modello, oltre ad esporre gli amministratori al rischio di azioni di responsabilità, non consente in un numero sempre maggiore di casi di partecipare a bandi o a contrattazioni con soggetti pubblici[8].
Informazioni
Procedura penale delle società, M. CERESA-GASTALDO, Giappichelli, 2019.
L’adozione del modello 231 da facoltà ad obbligo per le imprese, M. CATTADORI, in https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/288-l-adozione-del-modello-231-da-facolta-ad-obbligo-per-le-imprese#_ftn2, 22 dicembre 2010.
Una recente indagine su modelli organizzativi 231 e anticorruzione, M. VIZZARDI, in https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/5399-una-recente-indagine-su-modelli-organizzativi-231-e-anticorruzione, 9 maggio 2017.
[1] Cfr. D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 recante la “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”.
[2] Cfr. Decreto n. 5808 del 08/6/2010 rubricato “Approvazione dei requisiti e delle modalità operative per la richiesta di iscrizione all’albo regionale degli operatori pubblici e privati per i servizi di istruzione e formazione professionale e per i servizi al lavoro in attuazione dela D.G.R. N. VIII del 23 dicembre 2009”.
[3] Cfr. Legge Regione Calabria n. 15 del 21 giugno 2008, ove all’art. 54 statuisce: “co. I) Le imprese che operano in regime di convenzione con la Regione Calabria, sono tenute ad adeguare, entro il 31 dicembre 2008, i propri modelli organizzativi alle disposizioni di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, recante la “disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società, e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”, dandone opportuna comunicazione ai competenti Uffici Regionali”.
[4] Cfr. D. lgs. 18 aprile 2016, n. 50, che all’art. 80 co. 1 (“Motivi di esclusione”), recita: “Costituisce motivo di esclusione di un operatore economico dalla partecipazione a una procedura d’appalto o concessione, la condanna con sentenza definitiva o decreto penale di condanna divenuto irrevocabile o sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale”. Invece per un’indicazione più specifica su quali siano i reati presupposto del d.lgs. n. 231/2001, si veda l’articolo “I reati presupposto nella disciplina 231/2001”, pubblicato su Dirittoconsenso, http://www.dirittoconsenso.it/2021/08/23/reati-presupposto-disciplina-231-2001/.
[5] Vedi al riguardo, “Indagine modelli organizzativi 231 e anticorruzione”, Aprile 2017, in https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/Indagine231.pdf.
[6] Cfr. Cass., Sez. VI, 24 gennaio 2014, n. 3635, in http://ambientediritto.com/giurisprudenza/corte-di-cassazione-penale-sez-6-24-01-2014-sentenza-n-3635/.
[7] Cfr. Cass., Sez. Un., 18 settembre 2014, n. 38343, in https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2019/04/SSUU-Thyssenkrupp.pdf.
[8] Tribunale Milano, sez. VIII civ., 13 febbraio 2008, n. 1774, ha infatti ritenuto che la mancata adozione di un idoneo Modello di organizzazione e gestione legittima un’azione di responsabilità ex art. 2392 c.c. nei confronti degli amministratori, facendo così sorgere un obbligo risarcitorio in capo ai medesimi.