Diritto internazionale umanitario

Il diritto internazionale umanitario: in breve

Il diritto internazionale umanitario spiegato in breve: la sua nascita, di cosa si tratta e la normativa a cui bisogna fare riferimento

 

Introduzione storica al diritto internazionale umanitario

La nascita del diritto internazionale umanitario risale a molto tempo fa. Inizialmente il diritto internazionale umanitario era perlopiù diritto consuetudinario, cioè un diritto formato da regole non scritte seguite nei conflitti armati. Successivamente cominciano ad essere elaborati in modo più o meno dettagliato trattati bilaterali, i cartelli, che venivano talvolta ratificati dagli Stati belligeranti al termine di una battaglia.

Il diritto applicabile nei conflitti armati rimaneva pertanto limitato sia nello spazio che nel tempo, nel senso che valeva per una battaglia o una guerra specifica. Di seguito si vedrà, invece, come il diritto internazionale umanitario sia diventato una delle branche più codificate del diritto internazionale e come rappresenti per questo un fenomeno a sé stante[1].

I precursori del diritto internazionale umanitario sono Henri Dunant e Guillaume-Henri Dufour. Dunant formula un’idea di diritto internazionale umanitario in ‘’Un ricordo di Solferino’’ pubblicato nel 1862. Il generale Dufour non esita a dare sostegno all’idea di Dunant. Entrambi presiedono la Conferenza Diplomatica del 1864, nella quale Dunant si esprime dicendo “occasioni straordinarie, come ad esempio quelle in cui si riuniscono (…) i principali esponenti dell’arte militare, appartenenti a nazionalità diverse, non sarebbe augurabile che essi approfittassero di questi incontri per formulare qualche principio internazionale, dal carattere inviolabile e sancito da una convenzione che, una volta accettato e ratificato, servisse da fondamento per le Società di soccorso ai feriti nei vari paesi d’Europa?” e Dufour a Dunant dice “È necessario vedere attraverso esempi vividi come quelli che avete raccontato quante lacrime e tormenti costa la gloria dei campi di battaglia”.

L’idea diventa realtà quando il Governo svizzero spinto da cinque membri fondatori del CICR (Comitato Internazionale delle Croce Rossa) organizza nel 1864 una Conferenza Diplomatica a cui partecipano 16 Stati europei per l’adozione della ‘’Convenzione di Ginevra per il miglioramento delle condizioni dei feriti delle forze armate in campagna’.  Questa convenzione getta le basi dell’attuale diritto internazionale umanitario. Le principali caratteristiche di questo trattato sono:

  • Norme scritte permanenti aventi un fine universale per la protezione delle vittime dei conflitti;
  • natura multilaterale, aperto a tutti gli Stati;
  • obbligo di estendere le cure a tutti i militari feriti e malati, senza alcuna discriminazione;
  • rispetto del personale medico, del materiale e delle attrezzature sanitarie attraverso l’uso dell’emblema della Croce Rossa su fondo bianco.

 

In ogni caso sarebbe un errore pensare che la fondazione della Croce Rossa nel 1863 o l’adozione della Prima Convenzione di Ginevra abbiano segnato l’inizio del processo di edificazione del diritto internazionale umanitario così come lo conosciamo noi oggi.

Non ci sono mai state guerre senza regole più o meno precise relative all’inizio, alla condotta e alla fine delle ostilità. Le prime leggi di guerra risalgono alle grandi civiltà già millenni prima della nostra era: “Io stabilisco queste leggi per evitare che il forte infierisca sul debole” (Hammurabi, re di Babilonia). Molti testi antichi, come il Mahabharata, la Bibbia ed il Corano contengono norme che invocano il rispetto per l’avversario. Ad esempio, il Viqayet – un testo scritto verso la fine del 13° secolo nel pieno della dominazione degli Arabi in Spagna – contiene un autentico codice di guerra.

Il merito della Convenzione del 1864 è stato quello di codificare e rafforzare sotto forma di trattato multilaterale anche antiche leggi e consuetudini di guerra, già esistenti in maniera frammentaria e sparsa, che proteggevano i feriti e coloro che si prendevano cura di loro.

 

Definizione del diritto internazionale umanitario

Dopo questa breve introduzione storica è necessario entrare più nello specifico e interrogarsi su che cosa sia il diritto internazionale umanitario.

Come si può già intuire dal primo paragrafo, il diritto internazionale umanitario è un insieme di regole che ha lo scopo di limitare gli effetti dei conflitti armati. E una disciplina che regola la conduzione delle ostilità e protegge le vittime dei conflitti. E il diritto che si applica in guerra, nei conflitti armati, e per questo si parla anche di ius in bello.

È doveroso a questo punto fare una distinzione con lo ius ad bellum per non incorrere in equivoci. Lo ius ad bellum regola il diritto di usare la forza, di fare la guerra. Nel XX secolo vi è stata una marcata evoluzione del diritto che disciplina l’uso della forza armata: il Covenant delle Società delle Nazioni 1919 era stato un primo tentativo di regolare giuridicamente lo ius ad bellum, cioè il diritto di ricorrere alla forza armata, mentre con il Patto di Parigi (cd. Patto Briand-Kellog del 1928) gli Stati membri avevano dichiarato di: “condannare il ricorso alla guerra per la risoluzione delle divergenze internazionali e di rinunziare a usarne come strumento di politica nazionale nelle loro relazioni reciproche” (art.1).

Tutto questo purtroppo non ha impedito le atrocità della Seconda Guerra Mondiale, ma comunque è stato un passo per arrivare in un momento successivo alla massima espressione della regolazione dello ius ad bellum nella elaborazione della Carta delle Nazioni Unite del 1945. Questa ripropone il divieto dell’uso della forza armata e della minaccia della stessa nelle relazioni internazionali. Prima della Carta gli Stati godevano di ampia libertà di ricorrere alla forza armata: la guerra era ammessa dall’ordinamento internazionale che ne disciplinava le modalità di esercizio ed era considerata come un attributo della sovranità dello Stato, che poteva ricorrere all’uso della forza armata per risolvere le controversie con gli altri Stati.

 

Diritto umanitario e diritto dei diritti umani sono la stessa cosa?

Altra distinzione doverosa da fare riguarda il rapporto tra diritto internazionale umanitario e diritto dei diritti umani[2]: le due materie convivono e spesso l’una sostiene l’altra; tuttavia, non perdono la propria singolarità e autonomia.

Il diritto dei diritti umani è quell’insieme di diritti che vengono riconosciuti all’uomo per il solo fatto di appartenere al genere umano, garantendo che ad esso vengano riconosciute le libertà e i diritti fondamentali indipendentemente dalle sue origini, appartenenze o luoghi ove questo si trovi. La prima idea di questi diritti, senz’altro presente in epoche antiche, ottiene la sua prima trattazione esplicita solo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Gli orrori della Guerra hanno mostrato la necessità di prevedere strumenti che siano in grado di garantire i diritti umani inviolabili e non sulla base dell’appartenenza ad uno Stato, quindi sulla base della propria nazionalità, bensì sulla base di appartenere al genere umano.

Nel 1948 viene adottata la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo da parte delle Nazioni Unite. A questa si aggiungono poi nel 1966 il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e il Patto Internazionale sui Diritti economici, sociali e culturali. La Dichiarazione universale, seppure abbia avuto un grande impatto morale, non ha valore giuridico vincolante, mentre i due Patti internazionali sono stati concepiti perché gli Stati firmatari fossero vincolati al rispetto del loro contenuto.

La linea di confine quindi tra il diritto internazionale umanitario e il diritto umano, e le differenze tra le due discipline sono le seguenti:

  • Le persone: il diritto internazionale umanitario tutela principalmente due categorie di persone, ossia i civili, o meglio i non combattenti, e i combattenti. I diritti umani si applicano a qualsiasi individuo, senza alcuna restrizione o eccezione.
  • Il territorio rilevante ai fini della applicabilità: il diritto internazionale umanitario si basa sul principio della extra territorialità, cioè lo stesso si applica ovunque vi sia un conflitto armato internazionale o internazionalizzato (in maniera minore nel caso dei conflitti interni). Nel caso dei Diritti Umani, invece, gli stessi devono essere garantiti dallo Stato a tutti gli individui che si trovino all’interno del suo territorio o di qualsiasi altro territorio sul quale detto Stato eserciti la sua giurisdizione.
  • Il tempo all’interno del quale il diritto rileva: mentre il diritto umanitario è applicabile solo in tempo di guerra, i Diritti Umani vanno garantiti tanto in tempo di guerra che in tempo di pace. Nel caso di conflitto tra norme delle due branche vige il criterio della specialità per cui in caso di conflitti armati il diritto internazionale umanitario prevale sul diritto dei Diritti umani, cioè il Diritto internazionale umanitario assume le vesti di lex specialis rispetto al diritto dei Diritti Umani.

 

Le due materie si incontrano, invece, nel fine comune: la protezione. Tanto il diritto umanitario quanto il diritto dei diritti umani hanno come scopo primario quello di tutelare i diritti fondamentali e inderogabili dell’uomo. Il diritto internazionale umanitario ha però lo scopo di predisporre strumenti normativi adatti a far sì che anche all’interno di contesti particolari, quali i conflitti armati, ove le azioni di guerra sono necessarie, questo non comporti tuttavia un sacrificio dei diritti inviolabili dell’uomo. Il diritto internazionale umanitario detta le regole all’interno dei conflitti armati tra i combattenti; quindi, quali regole applicare nel momento in cui sia sorto il conflitto e quali regole i combattenti dovranno rispettare tra di loro, ma anche e soprattutto nei confronti dei non combattenti. Il diritto internazionale umanitario non si preoccupa di stabilire se lo ius ad bellum sia stato correttamente esercitato in base alla normativa attuale, e cioè all’art. 2 par. 4 della Carta ONU[3], ma si applica automaticamente in caso di conflitto.

 

Come mai si sente parlare di diritto di Ginevra e di diritto dell’Aja?

Talvolta si sente parlare, o comunque si legge ancora nei testi, di ‘’diritto di Ginevra’’ e di ‘’diritto dell’Aja’’. Oggi quando si fa riferimento a queste diciture si indica sempre il diritto internazionale umanitario, ma non è sempre stato così.

In passato, infatti, parlando di ‘’diritto di Ginevra’’ si intendeva il diritto internazionale umanitario in senso proprio, quello pensato per salvaguardare il personale militare fuori combattimento e i non combattenti (quindi la popolazione civile che non prende parte attivamente alle ostilità). Il ‘’diritto dell’Aja’’ o diritto della guerra stabiliva i diritti e gli obblighi dei belligeranti nella condotta delle operazioni militari, è un diritto che si applicava specificamente ai combattenti con l’obiettivo di regolare le ostilità.

Questi due ambiti, comunque, non erano totalmente separati nella loro ratio: una conseguenza del diritto dell’Aja è quella di proteggere le vittime dei conflitti, e quindi coloro che non partecipano o non partecipano più alle ostilità. D’altro canto, il diritto di Ginevra con alcune sue regole limita le azioni che i belligeranti possono compiere durante le ostilità e quindi tutela anche i combattenti stessi. Oggi con l’adozione dei due Protocolli aggiuntivi del 1977 questa distinzione non si segue più, la stessa è puramente storica e ha valore didattico.

 

Le norme del diritto internazionale umanitario

Ad oggi si parla di quattro Convenzioni di Ginevra che sono state adottate nel 1949:

  1. La Prima ha ad oggetto il miglioramento delle condizioni dei feriti e dei malati delle forze armate in campagna,
  2. la Seconda il miglioramento delle condizioni dei feriti, malati e naufraghi delle forze armate sul mare,
  3. la Terza è Convenzione relativa al trattamento dei prigionieri di guerra e
  4. la Quarta si occupa della protezione delle persone civili in tempo di guerra.

 

Nel 1954 è stata poi adottata la Convenzione dell’Aja per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato e nel 1977, molto importanti, sono stati adottati i Due Protocolli aggiuntivi alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 che rafforzano la protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali (I Protocollo) e non internazionali (II Protocollo).

Nel 1949 la comunità internazionale risponde agli eventi tragici della Seconda Guerra Mondiale e, soprattutto, agli effetti terribili che la guerra ha avuto nei confronti dei civili, rivedendo le Convenzioni allora in vigore e adottando un nuovo strumento, la Quarta Convenzione per la protezione delle persone civili. Più tardi nel 1977 sono stati adottati i Protocolli aggiuntivi che sono una risposta agli effetti, in termini di perdite umane, delle guerre di liberazione nazionale, che erano solo parzialmente coperte dalle Convenzioni del 1949.

Informazioni

CICR Diritto internazionale umanitario risposte alle vostre domande, Traduzione, per la Commissione Nazionale per la Diffusione del DIU della Croce Rossa Italiana, a cura di: Chiara Galli, Marinella La Rosa, Anna Rita Roccaldo, Gerardo Di Ruocco. Aggiornamento e revisione scientifica a cura di Paolo Benvenuti.

Ius ad bellum, Statuto delle Nazioni Unite e guerra umanitaria, Centro Studi per la pace, Nicola Canestrini, dicembre 2021.

Diritto umanitario di guerra e diritti umani, Altalex, Lucia Galletta, gennaio 2020.


Acque internazionali

Le acque internazionali

Il diritto internazionale marittimo e le acque internazionali: come è cambiato il regime dei mari e quali sono i principi applicati

 

Il principio di libertà dei mari nella storia alla base delle acque internazionali di oggi

Prima di concentrarsi sul concetto di acque internazionali è opportuno fare un piccolo excursus storico sul diritto internazionale marittimo.

Per secoli il diritto internazionale del mare è stato dominato dal principio di libertà dei mari. Questo principio si afferma nel corso dei secoli XVII e XVIII ed è sostenuto soprattutto dagli Olandesi che inducono Inghilterra, Spagna e Portogallo ad abbandonare le pretese di c.d. dominio dei mari.

L’idea alla base della libertà dei mari era che nessuno Stato potesse impedire o intralciare l’uso degli spazi marini da parte di altri Stati. Il limite che questo principio incontrava era soltanto il rispetto della pari libertà altrui: la libertà dei mari non può essere spinta fino al punto di sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte degli altri Paesi. In contrapposizione alla libertà dei mari si è sempre manifestata la pretesa degli Stati ad assicurarsi un certo controllo delle acque adiacenti alle proprie coste. La figura del mare territoriale, intesa come fascia di mare costiero addirittura equiparata al territorio dello Stato, rimane comunque estranea ancora nella metà del XIX secolo[1].

Questa tendenza di totale libertà limitata dal solo rispetto della libertà altrui ad un certo punto si inverte e il principio della libertà dei mari oggi non è più la regola prima e generale, quanto piuttosto è una delle regole che compongono il diritto internazionale marittimo.

Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale si afferma la dottrina Truman, enunciata dal Presidente statunitense in un famoso proclama del 1945 in tema di piattaforma continentale. Il proclama rivendicava agli Stati Uniti il controllo e la giurisdizione delle risorse della piattaforma, cioè quella parte del fondo e del sottosuolo marino, che talvolta si estende anche per centinaia di miglia marine, che costituisce il prolungamento della terra emersa e che pertanto si mantiene a profondità costante prima di precipitare negli abissi.

Dagli inizi degli anni Ottanta la prassi si è orientata più che altro a favorire l’istituto della c.d. zona economica esclusiva che si estende fino a duecento miglia marine dalla costa. Tutte o quasi tutte le risorse che rientrano in questa zona sono considerate di pertinenza dello Stato costiero.

 

La normativa oggi del diritto internazionale marittimo

Oggi la materia del diritto internazionale marittimo è regolata dalle quattro Convenzioni di Ginevra e dalla Convenzione di Montego Bay.

Le Convenzioni di Ginevra seguono alla Conferenza di Ginevra del 1958 e regolano i seguenti temi:

  • il mare territoriale
  • la zona contigua
  • l’alto mare
  • la pesca
  • la conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare e della piattaforma continentale[2].

 

L’altra importante convenzione del diritto internazionale marittimo è la Convenzione di Montego Bay del 1982, entrata in vigore soltanto dal 1994. Essa è composta da 320 articoli ed integrata da un accordo applicativo non ratificato da alcuni Paesi, tra cui spiccano gli Stati Uniti, che si occupa del regime delle risorse sottomarine al di là dei limiti della giurisdizione nazionale.

La Convenzione di Montego Bay è largamente riproduttiva del diritto internazionale consuetudinario e sostituisce le quattro Convenzioni di Ginevra. Questa Convenzione ha coinvolto più di 150 Paesi in un arco di tempo di quattordici anni di lavoro. Gli accordi si sono conclusi con la firma durante la conferenza delle Nazioni Unite svoltasi a Montego Bay in Giamaica nel 1982. La convenzione è stata ratificata in Italia con la legge 689/1994. Ad oggi la convenzione è stata ratificata da 166 Stati.

Nella convenzione di Montego Bay gli spazi oggetto di regolamentazione comprendono il mare territoriale, le acque internazionali o alto mare, la zona contigua, la piattaforma continentale, la zona economica esclusiva (ZEE), i fondi marini internazionali (Patrimonio comune dell’umanità). Questa convenzione, anche detta Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), è il principale strumento giuridico internazionale relativo alla protezione del mare e alla regolamentazione dei suoi usi, quali la navigazione e lo sfruttamento delle risorse marine.

La Convenzione prevede le disposizioni applicabili alle acque marine delle parti contraenti, ma anche un obbligo generale di proteggere l’ambiente marino e di assicurare che le attività condotte sotto la giurisdizione o il controllo di una parte non provochino danni al di là delle sue acque marine, di evitare di trasferire il danno o il rischio da una zona all’altra e di trasformare un tipo di inquinamento in un altro.  La convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare definisce, inoltre, i diritti e le responsabilità degli Stati nell’utilizzo dei mari e degli oceani, definendo le linee guida che regolano le trattative, l’ambiente e la gestione delle risorse naturali.

Un accordo successivo alla Convenzione di Montego Bay e che ha dato attuazione alla Parte XI della Convenzione è stato adottato il 28 giugno del 1994 ed è entrato in vigore il 28 giugno 1996. Questo Accordo e la Parte XI della Convenzione devono essere interpretati e applicati insieme come uno strumento unico.

La Convenzione di Montego Bay istituisce inoltre il Tribunale internazionale del diritto marittimo. Si tratta in particolare di un organismo giudiziario indipendente che si occupa delle controversie che insorgono relativamente all’interpretazione e applicazione della Convenzione. Il Tribunale è composto da 21 membri indipendenti, eletti tra persone che godono della più alta reputazione di correttezza e integrità e di riconosciuta competenza nel campo del diritto del mare. Il Tribunale esercita la sua giurisdizione per ogni tipo di controversia che riguardi l’interpretazione e applicazione della Convenzione e su tutte le questioni specificamente previste da qualsiasi altro accordo che conferisca giurisdizione al Tribunale (Statuto, articolo 21).  Il Tribunale è aperto agli Stati parte della Convenzione ovvero Stati e organizzazioni internazionali parte della Convenzione. E anche aperto ad entità diverse dagli Stati ovvero Stati o organizzazioni intergovernative che non sono parte della Convenzione e alle imprese statali e agli enti privati ‘’in qualsiasi caso espressamente previsto nella Parte XI o in qualsiasi caso sottoposto in base a qualsiasi altro accordo che conferisca giurisdizione al Tribunale e che sia accettato da tutte le parti in causa.’’ (Statuto, articolo 20).

 

Le acque internazionali e l’area internazionale dei fondi marini

Ad oggi le acque internazionali o alto mare è l’unica zona in cui trova applicazione il vecchio principio della libertà dei mari. Per acque internazionali si intende lo spazio marino che si estende oltre il mare territoriale, nonché le acque sovrastanti la piattaforma continentale e quelle della zona economica esclusiva.

Si tratta cioè del limite posto oltre le 200 miglia marine dalla costa dalla zona non sottoposta alla sovranità di alcuno Stato. La Convenzione di Montego Bay e la disciplina relativa alle acque internazionali definisce quest’ultima come una res communis omnium, ossia un bene appartenente alla collettività, a tutta la comunità internazionale, quand’anche fosse uno Stato che in nessuno dei suoi estremi confini col mare. Ad ogni Stato è quindi conferita un’ampia potestà di fare in quelle acque, purché nel rispetto delle regole di diritto internazionale generale. Ciascuno Stato in questa zona, infatti, sia costiero sia privo di litorale, ha il diritto di compiere attività di navigazione, di sorvolo, posa cavi, costruzione di isole e installazioni artificiali, pesca, ricerca scientifica, a condizione di rispettare gli interessi degli altri Stati.

Tutti gli Stati hanno il diritto di trarre dal mare internazionale tutte le utilità che esso può offrire con l’unico limite di non spingere l’utilizzazione degli spazi marini fino al punto di sopprimere le possibilità degli altri Paesi.  Le risorse minerarie del fondo e del sottosuolo delle acque internazionali (noduli, solfati polimenici, croste di ferro e manganese) sono state dichiarate con una risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU nel 1970 patrimonio comune dell’umanità. Tutte queste attività possono essere svolte dagli Stati però attraverso le proprie navi oppure attraverso una cooperazione internazionale.

Trattandosi comunque di risorse spesso esauribili non è ammesso che gli Stati se ne approprino a loro arbitrio fino al punto di sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte degli altri Stati. Il problema dello sfruttamento delle risorse è stato quindi affrontato dalla Convenzione di Montego Bay con la costituzione di una autorità internazionale destinata a presiedere allo sfruttamento delle risorse del fondo e del sottosuolo del mare internazionale in modo tale che questo avvenga nell’interesse dell’umanità.

Gli organi principali che sono stati istituiti sono:

  • l’Assemblea,
  • il Consiglio,
  • il Segretariato e
  • l’Impresa[3].

 

L’obiettivo della tutela degli interessi dell’umanità verrebbe raggiunto attraverso il sistema dello sfruttamento parallelo in base al quale ogni area da sfruttare viene divisa in due parti uguali, una attribuita allo Stato che l’ha individuata e l’altra direttamente sfruttata dall’Autorità.

In caso di sinistro marittimo in acque internazionali lo Stato direttamente e gravemente minacciato dal conseguentemente inquinamento ha diritto di adottare misure necessarie a fronteggiare l’evento. A questo diritto fa riscontro l’obbligo di tutelare e preservare in alto mare l’ambiente marino.

Le acque internazionali devono essere riservate a scopi pacifici e nessuno Stato può pretendere di assoggettarne alcuna parte alla sua sovranità. Ogni Stato esercita la sua giurisdizione solo sulle navi battenti la propria bandiera. Tuttavia, uno Stato può abbordare ed eventualmente catturare navi straniere impegnate in atti di pirateria, tratta di schiavi o trasmissioni abusive, o inseguire o catturare navi sospettate di aver violato le proprie leggi e regolamenti negli spazi marini soggetti alla sua sovranità. Le navi da guerra inoltre possono eseguire in alto mare attività operative, quali esercitazioni combinate con aeromobili, raccolta di informazioni, prove di armi, lancio di ordigni esplosivi di aeromobili in situazioni di necessità, nel rispetto degli altri Stati.

Informazioni

Il diritto internazionale, Conforti

Mare, diritto internazionale, Treccani

Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare

[1] https://www.dirittoconsenso.it/2020/09/03/diritto-internazionale-marittimo-zona-economica-esclusiva/, Angela Federico, 2020.

[2] Queste quattro Convenzioni di Ginevra del 1958 non sono da confondere con le quattro Convenzioni di Ginevra del diritto internazionale umanitario che risalgono invece al 1949 e che furono adottate dopo le atrocità della Seconda guerra mondiale con i relativi Protocolli aggiuntivi, il I e il II, del 1977. Le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 si occupano della protezione della popolazione civile in tempo di guerra, del miglioramento della sorte dei feriti, dei malati, dei naufraghi delle forze armate di mare, del trattamento dei prigionieri di guerra, della protezione delle persone civili in tempo di guerra.

[3] Quest’ultima è un organo operativo attraverso il quale l’autorità partecipa direttamente allo sfruttamento.


Federalismo europeo

Il federalismo europeo

L’essenza del federalismo europeo é che ‘’Dobbiamo creare una specie di Stati Uniti d’Europa’’ (Winston Churchill)

 

Il federalismo in breve e il federalismo europeo

Prima di iniziare a trattare di federalismo europeo è utile dare una breve definizione di federalismo. Ebbene, quando si parla di federalismo bisogna anzitutto intendere un modello di decentramento statale, tipico di governi costituzional-liberali, nel quale il potere politico viene ripartito fra uno stato centrale federale e gli stati membri, che possono essere i Länder come in Germania oppure come i cantoni in Svizzera. La caratteristica del federalismo è che le diverse entità politiche si trovano in una posizione di equiordinazione delle funzioni previste all’interno della costituzione federale anche se poi lo stato federale gode di una posizione costituzionalmente privilegiata. Per quanto riguarda la sovranità e in particolare la titolarità effettiva della stessa si parla di doppia sovranità; quindi, si ha la sovranità degli Stati membri e la sovranità federale. La sovranità federale è quella che prevale in una prospettiva storica dal momento che è la costituzione federale che condiziona, limita, riforma, verifica e poi prevale su quella dei singoli stati membri.

Quando si parla di federalismo europeo si indica, invece, la dottrina sostenuta soprattutto dai vari movimenti federalisti europei che vogliono l’unione di più stati nazionali in un organismo sopranazionale, che sia fondato su una carta federale e dotato di poteri centrali capaci di unificare e dirigere il mercato, la politica estera[1] e militare dei singoli paesi. L’idea alla base del federalismo, e qui nello specifico del federalismo europeo, è che i singoli Paesi nel momento in cui accettano di entrare nella federazione rinuncino a parte dei loro poteri sovrani trasferendoli agli organi politici comuni. Lo Stato deve rinunciare a parte della sua sovranità e a parte dei poteri che ne derivano e qui sta il punto più interessante e complesso alla base dei federalismi e nel caso specifico alla base del federalismo europeo.

È doveroso a questo punto fare chiarezza anche su un altro concetto e cioè quello di confederazione messo a confronto con quello di federazione. Quando si parla di confederazione deve intendersi una alleanza tra Stati, che in genere sono confinanti e che perseguono soprattutto in campo internazionale scopi comuni mediante apposite istituzioni, pur mantenendo ciascuno la loro piena indipendenza e sovranità. La federazione o Stato federale, invece si qualifica come unione di Stati caratterizzata dal fatto che la personalità giuridica internazionale viene posta in capo allo Stato federale, mentre i singoli Stati federali mantengono il potere esecutivo, legislativo e giudiziario nei limiti previsti dalla Costituzione federale. Le federazioni si fondano sempre su una Costituzione scritta che prevede la divisione di competenze tra il governo federale e i governi degli Stati o regioni federati.

In generale, si può dire che la costruzione dell’unità europea è stata la condizione necessaria per garantire la pace, il progresso, la solidarietà e la prosperità del nostro continente. Oggi però l’Unione europea si trova a dover affrontare molte sfide, tra cui soprattutto le forze nazionaliste e populiste che si trovano al suo interno, le quali hanno voce in capitolo soprattutto perché l’Europa risulta ancora incompleta dal punto di vista strutturale e queste stesse forze traggono la loro essenza dalle mancanze del sistema Europa.

 

Come nasce l’idea del federalismo europeo

Alcide De Gasperi diceva «Per unire l’Europa c’è più da distruggere che da edificare; gettare via un mondo di pregiudizi, di pusillanimità, un mondo di rancori […]. L’Europa esiste ma è incatenata! Sono questi ferri che bisogna spezzare.».

L’idea del federalismo europeo si è sviluppata soltanto nel ‘900 e uno dei più grandi sostenitori del filone del federalismo europeo è stato Luigi Einaudi. Egli prendeva ispirazione dalla storia degli USA e dalla trasformazione in senso federale, che era necessaria, secondo Einaudi, per la sopravvivenza dello Stato. Einaudi sosteneva che i singoli Stati sovrani appartenenti alla Confederazione nata nel 1781 rischiavano di far collassare il sistema che si era appena creato. Einaudi vedeva nella sovranità e nell’indipendenza degli Stati la radice del male. Gli Stai Uniti nel 1789 sono divenuti una federazione. Tutto ciò che pensava Einaudi fu confermato dopo la II Guerra Mondiale preceduta dall’l’instaurazione di regimi autoritari e totalitari e lo portò ad affermare che la causa prima della guerra non risiede nella forma di Stato – monarchia o repubblica che sia – ma nella sovranità assoluta degli Stati. È stata, infatti, a parere di Einaudi proprio l’assenza di una entità sovranazionale e imparziale e l’anarchia internazionale a portare gli Stati a risolvere le loro controversie ricorrendo all’uso della forza.

Uno dei documenti più importanti alla base del pensiero del federalismo europeo è senza dubbio il Manifesto di Ventotene. Gli autori dello scritto, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, puntavano alla creazione di un Movimento per l’Europa Libera e Unita, il cui corollario era la creazione di una federazione a livello europeo dei seguenti tratti

  • Costituzione repubblicana di tutti i paesi federati
  • Costituzione di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionale
  • Fine delle autarchie economiche
  • Dotazione di organi e mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli stati federali le deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune
  • Autonomia politica dei singoli stati sulle questioni riguardanti le caratteristiche peculairi dei vari popoli.

 

L’obiettivo del federalismo europeo era ed è quello di far nascere quelli che spesso vengono chiamati ‘’Stati Uniti d’Europa’’ attraverso la creazione di un’autorità federale che mettesse fine alle politiche nazionali particolaristiche, dando origine ad un corpo normativo e amministrativo a cui tutti i membri avrebbero dovuto contribuire in egual misura e allo stesso tempo a cui tutti gli stati membri avrebbero dovuto sottostare allo stesso modo. All’epoca del manifesto di Ventotene l’unico esempio di federazione in Europa era rappresentato dalla confederazione elvetica, mentre gli stati europei si sono sempre ispirati ad una costruzione statale che fosse tra lo stato assoluto e lo stato unitario sovranista e talvolta nazionalista. Tutto ciò rendeva ovviamente molto ardua non il funzionamento degli stati uniti d’Europa, bensì proprio la loro nascita.

 

A che punto siamo?

L’Unione europea è senz’altro un esempio del tutto originale[2]. Essa rappresenta, infatti, una forma ibrida tra una confederazione e una federazione che nel corso tempo ha espresso forti tendenze di tipo centripeto, avvicinandola maggiormente alla forma federale. Ad oggi il modello del federalismo europeo comunque non può dirsi concluso per vari motivi: per alcuni aspetti si può dire che l’Unione europea non è una federazione e gli obiettivi del Manifesto di Ventotene non sono stati raggiunti, ma per altri versi la struttura dell’Unione europea assomiglia ad una federazione e per altri ancora ad una confederazione.

Il primo fallimento di questo progetto è sicuramente riscontrabile nella mancata adozione della costituzione europea, che ha contribuito a ridimensionare le spinte all’integrazione e alla maggiore convergenza tra gli stati. Olanda e Francia hanno bocciato il progetto nel 2004 e questo ha portato ad una soluzione di compromesso rappresentata dal trattato di Lisbona, che riprende perlopiù le disposizioni che erano contenute nel trattato per la costituzione europea, ma la cui portata è principalmente simbolica, il tutto testimoniato dal fatto che si è abbandonata la dizione di ‘’Costituzione’’.

Oggi il trattato di Lisbona distingue il trattato sull’Unione europea TUE e il trattato sul funzionamento dell’Unione europea TFUE. Questa bipartizione divide la parte ‘’costituzionale’’ che contiene i valori e i principi democratici dalla parte più procedurale, che si dedica alle procedure e al funzionamento dell’Unione europea. Nel TUE sono elencate all’art. 13 le istituzioni dell’Unione europea: Parlamento Europeo, Consiglio europeo, Consiglio, Commissione europea, Corte di giustizia dell’Unione europea, Banca Centrale europea e la Corte dei Conti. Proprio questo apparato istituzionale fa dell’Unione una organizzazione molto simili ad una federazione. Tutti gli stati federali, inoltre, presentano un sistema bicamerale, in cui la Camera Alta rappresenta gli Stati federali. Anche in Europa si può individuare un bicameralismo nella misura in cui il Consiglio è la Camera Alta che rappresenta gli Stati, e il Parlamento europeo è la Camera Bassa in cui vengono rappresentati i cittadini.

L’Europa è un modello ibrido in quanto il potere esecutivo è rappresentato dalla Commissione, che rappresenta collegialmente il Consiglio dei ministri, congiuntamente il Consiglio europeo che traccia la linea politica e rappresenta collegialmente il Presidente del Consiglio dei ministri. Inoltre, il Consiglio e il Consiglio europeo hanno una forma intergovernativa e i loro membri sono espressione dei governi nazionali.

L’Unione europea come altri modelli federali segue il principio di sussidiarietà. Esso comporta che solo nel momento in cui vi sia un interesse nazionale in gioco o l’uniformità di applicazione delle normative a livello federale lo stato centrale può intervenire anche in materie di competenza degli stati federati. Risulta comunque molto difficile distinguere tra le competenze assolutamente esclusive degli stati membri

Tipica istituzione dei sistemi federali e che è presente anche nell’Unione europea è la Corte di Giustizia che è chiamata a dirimere i conflitti di attribuzione che sorgono tra le varie istituzioni europee, qualora una di queste ritenga che un’altra istituzione sia andata oltre le competenze che i trattati le conferiscono.

Ciò che invece l’Unione europea non ha rispetto ai vari modelli di Stati federali è la divisione di competenze legislative, di funzioni amministrative e i livelli di partecipazione delle entità federate alla formazione della volontà dello stato federale in relazione alla struttura e alle funzioni della camera rappresentativa delle entità federali e l’intervento degli stati membri nel procedimento di formazione degli organi federali.

L’Unione europea assomiglia invece ad una confederazione in quanto essa condivide con questi sistemi il diritto di recesso ex. Art. 50 TUE, che regola il procedimento di recesso per l’abbandono dell’Unione europea. Un’altra caratteristica che fa dell’Unione europea una quasi confederazione è il fatto che serve l’approvazione unanime di tutti gli Stati membri per modificare i trattati istitutivi.

Si evince che i punti di contatto con i sistemi federali sono maggiori, per questo l’Unione europea è un ibrido, ma allo stesso tempo non si colloca proprio al centro, bensì si può dire che sia più spostata verso il federalismo e, come dice la dottrina più recente, si può parlare di Stato composto ‘’euronazionale’’.

 

Perché un’Europa federale

In conclusione, può essere utile elencare alcune ragioni del perché il federalismo europeo potrebbe essere una buona soluzione. Come già detto sopra, l’Unione europea è un progetto nato per garantire agli Europei ciò che i nazionalismi avevano loro tolto: la pace e lo sviluppo. A partire dagli anni ’50 gli Europei hanno visto migliorare le loro condizioni di vita, economiche e sociali. L’Europa oggi è una delle economie più forti del mondo ed è all’avanguardia per quanto riguarda diritti civili e sociali e nella lotta al cambiamento climatico. Tutto questo non basta però, in quanto l’Europa deve interrogarsi su quella posizione voglia avere nel mondo per contribuire alla pace e allo sviluppo sostenibile.

La federazione garantisce pace e sicurezza meglio dei singoli Stati. In questo senso però è doveroso – e oggi più che mai – pensare ad una difesa militare comune, un’intelligence e una procura europea[3], superando il diritto di veto degli Stati e decidere a maggioranza.

La federazione in quanto tale da’ all’Europa una voce nel mondo, ma per fare questo è necessario avere una vera unione politica e quindi serve per questo una politica estera comune. Anche qui il problema rimane il potere di veto dei singoli Stati e conseguentemente la necessità di prendere decisioni a maggioranza.

Aspetto molto importante di questi tempi è che la federazione garantisce uno sviluppo sostenibile[4] e per questo occorre un bilancio dell’eurozona dotato di risorse proprie e gestito da un Ministro europeo delle Finanze sotto il controllo del Parlamento Europeo.

La Federazione garantisce una finanza sostenibile attraverso un suo bilancio autonomo controllato dal Parlamento Europeo. Questo farebbe nascere una vera solidarietà tra gli Stati in quanto darebbe la possibilità di avere una ‘’cassa comune’’ che consente di deliberare gli investimenti necessari e far fronti a situazioni difficili o di crisi.

La moneta unica non può più essere messa in discussione sia perché ha facilitato gli scambi sia perché ha eliminato le svalutazioni competitive tra gli stati nazionali dando stabilita ai prezzi.

Le regole fiscali devono essere armonizzate, in quanto alcuni stati traggono eccessivo vantaggio da facilitazioni fiscali a danno di altri Stati dell’Unione in contrasto con quello che è lo spirito dell’Unione.

L’immigrazione è una risorsa che va gestita a livello europeo nella legalità. L’Unione europea deve dotarsi di una politica comune propria con risorse economiche e strumenti operativi diretti per attuarla.

Informazioni

Treccani, federalismo

Treccani, federazione e confederazione

Dizionari Simone, federalismo

Manifesto per un’Europa federale

Perché un’Europa Federale, L’unita europea, giornale del Movimento Federalista Europeo

Verso gli Stati Uniti d’Europa, l’integrazione come fattore di unita e crescita, Emanuele Parisini

[1] La Politica estera e di difesa dell’UE, DirittoConsenso, Deborah Veraldi, dicembre 2020. Link: La Politica estera e di difesa dell’UE – DirittoConsenso

[2] Più in dettaglio sulla particolarità di quest’organizzazione internazionale: L’UE: un’organizzazione peculiare – DirittoConsenso

[3] La procura europea, DirittoConsenso, Massimo Pillosu, febbraio 2021. Link: La Procura Europea – DirittoConsenso

[4] Green Deal europeo: per un’Europa sostenibile entro il 2050, DirittoConsenso, Francesca Scaini, giugno 2020. Link: La Politica estera e di difesa dell’UE – DirittoConsenso


Accordi di Minsk

Gli accordi di Minsk

Cosa sono gli accordi di Minsk? Qual era l’obiettivo che si voleva raggiungere? Come mai non hanno funzionato?

 

Introduzione storica agli accordi di Minsk

Per capire meglio che cosa sono gli accordi di Minsk è necessario fare un inquadramento storico. Gli Accordi di Minsk sono costituiti dal Protocollo di Minsk I e dal Protocollo di Minsk II rispettivamente del 2014 e del 2015. Gli accordi di Minsk furono pensati per porre fine al conflitto nel Donbass, regione nell’Est Ucraina, tra il governo di Kiev e le autorità separatiste filorusse. In seguito alla ‘’Rivolta di Majdan’’, che depose l’allora presidente ucraino Viktor Kanukovich, le autorità separatiste filorusse autoproclamarono le Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk nel Donbass. Con il primo accordo di Minsk l’obiettivo era quello di porre fine al conflitto secessionista nell’est dell’Ucraina.

Dopo l’elezione del presidente ucraino Petro Poroshenko nel maggio del 2014, Ucraina, Russia e Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) stipularono gli Accordi di Minsk I per concordare un pacchetto di misure di contenimento della escalation della guerra nel Donbass[1]. Il processo negoziale non fu facile. L’OSCE in questo processo aveva il compito di osservare e verificare il cessate-il-fuoco e il ritiro degli armamenti pesanti.

Dopo la sottoscrizione di Minsk I nel 2014 i combattimenti proseguirono, a dimostrazione del fatto che l’Accordo di pace non era sufficientemente incisivo. Un ruolo decisivo in questo senso fu giocato da Francia e Germania che con Mosca e Kiev diedero avvio al cosiddetto ‘’Formato Normandia’’ per le negoziazioni quadrilaterali e la stipula dell’accordo di Minsk II nel 2015.

Si parlò di una iniziativa del ‘’Formato Normandia’’ in quanto i leaders di Francia, Germania, Russia e Ucraina si incontrarono durante il settantesimo anniversario dello sbarco alleato del D-Day in Normandia e qui si decisero di impegnarsi per dare una svolta alla guerra in Donbass. L’obiettivo era quello di concordare ‘’un Pacchetto di misure per l’implementazione degli accordi di Minsk I’’ e di organizzare una de-escalation delle tensioni attraverso un canale di dialogo volto a non dipendere dal circolo delle sanzioni imposte dall’Occidente a Mosca dopo l’annessione della Crimea.

Minsk II è stato siglato in occasione del terzo round di incontri nel febbraio del 2015 prima delle tensioni che si verificarono tra Occidente e Russia in Siria e Medio Oriente.

Già un anno dopo, nel 2016, ci si rese conto dell’incertezza circa l’effettiva attuazione delle clausole dell’accordo.

 

Cosa prevedono gli accordi di Minsk

Il processo di applicazione di Minsk II è monitorato, oltre che dall’OSCE, anche dal ‘’Quartetto di Normandia’’. L’accordo di Minsk si articola in 13 punti e prevede le seguenti misure:

  1. immediato e completo cessate-il-fuoco a partire dalla mezzanotte del 15 febbraio 2015;
  2. Ritiro dal fronte di tutte le armi pesanti da ambo le parti entro 14 giorni e creazione di una “zona di sicurezza”;
  3. Monitoraggio del cessate-il-fuoco e del ritiro delle armi pesanti da parte dei rappresentanti dell’OSCE;
  4. Una volta avvenuto il ritiro delle armi pesanti, avvio di un dialogo sulle modalità da seguire per lo svolgimento di elezioni locali nel Donbass, in accordo con la legislazione ucraina;
  5. Concessione della grazia e dell’amnistia per gli individui coinvolti nel conflitto;
  6. Rilascio di tutti gli ostaggi e di tutte le persone detenute illegalmente;
  7. Garanzia di accesso sicuro alle zone di combattimento per la consegna e la fornitura di aiuto umanitario sulla base di un meccanismo internazionale;
  8. Ripristino di tutti i servizi economici e sociali nelle zone coinvolte nel conflitto, inclusi trasferimenti sociali (es. il pagamento delle pensioni, ripristino del settore bancario);
  9. Ripristino del completo controllo del confine da parte dell’Ucraina in tutta la zona di conflitto, a partire dal giorno successivo alle elezioni nelle regioni di Donetsk e Lugansk;
  10. Ritiro di tutti i gruppi armati, equipaggiamento militare e dei mercenari dal territorio ucraino sotto monitoraggio dell’OSCE;
  11. Riforma costituzionale in Ucraina basata sul principio di decentralizzazione entro la fine del 2015, con un riferimento specifico alle regioni di Donetsk e Lugansk e adozione di una legislazione permanente sullo “statuto speciale” delle suddette regioni;
  12. Elezioni locali nelle regioni di Donetsk e Lugansk in rispetto degli standard OSCE. Le modalità di svolgimento delle elezioni devono essere discusse e concordate con i rappresentanti delle regioni di Donetsk e Lugansk all’interno del Gruppo di Contatto Trilaterale;
  13. Intensificazione del lavoro del Gruppo di Contatto Trilaterale attraverso la creazione di gruppi di lavoro.

 

Punti di discordia dopo la sottoscrizione di Minsk II e nuovo impulso per la pace

I punti di discordia per l’attuazione degli accordi Minsk sono stati diversi. Sicuramente un primo punto di difficile realizzazione sin da subito fu la piena e completa realizzazione del cessate il fuoco di cui al punto uno. Particolare preoccupazione, inoltre, ci fu per l’aumento dell’aliquota di armamenti pesanti rimossi dai siti di stoccaggio e reintrodotti nella zona di sicurezza (punto 2). Gli Osservatori Ocse continuarono a subire restrizioni nella loro libertà di movimento e di monitoraggio nel Donbass (punto 3). Questo avvenne principalmente nelle zone non controllate dal governo di Kiev e soprattutto in quei luoghi dove vi era il sospetto della presenza di armi proibite. Il punto 6 relativo al rilascio incondizionato di prigionieri incontrò molte difficoltà nella realizzazione.

Anche dal punto di vista politico la situazione non fu semplice. Il processo di riforma costituzionale che avrebbe dovuto garantire una progressiva decentralizzazione dei poteri nel paese (punto 11) e la relativa creazione di un qualche tipo di statuto speciale alle regioni di Donetsk e Lugansk si arenò. Vi era, infatti, una divergenza di vedute con i separatisti e indirettamente con la Russia relativamente a ciò che si doveva fare per arrivare a questo tipo di risultato. I leaders delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk e Mosca chiedevano che il governo di Kiev approvasse tale riforma costituzionale, riconoscesse lo statuto speciale al Donbass ed elaborasse una legge elettorale per i rappresentanti delle repubbliche stesse (punto 12).

Il presidente dell’Ucraina da parte sua sosteneva che la riforma costituzionale per la concessione dello statuto speciale al Donbass sarebbe avvenuta soltanto dopo aver organizzato elezioni in base ai criteri OSCE.  Per arrivare a questo, avrebbero però dovuto verificarsi condizioni come il cessate il fuoco, il ritiro di tutte le armi pesanti e delle truppe mercenarie (punto 10) e soprattutto il ripristino della sovranità territoriale al confine con la Russia (punto 9). Le parti anche dopo Minsk II sono risultate ancorate alle loro posizioni per cui sin da subito si capì la difficoltà a raggiungere un accordo sulla legge elettorale.

Nel 2019, tuttavia, furono compiuti alcuni progressi.

Vi furono innanzitutto due scambi di prigionieri. Il primo vertice del Quartetto Normandia dal 2016 si tenne a Parigi nel dicembre del 2019. Le parti, poi, convennero di applicare appieno il cessate-il-fuoco e ritirare le forze militari in altre tre regioni, non specificate però, entro la fine del marzo del 2020. Le parti ammisero che la missione speciale di monitoraggio dell’OSCE necessitava di un accesso sicuro in tutta l’Ucraina per attuare pienamente il proprio mandato. Rimasero, comunque, irrisolte le questioni relative alle elezioni nelle regioni controllate dai separatisti e allo status speciale per la regione del Donbass, voluto dalla Russia. Nel febbraio del 2020 cinque membri europei del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – Belgio, Estonia, Francia, Germania e Polonia – deplorarono le vittime e ricordarono alla Russia gli impegni assunti con gli accordi di Minsk.

 

Conclusione

Ad oggi si può dire che il cessate-il-fuoco previsto dagli accordi è stato più volte violato. L’OSCE ha registrato 200 violazioni tra il 2016 e il 2020 e oltre mille dal 2021. Dal 2014 ad oggi si contano, inoltre, oltre 13 mila vittime.

Diversi punti previsti dai Trattati non sono stati attuati anche a cause delle diverse interpretazioni che vengono date da Mosca e Kiev. Gli Accordi di Minsk non prevedono nessun obbligo per Mosca, che ritiene di non essere parte del conflitto, bensì di aver siglato gli stessi solo come mediatrice tra OSCE, Francia e Germania. L’ucraina dal canto suo sostiene che il ritiro di ‘’tutte le forze armate straniere’’ si riferisca alla Russia, la quale nega qualsiasi sua presenza militare nei territori separatisti. Kiev, inoltre, si è sempre rifiutata di parlare direttamente con i ribelli.

È stata la Francia di Macron nelle ultime settimane a rilanciare il ‘’Formato Normandia’’ per ridare vita al dialogo tra Russia, Ucraina, Francia e Germania alla luce dell’escalation di tensione tra Russia e Ucraina. Ad onore del vero, però, bisogna dire che la stessa Italia per voce del Presidente del Consiglio Mario Draghi ha affermato che le ‘’relazioni tra Ucraina e Russia sono disciplinate dagli Accordi di Minsk che non sono stati osservati da nessuna delle due parti’’.

Prima dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si riteneva che gli Accordi di Minsk avrebbero potuto offrire una piattaforma di dialogo diretto tra Ucraina e Russia.

L’autonomia alle regioni separatiste avrebbe potuto essere un mezzo per Mosca per ottenere un veto sulle decisioni di politica estera ed ottenere in questo modo delle garanzie di sicurezza, soprattutto per quanto riguarda la non adesione dell’Ucraina alla Nato. L’Ucraina avrebbe potuto, invece, ripristinare il controllo sul suo confine con la Russia. Per il Cremlino dovevano essere attuate prima le disposizioni politiche e poi quelle militari, mentre per Kiev il contrario. L’Ucraina voleva che la Russia e quelle che vengono ritenute le ‘’forze per procura’’ si ritirassero dall’est in modo da riprendere il controllo del confine e, solo ottenuto ciò, sarebbe stata disposta a svolgere elezioni locali secondo standard internazionali e nel rispetto della legge ucraina. Inoltre, Kiev, invece di riconoscere alle repubbliche separatiste uno status speciale come chiede Mosca, avrebbe voluto riconoscere loro dei poteri extra nell’ambito di un più ampio programma di decentramento.

L’obiettivo era probabilmente quello di negare al Cremlino la possibilità di continuare a controllare i territori dell’Est e avere in questo modo voce in capitolo negli affari ucraini con rappresentanti delle regioni filorusse seduti al parlamento nazionale e autorità regionali pronte a contrastare le politiche non gradite a Mosca, come per esempio l’adesione alla NATO. La Russia, invece, in base alla sua interpretazione prevedeva prima le elezioni locali e il riconoscimento di status speciale nel Donbass. Duncan Allan, membro associato del programma Russia ed Eurasia presso il think tank Chatham House di Londra, ha sintetizzato così il dilemma di Minsk, e cioè chiedendosi se l’Ucraina è sovrana, come insistono gli Ucraini, o se la sua sovranità debba essere limitata, come richiede la Russia.

Informazioni

Un anno da Minsk II: a che punto siamo?, Daniele Fattibene, Osservatorio di Politica internazionale, n. 59-marzo 2016

Ucraina: perché occorre ritornare agli Accordi di Minsk?, Maurizio Delli Santi, Notizie Geopolitiche, gennaio 2022.

Che cosa sono gli accordi di Minsk sull’Ucraina, Andrea Muratore, Inside Over, febbraio 2022.

Ucraina: cinque anni dopo gli accordi di Minsk, EPRS, marzo 2020.

Ucraina, cosa sono gli accordi di Minsk e possono essere la soluzione della crisi?, Marta Serafini, Corriere della Sera, febbraio 2022.

[1] Il quadro giuridico delle relazioni russo europee, Alvise Accordati, Diritto consenso, giugno 2021. Link: Il quadro giuridico delle relazioni russo-europee – DirittoConsenso